Rime sparse
Sotto la denominazione di rime o di rime sparse o varie si comprende oggi la produzione poetica estravagante di M., non facente capo né a opere organiche (l’Asino), né a cicli di componimenti fra loro omogenei e collegati (Decennali, Capitoli). Nell’esigua silloge vengono inclusi, di solito, sei canti carnascialeschi (“Diavoli iscacciati di cielo”, “Le pine”, “Canto de’ ciurmadori”, “Amanti e donne disperati”, “Spiriti beati”, “Romiti”), sei sonetti (quattro dei quali caudati), un’egloga allegorica in terzine (nota come “Capitolo pastorale”; ma solo “Capitolo” nella tradizione manoscritta), una Serenata (in 33 ottave), due ballate, due strambotti, due epigrammi e un madrigale. La recente edizione critica curata da Antonio Corsaro e Nicoletta Marcelli (2012, donde qui sempre si citeranno i testi in questione) aggiunge anche l’epigramma “Dell’Occasione” (in genere compreso fra i Capitoli, cui lo accomuna però soltanto l’uso della terzina) e due rime dubbie: un’ottava su san Torpè pisano, presumibile inizio di una sacra rappresentazione non altrimenti nota (i versi sono preceduti da un breve riassunto in prosa, anch’esso autografo, della vita e del martirio del santo), e un epigramma osceno (due quartine a rima chiusa) citato in una lettera di Leonardo Salviati a Jacopo Corbinelli databile intorno al 1563 (cfr. Corsaro 2009). Questa postuma nomea di poeta erotico trova conferma anche nella recente scoperta da parte di Alessio Decaria, nel ms. Magliab. VII 720, c. 305r, conservato a Firenze nella Biblioteca nazionale centrale, di una redazione con varianti, attribuita a M., di un madrigale di Pietro Aretino. Lo stesso studioso ha portato alla luce l’epitaffio di un cane (quattro endecasillabi a rima chiusa) siglato N.M. e copiato da Lorenzo Strozzi in un manoscritto a lui appartenuto (BNCF, Magliab. VII 1041, c. 39v: cfr. Decaria 2013). Infine, potrebbe essere di M. il ternario, in 34 versi, di argomento amoroso “Se a qualche tomba, a qualche rivo o saxo” trasmesso adespoto dal ms. BNCF, Nuove Accessioni 1024, c. 18r-v, in testa a una sezione comprendente “Dell’Occasione” e i tre Capitoli (ed. curata da Nicoletta Marcelli, in N. Machiavelli, Scritti in poesia e in prosa, coord. di F. Bausi, 2012, pp. 503-04).
Del tutto infondati, alla luce della tradizione manoscritta, della biografia di M. e dei loro caratteri stilistico-tematici, sono i dubbi avanzati in passato per ragioni moralistiche e ideologiche sull’autenticità di alcuni componimenti, come i sonetti dal carcere e l’epitaffio di Piero Soderini; e superate sembrano oggi anche le incertezze relative alla paternità machiavelliana dell’epigramma “Sappi ch’io non son Argo, quale io paio”.
Solo per alcuni testi datazione e circostanze di composizione sono accertabili. Due dei tre sonetti a Giuliano de’ Medici (quelli scritti dal carcere: “Io ho, Giuliano, in gamba un paio di geti” e “In questa notte, pregando le Muse”) risalgono al febbraio-marzo 1513, quando M., imprigionato perché sospettato di essere coinvolto in una congiura antimedicea, chiese aiuto al fratello del papa; il sonetto amoroso “Avea tentato il giovinetto arciere” apre la lettera di M. a Francesco Vettori del 31 gennaio 1515; le poesie composte per la cantante e cortigiana Barbara Salutati (la ballata “Amor, i’ sento l’alma” e il madrigale “S’alla mia immensa voglia”) si collocano negli anni in cui M. la frequentò, fra il 1523 e il 1526; il sonetto al padre “Costor vivuti sono un mese o piùe” è anteriore al 10 maggio 1500 (data di morte di Bernardo Machiavelli); l’epigramma satirico “Sappi ch’io non son Argo”, una pasquinata in metro madrigalesco, va messo in rapporto con la festa romana del 25 aprile 1526, cui M. probabilmente assistette, e nella quale apparve una statua di Pasquino travestito da Argo. L’ottava di san Torpè risale al maggio 1512, essendo stata copiata da M. sul retro di una lettera indirizzatagli dai Dieci a Pisa il 28 maggio di quell’anno.
