Rime
Tradizione del testo. - La qualità della trasmissione del testo delle R., così come si è andata effettuando nel corso dei secoli, e proprio per la circostanza di partenza (che cioè D. non provvide mai a costituire un suo ‛ canzoniere ' in modo organico, e nemmeno parte di esso, se non quanto entrò a far parte della Vita Nuova), consiglia che nella presente Enciclopedia Dantesca il problema vada trattato nelle voci relative ai componimenti più rilevanti dal punto di vista ecdotico; a ciò impegna anche l'assenza dell'edizione critica, in via di preparazione, nella Edizione Nazionale della Società. Dantesca Italiana, per le cure di D. De Robertis (vedi in bibliografia le varie voci del suo Censimento, e gli scritti più importanti sulla questione: del Barbi, del Pernicone, del Contini, dello stesso De Robertis).
La diffusione extravagante inizia già vivente l'autore, addirittura nella sua età giovanile, con la testimonianza resa dal notaio Enrichetto delle Querce, nel 1287, del sonetto Non mi poriano già mai fare ammenda, e con quella poco successiva, del 1292, del notaio Pietro di Allegranza, relativa a un frammento della canzone Donne ch'avete intelletto d'amore. Tra gli antichi canzonierisolo il Vaticano lat. 3793 reca in aggiunta una rima di D., e cioè la stessa Donne ch'avete. Successiva, ma di grande rilievo ai fini della costituzione del testo, è la tradizione cosiddetta veneta, rappresentata dal Barberiniano lat. 3953 (già XLV 47), dall'Escorialense e. III. 23 con la sua ricca derivazione, tra cui il Marciano ital. IX 191; di Antonio Isidoro Mezzabarba; non meno importante, e del tutto autonoma rispetto alla veneta, è la trasmissione toscana, testimoniata dal Chigiano L VIII 305, dal Trivulziano 1058, dal Vaticano lat. 3214, dalla raccolta Bartoliniana, dal codice (perduto) di Lodovico Beccadelli. Più tarda, e fonte di numerosissima traditio, la silloge che il Boccaccio fece di varie canzoni, in numero di quindici, accanto alla Vita Nuova e alla sua Vita di D.; le quindici canzoni della raccolta boccaccesca sono le seguenti (secondo la numerazione dell'edizione Barbi nel testo del 1921): CIII, LXXIX, LXXXI, LXXXII, XC, XCI, CI, CII, C, LXII, LXXXIII, L, CIV, CVI, CXVI, cioè, nell'ordine, Così nel mio parlar voglio esser aspro, Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete, Amor che ne la mente mi ragiona, Le dolci rime d'amor ch'i' solia, Amor, che movi tua vertù dal cielo, Io sento sì d'Amor la gran possanza, Al poco giorno e al gran cerchio d'ombra, Amor, tu vedi ben che questa donna, Io son venuto al punto de la rota, E' m'incresce di me sì duramente, Poscia ch'Amor del tutto m'ha lasciato, La dispietata mente, che pur mira, Tre donne intorno al cor mi son venute, Doglia mi reca ne lo core ardire, Amor, da che convien pur ch'io mi doglia (il testo boccaccesco autografo delle quindici canzoni è nel Toledano 104 6 e nel Chigiano L V 176). La trasmissione si allarga e s'incrocia nei codici tardo-trecenteschi e quattrocenteschi (tra i quali gioverà citare quelli derivati dalla Raccolta Aragonese), infine nei cinquecenteschi, come il Casanatense 443. Una tradizione in parte autonoma ha la ‛ tenzone ' di D. con Forese; altrettanto può dirsi per il testo delle tre canzoni entrate nel Convivio.
La prima apparizione di Rime nelle stampe (ove si eccettuino, com'è ovvio, le edizioni del Credo, dei Sette Salmi penitenziali, dell'Ave Maria, del Pater noster, dei Sette peccati mortali, insomma degli apocrifi danteschi o degli excerpta) si ha all'interno delle Rime di Cino da Pistoia, nell'edizione milanese di Agostino da Vimercate, del 1518, e nell'antologia Rime antiche, dello stesso anno, pubblicata presso Guglielmo da Monferrato. Ben più importante, sia per il testo dantesco, che per l'intera tradizione della lirica toscana, è la cosiddetta ‛ Giuntina di Rime antiche ', e cioè: Sonetti e Canzoni / di diversi / antichi Autori Toscani / in dieci libri raccolte, Firenze, Filippo Giunti, 1527, ristampata o antologizzata nel corso del Cinquecento (da Giovanni Antonio da Sabio, a Venezia, nel 1532; ancora a Venezia e dallo stesso nel 1534, in una scelta intitolata La Spada di D.A.). Nel Seicento non si hanno edizioni delle Rime, e occorre giungere sino al 1718 (Bologna, Pisarri), alla ristampa della Giuntina nel 1727, ai cinque libri di Sonetti, canzoni e ballate di D.A., Venezia, Cristoforo Zane, 1731, e a varie altre stampe.
Tra le edizioni ottocentesche emergono la stampa di Nicolò Bettoni, di Brescia, nel 1810; il Canzoniere annotato e illustrato da P. Fraticelli, Firenze 1856; le Rime con le note di L.M. Rezzi, Imola 1883; l'edizione a cura di E. Moore (Il Canzoniere, I sette salmi, La professione di fede, Oxford 1894, nell'edizione di tutte le Opere, ristampata poi dal Toynbee, 1904). Il problema del testo sarà affidato dalla Società Dantesca Italiana alle cure del Barbi, che nel 1921 appresterà la sua edizione nel volume centenario delle Opere (v. oltre) e attenderà a lungo a una rielaborazione critica di essa e a un'edizione commentata, con la collaborazione di F. Maggini per le Rime della Vita Nuova e della giovinezza (Firenze 1956) e di V. Pernicone per le Rime della maturità e dell'esilio (ibid. 1969). Di fondamentale valore è anche l'edizione a c. di G. Contini (Torino 1939, ristampata nel 1946 e nel 1965); altre pregevoli edizioni per il commento sono quelle di G. Zonta, Torino 1925; L. Di Benedetto, ibid. 1928; M. Scherillo, Milano 1930; D. Mattalia, Torino 1943; A. Del Monte, Milano 1960; A. Pézard, Parigi 1965 (nelle Oeuvres complètes della " Pléiade "); M. Pazzaglia, Bologna 1966; particolarmente ricco è il commento di P. Boyde e K. Foster nei due volumi di Dante's Lyric Poetry, Oxford 1967.
Titolo. - Col titolo di Rime - prevalso ormai su quello di Canzoniere che ebbe notevole fortuna nel sec. XIX a partire dall'edizione londinese del Lyell nel 1835 (The Canzoniere of D.A.) e nei primi due decenni del sec. XX fino all'edizione del testo critico di tutte le opere di D. del '21, nella quale Vita Nuova e R. furono curate da M. Barbi - si indica l'insieme dei componimenti in versi di vario metro (canzoni, sonetti, ballate) prevalentemente di argomento amoroso, composti da D. durante l'arco di tempo di un venticinquennio, dal 1283 al 1308. Il titolo di Canzoniere non era dispiaciuto allo stesso Barbi, autore nel 1915 di un volume intitolato Studi sul Canzoniere di D., ed estensore della Prefazione nell'edizione del '21, dove la parte del discorso dedicata alle R. comincia esattamente così: " Il Canzoniere era fra le opere di Dante ", ecc. Come giustamente è stato osservato dal Contini, " alla cinquecentesca accezione di canzoniere, involontariamente s'associa, dopo l'esperienza petrarchesca, l'idea di un'opera unitaria " in cui vigono determinate esigenze di costruzione psicologica e stilistica non rintracciabili nell'insieme delle rime di Dante. Poiché D. fece nella Vita Nuova (1292-93) una scelta delle rime fino allora composte, ordinandole in modo da testimoniare col sussidio di un discorso in prosa l'ispirazione unitaria connessa col rinnovamento spirituale operato in lui dall'amore per Beatrice prima e dopo la sua morte, si pone il problema se le rime comprese nella Vita Nuova siano da considerare per quello che rappresentano nel loro testo poetico al di fuori della suggestione della prosa insieme con le altre rimaste fuori, oppure considerare solo queste ultime e lasciare le prime alla loro funzione di parte integrante della Vita Nuova. Il medesimo problema si affaccia per le tre canzoni commentate nel Convivio rimasto interrotto al quarto trattato e che nei propositi di D. avrebbe dovuto prolungarsi per altri undici trattati col commento di altre undici canzoni sì d'amor come di vertà materiate (Cv I 114). Dall'edizione del '21 appare chiaro l'intento del Barbi che l'insieme delle R. debba comprendere anche le poesie della Vita Nuova e le tre canzoni del Convivio. Ed è una proposta ragionevole ai fini di un'interpretazione di quelle poesie svincolata da possibili suggestioni dell'autore maturate in tempi diversi da quelli della loro composizione.
