Rinascimento
Periodo di storia della civiltà che ebbe inizio in Italia con caratteristiche già abbastanza precise intorno alla metà del sec. 14°. Destinato a estendersi successivamente e a differenziarsi nei diversi campi della cultura e dell’arte, ma con vaste risonanze in ogni settore della vita e dell’attività dell’uomo, il movimento rinascimentale oltrepassò presto i confini dell’Italia per diffondersi negli altri paesi europei. I suoi limiti cronologici possono fissarsi con buona approssimazione tra la metà circa del Trecento e la fine del Cinquecento, anche se alcuni studiosi tendono a circoscrivere l’arco cronologico tra il 1400 e il 1550, o addirittura tra il 1492 e il 1600.
Nella forma attuale e con funzione periodizzante, il termine è entrato nell’uso italiano piuttosto tardi (nel 16° sec. si incontra, se mai, Rinascita) e sul modello del francese Renaissance. In Francia il suo significato può considerarsi consacrato nel celebre Discours préliminaire de l’Encyclopédie, in cui d’Alembert, sintetizzando e sistematizzando concetti elaborati da molto tempo, e ampiamente diffusi nel Settecento, lo imponeva al mondo della cultura, accompagnandolo con una serie di connotazioni destinate a conservarsi a lungo: l’origine della Renaissance collocata nello studio degli antichi, soprattutto dei Greci, e in connessione con la caduta di Bisanzio; la scansione interna alla Renaissance dall’erudizione alle lettere, alle arti, alla filosofia, alle scienze, alle tecniche; la proclamazione che la Renaissance è stata una «rivoluzione» che ha aperto la via alla civiltà moderna quale epoca di illuminazione progressiva in antitesi con le tenebre medievali. In Italia il termine R. non si diffuse, come si potrebbe pensare, per l’influenza del titolo del notissimo 9° vol. della Histoire de France di J. Michelet, La Renaissance, uscito nel 1855; si impose invece con la traduzione dell’opera di Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien, pubblicata nella versione originale nel 1860, e nella trad. di D. Valbusa rivista dall’autore nel 1876. Prima d’allora non mancano certo esempi dell’uso del termine con significato specifico, particolarmente nel Settecento e nei primi decenni dell’Ottocento, e proprio in polemiche sul Medioevo. Tuttavia il termine che ha maggior fortuna è Risorgimento, e di Risorgimento parlano in genere i dotti del Settecento che così ampiamente e con tanta simpatia studiarono quel periodo. Se non il termine preciso, espressioni e immagini analoghe (renovatio, restitutio, resurrectio), attestanti proprio la presenza del concetto di un ritorno alla vita, di un rinascere (rinasci), si trovano usate fin dalle origini del periodo in questione.
È forse lecito affermare che il R. è stato un ritorno alle origini e una scoperta del mondo classico nella misura in cui ha avuto consapevolezza del significato e dei limiti del mondo medievale, ed è stato una forma nuova e originale di classicismo e di umanesimo nella misura in cui ha compreso – e ha respinto – l’uso che il Medioevo aveva fatto dell’antichità. Dalla lingua alle arti e alle scienze, la cultura del R. ha cercato sempre di operare su due fronti: il restauro filologico e la coscienza storico-critica, in modo da evitare sia l’imitazione passiva sia l’assimilazione falsificante. Anche nel Medioevo è costante la presenza dell’antico e di valori e contenuti universalmente umani, poi caratteristici anche del Rinascimento; la differenza consiste, da un lato, nella misura, e dall’altro, nei modi e nelle forme di tale presenza, che nel R. è, a un tempo, corale e sempre più criticamente storicizzata, e perciò né passivamente subita né deformata in utilizzazioni arbitrarie. L’immagine ricorrente, si pensi solo ad Alberti o a Machiavelli, dei colloqui con gli antichi, non è un luogo retorico: è carica di senso, così come il vanto di Poggio Bracciolini dei classici prima incatenati e sfigurati nel carcere dei monasteri medievali e ora finalmente restituiti alla loro fedele integrità. Ciò che la civiltà medievale si è lasciata sfuggire del mondo antico – questo è il rimprovero ricorrente – è la reale dimensione della sua cultura: o l’ha mutilata isolandone alcuni tratti, o l’ha deformata assimilandola arbitrariamente, o l’ha condannata e respinta senza coglierne il valore esemplare. D’altra parte, questa consapevole storicizzazione dell’antichità classica, nonché delle ‘tenebre’ medievali, non avvenne d’un tratto; essa si svolse e si approfondì con il precisarsi delle ragioni della polemica e del rifiuto, con il chiarirsi della consapevolezza e con il definirsi dei programmi. La storiografia recente tende per lo più a interpretare il rapporto tra Medioevo e R. nei termini di una dialettica di continuità e discontinuità, che, da un lato, enfatizza la presenza già dal 12° sec. di fermenti manifestatisi compiutamente solo nel periodo umanistico-rinascimentale, dall’altro, rivendica al R. una consapevolezza dell’effettiva portata storica di quel rinnovamento che è un dato di reale novità e che gioca nella direzione di una continuità con l’età della rivoluzione scientifica e l’Illuminismo.