Impossibile, congetturale o molto approssimativa la cronologia degli altri pezzi. Il canto dei “Diavoli iscacciati di cielo”, anteriore, come quello delle “Pine”, al 1507-08 (date presenti nel ms. BMLF, Antinori 158, cc. 1v, 38r, 101v, che li trasmette), è forse del 1501 o 1502. In base alla grafia, il “Canto de’ ciurmadori” dovrebbe essere stato composto all’inizio del 1509; fu trascritto da M. su un foglio che trasmette, nell’altra facciata, l’autografo della “Canzona della Calunnia” di Luigi Guicciardini, e che era quasi certamente accluso a una lettera che uno dei due inviò all’altro in quel periodo, durante il quale M. era impegnato nelle operazioni dell’assedio di Pisa (cfr. Martelli 1978). Il canto degli “Spiriti beati”, che accenna a un pontefice da poco eletto, auspicando la concordia delle nazioni cristiane e il loro comune impegno contro la minaccia turca, fu scritto a ridosso o dell’elezione di Leone X (marzo 1513) o, più facilmente, di quelle di Adriano VI (gennaio 1522) o Clemente VII (novembre 1523). Il canto dei “Romiti” viene per lo più datato al 1524, quando circolarono profezie astrologiche di un imminente catastrofico diluvio, cui i versi di M. fanno ironico riferimento; ma simili pronostici erano frequenti all’epoca, e si potrebbe anche pensare al 1519-20, quando venne pubblicato, prima a Napoli e poi a Firenze, il De falsa diluvii prognosticatione di Agostino Nifo, che di lì a poco sarebbe venuto in possesso di una copia del Principe e ne avrebbe tradotto o parafrasato ampie parti nel suo De regnandi peritia (1523).
I due strambotti, e da alcuni anche la Serenata, vengono messi in relazione con una lettera di tale «V.» a M. del 24 aprile 1504, dove si accenna a certe «stanze» che il Segretario gli aveva inviato «senza musica» e che i due si proponevano di eseguire insieme «a la voce viva et a la ribeca» (Lettere, p. 98); ma potrebbe lì trattarsi anche di altri perduti componimenti in ottave. La ballata “Se avessi l’arco e l’ale” e il “Capitolo pastorale” furono assegnati agli anni giovanili (ante 1494) da Mario Martelli (1971), che li suppose indirizzati all’adolescente Giuliano de’ Medici; ma in seguito lo stesso studioso, per ragioni insieme codicologiche, stilistiche e tematiche, ritenne più plausibile spostarli ad anni assai più tardi (fra il 1515 e il 1518), identificando il dedicatario del “Capitolo” con Lorenzo il Giovane, anche in virtù dell’accenno iniziale all’«alloro» e delle lodi tributate alle virtù militari e politiche del personaggio (M. Martelli, Nota al testo a N. Machiavelli, Il Principe, a cura di M. Martelli, corredo filologico di N. Marcelli, 2006, pp. 483-87). Quanto alla ballata, la sua intonazione omoerotica (che disturbò Biagio Buonaccorsi, tanto da indurlo a mutare il sesso del destinatario, da maschile a femminile, nella copia da lui eseguita nel ms. BAV, Barber. lat. 3945, p. 247) rende improbabile l’identificazione del dedicatario con il giovane Giuliano de’ Medici, cui aveva fatto pensare l’apostrofe del v. 2 («giovanetto giulìo»).
Il sonetto “Io vi mando, Giuliano, alquanti tordi”, che accompagnava un dono di tordi a Giuliano de’ Medici, viene in genere collocato nei mesi successivi alla scarcerazione di M. (11 marzo 1513), di cui egli si dichiarò debitore allo stesso Giuliano e a Paolo Vettori (lettera a Francesco Vettori del 18 marzo 1513, Lettere, p. 237); ma il componimento non ha carattere gratulatorio, e d’altra parte la stagione della caccia ai tordi in Toscana è limitata ai mesi di ottobre e novembre. Escluso l’autunno del 1513, poiché Giuliano da maggio si era trasferito a Roma, la datazione più probabile è quella all’autunno del 1512, quando M., privato dei suoi incarichi e confinato a Sant’Andrea in Percussina, potrebbe avere inviato tordi e sonetto al figlio del Magnifico per esortarlo a ricordarsi del «pover Machiavello» (v. 3) e a non prestare orecchio alle maldicenze di cui era oggetto (vv. 15-17); a meno di non accogliere la peregrina ipotesi di chi vede nei «tordi» una coperta allusione al Principe, e nel sonetto un invito a Giuliano affinché difenda l’opuscolo dai detrattori (Fubini 1998; Jaeckel 1998; W.J. Connell, La lettera di Machiavelli a Vettori del 10 dicembre 1513, «Archivio storico italiano», 2013, 638, 4, pp. 665-723, in partic. pp. 680-83 che datano la poesia al dicembre 1513 o al gennaio 1514 o 1515).
