Ripensare il mondo. Le provvisorie lezioni dell'11 settembre
11 settembre
Negli Stati Uniti quattro aerei di linea vengono dirottati da terroristi e portati a colpire, in una successione di attentati senza precedenti, obiettivi di forte valenza simbolica: due si abbattono a New York sulle Torri Gemelle del World Trade Center, che crollano al suolo; un terzo si schianta su un'ala del Pentagono a Washington; un quarto, che probabilmente sarebbe dovuto cadere su una sede politica della capitale (la Casa Bianca o il Campidoglio), precipita a Stony Creek, in Pennsylvania, in seguito al tentativo dei passeggeri di fermare i dirottatori. Le vittime, di cui è impossibile determinare con esattezza il numero, sono più di 6000. I principali sospettati sono i fondamentalisti musulmani e, in particolare, Osama Bin Laden, lo sceicco arabo ritenuto il capo della rete terroristica islamica.
Una data storica
L'11 settembre 2001 è una data storica. Corrisponde non solo al primo attacco al territorio statunitense da quasi due secoli, e quindi alla fine del mito dell'invulnerabilità americana, ma anche all'inizio di una rivoluzione geopolitica. Tale sconvolgimento non è stato provocato dall'azione di uno Stato o di un gruppo di Stati, come era accaduto finora nella storia moderna, ma da ignoti. L'unica certezza è che si tratti di terroristi, molto probabilmente legati alla rete di Al Qa'ida ("La base"), che fa capo a Osama Bin Laden, fautore della 'guerra santa' contro 'gli ebrei e i crociati'. È intuibile che i terroristi disponessero di collegamenti e appoggi in apparati statali di paesi islamici, non necessariamente nemici degli USA, oltre che di basi logistiche negli stessi Stati Uniti.
In quella data è cominciata quindi una 'lunga guerra' (definizione del presidente americano George W. Bush) al terrorismo internazionale, cui si è opposta, da parte di Bin Laden e dei talebani afghani che lo ospitano, la 'guerra santa' islamica. Vediamo anzitutto di esaminare gli obiettivi dei contendenti e le risorse di cui dispongono per raggiungerli.
Cominciamo con gli aggressori. Se accettiamo che appartengano al radicalismo islamico, possiamo indicare almeno tre possibili obiettivi. Primo: colpendo gli USA, volevano dare alle masse islamiche il senso che esiste un'alternativa all'egemonia globale del 'regno di Satana'; intendevano insomma enfatizzare che c'è speranza di vincere la battaglia per l'affermazione della 'Vera Fede'. Secondo: specularmente, puntavano a creare lo scompiglio nel campo nemico, che comprende non solo l'America con i suoi alleati, europei in testa, ma soprattutto i regimi filo-occidentali in Medio Oriente e in Asia Centrale. Terzo: per conseguenza, potevano pensare di favorire la caduta di alcuni di quei regimi - sopra tutti quello egiziano e quello pakistano - contro i quali si dirige il loro disprezzo e dai quali vengono spietatamente combattuti.
Quanto agli aggrediti, anzitutto gli USA hanno intenzione di impedire il ripetersi di un attacco analogo, magari di potenza più devastante come sarebbe, per es., quello compiuto attraverso l'impiego di mezzi di distruzione di massa. Se finora i terroristi non hanno inquinato gli acquedotti o piazzato un rudimentale ordigno nucleare in un garage di Manhattan è perché evidentemente non dispongono ancora delle risorse necessarie. Stroncando la rete di Bin Laden, gli americani sperano di annullare la possibilità di una simile apocalisse. In secondo luogo, gli USA sono impegnati a proteggere il loro way of life, sconvolto dagli attentati. È una 'lotta per la libertà', come annunciato da Bush. In termini pratici, si tratta di evitare che il sistema istituzionale, sociale ed economico americano venga intaccato seriamente. In qualche misura, questo è già avvenuto, data la potenza dell'attacco subito, in termini sia materiali sia simbolico-psicologici. Ma se il terrore dovesse diffondersi nella popolazione statunitense, reazioni securitarie potrebbero minare il carattere democratico e aperto della vita associata in America. Per evitare questa catastrofe, gli americani sono disposti a mettere in gioco le loro vite. Infine: Washington intende riaffermare la sua egemonia planetaria, messa in discussione dall'aggressione subita, rivedendo tutto il suo sistema di relazioni con il resto del mondo.
Una nuova era geopolitica
Lo sconvolgimento geopolitico provocato dall'attacco all'America è difficilmente misurabile, ma certamente implica una revisione totale della mappa del potere su scala planetaria. Vediamo come questa sta avvenendo, soprattutto da parte americana.