Ordinamento. - Il Barbi nel giustificare l'ordinamento delle R. nell'edizione del '21 aveva le sue buone ragioni nel denunziare la pessima confusione che regnava nelle edizioni precedenti, dov'erano " accolte senza alcun dubbio poesie che appartengono ad altri autori, e sospettate le più sicure; accozzate le une e le altre più che ordinate, oppure materialmente disposte secondo il genere metrico ". In tali condizioni si presentavano non solo edizioni considerate autorevoli della prima metà del sec. XIX come quelle del Witte e del Fraticelli, ma anche edizioni della seconda metà (Giuliani, Serafini, Moore) e dei primi due decenni del Novecento (Santi, Cossio). Bisogna dire, però, che non erano mancati, a cominciare dal saggio del Carducci (Delle R. di D., 1865-74), studi rivolti a prospettare possibilità di ordinamento per il complesso delle rime o per gruppi di esse. In tal senso importanti contributi avevano dato, insieme con lo stesso Barbi, il Parodi, il D'Ancona, il Torraca, lo Zingarelli e, in modo particolare, il Lamma che nel 1914 aveva dato alle stampe un opuscolo intitolato Sull'ordinamento delle R. di D., che in buona parte si avvicina a quello che sarà stabilito dal Barbi, fondato sul criterio cronologico. Nell'ordinamento del Barbi le rime della Vita Nuova costituiscono il primo libro, dove sono disposte col medesimo ordine (I-XXXVIII), seguite dalle altre rime del tempo della Vita Nuova (libro secondo: XXXIX-LXXII), che bisogna considerare cronologicamente parallele a quelle del libro precedente. Anche per la collocazione dei sonetti della tenzone con Forese Donati che costituiscono il terzo libro (LXXIII-LXXVIII) è sottinteso un certo margine elastico di possibilità cronologiche, anteriori, ovviamente, alla morte di Forese (1296), ma senza escludere tempi anteriori alla composizione della Vita Nuova. Il titolo del quarto libro (" Rime allegoriche e dottrinali "), che comprende le tre canzoni commentate nel Convivio, la ballata Voi che savete, la canzone Poscia ch'Amor e i due sonetti Parole mie e O dolci rime (LXXIX-LXXXV), presuppone il saldo e mai venuto meno convincimento del Barbi che D., poco tempo dopo la composizione della Vita Nuova, compose rime originariamente allegoriche nelle quali, sotto la finzione di un amore per donna reale, cantò l'amore per la Filosofia, e che tali rime comprendono soltanto le canzoni Voi che 'ntendendo e Amor che ne la mente, la ballata Voi che savete e i due sonetti sopra ricordati. Si accetti o no l'opinione del Barbi sulla questione dell'allegoria, l'ordinamento cronologico delle rime del quarto libro e di quelle dei due seguenti (libro quinto: " Altre rime d'amore e di corrispondenza ", LXXXVI-XCIX; libro sesto: " Rime per la donna pietra ", C-CIII) rimane egualmente ben fondato entro l'arco di tempo 1293-98. Nel settimo e ultimo libro sono comprese rime varie del tempo dell'esilio (CIV-CXVII): le canzoni Tre donne, Doglia mi reca e Amor da che convien, e sonetti vari tra i quali un buon numero sono di corrispondenti. L'ultimo limite cronologico sicuro è quello della canzone Amor da che convien, composta fra il 1307 e il 1308. I due sonetti con i quali il libro si chiude, Per quella via di D. e la risposta per le rime di messer Aldobrandino Mezzabati, altra volta il Barbi aveva ritenuto che fossero del tempo della Vita Nuova, quando il Mezzabati era stato capitano del popolo a Firenze (1291-92); ma in seguito gli parve che non si potesse escludere che con quel sonetto D. partecipasse a una corrispondenza poetica con Giovanni Quirini e altri rimatori dell'Italia settentrionale durante gli ultimi anni dell'esilio. È opinione si può dire generale degli studiosi di D. che i due sonetti siano da collocare fra le rime del tempo della Vita Nuova.
Per le rime di dubbia autenticità il cui testo si legge in apposita Appendice (I-XXX), il Barbi si mostra poco propenso a optare per l'autenticità. Solo per alcune di esse (i sonetti Amore e monna Lagia, Deh piangi meco, Sennuccio, la tua poca personuzza, Iacopo i' fui; la ballata In abito e il discordo Aï faux ris) ritenne meno improbabile l'autenticità.
L'ordinamento proposto dal Barbi, a parte dissensi particolari per questa o quella poesia o per qualche gruppo di esse, è ritenuto valido nelle sue linee fondamentali dalla maggior parte degli studiosi. Una conferma è venuta recentemente da parte del Foster e del Boyde i quali, per la loro edizione delle R. nel testo originale e con la traduzione in lingua inglese e relativo commento (1967), hanno sottoposto ad attenta revisione l'ordinamento del Barbi. A parte alcuni mutamenti di carattere esteriore, quali l'abolizione della distinzione in libri e l'eliminazione del numero d'ordine progressivo per le rime dei corrispondenti (così si spiega il fatto che nell'edizione del Barbi si raggiunge il n. CXVIII e in quella di Foster e Boyde il n. 89), la differenza più importante riguarda il maggior numero di poesie ritenute allegoriche con l'inclusione delle rime d'amore comprese nel libro quinto dell'edizione del '21, e conseguente spostamento delle due canzoni dottrinali sistemate subito dopo le canzoni Amor, che movi (XC) e Io sento sì d'Amor (XCI).
Rime del decennio 1283-93. - Intorno ai diciott'anni, cioè nel 1283, D. era già esperto nell'arte di comporre versi in volgare, di dire parole per rima, come egli stesso dice nel terzo capitolo della Vita Nuova, ed è molto probabile, sia o non sia da considerarsi come sua prima prova il sonetto A ciascun'alma presa e gentil core, con cui si apre l'ordine delle rime della Vita Nuova, che egli abbia cominciato appunto con rime di corrispondenza con altri rimatori del suo tempo, su questioni o argomenti amorosi sul tipo di quelli trattati nei sonetti che il giovane Alighieri scambiò con l'anziano rimatore Dante da Maiano. Il noviziato di D. alla poesia amorosa, e quello del suo un po' meno giovane amico Guido Cavalcanti avveniva in quel penultimo decennio del secolo XIII in cui Guittone d'Arezzo esercitava ancora in Toscana un'influenza da caposcuola che durava da circa un trentennio, e divenuta sempre più efficace via via che si andava esaurendo l'ondata della scuola poetica siciliana, condizionata dalla presenza della corte sveva in Italia.
Le rime di Guittone che più avevano fatto scuola erano quelle anteriori alla conversione, in grandissima parte di argomento amoroso, secondo moduli siculo-provenzali; ma negli anni ottanta del sec. XIII, da circa un ventennio, diventato fra Guittone dell'ordine dei gaudenti, egli aveva ritrattato le sue rime d'amore profano, che considerava velenose e mortali, come dice apertamente in un sonetto al fiorentino Monte Andrea. Nelle rime ascetiche e morali a cui fra Guittone si era dedicato dopo la conversione, ricorre frequentemente il motivo della follia di chi pone la sua voglia in amore. D., e possiamo dire anche Guido, assumono subito una posizione antiguittoniana sia per l'esclusione dai loro interessi poetici dei temi morali cari a fra Guittone, esclusione che si estendeva anche alla poesia d'ispirazione etico-politica del Guittone anteriore alla conversione, sia per il rifiuto e la condanna, da parte di Guittone, della poesia amorosa. Il poeta più famoso e autorevole del tempo veniva automaticamente escluso dalla cerchia dei Fedeli d'Amore. È più che probabile che quando D. nel capitolo XXV della Vita Nuova, dopo aver detto che il primo che cominciò a dire come poeta volgare fu spinto a farlo perché la donna a cui si rivolgeva, incapace di capire versi in latino, potesse intendere le sue parole, se ne esce col perentorio ammonimento a tutti i rimatori (questo è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa, § 6), il sottinteso polemico è contro Guittone. Certo nell'antiguittonismo di D. e dei suoi amici ci sono anche i motivi che concernono gli aspetti formali del linguaggio, e su di essi punterà nel De vulgari Eloquentia e nel canto XXVI del Purgatorio (nell'episodio di Bonagiunta i motivi sono ancora diversi), ma allora D. avrà superato da un pezzo il pregiudizio che si legge nella Vita Nuova, e nel De vulgari Eloquentia citerà sé stesso come esempio di poeta della rettitudine.