L’epigramma (una quartina di endecasillabi a rima chiusa) “La notte che morì Pier Soderini”, che appartiene al genere dell’epitaffio satirico ‘in vita’ (cfr. Carrai 1986), potrebbe essere di poco successivo alla caduta del gonfaloniere (31 agosto 1512), ma niente vieta di assegnarlo agli anni precedenti, nei quali M. manifestò talora il suo disappunto per la politica a suo giudizio poco incisiva di Soderini. Infine, l’autografo della Serenata (BNCF, Banco Rari 240, cc. 56v-63r) va datato intorno al 1520 sulla base della grafia, ma potrebbe essere la copia più tarda di un testo composto in precedenza.
Diversamente da quelli politici, gli scritti letterari di M. (a eccezione della Mandragola, soprattutto ove se ne accogliesse la datazione al 1504) si muovono senza grande originalità nel solco della tradizione letteraria volgare e sono alieni da ambizioni sperimentalistiche. Ciò è ancor più vero per le rime, dove canoniche sono le forme metriche (sonetto, canzone, ode, ballata, madrigale, ottava, quartina, terzina, tutte praticate nel rispetto della prassi corrente), consuete le soluzioni stilistiche (lungo i due binari principali della lirica amorosa e della poesia comico-burlesca) e generalmente convenzionale il repertorio delle fonti, sia volgari sia latine. I canti si inseriscono nel fortunato filone carnascialesco che, dopo i fasti laurenziani, conobbe nuova fioritura nel periodo repubblicano, e fu coltivato anche da letterati vicini a M. quali Lorenzo Strozzi (→), Iacopo Nardi (→) e Biagio Buonaccorsi (→). M. pratica entrambi i registri tipici del genere, quello erotico (caratterizzato dal ricorso a catene di doppi sensi osceni, come nelle “Pine” e nel canto “De’ ciurmadori”) e quello celebrativo e propriamente ‘trionfale’ (come negli “Spiriti beati”, di argomento dichiaratamente politico), con relativa differenziazione metrica, posto che i canti fondati sull’aequivocum adottano la forma della ballata, mentre gli altri impiegano schemi di canzone o di ode.
I sonetti ‘comici’ e gli epigrammi rendono omaggio a quella linea burlesca, ancorata principalmente ai modelli del Burchiello e di Luigi Pulci, che impronta di sé larghi settori della produzione di M., sia in versi sia in prosa, e nella quale si inseriscono anche larghe sezioni dell’epistolario familiare: tutti testi caratterizzati dal gusto per l’allusione oscura ed enigmatica e da una forte inventiva linguistica. I componimenti lirici guardano, da un lato, a Francesco Petrarca (nel caso dei sonetti e della ballata “Se avessi l’arco e l’ale”), dall’altro, alla poesia fiorentina del secondo Quattrocento, tra Lorenzo de’ Medici, Pulci e Angelo Poliziano (nel caso dei brani in ottave, come la Serenata e gli strambotti, e del “Capitolo pastorale”), sovrapponendo però, a queste ascendenze volgari, non episodici riferimenti classici. Gli strambotti, nella forma dell’ottava lirica isolata, si segnalano per il carattere sentenzioso ed epigrammatico, ottenuto grazie a un’abile testura retorica (irta di anafore, antitesi, parallelismi), sull’esempio, oltre e ancor più che dei modelli quattrocenteschi, di autori coevi ben noti a M. quali Francesco Cei e Giuliano de’ Medici. La Serenata (rielaborazione dei miti di Pomona e Vertumno e di Anasserete e Ifi narrati nel XIV libro delle ovidiane Metamorfosi) appare assai vicina, nell’impianto, a un omologo testo polizianesco in ottave, il rispetto continuato “O trionfante sopra ogni altra bella”, che in un codice e in una stampa quattrocentesca reca il titolo di «serenata», e che allo stesso modo si configura come un’epistola in versi indirizzata a una donna affinché corrisponda l’amore del poeta.