"D'ora in poi non saranno le alleanze a definire le missioni, ma le missioni a definire le alleanze", ha scritto il ministro della Difesa Donald Rumsfeld (Creative coalition-building for a new kind of war, in International Herald Tribune, 28 settembre 2001): "Questa sarà una guerra come nessun'altra. Non sarà combattuta da una grande alleanza unita per difendere un asse di potenze ostili. Al contrario, essa implicherà coalizioni fluttuanti, che possono cambiare ed evolvere". È la fine dell'illusione americana di potersi ritirare dall'impegno diretto per la gestione della propria sicurezza, grazie a quella vittoria nella guerra fredda, che oggi sembra un lontano ricordo. Nel 1992, essendo scomparsa l'Unione Sovietica, per la prima volta nella storia il centro esclusivo del potere mondiale non era più in Eurasia ma nel continente nordamericano. Allo zenit della sua potenza, ma anche della sua esposizione a culture e popoli fors'anche alleati ma non sempre simpatizzanti, Washington si accingeva a godere dei dividendi della pace. In apparenza, il trionfo assoluto dell'America. Un po' troppo assoluto. Perché gestire da soli il potere mondiale non è possibile: superpotenza non significa onnipotenza. Nasceva allora l'illusione di un moralismo geopolitico all'americana. Riecheggiavano le suggestioni universaliste del presidente Woodrow Wilson: "Questa è un'età che rifiuta gli standard dell'egoismo nazionale che un tempo governavano le nazioni. E richiede che esse lascino il campo a un nuovo ordine di cose, in cui le sole domande siano: "È legittimo?, "È giusto?", "È nell'interesse dell'umanità?"" (Remarks at Suresnes cemetery on Memorial day, May 30, 1919, in Papers of Woodrow Wilson, vol. 59, Princeton, N.J., Princeton University Press, 1966, pp. 608-09).
Di qui il miraggio della pace ancorata all'egemonia della 'nazione indispensabile', per usare le parole dell'ex segretario di Stato Madeleine Albright, che ben esprimono il sentimento dominante nell'età clintoniana (e non solo): una pace ottenuta esportando la democrazia e affermando il predominio dell'America nel mondo. Incurante di affiancarsi potenze o gruppi di Stati amici, come avrebbe voluto Franklin D. Roosevelt poco prima di morire per governare il mondo del dopo-Seconda guerra mondiale, l'America si è trovata sola e sovraesposta. Un''iperpotenza' arrogante: così appariva soprattutto al mondo arabo e islamico, ripetutamente umiliato dagli USA e dal loro luogotenente in partibus infidelium, Israele.
Sicché l'America trionfante era meno egemone di quanto sembrasse. Anzi, suscitava dovunque, Europa compresa, ondate più o meno esplicite di antiamericanismo, proprio mentre l'opinione pubblica statunitense esibiva un quasi totale disinteresse per il resto del mondo. Ciò non impediva al suo governo di disperdere le forze in costose 'operazioni di pace' alle periferie del non-impero a stelle e strisce.
Contraddizione ben colta da Henry Kissinger nel suo ultimo libro: "L'eredità degli anni Novanta ha prodotto un paradosso. Da una parte gli USA sono sufficientemente potenti per insistere sul proprio punto di vista e per impegnarsi abbastanza spesso da evocare accuse di egemonia americana. Allo stesso tempo, le ricette americane per il resto del mondo spesso riflettono pressioni domestiche o la reiterazione di massime tratte dall'esperienza della guerra fredda. Il risultato è che la preminenza del paese corre il serio rischio di diventare irrilevante rispetto a molte delle correnti che attraversano e trasformano l'ordine mondiale. La scena internazionale esibisce una strana mescolanza di rispetto e di sottomissione nei confronti del potere americano, accompagnati da occasionale esasperazione per le sue ricette e confusione circa i suoi obiettivi di lungo termine" (Does America need a foreign policy?, New York-London-Toronto-Sydney-Singapore, Simon & Schuster, 2001, p. 18).
Questo e altri testi confermano che una ristretta parte dell'establishment americano, in genere la più conservatrice, era consapevole del paradosso della superpotenza non egemone, in un ambiente internazionale favorevole al terrorismo, islamico e non, minaccia su cui era concentrata da tempo l'attenzione delle agenzie di sicurezza deputate. Tanto che, con sinistra preveggenza, il documento prodotto nel 2000 dalla Commissione nazionale sul terrorismo recava in copertina le Torri Gemelle.
La prima priorità di politica estera dell'amministrazione Bush era dunque di ridurre l'overstretch, di essere e apparire più modesti, di spartire il fardello (ma non il potere) con i neghittosi alleati, europei e non. Troppo poco, troppo tardi.
Dopo l'attacco, ecco dunque la necessità e l'urgenza di correre ai ripari, ricostruendo una nuova e più efficiente rete di protezione attorno all'America. E quindi fare dipendere le alleanze utili a questo scopo dai compiti che occorre svolgere, senza formalismi o istituzionalismi controproducenti. Il concetto centrale che pare emergere è il ritorno all'idea delle 'sfere di influenza', un'idea niente affatto estranea alla storia americana, quanto meno alla storia della corrente più 'realista' della politica estera americana, che suole riferirsi a Theodore Roosevelt come suo modello presidenziale.
Questa opzione nasce dalla constatazione che l'America non può farcela da sola a regolare le cose del mondo. In fondo, l'Unione Sovietica non era solo il Nemico. Era anche un partner fondamentale, che riduceva la complessità dell'ambiente internazionale. Crollando l'URSS, qualcun altro doveva svolgere il suo compito di 'poliziotto' mondiale, come avrebbe detto Franklin D. Roosevelt. Ecco perché gli USA ricominciano a pensare il mondo, o almeno si rendono conto di doverlo fare. Sapendo di non essere onnipotenti.
L'Europa (e l'Italia) che non c'è
In tale contesto un ruolo essenziale toccherebbe all'Europa. Se esistesse. Ma ancora una volta i paesi europei si fanno trovare all'appuntamento con la storia in ordine sparso. Nella battaglia contro il terrorismo gli USA avrebbero interesse all'apporto di un'Europa di qualche consistenza. Invece l'Unione Europea non è ancora un soggetto della politica internazionale. E difficilmente lo sarà nel prossimo futuro, a meno di una totale inversione di rotta: invece di (o almeno accanto a) un allargamento che, a grado di integrazione costante, non può che accentuare la diluizione della potenza europea, sarebbe opportuna, nella nuova costellazione geopolitica mondiale, un'integrazione maggiore fra almeno una parte dei suoi membri. L'ipotesi dell''Euronucleo', caldeggiata già nel settembre 1994 dalla CDU, il Partito cristiano-democratico tedesco, finora è restata però lettera morta.
