Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il fascino che le rovine antiche hanno sempre esercitato sulla cultura occidentale trova nel primo Quattrocento terreno fecondo soprattutto a Firenze e Padova, dove gli artisti studiano i reperti per creare nuove forme e per interpretarne i soggetti con rigore filologico. Nella seconda metà del secolo, attraverso la sistematizzazione delle esperienze precedenti, si definiscono all’interno delle corti i termini del gusto “all’antica”.
L’equivoco che vede la riscoperta dell’antico quale novità esclusiva della cultura quattrocentesca è già stato chiarito da Erwin Panofsky nel testo Rinascimento e Rinascenze nell’arte occidentale (1960), dove lo studioso sottolinea come la storia della cultura occidentale si sia periodicamente confrontata col mondo antico. Già nella tradizione medievale infatti si possono rintracciare delle riprese, “rinascenze” appunto, nei motivi ornamentali delle porte bronzee della Cappella Palatina di Aix-la-Chapelle (786-804) o nelle Virtù e Sibille del pulpito del duomo di Siena di Nicola Pisano (1210/1220-1278/1284) e Giovanni Pisano (1265-1269).
Tali “rinascenze” tuttavia si differenziano dal Rinascimento per un diverso rapporto con il passato. Gli artisti del Quattrocento studiano i reperti per ricondurli a significati più corretti, vi rintracciano nuovi soggetti, osservano le forme per trarne modelli naturalistici, consci della distanza che separa il loro mondo da quello antico. In virtù di tale consapevolezza possono quindi accostarsi a quel passato con il distacco proprio dello storico e una mentalità più selettiva. Studiosi, letterati e artisti esplorano le rovine di Roma e cercano le vie più corrette per riappropriarsene e ricongiungersi al mondo antico. Solo così si possono comprendere gli sforzi di Lorenzo Ghiberti (1378-1455) nel tracciare, nelle pagine dei suoi Commentarii (1448-1459), una prima storia dell’arte dove lui stesso e i suoi contemporanei sono direttamente legati alla storia antica.
Inoltre, lo studio approfondito della classicità e il desiderio di essere eredi di quella cultura alimentano la volontà degli umanisti di conoscere la realtà circostante, che la tradizione medievale aveva giudicato inafferrabile. Nel primo Quattrocento si ricercano infatti nella filosofia platonica gli strumenti per comprendere le leggi che governano il mondo, come nel mito e nella storia romana si rintraccia una nuova antropologia “laica” e esemplare. Da qui deriva una concezione dello spazio, della realtà e della storia stessa a misura d’uomo, che non lasci posto ad approssimazioni o dubbi.
All’inizio del Quattrocento Firenze appare la città più sensibile a queste ricerche. Accanto a numerosi letterati e artisti, che puntano al rinnovamento sull’esempio dei classici, c’è una committenza privata attenta alle nuove istanze e un governo comunale pronto a investire in una nuova politica culturale.
I modi con cui gli artisti partecipano a questo fervore non sono univoci, né sono scontati gli stimoli che ricevono dall’antico. Molteplici personalità, e altrettanti differenti approcci al classico, trovano così occasione di confronto nel prestigioso cantiere di Santa Maria Novella. Qui Nanni di Banco (1380 ca.-1421) e Donatello (1386-1466) realizzano, per una nicchia della tribuna della chiesa e per il campanile, le statue dell’evangelista Luca (1408-1413) e del profeta Abacuc (1423-1425), oggi conservate al Museo dell’Opera del duomo di Firenze.
Entrambi attingono alle fonti classiche, raggiungendo risultati diversi. Nanni di Banco, attento alla percezione dell’opera, allunga leggermente la figura per correggere l’errore ottico dovuto all’elevata collocazione della statua, e rintraccia nella gestualità severa e nei volti della ritrattistica imperiale romana le fonti per conferire dignità e autorevolezza al santo. Donatello punta invece a “un’imitazione non già di forme e risultati raggiunti, ma dei processi per raggiungerli” (Eugenio Garin, La cultura del Rinascimento, 1967): egli infatti non cerca più nel reperto antico un prontuario di gesti e figure, ma una fucina di mezzi tecnici per ottenere la massima espressività fisiognomica. I modelli antichi sostituiscono la natura stessa, poiché la ripropongono al sommo delle potenzialità artistiche che sono ora il vero oggetto di indagine. Con un’impercettibile sfasatura delle gambe che conferisce dinamicità, grazie a un panneggio che evidenza la magrezza del corpo e, soprattutto, grazie ai modelli del ritratto ellenistico, Donatello riesce ad attribuire al volto del profeta una veridicità che sfiora i confini del grottesco.
Lo stesso atteggiamento pragmatico ispira la pratica architettonica di Filippo Brunelleschi (1377-1446) il quale cerca nei resti archeologici le leggi matematiche che governano la proporzione degli spazi e permettono un’armonica distribuzione della luce.
Paradigma di questa nuova appropriazione dell’antico è la Sacrestia Vecchia della chiesa di San Lorenzo del 1428, dove l’artista costruisce uno spazio essenziale la cui geometria è fortemente scandita dal recupero dell’arco a tutto sesto, dall’uso di un unico ordine architettonico e da sobrie modanature in pietra serena.
Anche Leon Battista Alberti (1404-1472), appassionato frequentatore della letteratura antica e scrupoloso indagatore dei reperti antiquari, rivisita le tipologie dell’arte classica per recuperarne il valore morale e simbolico. Il progetto albertiano a pianta centrale per il Tempio Malatestiano di Rimini (1450) e l’armonica combinazione della colonna e dell’arco di trionfo mirano soprattutto a celebrare la perfezione del cosmo e a esprimere l’idea platonica di bellezza.
