rimedio
L’orizzonte della politica fiorentina negli anni di M. imponeva continue risposte a una situazione sempre più complessa e difficile: nel linguaggio corrente, tra consulte, pratiche, dispacci, proposte e riflessioni, ne conseguiva una fitta serie di occorrenze del termine rimedio, in riferimento alle «difficultà» e agli «inconvenienti» molteplici determinati non solo dall’irrompere di pericolosi fattori esterni, ma anche dalla gestione interna della macchina statale e dai conflitti che ne scaturivano. Nel procedere del pensiero di M., nello spirito di contraddizione che lo anima, nella sua disposizione a verificare alternative portandole all’estremo, si dispiega una continua interrogazione dei r. che possono rispondere alle «difficultà» di situazioni che tra l’altro, con i drammatici fatti del 1512-13 (dalla rotta di Prato al crollo della Repubblica alla sua estromissione dalla segreteria) toccano direttamente la sua persona. Molto presente il richiamo al r. è nei dispacci e nei vari scritti degli anni della segreteria, sia in riferimento a dirette necessità dello Stato fiorentino, sia nella considerazione delle mosse dei principi e degli Stati di cui M. viene a occuparsi; il Segretario si trova più volte a raccomandare ai magistrati fiorentini di prendere opportuni «remedii» e spesso viene a farlo con una certa durezza e in modo tutt’altro che subalterno (a proposito dell’assedio di Pisa il termine rimedio si affaccia, in negativo, in riferimento alle vicende del 1499, anche nel primo Decennale, v. 226: «e non veggendo a l’acquisto remedio»).
Ma poi, post res perditas, nella corrispondenza con Francesco Vettori del 1513 lo sguardo si rivolge alla generale situazione italiana: M. appare particolarmente preoccupato per l’occupazione di Milano da parte degli svizzeri, di cui teme l’eccezionale «virtù» militare: nella lettera del 10 agosto nota che «questo fiume tedesco è sì grosso, che gl’ha bisogno d’un argine grosso a tenerlo» e afferma che «e remedii a questa piena bisogna farli ora, avanti che si abbarbino in questo stato» (Lettere, pp. 278-79). La lettera del 26 agosto approfondisce questo tema: il timore che gli svizzeri «possino diventare arbitri di Italia» impone di «rimediare», ma il prospettato intervento francese gli pare comunque «rimedio» insufficiente: ne consegue l’incombere della «rovina e servitù nostra, la quale, se non sarà né oggi né domane, sarà a’ nostri dì; e l’Italia arà questo obbligo con papa Giulio e con quelli che non ci rimediono, se ora ci si può rimediare» (p. 290). Da queste lettere, come la critica ha variamente rilevato (cfr. in partic. Najemy 1993), scaturisce l’elaborazione del Principe: esse mostrano in tutta evidenza l’urgenza problematica da cui nasce il trattato, la sua tensione verso un r. alla rovina che M. sente incombere sull’Italia, la necessità di porre un «argine» alla piena della «fortuna» (e d’altra parte nella situazione pubblica si specchia quella personale, l’orizzonte privato dell’ex Segretario che si logora per non poter nemmeno «voltolare un sasso»). Tutta la tensione costruttiva del libello, tutto l’impegno verso la definizione delle modalità di conquista e di gestione del principato prendono avvio in effetti dalla radicale difficoltà della situazione e si confronta in ogni momento con gli «inconvenienti» che continuamente sorgono nell’esercizio del potere e nello scontro ineluttabile con le forze esterne e interne che lo minacciano. La «virtù» e la «prudenza» del principe devono saper rispondere a tutte le «difficultà» che M. vede in agguato, individuandole grazie alla conoscenza delle storie e all’esperienza della politica contemporanea. La politica viene così a porsi essenzialmente come un’arte del r., capace di prevedere e arginare anche le minacce future, come mostra la celebre immagine del capitolo iii: come i Romani, i principi devono saper tener conto non solo degli «scandoli presenti», ma anche di quelli «futuri», «perché, prevedendosi discosto, vi si rimedia facilmente, ma, aspettando che ti si appressino, la medicina non è a tempo, perché la malattia è diventata incurabile» (Principe iii 26). La similitudine dello «etico», che subito segue, sviluppa ulteriormente questa metafora medica:
e interviene di questa come dicono e fisici dello etico, che nel principio del suo male è facile a curare e difficile a conoscere: ma nel progresso del tempo, non la avendo nel principio conosciuta né medicata, diventa facile a conoscere e difficile a curare. Così interviene nelle cose di stato: perché conoscendo discosto, il che non è dato se non a uno prudente, e mali che nascono in quello si guariscono presto; ma quando, per non li avere conosciuti, si lasciano crescere in modo che ognuno gli conosce, non vi è più rimedio (§§ 27-28).
