Abstract
Il rimborso è un momento essenziale dell’attuazione dei tributi, in un sistema che prevede sistematicamente la riscossione di somme a titolo di tributi non ancora definitivamente accertati. La genesi del credito può derivare da diverse situazioni, cui si riconducono profili procedurali solo in parte comuni, tra norme generali e discipline specifiche. Uniforme è invece la disciplina della tutela processuale del credito.
Il rimborso costituisce una funzione essenziale nella disciplina di attuazione dei tributi, attraverso la quale è possibile eliminare o riequilibrare gli effetti di una riscossione che risulti, per ragioni originarie o sopravvenute, indebita; in un sistema in cui strutturalmente gli obblighi di pagamento precedono la definitiva determinazione del dovuto, e nel quale la riscossione non segue, come sarebbe logico, l’accertamento, intrecciandosi invece con le varie fasi nelle quali quest’ultimo si sviluppa, è agevole comprendere cosa accadrebbe, quanto a rispetto della capacità contributiva, ove non fosse riconosciuto il diritto al rimborso di quanto provvisoriamente dovuto e pagato, nel caso in cui le vicende attuative successive dimostrino insussistenti i presupposti per il pagamento.
Si distingue appunto (secondo gli schemi più seguiti in linea generale; ma le terminologie sono mutevoli, ad esempio è incerto il rapporto tra rimborso e restituzione) tra rimborso da indebito originario, che si verifica quando il pagamento è sin dall’origine in tutto o in parte non dovuto, e rimborso da indebito sopravvenuto, quando il pagamento originariamente legittimo si rivela successivamente non giustificato; in questa seconda tipologia di rimborsi possono farsi rientrare (ma non vi è unanimità se si determini effettivamente un indebito, ancorché sopravvenuto) i cosiddetti rimborsi “da dichiarazione”, che hanno straordinaria importanza e frequenza, anche dal punto di vista pratico: si allude, con tale terminologia, a quelle forme di indebito che si manifestano rispetto a pagamenti effettuati in via anticipata rispetto alla complessiva liquidazione del tributo dovuto (è il caso dell’IVA) o rispetto addirittura allo stesso presupposto (è il caso delle ritenute e degli acconti nelle imposte sui redditi), e che possono essere riscontrate solo a posteriori, all’atto appunto delle liquidazioni tipiche della fase di presentazione della dichiarazione nei tributi a base periodica, come accade nelle imposte sui redditi quando le ritenute subite dal contribuente, o i versamenti d’acconto, risultino in sede di dichiarazione superiori al dovuto. Nell’IVA, quando la liquidazione annuale dimostra un’eccedenza di iva detraibile rispetto a quella dovuta, non può parlarsi di riscossioni avvenute prima del presupposto, ma semplicemente di un meccanismo applicativo che dapprima prende in considerazione le operazioni attive e passive del soggetto passivo IVA (a prescindere dall’effettivo esborso: l’eccedenza di IVA detraibile può formarsi anche per effetto di IVA addebitata al contribuente, anche se non ancora pagata), e solo in un secondo momento impone di effettuare la liquidazione del dovuto, sulla base delle operazioni ascrivibili all’anno solare.
La genesi del rimborso può così essere studiata riferendosi in definitiva a tre gruppi di situazioni: nel primo, il pagamento del tributo è ab origine non dovuto, ovvero sopravviene una eliminazione, ex tunc, della norma che prevedeva il fatto imponibile o che lo quantificava secondo certi canoni, sicché il problema principale che si pone è quello di stabilire come debba essere fatto valere l’indebito; nel secondo gruppo, il tributo è inizialmente dovuto, ma successivamente sopravviene un fatto che vanifica il presupposto o riduce la base imponibile o l’aliquota; nel terzo gruppo di situazioni, l’obbligo di pagamento si genera o si modifica per effetto di vicende procedimentali (attengano queste alla fase della riscossione, ovvero a quella dell’accertamento) o processuali.
Quanto alle fonti, è utile ricordare che anche sul tema qui in esame si manifesta la concorrenza di diversi livelli di produzione normativa: occorre dunque considerare non solo la legislazione statale, primaria e secondaria, ma anche il potere normativo regolamentare riconosciuto agli enti locali, che normalmente conduce a disposizioni integrative della legge statale, il potere legislativo regionale, l’utilizzabilità di principi e norme desumibili dal diritto europeo, primario e derivato, il diritto internazionale.
