Abstract
La definizione di rifugiati viene analizzata attraverso lo studio principalmente della Convenzione di Ginevra relativa dello status dei rifugiati. L’evoluzione storico-normativa della definizione viene messa in rilievo grazie all’analisi di alcuni strumenti successivi alla Convenzione di Ginevra e della prassi dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
La comunità internazionale si mobilitò per la prima volta nel 1922 per garantire particolare protezione a determinati gruppi di migranti grazie al cosiddetto “Passaporto Nansen” che consentiva ai rifugiati russi, in fuga dal neonato regime sovietico, di viaggiare tra i paesi firmatari dell’accordo istitutivo. Successivamente, nel 1924, un altro accordo riconobbe la qualifica di “rifugiati armeni” per le persone di origine armena in fuga dalla Turchia in seguito allo scioglimento dell’Impero ottomano. Degli accordi successivi disciplinarono lo status dei rifugiati assiri, assiro-caldei e turchi. L’elemento comune alle definizioni contenute in questi strumenti era la dimensione territoriale: la protezione era garantita a una popolazione, stabilita su di un territorio ben preciso, che risultava privata della protezione che normalmente lo Stato d’origine o lo Stato della residenza abituale avrebbero dovuto garantire, indipendentemente dalle ragioni che avevano indotto la fuga. Nel 1938 la Convenzione relativa allo status dei rifugiati provenienti dalla Germania introdusse la dimensione politica degli eventi determinanti la fuga dal proprio paese d’origine delle persone interessate. Assumeva quindi particolare rilievo la natura dei motivi che avevano indotto la fuga e, per la prima volta, l’individuo si vide garantire la protezione indipendentemente dall’appartenenza a un gruppo. Il carattere individuale della protezione venne poi affermato nel 1948 dall’art. 14 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (il quale sancisce il diritto di ogni individuo di cercare asilo) e consacrato nel 1951 dalla Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati.
Il 28.7.1951 a Ginevra, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la Convenzione relativa allo status dei rifugiati, il cui testo riassumeva le tendenze evolutive degli ultimi decenni in materia, rifletteva gli interessi politici ed economici che la problematica dell’accoglienza e della gestione dei flussi migratori poneva agli Stati e, soprattutto, forniva la prima definizione generale di rifugiato. La Convenzione di Ginevra all’art. 1 dispone:
«A. Ai fini della presente Convenzione, il termine di “rifugiato” è applicabile: (…) 2) a chiunque, per causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi (…).
B.(1) Agli effetti della presente Convenzione, possono essere considerati “avvenimenti anteriori al I gennaio 1951” nel senso dell’articolo 1, sezione A:
a) “avvenimenti accaduti anteriormente al 1° gennaio 1951 in Europa”;
b) “avvenimenti accaduti anteriormente al 1° gennaio 1951 in Europa o altrove”.
Ciascuno Stato Contraente, all’atto della firma, della ratificazione o dell’accessione, farà una dichiarazione circa l’estensione che esso intende attribuire a tale espressione per quanto riguarda gli obblighi da esso assunti in virtù della presente Convenzione».
Questa definizione fu particolarmente influenzata dalla situazione politica e sociale presente in Europa al momento della sua elaborazione. Essa venne infatti criticata per il suo “eurocentrismo”, in particolare a causa dell’art. 1, par. B(1), che restringeva il campo di applicazione materiale della Convenzione imponendo un limite temporale e un limite spaziale.
Quanto al primo limite, consistente nel fatto che la Convenzione di Ginevra si applicava solamente a quelle persone che rientravano nella definizione a causa di eventi avvenuti prima del 1.1.1951, esso implicava l’impossibilità di invocare la protezione garantita dalla Convenzione per coloro i quali fossero stati oggetto di persecuzioni successive a tale data. Il problema si presentò dopo solo alcuni anni dall’adozione del testo, nel 1956, con l’afflusso di rifugiati ungheresi a seguito della fallita rivoluzione. Essi poterono beneficiare dello status di rifugiato solo qualora lo Stato ospitante avesse deciso di estendere l’applicazione della Convenzione di Ginevra al loro caso, avendo ogni Stato parte il potere discrezionale di ampliare l’ambito d’applicazione ratione temporis del testo.