M. si ricollega così alla tradizionale equiparazione tra politica e medicina, risalente almeno fino a Platone e variamente propagatasi nell’antichità e nel Medioevo, perfino a livello di senso comune e popolare: non solo nel Principe e nei Discorsi, ma praticamente in tutti gli scritti di M., le metafore mediche si affacciano più volte, proprio per indicare la responsabilità di cura che tocca al politico nei confronti delle malattie che variamente minacciano il corpo sociale, sia che si tratti dello Stato sia di altri organismi collettivi. La visione naturalistica e organicistica di M. comporta un’assimilazione del corpo politico e delle sue parti al corpo umano (e talvolta alla vita vegetale): rispetto alla deperibilità dei corpi, al percorso a essi assegnato dalla natura, alle «malattie», alla «corruzione» e alla finale «ruina» che sempre sono in agguato, il politico è colui che prospetta r., che individua le necessarie «medicine».
Questo orizzonte medico viene peraltro ad agire anche sul piano dell’immaginario, nella stessa invenzione letteraria di M.: esso costituisce il nucleo centrale della Mandragola, il cui stesso titolo allude alla falsa pozione propinata a Lucrezia come r. alla sua presunta sterilità, mentre l’innamorato Callimaco deve fingersi medico, dando luogo a un’irresistibile recitazione comica di fronte al credulo messer Nicia (mentre lo stesso tema erotico della pièce propone, come in modi diversi fa anche la Clizia, varie figure del r. e della «cura», di fronte ai tanti ostacoli e «difficultà» che occorre superare). Funzione curativa, in singolare abito di esorcista, assume anche il villano protagonista della Favola, mentre non mancano ulteriori richiami negli scritti poetici, come quasi all’inizio dell’Asino i, vv. 28-90, in un aneddoto che mostra l’inutilità dei r. che pretendono di mutare la natura di un individuo (un ciarlatano che pretende invano di curare un ragazzo che ha la mania di correre sempre; cfr. ancora Asino iv, vv. 40-42).
Se il principe deve tener conto in ogni momento di «difficultà» e «inconvenienti» presenti e futuri, grava su di lui, come su ogni capo politico, la minaccia dell’«errore» che può fatalmente condurre alla «ruina», come accaduto al pur «imitabile» Cesare Borgia, che allo stesso M. aveva detto che «a tutto aveva trovato remedio» (Principe vii 41).
Ma pur nell’assenza di sicurezze definitive e nel proliferare degli «inconvenienti», nel finale del trattato s’impone la tensione verso una «virtù» produttrice di quegli «argini» e «ripari», che l’Italia presente non ha saputo mettere in opera, mentre l’Exhortatio ai Medici vuol valere come proposta di un estremo r. che l’«occasione» offrirebbe a quell’Italia che ha sopportato «d’ogni sorte ruina» (xxvi 3).