Nella trattazione, saranno per ragioni di economia evitati i riferimenti alle specifiche problematiche che riguardano i rimborsi previsti per ragioni di territorialità in favore di soggetti non residenti, ovvero i crediti di cui siano titolari verso il fisco soggetti sottoposti a procedure concorsuali.
La prima ipotesi prende in primo luogo in considerazione ipotesi di riscossione spontanea, ossia attuata mediante comportamenti del contribuente non filtrati o preceduti da atti dell’ufficio: l’ipotesi è quella di un tributo che viene pagato, senza essere effettivamente dovuto in quella misura: ciò può accadere per ragioni le più varie, che vanno dal verificarsi di un mero errore materiale, ad un’interpretazione delle norme che non risulti corretta, o alla considerazione di fatti che in realtà erano insussistenti.
In genere, questi casi non contemplano l’obbligo del rimborso d’ufficio, se non quando l’amministrazione viene ad utilizzare la procedura di liquidazione dell’imposta dovuta, sulle dichiarazioni presentate ai fini delle imposte sui redditi, dell’IVA, dell’IRAP (artt. 36 bis d.P.R. 29.9.1973, n. 600, e art. 54 bis d.P.R. 26.10.1972, n. 633), o quando l’errore sia imputabile all’ufficio stesso (art. 41 d.P.R. 29.9.1973, n. 602).
Vige invece la regola della preventiva istanza, presupposto indispensabile perché il diritto non incorra in decadenza e possa essere azionato in sede processuale. La presentazione dell’istanza è soggetta ad un termine decadenziale, in genere previsto dalla legislazione che disciplina il singolo tributo (quarantotto mesi, per le imposte sui redditi; tre anni, per l’imposta di registro; cinque, per i tributi locali). In chiave residuale, si applica l’art. 21 d.lgs. 31.12.1992, n. 546, che regola il rimborso sotto l’aspetto processuale e prevede il termine decadenziale di due anni per presentare l’istanza (ad es. nell’IVA per la quale non è previsto un termine specifico si applica l’art. 21: Cass., 22.4.2005, n. 8461, Cass., 5.2.2007, n. 2398, Cass., 26.11.2008, n. 28207).
La decorrenza, per queste ipotesi di rimborso da indebito originario, si colloca generalmente nel giorno del pagamento, anche quando l’indebito originario viene sancito dalla sopravvenienza di una norma che elimini retroattivamente il tributo, ovvero di una sentenza della Corte Costituzionale o della Corte di Giustizia. Chi vuole giovarsi di tali sopravvenienze, non dovrà lasciar decorrere il termine decadenziale, e dovrà in genere computarlo sin dal giorno del pagamento, in quanto l’incidenza sulla norma di tali sentenze ne riconosce un fattore di inapplicabilità che già era sussistente al momento in cui il pagamento era avvenuto (Cass., 6.9.2004, n. 17918, Cass., ord. 6.7.2011, n. 14923; di recente, tuttavia, è stata sottoposta alle Sezioni Unite della Corte di cassazione l’ipotesi interpretativa che, quanto meno per le norme impositive risultate in contrasto con il diritto europeo, individua la decorrenza del termine decadenziale solo a partire dal momento nel quale il contrasto viene dichiarato dalla Corte di Giustizia ‒ Cass., ord. 16.1.2013, n. 959). A maggior ragione, è insostenibile, per pacifica giurisprudenza, che la prassi ministeriale o la stessa giurisprudenza di legittimità abbiano effetti generatori di un diritto al rimborso prima insussistente. Occorre tuttavia rilevare che la Corte di giustizia, soprattutto in materia di IVA, indica l’esigenza di un’espansione delle ipotesi nelle quali la decorrenza del termine di decadenza deve essere individuata in momenti successivi a quelli del pagamento.
Si esamineranno infra delle ipotesi, emerse nella giurisprudenza recente, che a rigore danno vita ad un indebito originario ma sono considerate per motivi equitativi come ipotesi di rimborso sopravvenuto.
Quando l’indebito si manifesta in occasione di versamenti spontanei, può accadere che il vizio dell’atto solutorio sia intrinseco all’atto stesso, ovvero che derivi da una viziata rappresentazione contenuta negli atti dell’accertamento. La prima ipotesi si ha quando viene versata una somma superiore al dovuto, e l’errore (che può essere materiale, o qualificatorio del fatto, o schiettamente giuridico) sia collocato nella sequenza della riscossione. La seconda ipotesi si verifica quando il versamento eccedente è frutto di una dichiarazione o di una fatturazione errata in eccesso, anche qui per motivi che possono essere i più vari.