Alcuni componimenti, nondimeno, mostrano ambizioni di ‘aggiornamento’ culturale in senso umanistico che sono proprie del M. post res perditas e che ci riconducono alle sue frequentazioni oricellarie del periodo 1514-21: più che alla Serenata (fondata su un ipotesto certo non peregrino come le Metamorfosi) mi riferisco al “Capitolo pastorale” e all’epigramma “Dell’Occasione”, entrambi in terzine. Il primo, che dietro il travestimento pastorale cela un encomio politico e cortigiano rivolto probabilmente a Lorenzo de’ Medici il Giovane, adombrato sotto il nome fittizio di «Jacinto», si ricollega alla tradizione bucolica fiorentina di età laurenziana, ma al tempo stesso denota una forte coloritura petrarchesca e classicheggiante; il secondo, dedicato a Filippo de’ Nerli (→; ma la dedica, ignota ai manoscritti, compare solo nella stampa giuntina del 1549), è libera traduzione di un epigramma di Ausonio, che certo attirò l’attenzione di M. in virtù dell’argomento (il tema dell’occasione, come si sa, è centrale nei capp. vi e xxvi del Principe) e di cui egli venne forse a conoscenza grazie all’edizione delle opere di questo poeta latino uscita a Firenze nel novembre 1517. Simili prove, comunque, sotto una vernice ‘umanistica’, rivelano persistenti e anzi predominanti ascendenze volgari e municipali, caratterizzandosi quindi per un carattere composito che è, anch’esso, tipico di certa letteratura fiorentina fra 15° e 16° sec.: basti fare il nome, ancora, di Pulci, e pensare, per es., agli ultimi cantari di un’opera notissima a M. come il Morgante.
Nell’insieme, l’aspetto più significativo delle rime risiede nella capacità machiavelliana di affrontare forme, generi e stili diversi, praticando con disinvoltura registri molteplici: cosicché questo corpus, esiguo, ma assai variegato e disposto lungo tutto l’arco della vita attiva di M. (dal giovanile sonetto al padre alle tarde rime per la Salutati), offre una specola privilegiata tanto sulla sua evoluzione intellettuale e culturale, quanto sulla sua poliedrica personalità letteraria e umana.
Salvo rare eccezioni, la circolazione di queste poesie deve essere stata limitata, se non del tutto ‘privata’: lo dimostrano il ridotto numero di testimoni a noi giunti (quasi tutti fiorentini) e la presenza non eccezionale di componimenti trasmessi esclusivamente da uno o al massimo due manoscritti. Tutto ciò, unito al carattere estemporaneo di molti testi, fa supporre che alcune rime siano andate disperse e che altre possano essere ancora ritrovate (come è accaduto anche di recente). In autografo sono pervenuti unicamente il “Canto de’ ciurmadori”, la Serenata e l’ottava di san Torpè, ma solo la seconda è trasmessa in pulito da un codice, mentre gli altri due pezzi sono affidati, come già detto, a supporti occasionali. Nessuna delle rime reca tracce di elaborazione redazionale; le cospicue varianti presenti nella tradizione dell’epitaffio di Soderini e della pasquinata devono attribuirsi alla natura di simili testi e alle modalità della loro diffusione (in forma non di rado adespota e anepigrafa), mentre nel caso del primo dei sonetti dal carcere ci troviamo di fronte a moderni rimaneggiamenti dettati da scrupoli censòri.
Soltanto il canto dei “Diavoli iscacciati di cielo” fu pubblicato vivente M., in una stampa fiorentina di laudi databile fra il 1507 e il 1515. Pochi altri testi sono stati editi nel 16° sec., dopo la morte di M. (il madrigale “Amor, i’ sento l’alma”, musicato da Philippe Verdelot (→), nel Secondo libro de’ madrigali del compositore francese, apparso nel 1534; l’epigramma “Dell’Occasione”, insieme ai Capitoli, ai Decennali, all’Asino e alla novella, nella giuntina del 1549; i canti, eccetto quello “De’ ciurmadori”, nella stampa di trionfi e canti carnascialeschi curata da Antonfrancesco Grazzini, detto il Lasca, a Firenze nel 1559); per gran parte dei restanti bisogna attendere il 6° volume dell’edizione Cambiagi delle Opere (1782-1783). Nell’Ottocento videro poi la luce i due sonetti dal carcere (nel romanzo Luisa Strozzi di Giovanni Rosini, del 1832-1833, e nella monografia Machiavel, son génie et ses erreurs di Alexis-François Artaud de Montor del 1833); il sonetto dei tordi (nella Serie de’ testi di lingua stampati che si citano nel Vocabolario degli accademici della Crusca, a cura di G. Poggiali, 1° vol., 1813, p. 205) e quello al padre (in P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi illustrati con nuovi documenti, 3° vol., 1882, pp. 414-15).