Come si è detto, almeno inizialmente, nella sua prima fase, l’aspetto più vistoso dell’età del R. è il ritorno dell’antico, del mondo classico, degli auctores, della lingua e della civiltà della Grecia e di Roma. A prima vista un paradosso: il rinnovamento radicale della cultura viene avviato come riesumazione di un passato lontano; la rinascita è esaltata come momento di un ciclo, e proprio come il momento in cui ci si volge indietro. Si direbbe che quanto più duro si fa in Italia lo scacco politico, tanto più alto e ampio diventa l’ideale proposto agli sforzi degli uomini. Il ritorno all’antichità classica sembra approfondirsi nel richiamo all’originario, al naturale, diventando reintegrazione o reformatio contro ogni corruzione politica, morale, religiosa. Come gli istituti umani vanno tutti riportati ai principi (secondo la celebre teorizzazione di Machiavelli) in modo da invertire il processo degenerativo, così sul piano della cultura è necessario ritornare alla purezza della sorgente e all’integrità degli originali. Pregio infatti dei classici è la fedeltà al reale e all’umano; gli antichi hanno saputo tradurre in modo esemplare la ‘natura’, nel senso che hanno saputo individuare l’essenziale ed esprimerlo. Dirà Ficino che interna alla natura c’è un’arte, ossia una potenza dinamica che la informa: ed è questa forza vivificante che conviene imitare. Il problema dell’imitazione non a caso è ricorrente nella letteratura del R. e sembra costituire un passaggio obbligato. Rifiuto polemico di una cultura disumana; ricerca e riscoperta degli antichi nella loro autenticità; confronto con il mondo antico e comprensione del suo significato; elaborazione di una cultura nuova e originale al di là di una imitazione servile: in questo complesso programma l’humanitas, l’esaltazione degli studia humanitatis, l’humanista e insomma tutto l’Umanesimo, vengono sfumando variamente il loro significato; da studio degli auctores, da ripresa delle artes sermocinales, da riforma linguistica e retorica, a processo di liberazione umana, a nuovi metodi di educazione, a riscoperta del valore dell’uomo, o, meglio, a una nuova fondazione del significato dell’uomo. Per gradi, il risorgimento dell’antichità classica diventa rivoluzione, una grande ‘rivoluzione culturale’ che investe tutto il pensiero filosofico e scientifico, le arti e l’architettura, la politica e il diritto, la vita religiosa, mentre il mito dell’antico si estende e si trasforma. Prima di Aristotele c’è Platone, ci sono Socrate e Pitagora e i filosofi antichissimi. Alle soglie del Cinquecento G.F. Pico sosterrà che «l’esplorazione dell’Universo intero fu il compito assegnato alla ricerca dei filosofi, non il commento del solo Aristotele», ossia di un uomo, ancorché grande; e nell’Examen vanitatis doctrinae gentium aggiungerà che, al di là dai libri, al di là da Platone e da Socrate, bisogna ricorrere alle cose stesse, a quella che dovrebbe dirsi la biblioteca della natura (quasi bibliotheca naturae). Il ritorno agli antichi verrà così, oltre il mito, generando il senso della pluralità delle visioni del mondo, della loro parzialità, e quindi della necessità di stabilire dei rapporti: le comparationes (fra Cicerone e Quintiliano, fra Platone e Aristotele). Ne nasceranno, faticosamente, diverse linee interpretative: la concordia universale nell’unica verità di fondo (G. Pico della Mirandola); la irriducibile discordia, per l’incapacità della ragione di giungere per sé alla verità (G.F. Pico e le correnti scettiche); lo sviluppo storico di una verità che si conquista nel tempo (Machiavelli).