Sicché oggi Washington può contare nella guerra al terrorismo solo su singoli paesi. Anzitutto la Gran Bretagna. Quando c'è odore di battaglia, Londra si schiera sempre. E ancora una volta si rivela il migliore alleato delle sue ex colonie nordamericane. Nella speranza, come sempre, di condizionarne l'azione. Al di là dei simboli, l'importanza britannica deriva dal fatto di possedere il migliore esercito europeo, dotato fra l'altro dei commandos speciali che questo tipo di guerra ha reso nuovamente necessari. Per motivi analoghi (potenza militare), anche la Francia è un apprezzato alleato degli USA, mentre la Germania, che ha ancora qualche vincolo maggiore nell'impiego della forza, lo è meno.
L'Italia è dei quattro maggiori paesi europei - in senso economico e demografico - quello geopoliticamente meno rilevante. Non si esagera sostenendo che mai il peso del nostro paese sullo scacchiere continentale e nel mondo è stato così debole. Durante la prima repubblica eravamo, se non una risorsa, almeno un problema. Ospitavamo, bene o male, il maggiore partito comunista occidentale, referente di ultima istanza della superpotenza avversaria. Oggi, se non fosse per la presenza del Papa, la penisola italiana sarebbe vicina alla totale irrilevanza.
Eppure anche per l'Italia si aprono prospettive di impegno e di responsabilità geopolitica. È chiaro, per es., che gli USA accentueranno il loro disimpegno dai Balcani. Un compito importante per la gestione di quella regione in non sopita ebollizione spetterà certamente agli europei, e fra gli europei agli italiani. Almeno nei Balcani adriatici meridionali. In Albania e in Macedonia - terre fra le più ingrate e meno promettenti dell'area - saremo chiamati a svolgere un compito importante, per la stabilizzazione e per lo sviluppo di quei paesi in prospettiva della loro integrazione europea. Non sembra che vi sia nel nostro paese piena consapevolezza di questo problema e delle connesse responsabilità nei confronti dell'Alleanza atlantica e dei partner dell'Unione Europea.
Il ritorno della Russia
Il quadro geopolitico e strategico successivo all'11 settembre segnala il ritorno da protagonista di un attore che si voleva ormai ridotto ai minimi termini: la Russia. Il principale Stato erede dell'Unione Sovietica torna ad avere un ruolo di rilievo sulla scena mondiale per la sua collocazione geopolitica, a ridosso dell'area di crisi, per il patrimonio di conoscenze accumulato in un paese (l'Afghanistan) e in una regione (l'Asia Centrale) su cui ha per secoli esercitato influenza e perfino dominio, per il suo arsenale nucleare. Il dissesto economico e sociale della Federazione Russa non è per questo superato, ma in questa fase è meno rilevante nel determinare il ruolo di Mosca. Gli americani hanno bisogno dei russi per le loro operazioni in Afghanistan e nella regione. E Mosca sembra disposta a concedere loro qualche supporto, certo non gratis.
In cambio di tale aiuto, Vladimir Putin pretende infatti varie contropartite, non solo di tipo economico o di prestigio. Per es., l'intera strategia delle condotte energetiche, dall'Asia Centrale al Caspio al Mar Nero e di qui all'Europa e all'Occidente, andrà rivisitata tenendo in maggior conto gli interessi di Mosca. Non si può dimenticare che anche dopo la fine della guerra fredda la geopolitica energetica americana - e in una certa misura la geopolitica americana tout court - ha continuato a mirare alla riduzione dell'influenza della Russia in Asia e in Europa. L'amministrazione Clinton ha di fatto mantenuto un impulso da roll back. La Mosca russa è stata trattata come la Mosca sovietica, solo con la consapevolezza di poterla maltrattare senza subirne alcuna rappresaglia. Questo approccio appare ora controproducente e obsoleto. La Russia emerge dall'11 settembre come il principale supporto strategico dell'America, Gran Bretagna a parte.
Questo ha fra l'altro decisive influenze sul Vecchio Continente. D'ora in poi, qualsiasi progetto geopolitico europeo dovrà includere le ragioni di Mosca. In fondo, gli allargamenti della NATO già compiuti e in cantiere - ma lo stesso allargamento dell'UE - partivano dalla volontà inespressa di spostare di qualche centinaio di chilometri più a est la linea di demarcazione fra l'influenza del declinante impero russo e l'Occidente. Oggi si può, e in qualche misura si deve, ragionare su scala paneuropea. Questo significa anche immaginare un rapporto contrattuale - anche sotto forma di trattato - fra Unione Europea e Russia. E per la NATO, ormai considerata un'alleanza à la carte, giusta la linea enunciata da Rumsfeld nel citato articolo, l'intesa e la cooperazione con Mosca sono inevitabili. In prospettiva, appare probabile la trasformazione della NATO da alleanza difensiva deputata a tenere "gli americani dentro, i russi fuori e i tedeschi sotto" - secondo la pregnante formula del suo primo segretario generale, Lord Ismay - in organizzazione di sicurezza paneuropea. Questa sì che sarebbe una rivoluzione geopolitica e geostrategica, che rovescerebbe le premesse della guerra fredda e inaugurerebbe una nuova fase nei rapporti fra il Nord del mondo, da San Francisco a Vladivostok.