Qualunque tentativo per una storia delle rime di D. con la ricerca delle occasioni determinanti di ciascuna di esse non può non tener conto del fatto che per le rime composte nel decennio 1283-1293 D. stesso ha fatto la storia ordinando una scelta antologica di esse ai fini di un libro, la Vita Nuova, dove la parte in prosa dà la testimonianza della sua ispirazione unitaria che muove da uno stato di commossa esaltazione per la scoperta definitiva, da parte del poeta, del meraviglioso rinnovamento spirituale che in lui aveva operato nel passato e continuava a operare nel presente l'amore per Beatrice. Si ha così una serie di rime di vario metro ordinate dall'autore nella Vita Nuova, e una serie di rime, anch'esse di vario metro, rimaste fuori dal libretto, ma del medesimo periodo di tempo.
Dalla prima poesia che nella Vita Nuova appare sicuramente composta per Beatrice (Ballata, i' voi che tu ritrovi Amore, XII), nella quale il poeta, protestando che il suo amore per madonna non è mai venuto meno, chiede pietà per gli sguardi apparentemente rivolti ad altra donna, alla matera nuova, che avrà inizio con la canzone Donne ch'avete intelletto d'amore (XIV), l'intervallo è occupato da quattro sonetti che s'iscrivono con tutta evidenza nell'ambito di un'esperienza modellata sui toni angosciosi dell'espressione poetica di Guido Cavalcanti. Gli aspetti dolorosi della poesia di Guido esercitarono in realtà una suggestione più estesa di quella che risulta dalla Vita Nuova, dove non furono accolte non solo le due canzoni E' m'incresce di me sì duramente (LXVII) e Lo doloroso amor che mi conduce (LXVIII) che, per il fatto di essere canzoni, avrebbero preso campo eccessivo, forse, per le intenzioni di D. nell'economia del libretto, ma anche i due sonetti De gli occhi de la mia donna si move (LXV) e Ne le man vostre, gentil donna mia (LXVI), che avrebbero offerto un elemento narrativo di passaggio ai toni decisamente più cupi e più drammatici dei sonetti della Vita Nuova. Ma ancor più significativo, sempre ai fini della Vita Nuova, è il poco spazio che vi ha l'esperienza brillante dell'amore cortese, lo slancio giovanile verso il culto della bellezza e della grazia femminile prima di essere concentrato in Beatrice. Le certe cosette per rima che D. dice di aver composto per la prima donna-schermo con la quale celò il suo amore per Beatrice alquanti anni e mesi saranno lasciate tutte fuori del libretto, salvo qualcuna in cui sia possibile intravedere una pretesa indiretta allusione a Beatrice, come nel sonetto O voi che per la via d'Amor passate, e nei due seguenti Piangete amanti poi che piange Amore e Morte villana di pietà nemica composti per la morte di una donna giovane e di gentile aspetto molto (di particolare efficacia nel sonetto Morte villana la protesta per la distruzione operata dalla morte della bellezza, della cortesia, della virtù nel fiore della giovinezza). Più schiettamente l'esperienza dell'amore cortese è rappresentata dal sonetto Cavalcando l'altr'ier per un cammino, che la prosa ci dice composto per l'intervento di Amore che, prolungandosi oltre il previsto l'assenza della prima donna schermo, suggerisce al poeta un nuovo simulato amore in difesa del vero amore per Beatrice. Considerato in sé, il sonetto esprime con grazia e disinvoltura la levità sentimentale con cui il poeta passa da uno ad altro amore. Anteriori alle rime della matera nuova sono con ogni probabilità alcune rime rimaste fuori della Vita Nuova, che riflettono l'esperienza mondana dell'amore cortese e ci danno un'immagine più ariosa e scoperta del nostro poeta nell'età giovanile. Fuori dalla suggestione della prosa della Vita Nuova anche l'amore per Beatrice s'inserisce nella corrente dell'amore cortese che continuava ad avere il suo codice nel De Amore di Andrea Cappellano. Rime come Per una ghirlandetta (LVI), Guido i' vorrei che tu e Lapo ed io (LII), Deh, Violetta, che in ombra d'Amore (LVIII), insieme coni sonetti Volgete li occhi a veder chi mi tira (LIX), Deh, ragioniamo insieme un poco Amore (LX), Sonar bracchetti e cacciatori aizzare (LXI) testimoniano quel primo entusiasmo lirico che si accompagnò all'amicizia di Guido Cavalcanti, la cui poesia risentiva già della lezione di Guido Guinizzelli, che da Bologna aveva additato la via del rinnovamento rispetto alla lirica di Guittone e dei suoi seguaci. È così che D. può affrontare l'esperienza poetica dell'amore cortese quasi in stato di grazia, con facilità, aderendo d'istinto al gusto raffinato e aristocratico di Guido.
Dall'amore cortese con e senza Beatrice, all'amore doloroso con Beatrice sulla scia della forte personalità di Guido, la poesia di D. sembra ormai chiusa a possibilità di sviluppi originali, come egli stesso avverte nella prosa della Vita Nuova (credendomi tacere e non dire più) quando gli convenne ripigliare matera nuova e più nobile che la passata. Da questo momento la sostanza lirica delle rime della Vita Nuova si trasferisce spesso nella rievocazione della prosa formando quell'unità fra i due piani che finora era mancata al libretto.
La canzone Donne ch'avete intelletto d'amore porta in sé stessa i segni di un rinnovamento della poesia di D., la cui emozione lirica per la scoperta della matera nuova e del nuovo stile (lo stilo de la loda) conserva mirabilmente la sua intensità dalla canzone, la cui durata pare al poeta che non potrà accogliere tutta la pienezza degli affetti del suo cuore (Non perch'io creda sua laude finire), ai sonetti Ne li occhi porta la mia donna Amore, Io mi senti' svegliar dentro a lo core, Tanto gentile e tanto onesta pare, Vede perfettamente onne salute, che con essa costituiscono il nucleo più omogeneo di un'ispirazione con resa artistica fra le più elevate della lirica dantesca prima della Commedia.
Consapevole già nella Vita Nuova di quel che doveva al Guinizzelli (si badi al sonetto Amor e 'l cor gentil sono una cosa, posto subito dopo la canzone Donne ch'avete) per il rinnovamento della sua poesia, D. collocherà più tardi, nelle terzine del canto XXIV del Purgatorio, questa sua renovatio in più ampia prospettiva di storia letteraria come emblema di quel dolce stil novo che, movendo dal Guinizzelli e dal Cavalcanti, nella matera nuova e nello stilo de la loda di D. aveva trovato la caratterizzazione più decisa per lasciare al di qua di esso il Notaro e Guittone e Bonagiunta e altri.
A questo punto della Vita Nuova noi avvertiamo che D. ha toccato il colmo della sua più nobile materia: il vero amore che è fine a sé stesso, che ha in sé il suo premio, la beatitudine " che è l'amore di Beatrice, la contemplazione di lei, le lodi di lei " (De Robertis), Beatrice come fine della Vita Nuova, e non come mezzo per aiutare il suo fedele alla contemplazione di Dio. Ne è una conferma la collocazione della canzone del presentimento della morte di Beatrice, Donna pietosa, al centro delle rime de la loda, dove lo sbigottimento per l'evidenza di un avvenimento ritenuto impossibile si risolve nella beatitudine della contemplazione dell'ascesa al cielo dell'anima di Beatrice fra il tripudio degli angeli e la serena invocazione del poeta alla morte perché vada da lui che non ha più nessun motivo di temerla essendo stata nella sua donna. Dopo la morte vera di Beatrice, tanto le rime che la riguardano (compresa la canzone Li occhi dolenti) quanto la prosa non nascondono i segni di una stanca ispirazione.