Non si intendono alcuni degli aspetti fondamentali del R. se non si riflette sull’ingresso massiccio di tanta parte del patrimonio greco che per la prima volta torna a vivere in Italia in alcune delle sue manifestazioni più alte: da Omero a Platone, dai tragici a taluni dei massimi scienziati. I duecentotrentotto volumi che G. Aurispa nel suo viaggio in Grecia del 1421 mette insieme per farne commercio, contengono non pochi fra i più grandi tesori dello spirito umano, in ogni campo. Nello stesso tempo l’avanzata turca spinge sempre più numerosi i Bizantini verso l’Italia. Il Concilio per l’unione, svoltosi fra il 1437 e il 1439 fra Ferrara e Firenze, riannoda contatti e recupera conoscenze. Uomini come Giorgio Gemisto Pletone e il cardinale Bessarione lasciano una traccia profonda. Senza Pletone, e il sogno di culti solari e di restaurazione pagana, rimarrebbero incomprensibili non pochi aspetti misteriosofici del platonismo fiorentino. Non a caso si scatena intorno a lui la rabbiosa polemica su Platone e Aristotele, così carica di contrasti politici e di scontri ideologici, allorché Giorgio Trapezunzio non esiterà a presentare Platone come la nuova incarnazione di Epicuro e di Maometto, l’Anticristo che aprirà la strada alla sconfitta della civiltà occidentale. La lettera di Bessarione al doge, del 31 maggio 1468, con cui dona a Venezia la propria biblioteca di 482 codici greci e 264 latini, sembra sigillare il passaggio della cultura greca classica alle città italiane. Dopo il 1453, e la fine dell’Impero d’Oriente, è un testamento che assurge a valore di simbolo. Se Firenze, fra l’arte di Brunelleschi e di Masaccio, la matematica di Paolo Toscanelli e le conturbanti visioni di Alberti, realizzerà con Pico, Ficino e A. Poliziano le più alte esperienze speculative e pratiche del secolo, Venezia nell’opera di A. Manuzio attuerà il desiderio estremo di Bessarione: consegnare intatto all’umanità il messaggio della sapienza ellenica. Venezia darà nel Cinquecento all’intera Europa, con la collaborazione di uomini europei come Erasmo, il frutto dell’incontro felice del R. italiano con le vive testimonianze del pensiero della Grecia classica. Al fine di «conoscere la Grecia», Erasmo era venuto in Italia nel 1506. Alcuni autori rimessi in circolazione operarono per secoli sull’andamento del sapere: Platone, Plotino e Proclo, Porfirio, Giamblico, i testi ermetici e Psello (il tutto grazie, anche se non soltanto, alla ponderosa traduzione ficiniana), ma anche Diogene Laerzio, Epicuro, Lucrezio e un Aristotele ‘nuovo’, quello medievale e quello recuperato dagli umanisti, consegnato al Cinquecento maturo dall’edizione giuntina, fino agli scienziati e i matematici dell’antichità: Archimede, Apollonio di Perge e Pappo. Va aggiunto che l’ellenismo, inseritosi sempre più largamente con il Concilio di Firenze e, poi, dopo il 1453, con gli esuli bizantini, creò una nuova atmosfera, attraversata da forti spinte verso il mondo della tarda antichità, quando si infittirono gli incontri con un Oriente ‘mistico e magico’. Ermetismo, occultismo, magia, teurgia, astrologia divinatrice, culti astrali, misteri egizi, non erano stati certo senza eco nei secoli di mezzo; ma fu soprattutto dagli anni Quaranta in poi che il Quattrocento ne vide una diffusione eccezionale. I libri ermetici, e poi Giamblico e Proclo, gli Oracoli caldaici, l’imperatore Giuliano, si mescolano a manuali di magia e di astrologia, e godono di una fortuna larghissima, per incontrarsi, sulla fine del secolo, con il gusto – alimentato da G. Pico – della cabala e del misticismo ebraico. E quando anche l’ultima eco sembrò spenta, e il ciclo concluso, nacque, sul terreno della ricostruzione storica, il nuovo mito, con i Michelet e i Burckhardt: il Renaissancismus, secondo il non traducibile termine introdotto nella storiografia tedesca nel 1917, sembra, da F.F. Baumgarten.