La scala globale
Gli americani e i loro alleati hanno avuto molta cura nel distinguere fra Bin Laden, i suoi protettori/protetti talebani, e la fede islamica. Non c'è e non ci deve essere uno scontro di civiltà. La sciagurata formula inventata dal politologo americano Samuel P. Huntington (The clash of civilizations and the remaking of world order, New York, Simon & Schuster, 1996. L'articolo da cui Huntington ha tratto gli argomenti del libro è stato pubblicato dallo stesso autore nell'estate del 1993 su Foreign Affairs, dove almeno c'era il punto interrogativo: The clash of civilizations?) non è una ricetta per l'azione e non è nemmeno una fotografia della realtà. È l'ennesimo tentativo di uno scienziato sociale di individuare un paradigma euristico universale, capace di mettere il mondo in formula, con dispregio della storia, delle sue ambiguità e della sua mutevolezza.
Uno degli effetti di medio periodo dell'11 settembre potrà probabilmente essere un compattamento della rete dei regimi arabi e islamici - quasi sempre Stati di polizia - impegnati a impedire insorgenze islamiste e/o putsch militari. Per quanto divisi e spesso ostili, quei regimi, dal Marocco all'Indonesia, condividono l'interesse a stroncare l'emergere di un fattore politico islamista capace di rovesciarli. La collaborazione nel campo dell'intelligence, incentivata dagli americani, è solo un aspetto immediato di un più vasto campo di interazioni.
Molto si specula sull'importanza del conflitto israelo-palestinese nel favorire il reclutamento di kamikaze islamici e in genere nel legittimare Bin Laden e associati presso le masse islamiche. Premesso che a Bin Laden non è mai interessato granché il destino del popolo palestinese - in ciò essendo perfettamente in linea con i regimi arabi - non v'ha dubbio che quella causa abbia eccitato e continui a eccitare l'odio antiamericano di centinaia di milioni di fedeli musulmani. Ciò comporta fin d'ora un ritorno da parte di Washington a considerare l'importanza di un suo impegno ravvicinato nella regione, per riportarvi un ragionevole grado di pace e di stabilità. Anche qui, il rovesciamento della geopolitica a stelle e strisce non poteva essere più totale. Bush aveva sempre sottolineato, nei primi mesi di incarico, la decisione del suo paese di osservare da una certa distanza l'evolversi della crisi arabo-israeliana, sulla quale molte amministrazioni precedenti, inclusa quella di Clinton, si erano scottate le dita. Ora le pressioni sui palestinesi e soprattutto sugli israeliani - in quanto considerati amici - si fanno più evidenti. Washington non può rischiare che la polveriera mediorientale si incendi nuovamente, perché sarebbe costretta a pagarne le conseguenze anche in termini di sicurezza nazionale. La prospettiva di un Medio Oriente trasformato in epicentro dell'insofferenza verso l'America e l'Occidente, oltre che in serbatoio di kamikaze capaci di emulare l'attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono, non può lasciar tranquilli gli strateghi della Casa Bianca.
Inoltre, ragionando sulla scala globale, la crisi innescata dall'attacco all'America rimette in gioco alcune potenze (nucleari ma non solo) già ostili agli USA, o almeno neutrali. Anzitutto la Cina, ma anche l'India. Se Delhi si trova nell'epicentro dello scontro, anche Pechino ha i suoi interessi e la sua influenza in Asia Centrale. Il primo Bush era partito dal principio che la Cina non fosse un 'partner strategico' (Clinton) ma un 'competitore strategico'. L'approccio di Washington a Pechino partiva dall'idea che di qui a un paio di decenni la Cina avrebbe minacciato l'egemonia mondiale americana. Si trattava quindi di limitarne l'influenza, di trattarla di fatto come un nemico in potenza. Di qui anche il progetto di sistema di difesa anitimissile, epicentro della geostrategia di Bush prima dell'11 settembre, forse provvisoriamente messo in secondo piano dall'emergenza terrorismo.
Pechino ha immediatamente fatto notare a Washington che aveva sbagliato avversario, il problema non essendo la Cina ma le reti terroristiche islamiche, contro cui la difesa missilistica nulla può. La leadership cinese ha offerto il suo cauto sostegno alla guerra al terrorismo. Naturalmente interpretandola pro domo sua. Il che significa avere mano libera nella repressione della setta dei Falun Gong, del resto già ridotta sulla difensiva, e dei separatisti uiguri del Xinjiang, una regione della Cina nordoccidentale a forte insediamento musulmano. Più ancora, Pechino pretende dagli americani la rinuncia ai sistemi di protezione strategica globale e regionale (TMD), in favore della più stretta cooperazione economica con la Cina. La composizione degli interessi cinese e americano è però più ardua di quella che riguarda russi e americani, data la crescente potenza dell'Impero di Mezzo e la persistente diffidenza di Washington per il regime di Pechino, che sulla sua facciata esterna mantiene una coloritura comunista, superficiale, ma sufficiente a suscitare le resistenze psicologiche oltre che strategiche dell'establishment americano.