Mentre nel primo caso la richiesta di rimborso normalmente non richiede un intervento correttivo sull’atto di riscossione, quando l’indebito discende da una dichiarazione errata si pone il problema di stabilire se sia sufficiente l’istanza di rimborso, o se debba anche essere modificato (e, in caso positivo, in quali termini) l’atto dell’accertamento. Optando per l’affermativa, sarebbe pertanto da rispettare un termine duplice, quello per l’istanza di rimborso (quarantotto mesi, ex art. 38 d.P.R. n. 602/73) e quello per la presentazione della dichiarazione rettificativa; e l’attuale interpretazione prevalente, che generalizza l’applicabilità del breve termine di cui al citato co. 8 bis (entro il termine per presentare la dichiarazione per il periodo d’imposta successivo), sarebbe foriera di una grave discrasia in quanto la brevità del secondo termine vanificherebbe la congruità del primo, significativamente prossimo, come è negli auspici della giurisprudenza, a quello a disposizione dell’ufficio per procedere ad accertamenti (ispirata a tale linea interpretativa, da ultimo, Cass., 2.7.2008, n. 18076, sulla strada tracciata da Cass., S.U., 25.10.2002, n. 15063). In realtà, quando l’istanza di rimborso presuppone la semplice riqualificazione giuridica di elementi della dichiarazione ‒ si pensi al caso del lavoratore autonomo che abbia applicato l’IRAP cautelativamente ‒ la presentazione di una dichiarazione rettificativa da parte del contribuente non sembra necessaria (così Cass., 23.2.2005, n. 3730), in quanto la motivazione giuridica della richiesta di rimborso appare esaustiva anche se (o meglio proprio perché) collocata all’esterno del modello di dichiarazione; d’altra parte, la preoccupazione che in tal modo la nuova qualificazione giuridica possa sfuggire al controllo del fisco non ha ragion d’essere, perché essa può produrre effetti solo se l’istanza viene accolta. La conclusione opposta è invece preferibile quando sono propriamente i dati numerici del dichiarato a dover essere modificati per poter accedere al riconoscimento del rimborso; diversamente, si avrebbe un contenuto diverso della dichiarazione per effetto di un atto (l’istanza di rimborso) che resta sotto tutti gli altri profili autonomo dalle procedure di controllo formale e sostanziale sulla dichiarazione. È comunque auspicabile che la disciplina normativa sia in futuro meglio coordinata, abbinando ad un’ampia possibilità di ripensamento del contribuente maggiori certezze su tempi e modi con cui l’Agenzia può rettificare la nuova dichiarazione.
Nell’IVA, il rimborso può essere evitato quando è consentita l’emissione di un documento correttivo della fatturazione esorbitante, la nota di variazione, che sterilizza l’indebito mediante una procedura che è stata qualificata in dottrina (Tabet, G., Contributo allo studio del rimborso d’imposta, Roma, 1985) come autorimborso e che la giurisprudenza ritiene comunque non esclusiva, ma concorrente con quella tradizionale basata sull’istanza di rimborso. Non siamo invece nell’ambito dell’indebito, quando il rimborso viene richiesto in dichiarazione con riferimento ad un’eccedenza detraibile, ovvero quando la richiesta di rimborso è concessa in alternativa ad una detrazione dell’iva sugli acquisti che non è possibile esercitare (ad es. da parte di soggetti non residenti).