Il limite spaziale restringeva invece l’ambito d’applicazione della Convenzione alla sola Europa; gli Stati parte disponevano, anche in questo caso, di un potere discrezionale di estendere l’applicabilità della Convenzione a eventi avvenuti altrove. Le conseguenze delle prime decolonizzazioni evidenziarono il carattere problematico di tale restrizione che non permetteva di invocare la protezione garantita dalla convenzione a chi proveniva dall’Africa, dove si era assistito allo spostamento di intere tribù o etnie, a causa della ridefinizione dei confini e dello scoppio di conflitti interni. Coloro che provenivano dall’America Latina vivevano una situazione simile perché l’ascesa al potere di regimi autoritari aveva generato la fuga di migliaia di persone, in particolare oppositori politici il cui ben fondato timore di essere perseguitati era difficilmente discutibile. La Convenzione di Ginevra, a pochi anni dalla sua adozione, si rivelava quindi inadeguata a fornire un quadro giuridico internazionale avente delle aspirazioni di universalità e capace di affrontare le nuove tipologie di crisi generatrici di flussi migratori. Rischiava pertanto di divenire obsoleta.
Nel 1967 venne quindi adottato un protocollo alla Convenzione nel quale furono eliminate le due suddette restrizioni. In tal senso, l’art. 1 del Protocollo dispone:
«2. Ai fini del presente Protocollo, il termine “rifugiato”, salvo restando quanto riguarda l’applicazione del paragrafo 3 seguente, indica ogni persona corrispondente alla definizione espressa nell’articolo 1 della Convenzione, come se le locuzioni “... per causa di avvenimenti anteriori al l’gennaio 1951” e “... in seguito a tali avvenimenti” non fossero recepite nel paragrafo 2 sezione A, dell’articolo 1.
3. Il presente Protocollo va applicato dagli Stati partecipanti senza limitazione geografica alcuna; tuttavia, le dichiarazioni espresse, in virtù della sezione B paragrafo 1 capoverso a dell’articolo 1 della Convenzione, da Stati partecipanti alla stessa, sono parimenti applicabili al presente Protocollo, sempre che gli obblighi dello Stato dichiarante non siano stati estesi, giusta la sezione B paragrafo 2 dell’articolo 1 della Convenzione».
Tale strumento rispondeva anche ad una volontà politica degli Stati “occidentali” di poter garantire la protezione agli oppositori dei regimi comunisti dell’est Europa e dell’Asia. Durante la Guerra fredda, infatti, l’accoglienza di rifugiati in fuga dal blocco opposto costituiva un atto politico al fine di dimostrare il fallimento di quel sistema politico nella protezione dei propri cittadini. Il rifugiato rappresentava allora un interesse strategico e molti paesi occidentali adottarono in quegli anni legislazioni favorevoli all’accoglienza con requisiti di concessione dello status molto flessibili e un concetto di persecuzione estensibile ai dissidenti ideologici.
La protezione creata dalla Convenzione di Ginevra si applica ai soli rifugiati convenzionali, ossia a quelli individui che rientrano nella definizione di rifugiato fornita dalla stessa Convenzione all’art. 1, così come modificato dal Protocollo del 1967. Il riconoscimento dello status di rifugiato ha mero valore dichiarativo. La protezione si applica infatti dal momento in cui l’individuo che la richiede e che soddisfa i criteri posti dall’art. 1 si trova sul territorio o sotto la giurisdizione di uno Stato terzo. L’individuo non diventa un rifugiato perché formalmente riconosciuto tale, ma è riconosciuto perché è un rifugiato.
Gli elementi centrali della definizione convenzionale di rifugiato sono tre: l’individuo richiedente la protezione deve trovarsi fuori dal paese di nazionalità o di residenza abituale; non ha la possibilità o non vuole avvalersi della protezione del paese di nazionalità o di residenza abituale; ha un ben fondato timore di essere perseguitato se permane nel suo paese di nazionalità o di residenza abituale.
Per poter richiedere la protezione garantita dalla Convenzione di Ginevra, l’individuo deve trovarsi fuori dal paese d’origine o di residenza abituale. La protezione convenzionale esiste in funzione dell’assenza della protezione primaria dello Stato di nazionalità o di residenza abituale. Essa infatti cessa nel caso in cui l’individuo abbia volontariamente ridomandato la protezione dello Stato di cui possiede la cittadinanza o se sia volontariamente ritornato e si sia domiciliato nel paese che aveva lasciato o in cui non si era più recato per timore d’essere perseguitato (art. 1, par. C.1 e C.4).
