ALBIZZI, Rinaldo
Figlio di Maso di Luca e di Bartolomea di Andrea Baldesi, nacque a Firenze nel 1370, solo due anni prima del lungo esilio di Maso (1372-1381); ma la rinnovata preponderanza degli Albizzi nella vita politica cittadina nè favori la rapida ascesa: nel 1398, infatti, il Comune di Città di Castello lo elesse podestà, nonostante avesse solo ventotto anni, derogando dai propri statuti. L'anno dopo ebbe inizio la lunga attività diplomatica dell'A. documentata dalle Commissioni (poi edite dal Guasti). Nel corso di questa attività, egli fu il principale collaboratore del padre, ne secondò l'opera politica e si preparò a continuarla, muovendosi nell'ambito dell'indirizzo antivisconteo seguito da Maso.
Compì la prima missione nel Casentino (1399), ove era stato inviato per tenere in obbedienza il conte di Poppi, e nel novembre dello stesso anno comandò in Assisi le forze della lega antiviscontea inviate a presidiare la città. Nel 1402, dopo essere stato podestà a Dicomano, trattò a Rimini con Carlo Malatesta la cessione di un porto, per dare a Firenze uno sbocco nell'Adriatico che sostituisse gli scali di Talamone e di Pisa chiusi da Gian Galeazzo al commercio fiorentino. In questa occasione l'A. contrasse con il signore di Rimini una viva amicizia, a motivo della quale questi lo trattenne presso di sé conferendogli la carica di podestà (1403); per lo stesso motivo, negli anni seguenti (1403-1404), la Repubblica lo incaricò di trattare nuovamente con il Malatesta, che si era interposto come mediatore nel conflitto con il Visconti; contemporaneamente, l'A. lo tranquihizzava, concludendo la guerra tra i Fiorentini e gli Ubaldini, a causa della quale le truppe di Firenze si erano avvicinate al confine romagnolo. Nel 1405 fu chiamato per la seconda volta a Città di Castello come podestà e nei primi sei mesi di quell'anno svolse una intensa attività diplomatica a favore di quel Comune, che si era accordato con il papa sulla base di una larga autonomia nel complesso 4e1 dominio temporale. Nell'ottobre del 1405, scaduto il semestre della podesteria trifernate, fu inviato podestà a Castelfiorentino, poi (luglio 1406) oratore a Perugia, a Città di Castello e ad Urbino, per concludere una tregua in quella zona nella quale Firenze aveva forti interessi politici. Subito dopo intervenne (agosto 1406) presso Paolo Orsini e Ludovico Migliorati, inducendoli a rifiutare i soccorsi richiesti dai Pisani assediati, e un'analoga promessa di neutralità nel conflitto riuscì ad avere da Innocenzo VII e da Ladislao di Dutazzo. Al ritorno da Napoli (fine del 1406) fu nuovamente inviato a Città di Castello, dove ottenne che si stipulasse la pace definitiva con Perugia.
A questo primo periodo di missioni diplomatiche svolte in Romagna segui un secondo di ambascerie, intese a raggiungere gli scopi della politica fiorentina in relazione al problema di Pisa ed a quello dello Scisma. Nel giugno 1408 ottenne da Paolo Guinigi l'amicizia nel conflitto con Ladislao, poi accompagnò il papa Gregorio XII a Siena e ritornò a Livorno per porre fine ai contrasti che dividevano quel castello dal Porto Pisano. L'anno dopo (aprile 1409) fu inviato a Pisa presso i cardinali riuniti in concilio, per indurli ad accordarsi con Ladislao, protettore di Gregorio XII; quindi, tra il 1409 ed il 1410, prese parte ai negoziati della pace col re di Napoli, che procurò a Firenze l'acquisto di Cortona. Nel 1411 fu inviato a Venezia per ottenere l'esenzione dei mercanti fiorentini dalle tasse applicate ai forestieri per finanziare la guerra contro Sigismondo di Ungheria; nel biennio 1413-1415 trattò con Gregorio XII per la composizione dello Scisma, inoltrandosi fino a Napoli per congratularsi con Giovanna Il della sua ascesa al trono. La tarda età di Maso lo indusse, nel 1416, a non allontanarsi da Firenze, temendo che la morte improvvisa del padre offrisse agli avversari l'occasione per escluderne i discendenti dal potere. La scomparsa di Maso (2 ott. 1417) gli apri la via all'affermazione del proprio potere personale, dopo due decenni di intima collaborazione con lui; egli, anzi, volle accentuare nella vita pubblica le manifestazioni della sua preminenza politica, facendosi conferire