Al pressante richiamo del Principe alla necessità di rimediare alla situazione presente subentra, nei Discorsi, la più articolata attenzione all’orizzonte istituzionale. Nel definire, sulle tracce di Polibio (→), la successione delle tre forme di governo e le loro degenerazioni, M. nota il pericolo costituito da un ordinamento basato su uno solo dei «tre stati», perché non si può disporre «nessuno rimedio» (parola che non ha riscontro nel testo di Polibio) «a fare che non sdruccioli nel suo contrario» (I ii 13). È vero che l’incontrollabile passaggio da uno stato all’altro è stato superato dalla «prudenza» di quei legislatori che, «fuggendo ciascuno di questi modi per se stesso, ne elessero uno che participasse di tutti, giudicandolo più fermo e più stabile» (I ii 27). Ma anche la gestione della forma statale più perfetta, che per M. è quella della Repubblica romana, deve confrontarsi con un continuo sorgere di «inconvenienti», che riguardano sia la politica interna sia quella esterna (e questa si esplica soprattutto nell’azione militare). Il testo di Livio (→) propone a M. tutta una serie di azioni e di scelte, in cui egli riconosce dei r. a difficoltà, contraddizioni, pericoli che variamente hanno travagliato Roma, ma sul cui superamento essa ha costruito la sua grandezza. Ecco allora che, di fronte a «inconvenienti» e «disordini» che sorgono dai «partigiani» della tirannide che insidiano il «vivere libero», «non ci è più potente rimedio né più valido né più sicuro né più necessario, che ammazzare i figliuoli di Bruto» (I xvi 11); ecco il r. perché condottieri o cittadini non siano oppressi dall’«ingratitudine» (I xxx); ecco i r. all’ambizione dei singoli (I xlvi); ecco un «rimedio, a frenare una moltitudine concitata» (I liv 5); ecco il r. posto dal senato romano nei confronti dell’eccessiva «ambizione de’ Tribuni» (III xi 4); ecco, sul piano militare, i vari r. possibili per chi vuole evitare la «zuffa» (III x) e così via. Ogni r. che si metta in campo deve comunque seguire i modelli antichi:
ch’egli è facil cosa a chi esamina con diligenza le cose passate, prevedere in ogni republica le future e farvi quegli rimedi che dagli antichi sono stati usati o, non ne trovando degli usati, pensare de’ nuovi per la similitudine degli accidenti (I xxxix 3: in questo capitolo si usa anche la metafora medica, in riferimento a vicende personalmente vissute da M.).
Se l’individuazione dei r. spetta perlopiù ai singoli individui, magistrati, condottieri, principi, nell’ottica repubblicana dei Discorsi si riconosce «più virtù nel popolo che nel principe» e si vedono «meno errori nel popolo che nel principe; e quelli minori, e aranno maggiori rimedi»; ma, mentre il popolo può essere ridotto alla ragione «da un uomo buono»,
a un principe cattivo non è alcuno che possa parlare né vi è altro rimedio che il ferro. Da che si può fare coniettura della importanza della malattia dell’uno e dell’altro: che, se a curare la malattia del popolo bastan le parole, e a quella del principe bisogna il ferro, non sarà mai alcuno che non giudichi, che, dove bisogna maggior cura, siano maggiori errori (I lviii 35-37).
Bisogna guardarsi d’altra parte da r. pericolosi e controproducenti, come fu l’esilio comminato a Cosimo de’ Medici nel 1433, che finì per favorire il suo rientro come «principe della repubblica» (I xxxiii 12), e come furono i r. tentati dal partito senatorio contro Cesare, che «accelerarono la caduta della repubblica» (§ 14): è come «suffocare una pianta ad annaffiarla» (e ancora la metafora medica: «Ma si debbano considerare bene le forze del malore, e quando ti vedi sufficiente a sanare quello, metterviti sanza rispetto; altrimenti lasciarlo stare, né in alcun modo tentarlo», §§ 16-17).