Ai sensi del diritto internazionale è configurabile il diritto di lasciare il proprio paese, così come previsto dall’art. 13, par. 2 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (DUDU, «Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese»); non esiste però un corrispondente diritto di entrare in uno Stato, avendo questo ultimo piena sovranità nel regolamentare le condizioni d’ingresso sul proprio territorio. L’individuo che cerca rifugio in uno Stato terzo si trova però spesso nell’impossibilità di adempiere ai requisiti per l’ingresso, in quanto la sua partenza dallo Stato di origine avviene il più delle volte in un contesto di emergenza. Egli si trova quindi in posizione irregolare nello Stato di destinazione. La Convenzione di Ginevra dispone al riguardo alcune garanzie.
L’eventuale ingresso irregolare del potenziale rifugiato non lo esclude dall’efficacia della protezione, come affermato dall’art. 31 della Convenzione di Ginevra: «Gli Stati Contraenti non prenderanno sanzioni penali, a motivo della loro entrata o del loro soggiorno illegali, contro i rifugiati che giungono direttamente da un territorio in cui la loro vita o la loro libertà erano minacciate nel senso dell’articolo 1, per quanto si presentino senza indugio alle autorità e giustifichino con motivi validi la loro entrata o il loro soggiorno irregolari».
Questo obbligo di non penalizzazione del rifugiato in posizione irregolare non conosce eccezioni nemmeno in casi di flusso massiccio, come spesso avviene in contesti di conflitti armati ed emergenze umanitarie. Nel 1981 il Comitato esecutivo dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (United Nations High Commissioner for Refugees, ACNUR) affermò infatti che:
«It is (…) imperative to ensure that asylum seekers are fully protected in large-scale influx situations, to reaffirm the basic minimum standards for their treatment (…). In situation of large-scale influx, asylum seekers should be admitted to the State in which they first seek refuge and if that State is unable to admit them on a durable basis, it should always admit them at least on a temporary basis” (Conclusion n. 22 (XXXII), 1981)».
L’obbligo di non refoulement è la norma che garantisce ad un richiedente asilo di presentare la propria domanda e quella più vicina ad un potenziale diritto di ingresso. Esso è affermato dall’art. 33, par. 1 della Convenzione di Ginevra:
«Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».
L’art. 33 è l’unica disposizione di diritto sostanziale della Convenzione di Ginevra per la quale non sia prevista la possibilità di apporre riserve (art. 42, par. 1, Convenzione di Ginevra). L’obbligo di non refoulement è il necessario complemento del diritto di cercare asilo garantito dall’art. 14 della DUDU. Esso è altresì affermato negli strumenti internazionali di protezione dei diritti dell’uomo tra cui: l’art. 3 Convenzione europea dei diritti dell’uomo; l’art. 3 della Convenzione contro la tortura del 1984; l’art. 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966; l’art. 22, par. 8, della Convenzione americana dei diritti dell’uomo del 1969; l’art. 5 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli del 1981. La ripetizione di tale principio a livello normativo e nella prassi degli Stati ha permesso di qualificarlo di norma di diritto consuetudinario. Nel 1989, sempre il Comitato esecutivo dell’ACNUR invitava gli Stati a non compiere atti risultanti in fenomeni di respingimento in quanto tale prassi sarebbe stata «contrary to fundamental prohibitions against these practices» (Conclusion n. 55 (XL), 1989, par. d). Nel 1996 esso riaffermò il principio, elevato definitivamente al rango di norma consuetudinaria (Conclusion n. 79 (XLVII), 1996, par. i).