Il rimborso da indebito può essere richiesto, di regola, dal soggetto che abbia effettuato il pagamento, ma le ipotesi di pluralità di soggetti passivi coinvolti nel prelievo danno vita a situazioni non sempre lineari. Ad esempio, se l’indebito riguarda una ritenuta è consentito sia al sostituto, sia al sostituito, presentare istanza di rimborso all’amministrazione, così come viene oggi riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità l’azione civile di adempimento del secondo verso il primo. Una figura tradizionalmente riconosciuta come responsabile d’imposta (il notaio) è invece ritenuta priva di legittimazione attiva all’azione di rimborso, anche se abbia provveduto all’esborso, dato che l’art. 77 d.P.R. 26.4.1986, n. 131 (Testo unico imposta di registro) riferisce il diritto al contribuente; ma la soluzione è criticata. Non è da escludere, in linea di principio, che il credito da indebito possa essere oggetto di cessione, ma l’ipotesi è più che altro teorica: a differenza infatti del credito che emerge dalla dichiarazione (v. infra) quello da indebito non ha una propria evidenza contabile, né un riferimento cartolare: non a caso le disposizioni che regolano la cessione si riferiscono sempre al credito da dichiarazione. Dopo molte incertezze, sembra essere ormai riconosciuto, con conseguente disapplicazione o incostituzionalità di norme contrarie, il diritto al rimborso anche in favore del contribuente che abbia almeno in parte traslato su terzi il peso del tributo.
Quando invece l’indebito si riconduce al pagamento di una somma per effetto di un atto impositivo emanato da un’amministrazione finanziaria o da un incaricato della riscossione, l’azione di indebito non ha una propria autonomia (art. 21, d.lgs. 31.12.1992, n. 546). Perché al contribuente sia quindi riconosciuto il rimborso, è necessario che l’atto da cui deriva l’obbligo di pagamento sia preventivamente rimosso in via giurisdizionale (Cass., 6.2.2004, n. 2272), attraverso il ricorso impugnatorio alla commissione tributaria provinciale, ovvero in via amministrativa nell’esercizio del potere di autotutela. A tale conclusione – accolta dalla giurisprudenza da lungo tempo – si perviene non tanto per il tenore letterale dell’art. 21, che non conserva la formula presente nelle disposizioni previgenti, secondo le quali il rimborso poteva essere richiesto solo in mancanza di atti impugnabili, quanto piuttosto considerando che nel processo tributario l’azione è proponibile solo per vizi propri di ciascun atto, il che impedisce che possa essere proposta azione di rimborso sulla base di patologie di precedenti atti impugnabili e non impugnati. Il principio può forse essere messo in discussione, là dove l’atto impositivo è semplice espressione di una dichiarazione del contribuente che può essere rettificata. Tenendo conto di quanto ora rilevato, si osserva che la previsione del rimborso di somme pagate a titolo di sanzione, sebbene presente in più norme, appare di ambito applicativo episodico, dato che la sanzione o è pagata per effetto di atti impositivi, sicché può essere rimborsata solo all’esito dell’annullamento dell’atto impositivo, ovvero, quando viene pagata spontaneamente (definizioni agevolate, ravvedimento operoso) non è di regola ripetibile.
Come si è detto, si tratta di casi nei quali viene effettuato un pagamento sulla base di una situazione provvisoria, ed emerge successivamente un fatto che rende non più dovuta quell’imposta pagata: tipico, il caso della imposta di registro applicata agli atti giudiziari, nel quale può ben verificarsi che nei gradi di giudizio successivi al primo venga meno la stessa modificazione patrimoniale che era stata oggetto di tassazione con la registrazione della sentenza di primo grado, ovvero che si riduca la base imponibile.
In questi casi, non vi sono particolari differenze, rispetto all’indebito originario, se non ovviamente con riferimento alla decorrenza del termine per presentare istanza (se necessaria: le norme di settore potrebbero in tali casi prevedere un rimborso d’ufficio). La decorrenza va ancorata al fatto sopravvenuto, e non alla data dell’originario versamento: ma la disciplina processuale ‒ che verrà esaminata più avanti ‒ resta poi la stessa.
Come anticipato in apertura del lavoro, è dubbio che i crediti che emergono in dichiarazione, per effetto di scomputo di ritenute, di acconti, o di detrazioni possano essere effettivamente qualificati come di indebito: infatti, anche se la liquidazione che si compie in dichiarazione lascia emergere una minore entità del debito verso il fisco rispetto a quanto assolto in via provvisoria, resta il fatto che ritenute, versamenti, iva assolta, erano dovuti e restano tali, se isolatamente considerati: il rimborso nasce dunque in via fisiologica, e non per patologie degli atti di riscossione. È comunque proficuo affrontare qui il tema, che presenta talune particolarità.