Una situazione nuova e per alcuni aspetti drammatica rivelano i quattro sonetti dell'episodio della Donna pietosa e gentile (Vn XXXV-XXXVIII). Il testo poetico dei sonetti dice della progressiva simpatia che D. provò per una giovane donna che gli pareva lo guardasse pietosamente per consolarlo del dolore per la morte di Beatrice, fino al punto che il suo cuore pareva ormai disposto a consentire al nuovo amore. Nella prosa D. ci fa sapere che quella giovane donna gli apparve la prima volta alquanto tempo dopo il primo annuale della morte di Beatrice, e che egli a poco a poco cominciò a dilettarsi troppo di vederla; ma una visione della gloriosa Beatrice lo fece pentire di quel desiderio malvagio e vana tentazione, restituendolo alla fedeltà dalla quale non avrebbe dovuto allontanarsi. Siamo verso la fine del libretto che, dopo il sonetto Oltre la spera, si chiude col capitolo XLII in cui D. promette, essendogli apparsa una mirabile visione, di prepararsi per potere più degnamente trattare di Beatrice, sperando di dicer di lei quello che mai non fue detto d'alcuna. Né il testo dei sonetti né quello della prosa propongono difficili problemi d'interpretazione dell'episodio della Donna pietosa, tanto esso è chiaro e lineare nel suo svolgimento. Delle sue possibili implicazioni con la questione delle rime allegoriche si dirà più avanti.
La tenzone con Forese Donati. - I dati cronologici obiettivi concernenti i tre sonetti della tenzone che D. scambiò con Forese ci consentono di determinare il tempo della loro composizione: dopo la morte del padre, avvenuta poco prima del 1283, e prima della morte di Forese (1296). Secondo il Barbi, i limiti potrebbero essere ristretti fra il 1290 e il 1296, e secondo studiosi più recenti, fra i quali il Contini, fra il 1293 e il 1296. Il peso forse eccessivo di cui è stata caricata questa tenzone ha una sua prima manifestazione nella tradizione dei dubbi sulla sua autenticità, che ebbe un rappresentante fra i più rigidi in Domenico Guerri che voleva " liberare il nome di Dante da questa brutta lebbra "; e una preoccupazione analoga non è stata forse estranea alla più recente proposta del Chiappelli d'interpretare il testo della tenzone in chiave retorica di " vituperai iocosa, cioè della lode alla rovescia, l'antifrasi ". Un'altra manifestazione che ha fondamenti meno labili è stata quella di presentarla come testimonianza del traviamento di D. dopo la morte di Beatrice. Interessante ma bisognosa di prove più sicure è la tesi che la tenzone sarebbe un'importante testimonianza del richiamo alla vita e alla realtà politica, morale e sociale della sua città " dopo il ripudio della Firenze vanificata e stilizzata della Vita Nuova " (Manti). Bisogna pur pensare che i sonetti della tenzone sono occasionali, su misura alle botte di risposta dell'amico avversario. L'ipotesi della collocazione della tenzone in epoca posteriore al 1293 è soltanto una delle possibili perché non esistono motivi incontestabili per escludere la contemporaneità alle rime della lode per Beatrice o alla stesura della Vita Nuova. Ma in qualunque tempo sia stata composta, è pur sempre uno scherzo in rima, anche se cominciato pesantemente da D. col ridicolo versato sulla moglie di Forese (La tosse, 'l freddo e l'altra mala voglia / no l'addovien per omor ch'abbia vecchi, / ma per difetto ch'ella sente al nido, LXXIII 9-11), e continuato senza esclusione di colpi dall'una parte e dall'altra. Certo, e in questo la concordia è generale, è una prova di linguaggio realistico e violento che non è stato senza efficacia nella più matura esperienza letteraria e stilistica delle rime petrose (per una più ampia trattazione dell'argomento, v. TENZONE).
Rime posteriori alla Vita Nuova e anteriori all'esilio. - Dell'esistenza di un gruppo di poesie d'amore per una giovane donna cominciate con la canzone Voi che 'ntendendo si ha testimonianza certa e insospettabile perché del medesimo periodo di tempo del sonetto Parole mie che per lo mondo siete (LXXXIV), dove D., rivolgendosi appunto alle rime che nacquero dal momento in cui cominciò a dir Voi che 'ntendendo il temo ciel movete, le esorta ad andare dalla donna amata per dirle che il loro numero non crescerà perché in lei non c'è Amore. L'individuazione di alcune di tali rime sarebbe stata possibile anche senza l'altra testimonianza di parecchi anni dopo nel Convivio, dove D. afferma che con la canzone Voi che 'ntendendo, composta circa tre anni dopo la morte di Beatrice (e, quindi, nell'agosto del 1293), cominciò a esprimere un suo nuovo amore, ma non per donna reale, come potrebbe sembrare stando al solo senso letterale, bensì per la Filosofia immaginata come donna consolatrice della sua afflizione per la morte di Beatrice (Cv II XIII 8). Sempre per la Filosofia, conferma D. in altro luogo del Convivio, furono composte una ballata che si può agevolmente identificare con Voi che savete (LXXX), la canzone Amor che ne la mente e altre non precisate canzoni d'amore che saranno commentate appunto per svelarne il senso allegorico. È importante rilevare che fino a questo punto, a parte la questione dell'allegoria, le affermazioni di D. nel Convivio non contrastano col contenuto del sonetto Parole mie che dalla canzone Voi che 'ntendendo fa cominciare il gruppo di rime composte per amore di una donna dopo la morte di Beatrice, ma con implicita distinzione dall'amore per la Donna pietosa della Vita Nuova conclusosi rapidamente col pentimento del poeta che intendeva ritornare alla fedeltà verso il ricordo di Beatrice. Ma quel che pareva un'implicita distinzione dei due amori si dissolve quando, in un altro passo del Convivio (II II 1), D. dice che questa Donna gentile-Filosofia è la medesima Donna pietosa della Vita Nuova, l'unico secondo amore dopo quello per Beatrice. Non è possibile conciliare le contraddizioni che ne derivano.
La soluzione prospettata dal Barbi - che restringe il numero delle rime allegoriche alle due canzoni Voi che 'ntendendo e Amor che ne la mente, alla ballata Voi che savete e ai due sonetti Parole mie e O dolci rime (LXXXV), tutte posteriori alla composizione della Vita Nuova, nella quale l'episodio della Donna pietosa è accettato come reale e senza nessun intento allegorico - è intermedia fra i negatori di qualsiasi senso allegorico originario, e gli allegoristi integrali che accettano il senso allegorico in tutte le poesie d'amore a partire da Voi che 'ntendendo. È largamente accolta fra gli studiosi di D., ma la questione rimane aperta. Sul piano della storia della poesia di D. in questo limitato gruppo di rime che diciamo allegoriche, c'è da dire, almeno per le due canzoni, che D. era convinto della bellezza di Voi che 'ntendendo, che si chiude col verso Ponete mente almen com'io son bella, la quale bellezza, come si spiega nel Convivio, è grande sì per construzione, la quale si pertiene a li gramatici, sì per l'ordine del Sermone, che si pertiene a li rettorici, sì per lo numero de le sue parti, che si pertiene a li musici, e si tenga presente che è citata da Carlo Martello nel cielo di Venere, ma è anche vero che è intessuta dei medesimi motivi e con la medesima forma dialogica che si ritrovano nel terzo e quarto sonetto dell'episodio della Donna pietosa della Vita Nuova, che certamente sono anteriori alla canzone. Più intima ispirazione e livello artistico più elevato si ritrovano nella canzone Amor che ne la mente, anch'essa ricordata nella Commedia nel secondo canto del Purgatorio; è una canzone di lode, e l'esperienza delle rime de la loda per Beatrice è ben presente; fra le rime di cui si discute se siano originariamente allegoriche, è quella che ha elementi interni più persuasivi in senso favorevole all'allegoria.
Sia o non sia allegorico questo gruppo di rime, è certo che D. avvertì presto la difficoltà di continuare, e superando per un momento il pregiudizio di non rimare d'altra materia che d'amore, tenta la poesia dottrinale con la canzone Le dolci rime d'amor ch'i' solia, che sarà commentata nel Convivio, seguita a breve distanza da Poscia ch'Amor del tutto m'ha lasciato (LXXXIII). D. stesso nella prima stanza di Le dolci rime ci fa avvertiti del nuovo corso della sua poesia, di un nuovo indirizzo di poetica: non più dolci rime d'amor, non più il soave stile che aveva tenuto nel trattar d'amore, ma rime aspre e sottili per confutare le errate opinioni sulla nobiltà dell'uomo e per dimostrare in che cosa essa veramente consiste. Gli studi filosofici che D. aveva intrapreso in quegli anni (siamo fra il 1293 e il 1295) sono alla base della sua preparazione per affrontare il tema della nobiltà, ma è ben presente nella sua mente la canzone del Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre Amore, dove si dice che non si deve credere " che gentilezza sia fòr di coraggio / in degnità d'ere' / sed a vertute non ha gentil core " (vv. 36-38). Ed è lecito pensare che non ignorasse quanto aveva detto Guittone: " Non ver lignaggio fa sangue, ma core / ni vero pregio poder, ma vertute " (Comune perla fa comun dolore 49-50). Appunto D. vuoi chiarire nella sua canzone il rapporto fra nobiltà e virtù dimostrando con procedimento sillogistico che la virtù deriva dalla nobiltà intesa come perfezione dell'essere, e che questa è un dono elargito da Dio all'anima nel momento del concepimento dell'uomo, e che non è cosa che si trasmetta da padre in figlio. La nobiltà si manifesta nell'esercizio delle virtù che più si addicono alle varie età dell'uomo, dall'adolescenza alla senettute.