La norma consuetudinaria di non refoulement non possiede un contenuto univoco. Esso è, da un lato, il nocciolo umanitario della Convenzione di Ginevra del 1951, così come sancito dal suo art. 33 e, dall’altro, fa parte del più generale divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti affermato in materia di diritti dell’uomo. Il principio possiede perciò un contenuto e una applicazione ratione personae e ratione materiae che varia a secondo del contesto. Riguardo all’applicazione ratione personae, l’art. 33 della Convenzione di Ginevra indica come beneficiari del principio di non respingimento i rifugiati in senso lato. In tale categoria rientrano sia i richiedenti asilo, sia coloro ai quali lo status di rifugiati sia già stato riconosciuto dallo Stato che eventualmente intende compiere il respingimento. Il Comitato esecutivo dell’ACNUR ha affermato «the fundamental importance of the observance of the principle of non-refoulement (…) of persons who may be subjected to persecution if returned to their country of origin irrespective of whether or not they have been formally recognised as refugees» (Conclusion n. 6 (XXVIII), 1977, par. c; corsivi aggiunti).
Il rifugiato è l’individuo che non può o non vuole avvalersi della protezione del suo Stato d’origine perché le autorità di questo Stato sono i responsabili diretti della persecuzione o, nel caso gli atti persecutori siano perpetrati da altri soggetti sul territorio di questo Stato, le stesse autorità tollerano o sono nell’impossibilità di contrastare detti atti. L’accertamento dell’impossibilità di avvalersi della protezione dello Stato di provenienza si basa sull’analisi oggettiva di circostanze contingenti e non dipendenti dalla volontà dell’individuo che richiede la protezione, come un conflitto armato, l’insorgere di gravi disordini o l’assenza di un’autorità statale. L’accertamento della “non volontà” di avvalersi della protezione dello Stato di provenienza è invece di natura prettamente soggettiva, in considerazione del fatto che si fonda sulla percezione che la persona richiedente la protezione ha del comportamento delle autorità statali nei suoi confronti; si consideri ad esempio il caso del dissidente politico o il membro di una minoranza etnica o religiosa discriminata.
L’elemento centrale della definizione di rifugiato convenzionale risiede nell’espressione di «ben fondato timore di essere perseguitati per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo socilae, opinione politica», che si sostituisce definitivamente al requisito dell’appartenenza ad un determinato gruppo presente negli strumenti precedenti alla Convenzione di Ginevra. L’appartenenza ad un gruppo determinato assume ora rilievo solamente se è la causa delle persecuzioni temute.
La definizione di «ben fondato timore di essere perseguitati» ha sollevato non poche difficoltà in considerazione dell’assenza di una nozione generalmente accettata di persecuzione. A tale riguardo, lo stesso Manuale sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato, edito dall’ACNUR, suggerisce al par. 51 la seguente interpretazione:
«There is no universally accepted definition of “persecution”, and various attempts to formulate such a definition have met with little success. From Article 33 of 1951 Convention, it may be inferred that a threat to life or freedom on account of race, religion, nationality, political opinion or membership of particular social group is always persecution. Other serious violations of human rights – for the same reasons – would also constitute persecution».
Il richiedente asilo deve quindi dimostrare di essere stato vittima di una minaccia o violazione grave della sua libertà o integrità fisica; non sarebbero invece contemplate le ipotesi di violazione dei diritti economici e sociali e nemmeno la condizione di vittima di violenza, tranne se la violenza è inserita in un contesto di persecuzione.
Il fondato timore della persecuzione si basa, da un lato, su fatti oggettivi avverati o che rischiano di avverarsi nel paese di provenienza dell’individuo richiedente la protezione e, dall’altro, sulla percezione soggettiva che questo individuo ha degli stessi fatti. Le autorità dello Stato di accoglienza dovranno accertarsi dell’attendibilità del timore di persecuzione in base alle dichiarazioni dello stesso richiedente, a un esame della situazione concreta esistente nel paese di provenienza e, se necessario e possibile, alla situazione dei famigliari e amici del richiedente ancora presenti nello Stato di provenienza e dei membri del gruppo sociale di appartenenza. Nel caso in cui le dichiarazioni del richiedente non siano confermate da prove documentali, si applica il principio del beneficio del dubbio a suo favore.
Gli atti di persecuzione possono essere perpetrati dalle autorità statali del paese di provenienza del richiedente o da gruppi della popolazione di quello stesso paese; in questo ultimo caso le autorità statali tollerano questi atti o si rifiutano o sono impossibilitate ad agire nei confronti di questi gruppi. Gli atti in questione possono essere stati compiuti con o senza una volontà persecutoria per uno dei cinque motivi elencati dall’art. 1, par. A(2) della Convenzione di Ginevra, ossia per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo socilae, opinione politica. Il richiedente non deve necessariamente essere “colpevole” del motivo alla base della persecuzione, ma un nesso di causalità deve comunque esistere tra gli atti di persecuzione che sono alla base della domanda di protezione e uno dei cinque motivi sopra elencati.