Intanto il fatto che il credito abbia evidenza in un atto fondamentale come la dichiarazione lo rende particolarmente visibile e solido, salvo i poteri di controllo formale e sostanziale che sulla dichiarazione eserciterà l’amministrazione. Conseguenza di quanto sopra è da un lato che il credito risulta cedibile (nonché pignorabile e sequestrabile; l’art. 10 d.l. 30.9.2003, n. 269, inoltre, riconosce al contribuente la possibilità di avere un attestato circa l’esistenza del credito, che indichi anche la presumibile data di erogazione del rimborso, ma che non è utilizzabile in via esecutiva o monitoria), e dall’altro che, là dove manchino delle condizioni specifiche per poter riconoscere il rimborso, al contribuente viene riconosciuta la possibilità di utilizzare diversamente il credito (che, in alternativa, può essere speso in compensazione con altri tributi, ovvero riportato al periodo successivo).
Parliamo dunque di procedure di rimborso che hanno senza dubbio autonomia procedurale, conseguente alla ricorrenza delle ipotesi e al loro fisiologico transito in dichiarazione (fisiologico non vuol dire assolutamente necessitato: la giurisprudenza riconosce infatti la possibilità di accordare il rimborso anche in caso di omessa presentazione della dichiarazione, essendo la decadenza, nell’IVA, conseguenza non della sola omissione di dichiarazione, ma anche del mancato computo tempestivo della detrazione in sede di liquidazioni periodiche – in quanto frutto di un conguaglio che nella dichiarazione viene esplicitato ‒ come forma naturale di rappresentazione e di comunicazione). Il dato formale è d’altra parte essenziale, perché consente di cogliere le caratteristiche procedurali di questo gruppo di rimborsi: nei quali l’istanza non è assente, ma viene incorporata nella dichiarazione, e si esprime in modo semplice, perché il presupposto giustificativo del rimborso non va “raccontato” all’ufficio, ma emerge in modo diretto dalla dichiarazione stessa e dal relativo corredo di documenti giustificativi; infatti, in questi ultimi trova fondamento la eccedenza cui si riconduce il credito. D’altra parte, la valutazione e la risposta da parte dell’ufficio tendono anch’esse a non essere avulse dal meccanismo applicativo, ma confluiscono nelle procedure di liquidazione del dichiarato, già richiamate in precedenza; procedure che, se di regola verificano la rispondenza tra versato e dichiarato, dopo aver depurato quest’ultimo da errori e inesattezze desumibili da un esame sostanzialmente cartolare, qui vanno invece a verificare se il dichiarato, così correttamente inteso, giustifichi la richiesta di rimborso espressa in dichiarazione; ed in tale verifica, a differenza di quanto accade nell’accertamento riconducibile al “controllo sostanziale”, l’ufficio può, sulla scia di quanto previsto dall’art. 41 d.P.R. n. 602/73 quando era l’ufficio stesso a liquidare la dichiarazione, effettuare anche correzioni a favore del contribuente, sia restituendo il versamento a saldo eccedente, sia incrementando l’importo a credito richiesto a rimborso.
A rigore, il consolidarsi della dichiarazione dovrebbe condurre alla definitività del rimborso, quale conseguenza della stabilità del dichiarato: sia che quest’ultima derivi dalla decadenza dai poteri di accertamento, sia che costituisca un effetto di meccanismi di definizione automatica; e, in questa logica, l’ufficio che sia incorso in decadenza sia dal potere di liquidazione, sia da quello di accertamento “sostanziale”, non dovrebbe più avere possibilità di sollevare, con un successivo atto di diniego, questioni ormai precluse dalla intervenuta decadenza. La giurisprudenza (C. Cost., ord. 27.7.2005, n. 340; in senso diverso, ora, Cass., 8.6.2012, n. 9339, che disattende Cass., 18.5.2012, n. 7899), tuttavia, soprattutto quando il rimborso sia sospettato di concludere un disegno fraudolento, tende ad affermare l’irrilevanza della definitività del dichiarato, al fine di veder riconosciuto l’obbligo di corresponsione del rimborso, con una posizione in pericolosa antitesi con le ragioni della definitività.
Concettualmente, i rimborsi qui considerati (già individuati nel terzo gruppo di cui al primo paragrafo) non sono diversi da quelli già esaminati, e possono dunque ricondursi a ipotesi di indebito originario o sopravvenuto; ma li caratterizza il fatto che i presupposti per una posizione creditoria del contribuente si verificano per effetto di vicende dell’accertamento o del processo, che hanno generato obblighi di pagamento diversi da quelli emergenti dagli atti applicativi posti in essere dal contribuente.