solennemente il grado equestre con deliberazione della Signoria (14 apr. 1418). Si iniziano così gli anni del suo primato; egli esercitò in Firenze un potere signorile appena dissimulato dalle forme repubblicane del governo, ma la sua personalità non seppe contenersi nei limiti in cui si era mantenuto Maso. Della sua vivacità e prontezza di iniziative è buona testimonianza, oltre ai documenti ufficiali che ne ricordano gli interventi nei consigli della Repubblica, l'acume politico delle sue Commissioni.Egli continuò ad imprimere a Firenze l'indirizzo politico antivisconteo e guidò personalmente - le più importanti ambascerie fiorentine nel periodo preparatorio alla guerra con Filippo Maria e nel corso del conflitto con Milano. Rompendo ogni indugio, l'A. preferì guidare Firenze alla guerra dichiarata contro il Visconti, facendo nominare Pandolfo e Carlo Malatesta comandanti delle truppe e recandosi egli stesso al campo, come commissario, insieme con Francesco Tornabuoni (settembrenovembre 1423). Iniziato il conflitto, l'A. ne fu convinto sostenitore, anche quando, nei primi mesi del 1424, parve possibile un accordo col duca, ai cui desideri di tregua corrispondevano analoghe tendenze nei consigli della Repubblica. Il fallimento delle trattative di Ferrara, nel corso delle quali capeggiò la missione fiorentina, e il suo vivace intervento nelle consulte a favore della guerra ad oltranza cominciarono a provocare l'ostilità popolare contro di lui e insospettirono anche alcuni tra gli stessi membri dell'oligarchia, timorosi di una sua aperta aspirazione alla signoria. Tuttavia, egli ottenne che fosse stabilita la pena di morte contro i fautori della pace, ma, al tempo stesso, si impegnò a concludere la guerra ponendo le premesse diplomatiche e militari della vittoria. Nel febbraio del 1424 fu inviato a Venezia, ma non seppe cattivarsi le simpatie del doge Francesco Foscari, che piuttosto irritò con il tono arrogante dei discorsi e con l'accenno alla possibilità di un intervento di Sigismondo nelle cose d'Italia; nè miglior esito ebbe la missione a Roma presso Martino V (giugno 1424), essendo il papa ostile alla Repubblica. La vittoria viscontea di Zagonara (1424) contribuì ad isolare ancora maggiormente Firenze, rendendo più difficile la posizione dell'A. di fronte agli oppositori suscitatigli dal cattivo andamento della guerra e dalle forti tasse necessarie per finanziarla. Egli fu inviato a rinnovare gli sforzi per concludere una lega con il papa e con Venezia, ma ancora una volta le proposte furono respinte da Martino V (luglio 1425), mentre la Serenissima riusciva a concludere l'alleanza con Firenze pur continuando le ostilità contro Sigismondo. Nel febbraio 1426 l'A. parti a capo di una solenne ambasceria destinata a spiegare all'imperatore la reale situazione italiana, per impedire che Filippo Maria riuscisse ad attirarlo nella sua alleanza; ilsuccesso di questa missione, conclusasi con i preliminari di un accordo tra l'Impero e Venezia, fu accresciuto l'anno dopo dall'ingresso nella lega antiviscontea dei Savoia, degli Estensi e dei Gonzaga. Anche il papa preferì partecipare agli accordi stipulati tra il duca ed i collegati a Venezia (30 dic. 1426). Risolti, almeno temporaneamente, i problemi di politica estera, l'A. poté dedicarsi a fronteggiare l'opposizione crescente all'interno. Nonostante che il governo della consorteria avesse realizzato la conquista di Pisa (1406), di Cortona (1410) e di Livorno (1421) ed avesse intensificato i rapporti commerciali con l'Oriente, accordandosi col sultano per avere in Alessandria le concessioni già in uso per le altre città marinare, l'oligarchia non era sicura del proprio potere e avvertiva il sordo rancore delle classi escluse dal governo dopo la repressione del 1381. Nel 1426 furono abolite le Compagnie, nelle quali la classe dirigente riteneva pericoloso lo spirito di associazione tra la gente umile, già colpito nel 1419 con lo scioglimento delle Confraternite. Nel 1421, inoltre, era morto Gino Capponi, esponente, con l'A. e con Niccolò da Uzzano, della politica oligarchica; l'A. era rimasto praticamente solo a decidere, essendo la sua personalità più rappresentativa di quella del moderato Niccolò.