Il modello della medicina d’altra parte chiama in causa l’intero orizzonte della civiltà, verso cui la natura si comporta come con i «corpi semplici», che fa crescere fino al punto in cui deve espungerne «assai materia superflua» con processi di «purgazione»: così quando «questo corpo misto dell’umana generazione» ha raggiunto il massimo livello, incompatibile con i limiti della natura, «conviene di necessità che il mondo si purghi», con eventi catastrofici che riconducono le «sètte», i popoli, le «provincie» all’orizzonte dell’origine (II v 16). I corpi politici, destinati comunque a un’inevitabile fine, sono in grado di sfuggire alle molteplici minacce che possono condurli a morte prima del tempo loro prescritto se sanno rinnovarsi riconducendo le loro istituzioni ai «principii», ritrovando «la prima riputazione ed il primo augumento loro»: è questa la cura essenziale, che non a caso viene connotata dalla citazione di un aforisma attribuito a «questi dottori di medicina» («quod quotidie aggregatur aliquid, quod quandoque indiget curatione», III i 6-9). Questa «riduzione verso il principio» può avvenire «o per accidente estrinseco o per prudenza intrinseca» (§ 10): la seconda possibilità (con l’intervento di un «uomo buono», di un legislatore «prudente») è in ogni modo preferibile, anche se proprio in un momento della storia di Roma è stata la prima (peraltro «tanto pericolosa che non è in modo alcuno da disiderarla») a valere come «ottimo rimedio» (§ 40): ma proprio a Roma hanno avuto eccezionale rilievo, nella messa in opera di questo essenziale r., «le azioni degli uomini particolari» (§ 41). Roma, del resto, nella sua scelta di dar spazio ai «tumulti» e alle «inimicizie intra il popolo e il senato», ha saputo trarre frutto dall’«inconveniente» dato da quei continui scontri di classe facendone fondamento della sua grandezza: «E però, in ogni nostra diliberazione si debbe considerare dove sono meno inconvenienti, e pigliare quello per migliore partito, perché tutto netto, tutto sanza sospetto non si truova mai» (I vi 22). Una repubblica che escluda la partecipazione popolare e i conflitti che ne conseguono, come hanno fatto Sparta e Venezia, si scontra con un inconveniente molto pericoloso, quello della difficoltà di «ampliare» (le due repubbliche l’hanno sperimentato, quando le loro ambizioni di espansione hanno dato luogo alla loro «rovina»): ma anche se evitasse una politica di espansione (come Sparta e Venezia non hanno saputo fare), potrebbe insorgere una «necessità» che la costringesse ad «ampliare», conducendola quindi alla «rovina»; e se non fosse costretta a fare la guerra, sarebbe poi rovinata dall’«ozio», che «la farebbe o effeminata o divisa» (I vi 34-35).
Ogni scelta si confronta con l’incertezza: ogni azione sul mondo deve tener conto dell’instabilità e delle prospettive contraddittorie con cui si presenta la realtà, delle qualità opposte di uno stesso oggetto, degli «effetti» contrari che possono scaturire da un progetto e da un’iniziativa, di quell’eterogenesi dei fini di cui M. ha lucidamente individuato le condizioni: si dà il caso
oltre alle altre difficultà, nel volere condurre la cosa alla sua perfezione, che sempre propinquo al bene sia qualche male, il quale con quel bene sì facilmente nasca che pare impossibile potere mancare dell’uno, volendo l’altro (III xxxvii 2).
Tutto l’esercizio della politica e dell’arte militare si dà in una continua sfida a questa indeterminazione: nell’Arte della guerra il mestiere delle armi impone la più lucida disponibilità a tener conto di tutti i r. possibili di fronte a tutte le difficoltà e gli inconvenienti che insidiano ogni movimento bellico; nelle Istorie fiorentine si seguono i vari r. con cui i protagonisti hanno cercato di rispondere alle difficoltà delle diverse situazioni. E nel confuso precipitare degli eventi vissuti nei suoi ultimi giorni, nel sempre più terribile precipitare della «ruina» d’Italia, M., percorrendone convulsamente il territorio, si trova ancora a confrontarsi con una situazione che sfugge da tutte le parti. Da Forlì, il 16 aprile 1527, scrive ancora a Vettori a proposito della «tramontana» che sta soffiando: di fronte all’incertezza di chi aspetta a Firenze, invano raccomanda di non «più claudicare, ma farla alla impazzata: e spesso la disperazione truova de’ rimedii che la elezione non ha saputi trovare» (Lettere, p. 459).
Bibliografia: J.M. Najemy, Between friends. Discourses of power and desire in the Machiavelli-Vettori letters of 1513-1515, Princeton 1993; C. Vasoli, Machiavelli e la filosofia degli antichi, in Cultura e scrittura in Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 27-30 ott. 1997, Roma 1998, pp. 37-62; J.-L. Fournel, J.-C. Zancarini, Sur la langue du Prince: des mots pour comprendre et pour agir, postface à N. Machiavel, Le Prince, traduction et commentaire de J.-L. Fournel, J.-C. Zancarini, Paris 2000, pp. 545610; G. Ferroni, Machiavelli o dell’incertezza. La politica come arte del rimedio, Roma 2003.