La prima ipotesi si collega all’emanazione di atti di accertamento in rettifica che modificano l’imputazione di componenti positivi o negativi del reddito d’impresa, incrementando l’imponibile del periodo d’imposta oggetto dell’accertamento, ma generando, contestualmente, diminuzioni dell’imponibile in periodi d’imposta successivi o precedenti. Poiché la normativa sull’accertamento, come interpretata dalla consolidata giurisprudenza, non obbliga l’amministrazione ad estendere i controlli oltre il periodo d’imposta esaminato, e, più in generale, non prevede interventi rettificativi delle dichiarazioni che conducano a effetti favorevoli per il contribuente, è evidente che il riequilibrio può avvenire solo attraverso la correzione delle dichiarazioni da parte del contribuente, ed in senso favorevole allo stesso. Ma questa soluzione condurrebbe al rischio di determinare decadenze rispetto all’istanza di rimborso conseguente alla dichiarazione correttiva, o perché l’atto di accertamento sopravviene nell’imminenza dei termini per l’istanza, o perché, fino a quando l’accertamento non è definitivo, l’istanza avrebbe una giustificazione precaria, magari contestata dallo stesso contribuente.
Ecco che allora da qualche anno la giurisprudenza di cassazione (Cass., 8.7.2009, n. 16023; 14.4.2008, n. 9757) riconosce che il diritto al rimborso, pur essendo a rigore originario l’indebito, possa essere esercitato solo a decorrere dal momento in cui l’accertamento diventa definitivo (grandi e progressive aperture sono state poi espresse dall’Agenzia delle entrate, nelle circolari: 24.9.2013, 31/E; 20.9.2012, 35/E; 2.8.2012, 31/E; 4.5.2010, 23/E).
Ma l’ipotesi più rilevante di situazioni creditorie che nascono tra procedure applicative e processo è data dalle vicende degli atti impositivi impugnabili, dai quali siano sorti obblighi di pagamento adempiuti dal contribuente. Trattandosi di provvedimenti, essi sono normalmente esecutori – anche nel silenzio della legge ‒e comportano l’obbligo di pagare l’intero, ovvero la parte di debito prevista dalla legge in base alla regole sulla riscossione frazionata, in pendenza del giudizio (riscossione provvisoria). Quando però il contribuente ottiene in sede giurisdizionale la rimozione totale o parziale dell’atto impositivo, o quando la stessa viene concessa dalla stessa amministrazione finanziaria in sede di autotutela, è evidente che quanto pagato provvisoriamente va restituito: prevede all’uopo l’art. 68, co. 2, d.lgs. n. 546/92 che l’amministrazione debba provvedere al rimborso d’ufficio entro novanta giorni dalla notificazione della sentenza; l’eventuale inadempimento non trova rimedi interni (se ne possono ipotizzare di esterni, quali la denuncia penale o azioni risarcitorie) al processo, posto che non sono concesse azioni esecutive anteriormente al passaggio in giudicato della sentenza. Anzi, secondo le sezioni unite della Corte di cassazione, nemmeno l’annullamento definitivo dell’atto impositivo legittimerebbe azioni esecutive del giudicato, poiché l’effetto ripristinatorio sarebbe estraneo ai contenuti della lite che mira a rimuovere l’atto.
Assai complesso è il rapporto che si crea tra le diverse attività di accertamento, riscossione, rimborso. In generale, è possibile dire che, per i rimborsi da indebito, la procedura e gli atti che la concludono godono di una relativa autonomia (ad es., l’atto di diniego non sarebbe soggetto ai termini decadenziali previsti per l’accertamento ‒ Cass., 10.01.2004, n. 194; Cass., 22.4.2205, n.8460; Cass., 11.4.2012, n. 5722) rispetto alle vicende concomitanti e successive, condizionate dalla presenza di atti impositivi anteriori. Anche sotto il profilo qui in considerazione, emerge una parzialità delle singole vicende, dato che la definitività della procedura sul rimborso da indebito non incide sui concomitanti poteri di controllo di accertamento e di riscossione. In genere, i rimborsi da indebito restano estranei anche alle problematiche connesse a possibili compensazioni tra il credito del contribuente e le pretese dell’ufficio derivanti da atti impositivi; infatti, normalmente gli uffici adottano i provvedimenti di fermo (nella loro variegata articolazione) sui rimborsi da dichiarazione e non su quelli da indebito, la cui fondatezza è meno facile da stabilire in modo oggettivo.