Avvertendo il diffondersi del malcontento tra gli stessi ottimati sottoposti ad una forte tassazione per alleggerire i carichi dei meno abbienti, l'A. propose ai suoi amici (1426) di ridurre le Arti minori da quattordici a sette, restituendo nello stesso tempo i diritti politici ai Grandi; l'Uzzano accettò questo radicale mutamento degli Statuti solo a patto che la proposta fosse approvata anche da Giovanni de' Medici, estraneo all'oligarchia, ma dotato di una immensa fortuna economica e di un largo seguito in città. Il Medici dichiarò di preferire la conservazione degli antichi ordinamenti; il suo rifiuto impose all'A. la scelta di nuovi mezzi per eliminare il malcontento dovuto soprattutto alla pesantezza ed all'ingiusta distribuzione degli oneri fiscali.
Ancora una volta l'A. riuscì ad imporsi ai suoi amici politici, facendo approvare (1426-1427) la legge che istituiva il catasto, nel quale dovevano essere descritti i beni di ogni famiglia, mobili ed immobili, con la detrazione degli aggravi e dei debiti, fondandosi sulla denuncia fatta dagli interessati.
Il merito della riforma fu attribuito dal Machiavelli al Medici, ma, in realtà, esso appartiene all'A., che si dimostrò uomo politico onesto ed intelligente, quantunque con quella proposta si alienasse le simpatie dei suoi amici (tra cui era Palla Strozzi), che erano ostili alla riforma che li colpiva nel patrimonio; nè, d'altra parte, il nuovo sistema fiscale gli acquistò più larga popolarità tra le altre classi sociali.
Due anni dopo (20 febbr. 1429) moriva Giovanni de' Medici, lasciando al figlio Cosimo un immenso patrimonio ed un largo favore popolare. Rinnovata la guerra con Milano, l'A. aveva cominciato a caldeggiare la necessità della conquista di Lucca aUeata al Visconti trovando consenziente il Medici (che agi ispirato dalla stessa passione, e non, come dice il Giannotti, per attirare l'A. nel tranello di una guerra lunga e difficile), ma diffidente - fra altri pochi -l'Uzzano. Accusato dai Fiorentini di lentezza interessata nella condotta delle operazioni per gli insuccessi dell'impresa, l'A. chiese di essere giudicato dai Dieci, che lo scagionarono di ogni accusa di concussione. Tornò quindi alla direzione della guerra con rinnovataenergia, approvando gli infruttuosi tentativi compiuti dal Brunelleschi per deviare il corso del Serchio; ma, indebolito di nuovo politicamente per la sconfitta patita sotto le mura della città rivale e le umiliazioni subite dagli oratori fiorentini a Siena (fine del 1432), l'A. si ritirò dalla condotta delle operazioni, tentando di addossare a Cosimo la colpa della disfatta. Volendo stroncare alla radice l'opposizione, propose agli amici di convocare il parlamento per chiedere al popoìo l'esilio del Medici; trovò un ostacolo in Niccolò da Uzzano, che si oppose all'azione contro Cosimo non per porre limiti alla potenza dell'A. (come affermò Machiavelli), ma piuttosto per evitare la rovina del suo parente, sfuggendo così anche al rischio rappresentato da una azione condotta contro un personaggio ben visto dal popolo dal quale lo si voleva far bandire. La morte di Niccolò da Uzzano (1432) tolse all'A. un moderatore, mentre la stipulazione della pace di Ferrara (aprile 1433), eliminava la causa più grave ed immediata del malcontento. Rimasto solo con il debole Palla Strozzi a capo della oligarchia, l'A. preparò, nell'estate del 1433, l'azione contro Cosimo; lo fece chiamare a consiglio dalla Signoria composta dei suoi fautori e capeggiata da Bernardo Guadagni. Arrestato, Cosimo seppe agire accortamente allontanando dal suo capo la condanna a morte richiesta dall'A. Il Guadagni, corrotto dai doni del Medici, e Palla, Strozzi, per intento di moderazione, riuscirono a mutare la pena capitale minacciata in un anno di esilio a Padova.
Si era interposta anche la Serenissima, che aveva valutato le reali possibilità di vittoria dell'A. e ne temeva un possibile orientamentofilovisconteo. L'A. aveva scoperto le sue mire senza aver potuto colpire e dovette assistere alla partenza trionfale di Cosimo, scortato dal gonfaloniere stesso e seguito dalla simpatia popolare; dall'esilio il Medici continuava ad interferire nelle cose di Firenze attraverso gli amici, mentre la permanenza a Venezia gli permetteva di cattivarsi la simpatia della Serenissima, alla quale fece grandi prestiti di denaro.