Le lezioni per l'intelligence
Infine, qualche considerazione sull'intelligence, cioè l'attività di analisi di informazioni aperte o segrete in vista del loro uso strategico e geopolitico. Fino all'11 settembre, gli USA e i principali paesi occidentali guardavano ai loro servizi segreti quasi come a dei residui della guerra fredda, di cui non si capiva bene l'utilità, se non forse per lo spionaggio economico. Poi, improvvisamente, è scoccata l'ora delle spie, delle spie come le abbiamo conosciute nella letteratura. Giacché per colpire le reti terroristiche, islamiche e non, i mezzi sofisticati per la raccolta di informazioni servono a poco. Echelon - la rete elettronica di ascolto globale delle comunicazioni, gestita dagli americani - non può bastare contro di loro. Occorre rivalutare la Humint - quella branca dell'intelligence che si basa sull'analisi delle informazioni, sulla loro interpretazione - e rilanciare l'infiltrazione nelle organizzazioni nemiche, cosa che richiede molto tempo e molte risorse. Ma non c'è altra via per disarticolare le reti terroristiche.
Bin Laden ha da tempo abbandonato la comunicazione via telefono satellitare. Il dialogo e lo scambio di informazioni e istruzioni faccia a faccia, o con bigliettini scritti a mano, è più lento ma molto più sicuro. Per conoscere le intenzioni sue e dei suoi affiliati l'unico sistema è infiltrare propri agenti in questo meccanismo. Ma solo dopo l'11 settembre si è ripreso a farlo seriamente, usando soprattutto l'esperienza e i contatti dei servizi segreti pakistani.
Il capitolo intelligence è parte di quel più vasto contesto che riguarda l'illusione tecnologica dell'Occidente. Ci siamo cullati a lungo nella certezza che la superiorità economica e tecnologica del nostro insieme geopolitico fosse garanzia di sicurezza. L'attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono ha infranto quel comodo sogno. Il futuro è aperto, la storia non è finita. E non c'è gabbia tecnologica che possa ridurre le differenze culturali e geopolitiche su scala planetaria. Per poterlo rendere meno insicuro, dovremo ricominciare a pensare il mondo.
Definizione e tipologie di terrorismo
Il terrorismo non è un fenomeno tipico solo delle democrazie moderne. Episodi terroristici sono infatti avvenuti in vari periodi storici e sotto diversi regimi politici: le congiure di palazzo ai tempi dell'Impero romano o dei principati rinascimentali; gli attentati dinamitardi contro i sovrani autocratici; le azioni di guerriglia di movimenti anticoloniali in periodi più recenti ne sono solo alcuni esempi. Il terrorismo contemporaneo ha assunto, tuttavia, caratteristiche peculiari. Se, in passato, la violenza denominata terroristica aveva colpito direttamente colui che era considerato come un 'despota', il terrorismo del 20° secolo si è rivolto anche contro la cosiddetta gente comune.
Nelle definizioni più moderne, il concetto di terrorismo assume due connotati particolari. In primo luogo, la violenza terroristica è in genere di tipo simbolico. Anche se le azioni terroristiche hanno spesso esiti drammaticamente concreti, esse non sono comunque intraprese con l'obiettivo di arrecare al nemico la maggior quantità possibile di danni materiali, quanto piuttosto con quello di diffondere alcuni messaggi, utilizzando la violenza come un mezzo per attirare l'attenzione dei 'potenti' e dell'opinione pubblica. Considerando in una categoria a sé stante i casi di utilizzazione del terrore da parte delle istituzioni statali, l'ulteriore requisito perché l'azione possa essere definita come terroristica è che essa sia utilizzata da gruppi clandestini di dimensioni ridotte. La dimensione del gruppo consente di differenziare il fenomeno del terrorismo da quello legato alle rivoluzioni o ai movimenti di guerriglia, che coinvolgono strati più vasti della popolazione. La scelta della clandestinità ha, per parte sua, conseguenze così rilevanti sulla logica d'azione da poter essere utilizzata come uno dei principali elementi di delimitazione del terrorismo rispetto a forme di violenza politica, a volte anche egualmente brutali, ma qualitativamente differenti. Perché un gruppo possa essere definito terroristico occorrerà, infine, che esso adotti in misura pressoché esclusiva tattiche violente nel proprio operare. Si può quindi sostenere che il terrorismo è l'attività di quelle organizzazioni clandestine di dimensioni ridotte che, attraverso un uso continuato e quasi esclusivo di forme d'azione violenta, mirano a raggiungere scopi di tipo prevalentemente politico. Nonostante questa delimitazione, l'area di applicazione del concetto di terrorismo resta tuttavia molto ampia, comprendendo fenomeni differenti per dimensioni delle organizzazioni clandestine, forme di violenza utilizzate, logiche d'azione e finalità del gruppo.
Soprattutto sulla base delle differenti finalità che i gruppi terroristici si propongono, si possono distinguere diversi tipi di terrorismo. Un primo tipo, quello che nel corso degli anni Sessanta portò alla diffusione del termine nel linguaggio politico e in quello dei mass media, è il terrorismo transnazionale, che comporta l'utilizzazione di forme di azione di violenza radicale da parte di gruppi che si considerano i rappresentanti di nazioni senza territorio (come, per es., i palestinesi o gli armeni). Questi gruppi utilizzano in genere forme di violenza che, come i dirottamenti aerei, colpiscono principalmente cittadini dei paesi più ricchi, con l'obiettivo di attrarre l'attenzione dell'opinione pubblica più influente sulle tragedie dei loro popoli. Una delle prime azioni di questo tipo fu quella realizzata dal gruppo palestinese di Settembre Nero, che, nel 1972, massacrò 11 atleti israeliani nel villaggio olimpico di Monaco di Baviera. Sulla base del terrorismo palestinese si è innestato, a partire dalla metà degli anni Ottanta, quello fondamentalista islamico.