I rimborsi da dichiarazione sono naturalmente più “immersi” nelle procedure applicative: essi vengono concessi o negati con la procedura di liquidazione del dichiarato, possono condurre nell’IVA ad un diniego del rimborso che però riconosca la sussistenza del credito e di conseguenza la possibilità di utilizzarlo in modo diverso (d.P.R. 10.11.1997, n. 443). Anche per tali rimborsi, però, il riconoscimento non è definitivo; esso, sia che derivi dall’atto dell’ufficio, sia che consegua al processo tributario, non consacra la intangibilità del dichiarato, rispetto al quale restano possibili i controlli formali e sostanziali successivi alla liquidazione, dai quali può emergere la insussistenza, o la minore consistenza, del credito rimborsato. L’attività dell’ufficio, in questo caso, non si traduce però in una revoca del rimborso, quanto nell’imposizione di una maggiore imposta, che può influire sull’ammontare del rimborso ma solo nella misura in cui questo non sia stato ancora erogato; più che la determinazione di un risultato complessivo della dichiarazione di carattere unitario, si profila pertanto la concorrenza di due pretese di segno diverso, destinate al più a neutralizzarsi attraverso la compensazione totale o parziale.
L’economia del presente lavoro non consente di trattare in modo articolato tutte le peculiarità del giudizio di rimborso. L’erogazione del rimborso può essere innanzitutto stimolata e sollecitata dal Garante del contribuente, a norma dell’art. 13 l. 27.7.2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente). Le garanzie sono di competenza della legislazione statale, la quale tuttavia non può riservare un trattamento deteriore all’indebito nascente dal diritto comunitario. La crescente diffusione della compensazione (generale, ex art. 8, l. n. 212/2000, o speciale, ex art. 17, d.lgs. 9.7.1997, n. 241 sui versamenti unificati) consente al contribuente di fruire direttamente dei crediti tributari (soprattutto da dichiarazione) e all’amministrazione di evitare il costo amministrativo di gestione di pratiche complesse.
Quanto al processo in senso proprio, premesso che la giurisprudenza non riconosce forme concorrenti di tutela quali l’azione di ripetizione dell’indebito o quella di ingiustificato arricchimento, la disciplina del citato art. 21 conferma che non è possibile nemmeno per i rimborsi l’accesso diretto al giudice tributario, in quanto, come detto, la pretesa va prima azionata attraverso l’istanza in via amministrativa (autonoma, o inglobata nella dichiarazione) da proporre entro termine decadenziale il cui rispetto, trattandosi di diritti indisponibili per l’amministrazione, è valutabile anche d’ufficio dal giudice (Cass., 28.7.2000, n. 9940; 30.5.2007, n. 7952). L’azione è poi proponibile o avverso l’atto di diniego espresso (per tale dovendo intendersi, secondo la giurisprudenza ‒ Cass., 21.1.2008, n. 1154 ‒ anche l’atto che conceda un rimborso minore di quello richiesto e l’atto che “blocchi” il rimborso a tutela di crediti erariali, abbiano o meno natura tributaria: si pensi alle diverse tipologie di “fermi amministrativi” sui rimborsi, accomunati dalla loro impugnabilità davanti alle commissioni tributarie), ovvero dopo che si sia formato un silenzio rifiuto, con il decorso di novanta giorni dalla presentazione dell’istanza. Nel primo caso, il ricorso va proposto entro il termine decadenziale di sessanta giorni (l’azione ha certamente il carattere impugnatorio tipico del processo tributario, ancorché sia sorretta da un interesse pretensivo), mentre nell’ipotesi di silenzio il ricorso è proponibile dal novantunesimo giorno e fino a che il diritto non sia prescritto (prescrizione decennale; dopo lunghe incertezze, le Sezioni Unite – Cass., 7.2.2007, n. 2687; contra, Cass., 29.12.2010, n. 26318 ‒ hanno stabilito che la decorrenza del termine prescrizionale, per i rimborsi richiesti in dichiarazione, sia immediata; ma la soluzione non persuade). L’azione, secondo l’opinione prevalente, assume in tal caso i caratteri di un’azione di accertamento; in entrambi i casi, può anche essere chiesta la condanna dell’amministrazione finanziaria, anche al fine di ottenere, con la sentenza passata in giudicato, un titolo esecutivo che legittima l’esecuzione forzata ordinaria.