Perdurando lo stato di disamoramento che gl'impedisce di ritornare alle dolci rime, D. si rassegna a comporre un'altra canzone dottrinale (Poscia ch'Amor) per dimostrare che cosa è la vera leggiadria. Si tratta dei costumi ornati, dei reggimenti belli che dovrebbero caratterizzare la vita mondana del gentiluomo, del cavaliere. Valendosi dell'esperienza tecnica acquisita nella composizione della canzone della nobiltà, D. segue in questa il medesimo procedimento sillogistico per concludere che la leggiadria non è pura virtù, ma consiste nell'insieme inscindibile di una triade: sollazzo, amore e virtù morale. Ne discende che non può essere vero ‛ leggiadro ' chi non è nobile e virtuoso. La canzone, priva di congedo, si chiude con un verso lapidario (Color che vivon fanno tutti contra) di sdegno morale per le condizioni del mondo contemporaneo che è negato, per la sua corruzione, al culto della vera leggiadria.
Ben presto esauritasi con le due canzoni dottrinali la sperimentazione dello stile aspro e sottile, D. ritorna alle dolci rime, alle rime d'amore con motivi stilnovistici, facendo oggetto del suo canto una pargoletta venuta in terra per mostrare... le bellezze del loco da cui proviene (I' mi son pargoletta 2-3), cioè del cielo. Il poeta se ne innamora senza speranza di essere ricambiato, donde il timore di una morte imminente. È quel che si dice in due brevi ballate (I' mi son pargoletta, LXXXVII e Perché ti vedi, LXXXVIII) e in un sonetto (Chi guarderà già mai, LXXXIX) sicuramente composti per la medesima donna giovinetta, ma è molto probabile che anche le due canzoni Amor che movi tua vertù dal cielo (XC) e Io sento sì d'Amor la gran possanza (XCI) cantino l'amore per la pargoletta. In tutte e due ricorre, infatti, il motivo comune alle rime precedenti dell'acerba giovinezza della donna che toglie al poeta speranza di mercede, e del timore della morte.
Nella canzone Amor, che movi D. ritorna in parte a motivi guinizzelliani, ma, secondo me, con intento polemico per proporre una concezione di Amore alquanto diversa. Secondo il Guinizzelli Amore, che ha la sua dimora nel cuore gentile dell'uomo, diventa operante solo in seguito agli effetti della bellezza della donna che fa nascere un desiderio della cosa piacente. In questa canzone, invece, D. determina specificamente la natura di Amore, da lui invocato come principio attivo necessario perché diventi operante nell'uomo dotato di nobiltà la potenzialità all'esercizio delle virtù morali e intellettuali; libera perciò il cuore da ogni viltà rendendolo compiutamente nobile, al fine del conseguimento di ciascun ben da parte dell'uomo. La contemplazione della bellezza che rifulge nelle singole cose è uno di tali beni, e il poeta l'ha raggiunto contemplando la bellezza di una giovane donna che, entratagli nella mente, l'ha fatto suo. Da questo momento comincia per il poeta l'esperienza specifica di una determinata avventura del suo sentimento amoroso per una determinata donna, che, nel suo particolare, è pur sempre una manifestazione degli effetti di quell'Amore universale che deriva dal cielo la sua virtù, e senza il quale è distrutto / quanto avemo in potenzia di ben fare (vv. 11-12). Il prosaico Dunque dell'inizio della quarta stanza segna appunto questo passaggio dal sottile, perché filosofico e scientifico, linguaggio delle prime tre stanze, a quello più consueto della tradizione della lirica cortese anche stilnovistica, con i luoghi comuni di Amore invocato e deprecato come fattore determinante, in senso positivo o negativo, di una vicenda amorosa. È una distinzione che bisogna tener presente per la valutazione delle rime d'amore posteriori alla canzone Amor, che movi. Restando fermi, naturalmente, all'interpretazione letterale, perché per questa canzone e per Io sento sì d'Amor la gran possanza sono stati avanzati sospetti di allegoria da critici non facili all'indulgenza verso l'allegoria, come il Contini.
Insistendo ancora sul tema dell'amore non corrisposto per una giovane donna acerba e crudele, D. inaugura con le rime per la ‛ donna pietra ' il terzo stile della sua poesia dopo quello dello stil novo e delle canzoni dottrinali, lo stile, come ha detto il Contini, del suo " secondo trovare oscuro ", dopo il trobar clus d'imitazione guittoniana dell'età giovanile. Il tempo di composizione più comunemente accettato si aggira fra il 1296 e il 1298. Qualunque sia l'origine della loro ispirazione (una violenta passione sofferta dall'autore per una giovane donna insensibile e crudele o, all'estremo opposto, il tormento per l'immaturità intellettuale che gli ostacolava il possesso della Filosofia), ciò che è indiscutibile è la ricerca di un nuovo stile senza uscire dal tema amoroso, come invece aveva fatto per le rime aspre e sottili della poesia dottrinale. E si può dire ‛ ricerca ', perché prima di comporre le rime per la donna pietra, D. si è scelto il suo modello nel poeta provenzale Arnaldo Daniello, che egli citerà nel De vulgari Eloquentia per ricordare che l'ha imitato nell'uso della sestina componendo Al poco giorno e al gran cerchio d'ombra (CI), ma il cui insegnamento del trobar clus, con imprestiti anche di motivi poetici, è presente in tutto il gruppo delle rime ‛ petrose '.
L'ordine cronologico proposto dal Barbi e generalmente accolto parte dalla canzone Io son venuto al punto de la rota (C), e si chiude con la canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro (CIII), lasciando in posizione intermedia la sestina Al poco giorno e la doppia sestina Amor, tu vedi ben che questa donna (CII). Ed è un ordine che appare razionale per le prime tre, nelle quali si può osservare una disposizione ascendente nell'impegno stilistico verso la ricerca graduale del più difficile, ma che lascia disorientati per la quarta, che sembra scaturire come un'eruzione improvvisa da uno stato passionale esacerbato. O forse D., dall'estremo esercizio di stile, si è calato in un estremo immaginare di passione violenta che sovrasta e mette in ombra, nell'espressione apparentemente immediata, la poetica ben presente delle rimas caras. Certo è che il basso stile dei sonetti della tenzone con Forese Donati fa il suo ingresso, autorizzato dall'esempio di Arnaldo Daniello, nell'alto stile della canzone. E del resto, anche la prima delle ‛ petrose ' ha un magistero di stile meno appariscente nella struttura metrica che è quella normale della canzone e con l'uso delle parole-rima limitato agli ultimi due versi di ogni stanza, ma straordinariamente impegnato in una lucida distribuzione di motivi di strofe in strofe che, com'è già stato rilevato, discende progressivamente dagli astri al mondo animale, al vegetale, al minerale, al cuore di pietra della donna (Renucci).
Ed è questo sguardo rivolto al mondo esterno che si scruta con stupore frenato dalla cognizione scientifica, l'acquisto duraturo del terzo stile della lirica dantesca. Il tirocinio della tecnica stilistica, moderato e quasi inavvertibile nella bella sestina Al poco giorno, e portato ad artificio nella doppia sestina, può avere esaltato D. nel momento in cui concludeva la sua eccezionale impresa di usare solo cinque parole-rima per un'estensione di 66 versi (la novità... / che non fu mai pensata in alcun tempo), ma egli stesso più tardi, in sede di valutazione critica nel De vulgari Eloquentia, condannerà l'inutile uso di rime equivoche che tolgono sempre qualche cosa alla compiutezza e precisione di ciò che si vuole esprimere.