Un cenno meritano i sonetti dal carcere, a lungo letti sul fondamento di testimoni ottocenteschi poco affidabili (una copia di Tommaso Gelli, datata 1824 e a suo dire ricavata da un autografo oggi irreperibile; le edizioni di Rosini e Artaud, cui i sonetti furono comunicati da Giuseppe Aiazzi, che a sua volta li avrebbe desunti dall’autografo), nei quali il testo del primo fu ritoccato per attenuare la devozione medicea di M. e la sua beffarda irriverenza verso i capi della congiura condannati a morte. Gli editori del 20° sec. hanno dato generalmente fiducia alla copia Gelli, ma Francesco Bausi e Antonio Corsaro (2010; donde poi l’ed. curata da Corsaro e Marcelli del 2012) hanno ristabilito il testo sulla base dei due manoscritti del 16° sec. (BAV, Vat. lat. 5225; BNCF, Magliab. VII 727), che consentono di recuperare la lezione originaria dei sonetti.
In età moderna, il corpus delle rime è stato fissato – quanto a testo, struttura e ordinamento – da Mario Casella (Tutte le opere storiche e letterarie di Niccolò Machiavelli, a cura di G. Mazzoni, M. Casella, 1929, pp. 854-72); nel 2012 è uscita la già citata edizione curata da Corsaro e Marcelli, che introduce alcune rilevanti novità, stabilendo, anche con l’ausilio di testimoni prima ignoti, un nuovo testo critico corredato da ampia annotazione, proponendo un diverso ordinamento (su base insieme metrica, tematica e di genere) e facendo posto, in calce, anche alle due poesie di incerta attribuzione.
Bibliografia: N. Machiavelli, Canti carnascialeschi e Rime varie, a cura di A. Corsaro, N. Marcelli, in Id., Scritti in poesia e in prosa, coord. di F. Bausi, Roma 2012, rispettiv. pp. 221-89, 534-92.
Per gli studi critici si vedano: M. Martelli, Preistoria (medicea) di Machiavelli, «Studi di filologia italiana», 1971, 29, pp. 377405; M. Martelli, Un nuovo autografo di Niccolò Machiavelli, «Studi di filologia italiana», 1978, 36, pp. 407-17; S. Carrai, Machiavelli e la tradizione dell’epitaffio satirico fra Quattro e Cinquecento, «Interpres», 1986, 6, pp. 200-13 (poi, con titolo diverso, in Id., I precetti di Parnaso. Metrica e generi poetici nel Rinascimento italiano, Roma 1999, pp. 155-66); R. Fubini, Postilla ai ‘tordi’, «Archivio storico italiano», 1998, 156, 1, pp. 93-96; H. Jaeckel, I ‘tordi’ e il ‘principe nuovo’. Note sulle dediche del Principe di Machiavelli a Giuliano e a Lorenzo de’ Medici, «Archivio storico italiano», 1998, 156, 1, pp. 73-92; M. Martelli, Machiavelli politico amante poeta, «Interpres», 1998, 17, pp. 211-56 (poi in Id., Tra filologia e storia. Otto studi machiavelliani, a cura di F. Bausi, Roma 2009, pp. 128-70); E. Scarpa, Un ‘poeta’ in ‘geti’. I sonetti dal carcere di Machiavelli a Giuliano de’ Medici, in Testi cinquecenteschi sulla ribellione politica, a cura di G.P. Marchi, Verona 2005, pp. 139-60; C. Caruso, Niccolò Machiavelli, Capitolo dell’Occasione, in Filologia e storia letteraria. Studi per Roberto Tissoni, a cura di C. Caruso, W. Spaggiari, Roma 2008, pp. 141-51; A. Corsaro, Intorno a un’ottava (ignorata) forse di Niccolò Machiavelli, «Interpres», 2009, 28, pp. 268-74; F. Bausi, A. Corsaro, Un capitolo della fortuna ottocentesca di Machiavelli: i sonetti dal carcere a Giuliano de’ Medici. Testo e commento, «Interpres», 2010, 29, pp. 96150; A. Decaria, Un nuovo epigramma attribuibile a Machiavelli in una miscellanea poetica di Lorenzo Strozzi, in La via al Principe: Machiavelli da Firenze a San Casciano, a cura di S. Alessandri, F. De Luca, F. Martelli, F. Tropea, catalogo della mostra, Firenze, Biblioteca nazionale centrale, 10 dic. 2013 - 28 febbr. 2014, Rimini 2013, pp. 181-82.