I caratteri del processo di rimborso, a parte la possibile mancanza di un atto impugnabile, derivano dal carattere pretensivo dell’interesse che sorregge l’azione giurisdizionale e dalla più intensa finalità di accertamento che caratterizza la tutela offerta dalla commissione tributaria: si riscontrano perciò, anche se con differenze a seconda della presenza o meno di un atto impugnabile, un più intenso onere probatorio a carico del ricorrente, ma anche preclusioni più intense a carico della parte resistente (ad es. in ordine alle eccezioni da formulare all’atto della costituzione in giudizio), una possibile maggiore complessità della sentenza, chiamata spesso a superare la soglia della semplice dichiarazione di (il)legittimità dell’atto impugnato per disporre anche una condanna. Altre diversità comunemente sostenute derivano invece da sostanziali pregiudizi, per i quali istituti quali la sospensione giudiziale dell’atto impugnato e la conciliazione giudiziale non sarebbero applicabili, per loro natura, al giudizio di rimborso; preclusione che però in nessun modo è autorizzata dalle disposizioni di legge.
La sentenza che chiude un giudizio di rimborso è suscettibile di essere eseguita solo al suo passaggio in giudicato (C. Cost., ord. 30.7.2008, n. 316); la sentenza favorevole al contribuente non avrebbe nemmeno idoneità a produrre un obbligo di restituzione quale quello previsto dall’art. 68, co. 2, d.lgs. n. 546/92 (anche questo è tuttavia un pregiudizio, legato alla genesi della norma). Le forme di esecuzione della sentenza sono mutuate o dal processo civile, quando la sentenza reca condanna: in tal caso l’art. 69 null’altro dice, se non prevedere il rilascio in forma esecutiva della sentenza, la quale farà da titolo esecutivo in una ordinaria azione civile di esecuzione; o dal processo amministrativo, nel caso previsto dall’art. 70 di ricorso al giudizio di ottemperanza. In quest’ultimo caso tuttavia la disposizione prevede espressamente una disciplina autonoma del rito, che può consentire in tempi rapidi la sostituzione del giudice all’amministrazione nell’adozione degli atti necessari a rendere concreta l’erogazione del rimborso riconosciuto dovuto.
D.P.R. 29.9.1973, n. 602, artt. 37 e 38; d.lgs. 31.12.1992, n. 546, artt. 19, 21, 68, 69, 70.
Tesauro, F., Il rimborso dell’imposta, Torino, 1975; Tabet, G., Contributo allo studio del rimborso d’imposta, Roma, 1985; Tabet, G., Rimborso di tributi, in Enc. Giur Treccani, XXVII, 1991; Fregni, M.C., Rimborsi dei tributi, in Dig. comm., 1996, 499; Rinaldi, R., Profili ricostruttivi della liquidazione d’imposta, Trieste, 2000; Basilavecchia, M., Situazioni creditorie del contribuente e attuazione del tributo. Dalla detrazione al rimborso, Pescara, 2000; Basilavecchia, M., Rimborso di tributi, postilla di aggiornamento, ivi, XXVII, 2002; Miscali, M., Il diritto alla restituzione, Milano, 2004; De Mita, E., Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 2006; Miceli, R., Indebito comunitario e sistema tributario interno, Milano, 2009; Falsitta, G., Manuale di diritto tributario, Padova, 2010; Del Federico, L., Tutela del contribuente e integrazione giuridica europea, Milano, 2010; La Rosa, S., Differenze e interferenze tra diritto a restituzione, diritto di detrazione e credito da dichiarazione, ora in Scritti scelti, II, Torino 2011, 559; La Scala, A.E., Il silenzio dell’Amministrazione finanziaria, Torino, 2012; Bruzzone, M.Commento ad art. 37 d.P.R. 602/73, in Glendi, C.-Consolo, C., Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2012, 931; Ingrosso, M., Recupero delle situazioni attive creditorie derivanti da errore dichiarativo ed errata imputazione a periodo, in Rass. trib., 2012, 1439; Paparella, F., Il rimborso dei tributi, in Diritto tributario, a cura di Fantozzi, A., Torino, 2013; Basilavecchia, M., Funzione impositiva e forme di tutela. Lezioni sul processo tributario, Torino, 2013.