L’approccio all’antico di taglio più storico di Leon Battista Alberti è per certi aspetti affine a quello sperimentato già dalla fine del Trecento dall’ambiente padovano, dove i testi latini sono analizzati secondo un’indagine filologica volta a rintracciare i concetti della cultura classica. Così nel 1375 l’umanista Giovanni de’ Dondi (1318-1389) descrive minuziosamente le antiche vestigia di Roma nel suo Iter Romanum, in netto anticipo sulle ricerche di Flavio Biondo (1392-1463) e dello stesso Alberti.
Anche il potere politico subisce questo fascino e coinvolge gli artisti nel progetto di riallacciare i legami con la tradizione classica. Nel 1390 Francesco II da Carrara (1390-1405), per celebrare la riconquista di Padova, fa coniare alcune medaglie che recuperano, nell’effige sul recto, lo stile della ritrattistica imperiale romana.
È poi la bottega di Francesco Squarcione (1397-1468), dove si affastellano calchi in gesso di statue antiche, a fare da palestra per quella cerchia di artisti inclini a “incorniciare le figure entro nicchie, archi, edicole pesanti, abbondantemente sagomate e intagliate […] elementi costanti di questo espressionismo nutrito di archeologia” (André Chastel, La Grande officina. Arte italiana, 1460-1500). Da qui escono allora le Madonne con Bambino di Carlo Crivelli (1430 ca. - 1494 ca.), Marco Zoppo (1433-1478) e Giorgio Schiavone (1433-1504), dove putti molto plastici si aggrappano ai festoni del trono e parapetti marmorei esibiscono cartigli e bassorilievi. Nello stesso ambiente si forma anche Andrea Mantegna (1431-1506). Coinvolto giovanissimo nell’impresa della Cappella Ovetari nella chiesa padovana degli Eremitani (1450-1460), restituisce alle forme classiche appropriati significati che lo studio filologico delle fonti letterarie ha permesso di conoscere. È qui infatti che archi trionfali, soffitti cassettonati, candelabre e capitelli corinzi si susseguono con un rigore che non cede al dettaglio erudito, né sfocia nella ricomposizione fantastica. L’arcone che inquadra il Giudizio di San Giacomo scandisce la solennità del momento, così come le sfingi che decorano il trono denunciano la tirannia di Erode e il clima funebre, richiesto dalla funzione della cappella, è accentuato nella scena del Martirio e trasporto del corpo di San Cristoforo dal motivo a palmette e foglie d’acanto, da tritoni e putti-reggighirlanda, desunti dai tanti sarcofagi e cippi commemorativi presenti in territorio padano.
Ma per vivere davvero le suggestioni dell’antico gli artisti, anche quelli fiorentini, padovani e veneziani, pur avvantaggiati dalle ricche collezioni locali, sono consapevoli che è Roma il luogo da frequentare.
Dagli anni Trenta del Quattrocento la città, grazie alla nuova politica papale, non si presenta più come semplice fonte ispiratrice, ma trae dalle vestigia romane una personale interpretazione. Gli splendori del passato sono riletti e riproposti come prefigurazioni del presente, dove la grandezza di Roma antica corrisponde alla potenza della Roma cristiana. Nel 1433 papa Eugenio IV (1431-1447) affida la realizzazione della porta bronzea di San Pietro al fiorentino Filarete (1400-1469 ca.) che riformula i temi classici in chiave cristiana. Così i ritratti degli imperatori e gli episodi della storia romana anticipano il trionfo della Chiesa, e la monumentalità delle porte del Pantheon è tradotta dall’artista toscano nelle ampie formelle che illustrano la storia cristiana e alludono alla politica di riaffermazione del potere condotta da Eugenio IV.
Questo intreccio tra i due mondi s’intensifica nel progetto di renovatio urbis promosso da Niccolò V (1447-1455) e poi da Sisto IV (1414-1484), che si concentra sulla promozione dell’area vaticana e sul suo centro spirituale e geografico, la basilica di San Pietro.
La scoperta delle pitture della Domus Aurea sull’Esquilino, avvenuta negli anni Ottanta del Quattrocento, introduce nuove suggestioni, capaci di tener testa ai più visionari mostri del Gotico internazionale. Nasce così la grottesca, genere autonomo della decorazione, che da Roma s’irradia nei centri della penisola, propensi ad accogliere immagini raffinate, i cui significati non siano sempre facilmente intelligibili.
Alla fine del Quattrocento infatti la rilettura dell’antico ha obiettivi sempre più elitari e fuori dalla storia. Quando le signorie hanno raggiunto la stabilità politica, quando le speculazioni neoplatoniche cominciano a sostituirsi all’empirica filosofia aristotelica, i ricchi e colti committenti colgono del mondo classico gli aspetti più intellettualistici, e alla vita attiva, all’exemplum morale che spinge all’azione si preferisce ora la speculazione. La rielaborazione della tradizione si colora di sfumature antichizzanti e antiquarie più che antiche e archeologiche, e si avvia verso le declinazioni inquiete di Filippino Lippi (1457-1504), il linearismo indagatore di Pollaiolo (1429-1498), l’oscuro linguaggio mitologico di Botticelli (1445-1510), le congiunzioni fantastiche del Pinturicchio (1454-1513) tra bestiari medievali e citazioni erudite.