Rime del tempo dell'esilio. - La partecipazione attiva alla vita politica della sua città, a cominciare dalla seconda metà del 1295 con l'iscrizione all'Arte dei medici e speziali in grazia dei suoi studi filosofici, e con l'esercizio di varie cariche fino al priorato del bimestre 15 giugno - 15 agosto 1300, arricchì senza dubbio la personalità di D. per quel completamento di esperienza nella vita pratica che forse aveva vagheggiato meditando sull'Etica di Aristotele. L'iscrizione di D. a una delle Arti, senza che egli la esercitasse, fu resa possibile dalla revisione degli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella (1293) che tassativamente interdicevano ai nobili, ai magnati e ai cavalieri fiorentini ogni partecipazione giuridica al governo della cosa pubblica, riservato solo a chi fosse iscritto a una delle Arti e la esercitasse. La revisione avvenne nel luglio del 1295, subito dopo l'esilio volontario di Giano della Bella, che presto però fu messo al bando con la distruzione di tutti i suoi beni. D. poté iscriversi perché, pur essendo nobile, non era né magnate né cavaliere, mentre non lo poté Guido Cavalcanti, che era l'una cosa e l'altra, e che perciò rimase avverso all'ordine costituito. Forse di qui ebbe inizio il dissenso fra i due amici, e dovette essere molto triste per D. trovarsi fra i priori e partecipare alla deliberazione, dopo il tumulto di San Giovanni, di espellere da Firenze i capi più turbolenti, fra i quali c'era Guido, che richiamato dopo qualche mese in patria perché ammalato, morì poco dopo.
D. ebbe l'ambizione di mettere a disposizione dei suoi concittadini la sua cultura e la sua dottrina e il suo innato senso di giustizia e di equilibrio, ma gli odi fra le opposte fazioni politiche e le interferenze in tutta la Toscana della curia romana che si erano fatte sempre più minacciose in quegli ultimi anni del sec. XIII col papa Bonifacio VIII, preparavano avvenimenti che lo travolsero, e l'odio fazioso dei Neri che presero il sopravvento nel governo della città con l'aiuto delle truppe di Carlo di Valois nel novembre del 1301, non lo risparmiò. Mentre era ancora in viaggio da Roma per ritornare in patria dalla sua ambasceria presso il papa, apprese la notizia di essere stato condannato per baratteria a una grossa multa, al confino per due anni e all'esclusione perpetua dagli uffici pubblici. D. non si presentò alle autorità del comune, come la sentenza richiedeva, e perciò seguì una seconda sentenza del 10 marzo 1302, che lo condannava a essere bruciato vivo. Cominciava così l'esilio di D., che nei primi tempi fece causa comune con gli altri esuli di Parte bianca per cercare di ritornare in Firenze con la forza, ma presto si sentì a disagio con quella compagnia e fece parte per se stesso affrontando sofferenze materiali e morali, fidando solo nella sua fama di poeta, di filosofo, di uomo saggio che poteva rendere utili servizi a uomini di governo nelle varie parti d'Italia. Ma sperava anche di essere richiamato presto in patria con onore, come credeva di meritare.
Dei primi tempi dell'esilio è appunto una canzone, Tre donne intorno al cor mi son venute (CIV), che è come una sintesi lirica degli alti e complessi sentimenti che agitavano e lenivano il suo animo, lo commuovevano per le dolorose conseguenze dell'esilio, lontano dalle sue cose più care e dagli affetti insostituibili della famiglia, e lo esaltavano nella coscienza della sua dignità di uomo ingiustamente infamato e condannato, che non vuole abbandonare la speranza in un rinsavimento dei propri concittadini. È rimasto in solitudine fra gli uomini, col solo conforto di Amore (da intendere nel significato di cui si è detto per la canzone Amor, che movi) che si è insediato nel suo cuore; e al quale accorrono come ad amico e consanguineo le tre donne che rappresentano in rapporto di discendenza, secondo l'interpretazione del figlio del poeta, Pietro, la giustizia universale, il diritto umano e la legge civile, ma è più probabile che la prima (Drittura) rappresenti il diritto naturale. Sono anch'esse esiliate dagli uomini, come Amore che si è rifugiato nel cuore di un altro esiliato, D., e che consola le germane sollecitandole a non avvilirsi perché il danno di quell'esilio e dell'andar mendicando di tutte le virtù è cosa che riguarda gli uomini, non loro che sono dell'etterna rocca, e che ritorneranno un giorno, con nuova gente, a essere onorati. Il poeta ha ascoltato le parole di dolore delle tre donne e quelle di consolazione di Amore, e si esalta della sorte che ha in comune con così alti dispersi (v. 75), e perciò considera un onore l'esilio che gli è stato dato (l'essilio che m'è dato, onor mi tegno... / cader co' buoni è pur di lode degno, vv. 76-80). Ma l'esaltazione è subito temperata dalla meditazione sulla dolorosa realtà della lontananza da ciò che più gli sta a cuore, e che gli ha messo addosso il fuoco di desiderio che lo consuma avvicinandolo alla morte. Questa dolorosa meditazione gl'infonde un sentimento di umiltà che gli fa ricononoscere che può aver fallato, che può aver commesso qualche colpa; ma è passato del tempo, e ogni colpa dovrebbe spegnersi col pentimento dell'uomo (Onde, s'io ebbi colpa, / più lune ha volto il sol poi che fu spenta, / se colpa muore perché l'uom si penta, vv. 88-90). Sono versi che hanno acceso discussioni fra i dantisti, fra i quali il Barbi e il Cosmo. È da escludere senz'altro che D. ammetta di essere in colpa rispetto all'accusa infamante per cui era stato condannato. Secondo il Cosmo D. riconoscerebbe di aver fatto male a prendere le armi per rientrare con la forza in patria, ma il testo della canzone esige di collocare quella colpa (e si badi che si tratta di una colpa ipotetica) nei tempi anteriori all'esilio. Tutta la canzone è imperniata sull'indagine del poeta per dare a sé stesso una spiegazione dell'ingiustizia che egli ha subito: il bando che gli uomini hanno dato ai supremi ideali della giustizia, ad Amore inteso come principio di ogni virtuoso operare, alle virtù; le avverse influenze degli astri, la punizione di Dio, o la cieca forza del destino. Quando D. dice s'io ebbi colpa, continua la sua inchiesta, e per quanto lo riguarda personalmente, non esclude che anche qualche sua colpa possa aver contribuito a determinare la sua sventura. Evidentemente non si può trattare che di colpa della quale D. deve rispondere solo alla sua coscienza morale, perché le colpe delle quali si deve rispondere anche agli altri non si spengono nelle loro conseguenze col solo pentimento di chi le ha commesse. Comunque, D. compie un atto di umiltà di fronte ai suoi concittadini, e spera che gli possa valere il richiamo in patria. Con questa canzone siamo già nel clima della grande poesia morale della Commedia, e la personalità di D. vi appare con segni qualificanti di una grandezza che non può mancare di affermarsi, com'è stato unanimemente riconosciuto dalla critica antica e moderna.
Non lontana, cronologicamente, da Tre donne è l'altra canzone Doglia mi reca ne lo core ardire (CVI), nella quale il poeta esprime il suo dolore per il deserto morale che c'è 'nel mondo a causa degli uomini che si sono asserviti al vizio tenendo lontana da sé la virtù: tutte le virtù, com'è detto anche in Tre donne, dove si esemplifica con Larghezza e Temperanza (v. 63), ma con esemplificazione giustificativa riservata alla Larghezza o Liberalità, la cui assenza dagli uomini risulta dalla diffusa presenza del vizio opposto: l'avarizia. E sull'avarizia indugia la sferza di D., che la vita dell'esilio e del bisogno mette spesso in condizione di subirne le conseguenze. Ancora un ritorno, davvero inaspettato, all'argomento amoroso si ha con la canzone Amor da che convien pur ch'io mi doglia (CXVI) composta, come sappiamo da una breve epistola in latino inviata al marchese Moroello Malaspina insieme con la canzone, nel Casentino per l'improvvisa apparizione di una bella donna che aveva suscitato nel suo cuore un'ardente passione (siamo tra il 1307 e il 1308). L'affinità che questa canzone presenta con le ‛ petrose ' per la ripresa del motivo dell'indomabile passione del poeta per una donna bella ma crudele, ha fatto sì che qualche dantista l'aggregasse al gruppo di quelle rime che, a parte le ragioni cronologiche, rivelano un ben più definito e caratterizzante impegno stilistico. Nel congedo (O montanina mia canzon) il poeta si rivolge alla canzone che forse, nel suo andare per il mondo, vedrà Fiorenza, la sua città che, senza amore e senza pietà, fuor di sé lo serra, e potrà dire: Omai / non vi può far lo mio fattor più guerra: / là ond'io vegno una catena il serra / tal, che se piega vostra crudeltate, / non ha di ritornar qui liberiate (vv. 80-84). La passione momentanea per la donna del Casentino sarebbe, dunque, più potente del perenne amore per la sua Fiorenza, il desiderio di rimanere vicino a una donna insensibile all'amore più forte del desiderio struggente del ritorno in patria dall'ingiusto esilio! È una conclusione in linea con la rappresentazione dell'improvvisa e indomabile passione, ma l'effetto è retoricamente voluto: l'accento commosso è nel vezzeggiamento della sua canzone, che potrà entrare in Fiorenza, nel desolato richiamo alla sua condizione di esiliato, nella profonda pietà verso sé stesso, vittima di una fatale crudeltà dei suoi concittadini.