Un secondo tipo è il terrorismo a base etnica, condotto da parte di organizzazioni che rivendicano l'indipendenza di alcuni territori. Nel mondo occidentale, le più attive organizzazioni terroriste di questo tipo, nate o rinate negli anni Settanta, sono quelle degli indipendentisti radicali baschi dell'ETA (Euskadi ta Askatasuna) - tuttora responsabili di una serie imponente di attentati, che solo nel corso del 2000 hanno provocato la morte di 23 persone - o irlandesi dell'IRA (Irish republican army), la cui attività si è invece fortemente ridotta dopo la firma dell'accordo di pace nell'aprile 1998. Accanto a queste più note organizzazioni si devono ricordare anche i canadesi dell'FLQ (Front de liberation du Québec) e i corsi dell'FLNC (Frontu di liberazione naziunalista corsu). Tutti questi gruppi, che si concepiscono principalmente come 'eserciti', hanno sempre privilegiato le azioni militari contro coloro che vengono considerati rappresentanti di una potenza straniera. I gruppi del terrorismo indipendentista si sono spesso scontrati militarmente con gruppi lealisti, come i GAL (Grupos antiterroristas de liberación) nei Paesi Baschi, l'Ulster volunteer force e l'Ulster defence association nell'Irlanda del Nord, e il Front d'action nouvelle contre l'indépendance et l'autonomie in Corsica. Al di fuori del mondo occidentale, sempre più drammatici conflitti etnici si verificano oggi negli Stati dove la democrazia è debole o ancora da costruire e nelle regioni in passato facenti parte dell'area socialista dell'Europa orientale, dove l'unità nazionale era stata a lungo imposta con la forza da regimi autoritari e dove, dopo il crollo di quei regimi, si sono aperte lotte spesso sanguinose sui nuovi assetti territoriali. La Macedonia ne è l'esempio più recente.
Il terrorismo di ispirazione ideologica rappresenta un altro tipo, fortemente disomogeneo all'interno in quanto a tattiche specifiche utilizzate. Infatti, il terrorismo di ispirazione ideologica di destra (come, per es., Ordine nuovo in Italia o le Deutsche Aktionsgruppen in Germania), è stato spesso coinvolto nell'organizzazione di azioni che, come le stragi di passanti inermi, miravano a produrre un panico generico, delegittimando la democrazia e favorendo le spinte verso regimi autoritari. In particolare in Italia, la storia del terrorismo di destra è costellata di tali tipi di azioni terroristiche. La strage di piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre 1969, rappresenta l'inizio della 'strategia della tensione' e, nell'immaginario collettivo, il simbolo dello 'stragismo' nero, culminato nel 1974 nelle stragi di piazza della Loggia a Brescia e del treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro. Cinquanta morti e 351 feriti sono il tragico bilancio delle stragi attribuibili, tra il 1969 e il 1974, al terrorismo 'nero', animato da piccoli gruppi quali Ordine nuovo e Avanguardia nazionale. Se alla metà degli anni Settanta queste organizzazioni apparivano in crisi, nella seconda metà del decennio una nuova generazione di giovanissimi militanti di destra, all'interno di organizzazioni clandestine come i Nuclei armati rivoluzionari e Terza posizione, prenderà a esempio i gruppi più violenti della sinistra, imitandone la struttura 'spontaneista', le tematiche orientate soprattutto a organizzare la rabbia dei giovani emarginati, la violenza come fine a sé stessa. La strategia delle stragi non sarà comunque accantonata definitivamente: 85 sono le vittime di una bomba posta nella stazione di Bologna, il 2 agosto 1980, e terroristi di destra, in contatto con la criminalità organizzata, vennero coinvolti anche nella strage del Natale 1984, quando una bomba esplose su un treno in una galleria tra Firenze e Bologna, uccidendo 15 persone. Soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, infine, anche in Italia il terrorismo di destra - in contatto con altri gruppi della destra radicale europea, come la Federazione nazionale per l'azione europea, l'Alleanza nazionale europea e il Nuovo fronte nazista, in Francia, e la Wehrsportsgruppe Hoffmann e la Deutsche Aktionsgruppe in Germania - ha messo in atto i primi attentati di matrice razzista, diretti in particolare contro cittadini extracomunitari o contro la comunità ebraica (da ricordare, per es., l'attentato alla sinagoga di Lubecca del 1994). Sull'esempio di quanto stava avvenendo in altri paesi europei, gruppi della destra radicale (come il Movimento politico occidentale) hanno trovato reclute nelle subculture giovanili legate al tifo ultras e agli skinheads, coordinandosi, dall'inizio degli anni Novanta, nel gruppo Skinheads d'Italia.