Una parte della dottrina suggerisce l’estensione della protezione garantita dalla Convenzione di Ginevra alle vittime di violazioni gravi e generalizzate dei diritti dell’uomo, senza che tali violazioni siano perpetrate per motivi politici, religiosi, razziali, di nazionalità o di appartenenza ad un determinato gruppo sociale. Tale ipotesi si scontra col requisito della persecuzione come sopra enunciato dallo stesso ACNUR e non può quindi rientrare nell’ambito di applicazione della Convenzione di Ginevra. Le vittime di violazioni gravi dei diritti dell’uomo si inseriscono in altri sistemi di protezione internazionale.
La definizione convenzionale di rifugiato non ingloba la totalità dei migranti che necessitano di una protezione specifica, in quanto la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 non tutelano i cosiddetti “profughi” (displaced persons). Questi non rientrano nella categoria di rifugiati in quanto la loro migrazione non è la conseguenza di una persecuzione, individuale o collettiva, ma è stata provocata da eventi svoltisi nel proprio paese d’origine o di residenza abituale, la cui gravità ha generato la necessità di cercare protezione in un altro paese. Tali avvenimenti possono essere di varia natura: il cambiamento violento del regime al governo o il venire meno di una qualsiasi forma di governo; lo scoppio di un conflitto armato di natura interna o internazionale; la presenza di forze ribelli su di una determinata porzione di territorio. L’elemento comune di tali situazioni risiede nel fatto che lo Stato d’origine o di residenza abituale non garantisce più la protezione alla propria popolazione o a parte di essa, indipendentemente dal fatto che vi sia un ruolo attivo o una volontà da parte dello Stato stesso.
La situazione dei profughi era particolarmente problematica in Africa ed essi furono infatti inglobati nella definizione di rifugiato disposta dalla Convenzione dell’Organizzazione dell’unità africana relativa agli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa (Convenzione OUA) del 1969. L’art. 1, par. 2, della Convenzione OUA dispone che:
«The term “Refugee” shall also apply to every person who, owing to external aggression, occupation, foreign domination or events seriously disturbing public order in either part of the whole of his country of origin or nationality, is compelled to leave his place of habitual residence in order to seek refuge in another place outside his country of origin or nationality».
Gli esodi di massa successivi alle guerre d’indipendenza hanno permesso l’adozione di questa definizione che contribuì a favorire l’aiuto apportato dall’OUA ai movimenti di liberazione nazionale. Inoltre, il carattere individualista della definizione del 1951 non rispondeva alle esigenze africane che necessitavano di un approccio comunitarista in cui la dimensione collettiva fosse un criterio per la concessione della protezione. La definizione della Convenzione OUA non è incentrata sui motivi che causano la fuga quanto piuttosto sul ruolo dell’individuo o del gruppo richiedente la protezione nei disordini in corso nel paese d’origine. In questo modo, si giustificava la protezione accordata ai profughi in fuga da un’occupazione straniera, anche se non avevano un fondato timore di essere perseguitati.
Un approccio simile è stato altresì adottato nel contesto inter-americano. La Dichiarazione di Cartagena sui rifugiati del 1984 afferma la necessità di ampliare la definizione di rifugiato seguendo l’esempio della Convenzione OUA e di prevedere una definizione che «in addition to containing the elements of the 1951 Convention and the 1967 Protocol, includes among refugees persons who have fled their country because their lives, safety or freedom have been threatened by generalized violence, foreign aggression, internal conflicts, massive violation of human rights or other circumstances which have seriously disturbed public order».
Questi strumenti regionali permettono inoltre di inquadrare un’altra categoria emersa negli ultimi anni, i cosiddetti “profughi ambientali”. Da alcuni anni la dottrina e alcune istituzioni internazionali discutono circa l’emergenza di questa nuova categoria di migranti e del suo titolo ad una protezione internazionale. L’espressione usata per designare questa nuova categoria è essa stessa oggetto di dibattito e diciture diverse vengono impiegate nella letteratura specializzata. L’impiego del termine “rifugiato ambientale/climatico” non è però condivisibile. Gli stessi ACNUR e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni rifiutano l’utilizzo di tale termine e già nel 1996 impiegarono invece l’espressione «environmentally displaced persons» riferendosi a:
«persons who are displaced within their own country of habitual residence or who have cross an international border and for whom environmental degradation, deterioration or destruction is a major cause of their displacement, although not necessarily the sole one».