Anche i due sonetti di corrispondenza con Cino da Pistoia del tempo dell'esilio (XCV l'ho veduto già senza radice, XCVI Perch'io non trovo chi meco ragioni) e quello in risposta a un amico (XCIII Io Dante a te che m'hai così chiamato) trattano d'amore, ma sentiamo, dal tono distaccato e stanco di cui sono soffusi, che gl'interessi di D. sono ormai rivolti altrove, perché, com'è detto in uno di questi sonetti, si conviene omai altro cammino / a la mia nave più lungi dal lito (Io mi credea 3-4). Non più poeta d'amore, ma poeta della rettitudine, come amerà definirsi nel De vulg. Eloq., citando la canzone Doglia mi reca, e forse già in travaglio per una poesia di più alto destino.
Bibl. - La sistemazione e il testo delle Rime nell'edizione del '21 da parte di M. Barbi è il risultato di un immenso lavoro di esplorazione, testimoniato soprattutto dai suoi Studi sul Canzoniere di D., Firenze 1915 (su alcuni punti particolari, cfr. ora anche B. Panvini, Studio sui manoscritti dell'antica lirica italiana, in " Studi Filol. It. " XI [1951] 5-135). Nei Problemi di critica dantesca. Serie I (1893-1918), Firenze 1934, e particolarmente Serie II (1920-1927), ibid. 1941, il Barbi dà la giustificazione critica di qualche ‛ sezione ' del testo, e dipana una complessa serie di questioni attributive e interpretative per le quali cfr. pure, in collaborazione con V. Pernicone, Sulla corrispondenza poetica fra D. e Giovanni Quirini, in " Studi d. " XXV (1940) 81-129, e Intorno all'attribuzione del sonetto " E' non è legno " a D., ibid. XXVII (1943) 63-93. All'edizione critica delle Rime sta lavorando da tempo D. De Robertis, il quale ha già dato vari importanti contributi: Il Canzoniere Escorialense e la tradizione ‛ veneziana ' delle rime dello Stil Novo, Torino 1954 (suppl. n. 27 del " Giorn. stor. "), ove l'indagine sulla diffusione estravagante dei componimenti della Vita Nuova tocca per la prima volta il problema di varianti d'autore o di prime redazioni (cfr. al proposito U. Leo, Das Sonett mit zwei Anfängen [1954], in Sehen und Wirklichkeit bei D., Francoforte s. Meno 1957, 149-163; e la recens. al De Robertis di G. Folena, in " Rass. Lett. It. " LIX [1955] 107-109); ID., Tradizione veneta e tradizione estravagante delle rime della " Vita Nuova ", in AA.VV., D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 373-384; ID., Sulla tradizione estravagante delle Rime della " Vita Nuova ", in " Studi d. " XLIV (1967) 5-84; ID., Un codice di rime dantesche ora ricostituito (Strozzi 620), ibid. XXXVI (1959) 137-205; ID., Nuove integrazioni allo Strozzi 620, ibid. XXXVIII (1961) 157-165; ID., Del codice Strozzi 619 (per lo Strozzi 620), ibid. XXXIX (1962) 107-117. Ancora del De Robertis, fondamentale, non solo per le Rime di D. ma per tutta la tradizione della lirica antica, Censimento dei manoscritti delle rime di D., apparso in prima puntata nel vol. XXXVII (1960) degli " Studi d. ", è tuttora in corso. Cfr. inoltre: v. Mistruzzi, Fra testi e chiose (un gruppo di manoscritti affini al Chigiano L. VIII. 305), in " Studi d. " XXVIII (1949) 217-244; G. Contini, Postilla dantesca, in Freundesgabe für E.R. Curtius, Berna 1956, 95-102; M. Messina, Due sonetti isolati, in " Studi d. " XXXIV (1957) 223-224; e in partic. gli ottimi e chiari quadri della tradizione forniti da G. Contini, nella Nota al testo che segue la sua edizione commentata delle Rime (Torino 19391; 1946²; rist. 1965), e da G. Folena, La tradizione delle opere di D.A., in Atti Congresso Internaz. di studi dant., Firenze 1965 (in partic. pp. 8-14). Per la stampa dei Giunti del 1527 (Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani...) v. GIUNTINA DI RIME ANTICHE.
Edizioni: Rime, a c. di G.. Contini, già cit. (non comprende né i componimenti della Vita Nuova né le tre canzoni del Convivio; cfr. la recens. di F. Maggini, in " Giorn. stor. " CXVI [1940] 40-45); Dante's Lyric Poetry, a c. di K. Foster e P. Boyde, Oxford 1967 (cfr. J.A. Scotti, in " Romance Philol. " XXI [1969] 581-600); D.A., Rime della " Vita Nuova " e della giovinezza, a c. di M. Barbi e F. Maggini, Firenze 1956 (cfr. D. De Robertis, in " Studi d. " XXXIV [1957] 225-250); D.A., Rime della maturità e dell'esilio, a c. di M. Barbi e V. Pernicone, Firenze 1969 (e cfr. qui la Nota del Pernicone, in partic. pp. 712-713, sulle novità introdotte dagli editori inglesi rispetto all'ordinamento del Barbi). Altre edizioni, per vari rispetti notevolissime: K. Witte, Dante Alighieri's Lyrische Gedichte (1827, in collab. con K.F.L. Kannegiesser e W. Von Lüdemann), Lipsia 1842²; P. Fraticelli, Firenze 1834 (19026); E. Moore, Oxford 1894; D. Mattalia, Torino 1943; A. Pézard, Parigi 1965. Inoltre F. Palermo, Rime di D.A. e G. Sacchetti sopra i codici palatini, Firenze 1857; G.B. Giuliani, ibid. 1863; P. Serafini, ibid. 1883; E. Santi, Roma 1907 (vol. II unico uscito); A. Cossio, New York 1918; A. Della Torre, Firenze 1919; M. Scherillo, Milano 1921 (1930³); G. Zonta, Torino 1921; D. Guerri, Genova 1922; G.L. Passerini, Firenze 1923; L. Di Benedetto, Torino 1928; C. Garboli, ibid. 1958; G. Alessi, Roma 1959; A. Del Monte, Milano 1960; The Odes of D. (con traduz. ingl.), a c. di H.S. Vere-Hodge, Oxford 1963 (cfr. in " Studi d. " XLIV [1967] 293-295); M. Pazzaglia, Bologna 1964; M. Apollonio, Milano 1965; F. Chiappelli, ibid. 1965. Spicca, infine, l'antologia di G. Contini, Letteratura italiana delle origini, Firenze 1970 (in partic. pp. 334 ss.).
Studi. Oltre i consueti strumenti di consultazione, e oltre le edizioni citate, che forniscono ampie indicazioni per una completa bibliografia sulle Rime, si vedano le voci relative ai singoli componimenti, ove sono registrati i contributi di tipo specifico. Il rimando ad altre voci vale anche per quanto concerne più direttamente la Vita Nuova e lo Stil nuovo in generale, il peso di particolari rapporti culturali e poetici (Arnaldo Daniello; Cino da Pistoia; Guittone) e alcuni importanti ‛ nodi ' interpretativi (v. per es. DONNA GENTILE), spesso interessanti da vicino la cronologia e l'ordine delle Rime: su ciò orientano ora le messe a punto di V. Pernicone, Le Rime, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 677-689; ID., Bibliografia ragionata delle Rime di D., in " Terzo Programma " 4 (1965) 105-113; ID., Le rime allegoriche di D., in " La Fiera Letteraria " 25 aprile 1965; ID., Le prime rime dottrinali di D., in " Belfagor " XX (1965) 501-517; ID., Sull'ordinamento delle Rime, in Atti del Convegno di Studi su D. e la Magna Curia, Palermo 1967, 602-612.