Il terrorismo di ispirazione ideologica di sinistra ha, invece, indirizzato i suoi attentati prevalentemente contro coloro che venivano considerati come 'nemici' del popolo, o quantomeno come 'ingranaggi' del sistema di sfruttamento capitalistico. Negli anni Settanta, organizzazioni terroriste di questo tipo sono emerse in molte democrazie occidentali: l'Esercito rosso in Giappone, i Weather underground negli Stati Uniti, le Brigate rosse e Prima linea in Italia, la Rote Armee Fraktion e le Revolutionäre Zellen nella Repubblica Federale di Germania, per citare solo i gruppi più conosciuti. In America Latina, gruppi guerriglieri come i Montoneros in Argentina, i Tupamaros in Uruguay, e Sendero luminoso in Perù, protagonisti di episodi clamorosi di terrorismo, sono rimasti vittime della repressione sanguinosa condotta dall'esercito e spesso da 'squadroni della morte', formati da terroristi di destra con forti appoggi nelle istituzioni. In Italia, il terrorismo di sinistra ha assunto dimensioni particolarmente preoccupanti nella seconda metà degli anni Settanta: tra il 1977 e il 1979, il ritmo intensissimo degli attentati del cosiddetto terrorismo 'diffuso' accentuò il panico prodotto dai più sanguinosi agguati delle organizzazioni clandestine maggiori. Alle azioni più eclatanti - in particolare, da parte delle Brigate rosse, il sequestro e l'uccisione del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro nella primavera del 1978 - si è sommata una lunga catena di attentati, rapine, conflitti a fuoco, ferimenti e omicidi. La metà degli anni Ottanta vide ancora un'ondata di attentati, soprattutto contro installazioni NATO, da parte del cosiddetto euroterrorismo - i residui gruppi BR in Italia, la RAF in Germania, le Cellules communistes combattents in Belgio, Action directe in Francia -, ma successivamente la parabola discendente del terrorismo che si richiamava all'ideologia marxista leninista nelle democrazie occidentali si è rivelata tale da condurre quasi all'inattività tutti questi gruppi.
Fuori da ogni tipologia si situano infine alcune forme di terrorismo che, legate all'azione isolata di individui o gruppi, si sono manifestate in paesi fra i più avanzati sul piano economico e tecnologico, in nome di ideologie caratterizzate da istanze radicalmente antimoderne: esemplari sono stati, negli Stati Uniti, il caso di Theodor Kaczynski, che sotto il nome di Unabomber, tra il 1978 e il 1996 inviò oltre una decina di pacchi-bomba a docenti universitari e uomini d'affari, uccidendo 3 persone e ferendone altre 28, e quello di Timothy McVeigh, autore nel 1995 del gravissimo attentato nell'edificio federale di Oklahoma City, nel quale morirono 168 persone e 500 furono ferite. Nel maggio 1995, in Giappone, la setta religiosa Aum Shinrikyo ("Suprema verità") collocò nella metropolitana di Tokyo due sacchi di plastica contenenti sostanze chimiche la cui combinazione produce un gas letale (sarin), provocando la morte di 12 persone e l'intossicazione di quasi 5000.
Il terrorismo islamico
Dalla metà degli anni Ottanta gli sviluppi più drammatici del terrorismo internazionale sono stati connessi al fondamentalismo islamico, diffusosi dall'area mediorientale a tutti i paesi musulmani.
I fondamentalisti mirano alla restaurazione della piena vigenza della sharia (la via di Allah) attraverso l'eliminazione di tutti gli elementi - idee, valori, istituzioni, uomini - che possono minacciarla. Obiettivo principale è annullare i rischi di quella contaminazione della sacra tradizione da parte della moderna civiltà industriale che, iniziata dal momento in cui le potenze europee hanno assoggettato buona parte del territorio musulmano, è continuata anche dopo il processo di decolonizzazione. Il pericolo rappresentato dalla civiltà industriale è in relazione al fatto che essa, oltre a esportare dovunque merci e tecnologie, diffonde idee, valori e modelli di comportamento improntati a una concezione profondamente secolarizzata, per la quale la religione ha cessato di essere la suprema potenza spirituale ed è continuamente assediata dallo scetticismo, dal relativismo e dalla miscredenza. Agli occhi dei custodi della sharia, dunque, l'Occidente appare come un'insidiosa civiltà materialistica e atea, portatrice di un morbo letale per la 'Vera Fede'. È per questo motivo che in alcuni paesi dell'Islam - l'Iran, la Palestina, l'Egitto, l'Algeria ecc. - sono nati aggressivi movimenti religiosi, fanaticamente animati dalla convinzione che la società moderna, essendo irrimediabilmente 'pagana', vada abbattuta e che esistono solo due partiti - il partito di Allah e il partito di Satana - coinvolti in un duello mortale che finirà solo quando il secondo sarà stato annientato. Conseguentemente, il partito di Allah deve condurre ovunque, con tutti i mezzi possibili, ivi compreso il terrorismo, una lotta senza quartiere sino alla restaurazione del 'governo di Dio'. Questa, per i fondamentalisti, è la missione che ogni vero musulmano ha l'obbligo di sentire come un incondizionato imperativo religioso, al quale obbedire anche se questo può comportare il suicidio. Non a caso molti degli attentati compiuti dai fondamentalisti prevedono la morte anche dell'esecutore. È invalso l'uso di chiamare questi terroristi 'kamikaze', utilizzando la parola giapponese che durante la Seconda guerra mondiale indicava i piloti volontari che si abbattevano con il velivolo carico di esplosivo contro l'obiettivo nemico. I kamikaze islamici, che vengono considerati shahid, "martiri", sono in genere giovani, di età compresa tra i 18 e i 25 anni, selezionati durante le preghiere alla moschea e poi sottoposti a un addestramento di tipo religioso e militare; in cambio del sacrificio viene loro promesso come premio il più alto livello del paradiso. Il terrorismo scatenato dal partito di Allah è dunque il frutto estremo di una forma esasperata di fanatismo religioso che vede come irriducibile opposizione il confronto tra due civiltà, due culture, due modi di concepire i rapporti tra potere spirituale e potere temporale.