Si possono identificare tre categorie di profughi ambientali: coloro cacciati provvisoriamente a causa di una catastrofe naturale, quale un terremoto o, un ciclone, un’inondazione, o di un incidente industriale; coloro espulsi definitivamente a causa della realizzazione di grandi opere, quali la costruzione di una diga o per l’insorgere di fenomeni permanenti, quali l’innalzamento del livello del mare o la desertificazione; e coloro obbligati a migrare, provvisoriamente o definitivamente, in quanto le risorse del loro ambiente abituali non possono più garantire il soddisfacimento dei loro bisogni essenziali.
Le fonti normative del diritto d’asilo non risiedono unicamente nella Convenzione di Ginevra del 1951, ma appartengono anche alla materia dei diritti dell’uomo; la violazione grave di questi ultimi può infatti giustificare il riconoscimento dello status di rifugiato alla vittima. Una parte della dottrina sostiene pertanto che i “rifugiati ecologici” rientrino nell’ambito di applicazione del diritto d’asilo in quanto sono vittime di violazioni gravi dei loro diritti umani, in particolare del diritto alla vita, del diritto alla salute e del diritto ad un ambiente salubre. Senza mettere in dubbio il fatto che le vittime di una catastrofe naturale, ad esempio, siano private del godimento dei propri diritti legati all’ambiente in cui risiedono, tale privazione è difficilmente imputabile dirittamente o indirettamente allo Stato, il quale non è pertanto l’autore delle violazioni. Nel diritto d’asilo è di fondamentale importanza il ruolo dello Stato, attivo o passivo, nel generare la situazione di emergenza in cui si viene a trovare il richiedente dello status.
L’ACNUR è un’agenzia delle Nazioni Unite, a cui è riconosciuta personalità giuridica internazionale, ma non è un ente funzionalmente indipendente. È un organo dipendente delle Nazioni Unite, alle quali vanno direttamente attribuite le attività esercitate dall’ACNUR nell’ambito del proprio mandato. Lo Statuto dell’agenzia venne adottato dall’Assemblea Generale il 14 dicembre 1950 e stabilisce al par. 1:
«The United Nations High Commissioner for Refugees, acting under the authority of the General Assembly, shall assume the function of providing international protection, under the auspices of the United Nations, to refugees who fall within the scope of the present Statute and of seeking permanent solutions for the problem of refugees assisting Government and, subject to the approval of the Government concerned, private organizations to facilitate the voluntary repatriation of such refugees, or their assimilation within new national communities».
Ben prima che fosse adottato il Protocollo del 1967 e venissero quindi tolti i limiti temporali e geografici all’ambito di applicazione della Convenzione del 1951, il mandato dell’ACNUR veniva adeguato alle situazioni contingenti dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Inoltre, la Convenzione OUA venne adottata con la stretta collaborazione dell’ACNUR, la cui competenza ratione personae venne finalmente estesa, nel 1972 dall’Assemblea Generale, allo scopo di favorire il rientro di circa 150.000 sudanesi, rifugiati nei paesi vicini, dopo la firma dell’Accordo di Addis Abeba. Nella risoluzione 2958(XXVII) del 1972, l’Assemblea Generale fece per la prima volta riferimento in modo esplicito ai profughi, anche se in relazione ad un gruppo specifico, quello dei profughi sudanesi, che pertanto non costituiva un riconoscimento dell’intera categoria di displaced persons. Nel 1975, con risoluzione 3455(XXX), l’Assemblea Generale si espresse in termini più generici affermando, nel preambolo, «the eminently humanitarian character of the activities of the High Commissioner for the benefit of refugees and displaced persons”. L’ACNUR assunse così il ruolo di garante di una protezione minima per le persone non rientranti nella definizione convenzionale di rifugiato, ma che sono vittime “of man-made events over which they have no control and they suffer deprivation or uprootedness as the result of sudden upheaval and separation from their homes».
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