Gli studi più importanti sulle Rime sono: G. Carducci, Delle rime di D. (Firenze 1865; Livorno 1874), in Opere, X, 73-202; K. Witte, Dante-Forschungen, I, Halle 1869; II, Heilbronn 1879; F. De Sanctis, La lirica di D., in Storia della letteratura italiana (1870), in Opere, VIII, Torino 1962, 65-81; K. Bartsch, Dante's Poetik, in " Jahrbuch der Deutschen Dante-Gesellschaft " III (1871) 303-367; K. Witte, Rime in testi antichi attribuite a D., ora per la prima volta pubblicate, ibid., 257-302; E. Lamma, Studi sul Canzoniere di D., Bologna 1886; V. Imbriani, Studi danteschi, Firenze 1891; F. Wulff, D., Pietra in Pietra, in " Romania " XXV (1896) 455-458; C. De Lollis, Quel di Lemosì, in Scritti vari di filologia. Omaggio a E. Monaci, Roma 1901, 353-375; E. Lamma, Questioni dantesche, Bologna 1902; G. Salvadori, Nuove rime di D. (1904), in Liriche e saggi, II, Milano 1933, 203-208; N. Zingarelli, Il Canzoniere di D., in Lect. Dantis. Le Opere minori, Firenze 1906, 131-162; E.G. Parodi, La lettura di D. in Orsanmichele, in " Bull. " XIII (1906) 257; G.D. De Geronimo, La " Donna verde " nella sestina e in un sonetto di D., in " Giorn. d. " XVI (1908) 168-170; A. D'Ancona, Della " Pargoletta " e di altre donne nel poema e nelle rime di D., in Scritti danteschi, Firenze 1912, 230-252; E. Lamma, Intorno alle due sestine pseudodantesche, in " Giorn. d. " XXI (1913) 185-187; ID., Sull'ordinamento delle Rime di D., Città di Castello 1914; A. Zenatti, Intorno a D., Palermo 1916; C.H. Grandgent, The Ladies of Dante's Lyrics, Cambridge (Mass.) 1917; E. Ciafardini, Tra gli amori e tra le rime di D., Napoli 1919 (poi nel vol. Problemi di critica dantesca, Napoli s.a.; recens. di A. Corbellini, in " Giorn. stor. " LXXVII [1921] 54-60); E.G. Parodi, Le rime, nel vol. misc: Dante. La vita. Le opere, Milano 1921; C. De Lollis, La fede di D. nell'arte (1921), in Scrittori d'Italia, Milano-Napoli 1968, 143-157; S. Santangelo, D. e i trovatori provenzali, Catania 1921 (1959²); C. De Lollis, Arnaldo e Guittone (1922), in Scrittori d'Italia, cit., 3-19; V. Lugli, La lirica di D., in " Rivista d'Italia " XXV (1922) III 66-85; G. Zonta, La lirica di D., in " Giorn. stor. " suppl. n. 19-21 (1922) 45-204; R. Ortiz, Studi sul Canzoniere di D., Bucarest 1923; E.G. Gardner, Notes on the Lyric poetry of D., in " Modern Language Review " XIX (1924) 306-314; L. Di Benedetto, Fra gli amori di D. e del Cavalcanti, Napoli 1928; E. Auerbach, D. als Dichter der irdischen Welt, Berlino-Lipsia 1929 (traduz. ital. Studi su D., Milano 1971³, 23-62); N. Sapegno, Le rime di D., in " La Cultura " IX (1930) 721-737; L. Pietrobono, Saggi danteschi, Torino 1936; A. Pézard, Les sonnets de l'inconstance et de la fidelité, in " Revue Études Ital. " I (1936) 397-415; F. Maggini, Dalle rime alla lirica del Paradiso dantesco, Firenze 1938 (poi rifuso nell'introduzione a D.A., Rime della " Vita Nuova " e della giovinezza, cit.); N. Sapegno, Tecnica, poetica e poesia nelle opere giovanili di D. (disp. univ.), Roma 1939; L. Pietrobono, Intorno alla data delle opere minori, in " Giorn. d. " XLII (1941) 45-70; B. Nardi, D. e la cultura medioevale, Bari 1941 (1949²); ID., Nel mondo di D., Roma 1944, 1-40; F. Biondolillo, Poetica e poesia di D., Messina-Firenze 1948, 1-97; D. De Robertis, Cino e le ‛ imitazioni ' dalle rime di D., in " Studi d. " XXIX (1950) 103-177; D. Mattalia, La critica dantesca, Firenze 1950, 35-55 (importante anche per la bibliografia ragionata); D. De Robertis, Lettura in chiave delle rime di D.: moduli elegiaco-discorsivi, in appendice a Cino da Pistoia e la crisi del linguaggio poetico, in " Convivium " r.n. I (1952) 1-35; F. Figurelli, Sulle prime rime di D., Alcamo 1955; U. Bosco, Il nuovo stile della poesia dugentesca secondo D. (1955), in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 29-54; A. Vezin, Die Formen; der danteschen Lyrik, in " Wissenschaftliche Zeit. der F. Schiller Univ. Jena " VIII (1957-1958) 559-563; P. Renucci, D., Parigi 1958; F. Montanari, L'esperienza poetica di D., Firenze 1959, 36-84; F. Biondolillo, Le rime amorose di D., Messina-Firenze 1960; B. Nardi, Dal Convivio alla Commedia, Roma 1960; M. Marti, Appunti sulle rime giovanili di D. (1956), e Sulla genesi del realismo dantesco (1960), in Realismo dantesco e altri studi, Milano-Napoli 1961; M. Fubini, Metrica e poesia, I, Milano 1962, 142 ss., 178 ss.; K. Foster, Recent works on Dante's " Rime ", in " Le Parole e le Idee " IV (1962) 255-268; H. Friederich, Epoken der italienischen Lyrik, Francoforte s. Meno 1964 (in partic. capp. I-III); A. Oxilia, Vita Nova e Rime, in AA.VV., Dante minore, Firenze 1965, 7-34; F. Biondolillo, Le Rime di D., in " Ausonia " XX 4-5 (1965) 15-29; P. Boyde, Dante's Lyric Poetry, in The Mind of D., a c. di U. Limentani, Cambridge 1965, 79-112; G. Grana, Appunti sul linguaggio figurato nelle rime di D., in " Convivium " XXXIV (1966) 293-317; F. Nuzzaco, Le tenzoni poetiche di D.A., Roma 1967; E. Travi, Emblematismo dantesco; l'acqua, in " Annali dell'Ist. Dantesco " I (1967) 225-239 e passim; A. Pézard, " La rotta gonna ". Gloses et corrections aux textes mineurs de D., I, Firenze-Parigi 1967, 17-115; M. Pazzaglia, Note sulla metrica delle prime canzoni dantesche, in " Lingua e Stile " III (1968) 319-331; P. Giannantonio, D. e l'allegorismo, Firenze 1969, in partic. pp. 195 ss.; D. De Robertis, Il libro della " Vita Nuova ", ibid. 1970 (rist. del vol. dallo stesso titolo già apparso nel 1961, con l'aggiunta di due importanti interventi: Nascita della coscienza letteraria italiana, già in " L'Approdo Letterario " 31 [1963] 3-32, e Sulle " Rime ", già in Nuove lett. I 285-316); I. Baldelli, Ritmo e lingua di " Io son venuto al punto de la rota ", in Critica e storia letteraria. Studi offerti a M. Fubini, I, Padova 1970, 342-351; P. Boyde, Dante's Styl e in his Lyric Poetry, Cambridge 1971 (per impegno e per ampiezza, oltre che per i risultati, è il più importante dei contributi recenti); A. Vallone, Lettura interna delle Rime di D., Roma 1971 (riguarda Voi che 'ntendendo e Tre donne; v. anche il saggio Lettura interna della canzone " Così nel mio parlar ", in Letteratura e critica. Studi in onore di N. Sapegno, Roma 1973); A. Jacomuzzi, Invenzione e artificio nelle " petrose ", in Il palinsesto della retorica e altri saggi danteschi, Firenze 1972, 7-42.
Infine, alla vecchia Concordanza delle opere italiane in prosa e del canzoniere di D.A., a c. di E.S. Sheldon e A.C. White, Oxford 1905, si è ora aggiunta quella, completa di Formarlo, Indice inverso, Liste di frequenza e Tabella di distribuzione delle frequenze, delle Rime, comprese quelle della Vita Nuova, per la serie curata da M. Alinei (Spogli elettronici dell'italiano delle origini e del duecento, II 8), Bologna 1972.