La crisi politica dell'A. si fece sempre più evidente; nell'agosto del 1434 fu estratta a sorte una Signoria composta da uomini sospetti per la devozione a Cosimo; deciso a tentare un colpo di stato, propose ai suoi di chiedere al gonfaloniere uscente, Donato Velluti, la distruzione della lista sorteggiata, rifacendo le borse degli eleggibili alla Signoria. Ancora una volta i moderati del suo seguito si divisero da lui, insieme con Palla Strozzi, obbligandolo a permettere l'insediamento dei priori amici di Cosimo. Questi fecero subito imprigionare il Velluti e chiamarono a Palazzo l'A., Rodolfo Peruzzi e Nicola Barbadori, suoi fautori. I tre scesero a capo dei loro seguaci in piazza per resistere con le armi; ma Palla Strozzi e Giovanni Guicciardini si rifiutarono di seguirli, mentre il fratello dell'A., Luca, prendeva a sua volta le armi per opporsi al tentativo di sedizione. Il papa Eugenio IV, che abitava a Santa Maria Novella, si interpose come paciere e convinse l'A. ad arrendersi. Preso coraggio, la Signoria lo fece arrestare e convocò il popolo per eleggere una Balia incaricata di richiamare Cosimo e di esiliare a sua volta l'A. ed i suoi amici, compreso Palla Strozzi, quantunque moderato. L'A. fu confinato (13 nov. 1434) a Trani ed il figlio Ormanno fu inviato al confino a Gaeta; gli altri figli furono condannati per quindici anni alla privazione dei diritti politici. Egli ruppe ben presto il confino e, insieme con il figlio, si recò a Milano per ottenere da Filippo Maria l'aiuto necessario per un ritorno armato. Per questo motivo fu dichiarato ribelle e condannato alla confisca dei beni. Ridotto a combattere la sua patria sotto le insegne viscontee, fu (13 luglio 1440) condannato nuovamente alla pena di morte e fu dipinto impiccato nel palazzo del podestà. Dopo la disfatta viscontea di Anghiari (1440) depose ogni velleità di vendetta; si ritirò in Ancona, e di qui si allontanò per recarsi in Terrasanta. Ne tornò verso la fine del 1441 e morì poco dopo (2 febbr. 1442), mentre si festeggiavano le nozze della figlia Nicoletta con Giovanni degli Agli. Fu sepolto nella chiesa di San Domenico.
Nel 1392 aveva sposato Alessandra di Gucciozzo de' Ricci, così come gli aveva ordinato il padre, per staccare la famiglia della sposa dalla amicizia con "gli Alberti; dalla moglie ebbe Ormanno, Margherita, Felice, Tobia, Giovanni, Susanna, Dragotto, Nicoletta, Selvaggia, Silvestro, Francesco e Maso. Ai figli aveva dato per pedagogo l'umanista Tommaso Parentucelli. Gli furono attribuiti alcuni scritti, tra cui qualche sonetto, una Vita del cardinale Alamanno Adimari e un Ragionamento sulla guerra di Milano.
Fonti e Bibl.: Le sue relazioni sull'opera svolta nel corso delle ambascerie furono pubblicate da O. Guasti, Commissioni di R. degli A. per il Comune di Firenze, dal 1399 al 1433,Firenze 1867-1873; per i sonetti attribuitigli, cfr. G. Lami, Catalogus codicum manuscriptorum... qui in Bibliotheca Riccardiana... adservantur,Liburni 1756, p. 16; sugli altri suoi scritti, cfr. il Litta.
Per lo studio della lotta politica del suo tempo si vedano le storie di Firenze del Capponi e del Perrena e inoltre L Simeoni, Le Signorie,Milano 1950;N. Valeri, Le Signorie,Torino 1950, nelle quali opere è citata e discussa la bibliografia e sono ricordate le fonti documentarie e narrative. Per l'esposizione dei dati biografici, cfr. P. Litta, Famiglie celebri italiane, Albizzi di Firenze,tav. XV, e le fonti citate; al Litta attingono, tra le altre, le trattazioni enciclopediche di A. Pa-nella, voce Albizzi,in V. Spreti, Encicl. stor. -nobiliare ital.,I, Milano 1928, pp. 345-346, e U. Dormi, A. R.,in Encicl. Italiana,II, pp. 207-208. Per notizie sulla giovinezza e sulle premesse della sua attività politica, cfr. A. Rado, Maso degli Albizzi...,Firenze 1926, passim;per i giudizi sugli aspetti umanistici della personalità dell'A., si veda V. Rossi, Il Quattrocento,Milano 1938, pp. 34 e 124-125.