In una prima fase l'attività terroristica islamica ebbe un carattere eminentemente politico, soprattutto connesso con la presenza dello Stato di Israele nel cuore dell'Islam e la formazione di un popolo senza patria, costituto dalle centinaia di migliaia di arabi che nel 1948 abbandonarono la Palestina. Con la costituzione dell'Organizzazione di Liberazione della Palestina (OLP) e del suo braccio armato, al Fatah, iniziò la lotta armata dei volontari palestinesi (fedayn) contro lo Stato di Israele, lotta che per decenni fu condotta ricorrendo sia all'arma della guerriglia sia a quella del terrorismo e vide, dopo l'eccidio della squadra israeliana alle Olimpiadi di Monaco di Baviera nel 1972, numerosi altri episodi terroristici anche in campo internazionale. Nel 1976, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina dirottò a Entebbe, in Uganda, un aereo di linea dell'Air France; l'intervento delle truppe israeliane portò alla liberazione dei passeggeri presi in ostaggio e all'uccisione dei terroristi. Negli anni successivi molteplici attentati vennero compiuti nei riguardi di organi diplomatici e altri organi ufficiali di Stati, i quali, estranei al conflitto arabo-israeliano, detenevano nelle loro carceri autori di crimini compiuti in nome della causa palestinese. Tra i segnali dell'intensificarsi del terrorismo islamico vanno ricordati il sequestro, avvenuto alla fine del 1979 e durato fino al 1981, di cittadini americani, tenuti in ostaggio nell'ambasciata degli Stati Uniti a Teheran; nel 1983, l'esplosione di un furgone guidato da un terrorista suicida contro una caserma di marines a Beirut, che provocò la morte di 241 soldati americani; nel 1985, il sequestro della nave da crociera Achille Lauro da parte di esponenti dell'OLP, che si arresero dopo aver ucciso un passeggero americano; nello stesso anno, l'assalto ai banchi delle compagnie aeree TWA ed El Al all'aeroporto di Fiumicino a Roma, nel quale trovarono la morte 16 persone; nel 1986 l'esplosione di un pacco-bomba sistemato a bordo di un Boeing 727 della TWA in servizio da Atene a Roma, che provocò la morte di quattro passeggeri. A queste azioni si devono aggiungere i sequestri di cittadini occidentali a Beirut da parte della Jihad islamica e gli attentati con le autobomba delle squadre vicine al movimento radicale sciita degli Hezbollah. Nello stesso periodo ferimenti e omicidi erano compiuti dai terroristi libici, appoggiati da Gheddafi, e da quelli iraniani sostenuti dai leader khomeinisti, contro oppositori dei rispettivi regimi in esilio in vari paesi occidentali.
Una svolta sostanziale fu determinata nel 1988 dall'annuncio da parte dell'OLP di rinunciare al terrorismo come strumento di lotta, in corrispondenza con l'avvio del processo di dialogo israelo-palestinese che avrebbe portato agli accordi di Oslo del 1993. Da quel momento si ebbe un declino dell'attività dei gruppi terroristici palestinesi a carattere prevalentemente politico e lo sviluppo di un nuovo terrorismo di matrice religiosa integralista, legato soprattutto al movimento di Hamas. Allo scopo di destabilizzare il processo di pace, i gruppi terroristici islamici ricorsero in particolare ad attentati contro la popolazione civile israeliana, che raggiunsero a più riprese momenti di estrema drammaticità (come nel marzo 1996, quando azioni suicide su un autobus a Gerusalemme e in un centro commerciale a Tel Aviv fecero 34 vittime, dopo che due analoghi attentati a Gerusalemme e ad Ashqelon nel mese precedente avevano provocato la morte di 27 persone). A tali attentati facevano riscontro le azioni terroristiche di estremisti israeliani, volte anch'esse a colpire il processo di pace, come il massacro di decine di palestinesi in preghiera nella Tomba dei Patriarchi di Hebron (febbraio 1994) o l'assassinio del primo ministro israeliano Itzhak Rabin nel novembre 1995. Sono queste le premesse della lunga catena di attentati, molti eseguiti da terroristi kamikaze di Hamas, che ha investito Israele e i Territori occupati dallo scoppio della nuova Intifada nel settembre 2000.
Mentre la lotta palestinese assumeva un carattere di più marcato integralismo religioso, gruppi terroristici islamici si sviluppavano in altri paesi dell'area musulmana, in particolare in Algeria e in Egitto, trovando la principale ragion d'essere nella condanna dei rispettivi governi, ritenuti complici dell'Occidente e accusati di aver svenduto l'identità culturale e religiosa dell'Islam. Rafforzato negli anni successivi al 1989 dal ritorno nei rispettivi paesi d'origine dei veterani della guerra in Afghanistan (forti di un armamento e di un addestramento di prim'ordine, infiammati dalla vittoria militare e dalla propaganda fondamentalista), e successivamente alimentato dalle conseguenze della Guerra del Golfo, che sembrava aver incrinato la solidarietà araba, il terrorismo islamico ha agito con attentati e stragi sia nel mondo musulmano sia in quello occidentale. Tra le più drammatiche o clamorose azioni terroristiche antioccidentali vanno ricordate, nel dicembre 1988, l'esplosione di una bomba su un aereo della Pan Am in volo nel cielo di Lockerbie, in Scozia, che provocò 260 vittime e per la quale fu chiamata in causa la Libia, e, nel febbraio 1993, il primo attentato al World Trade Center di New York, in cui trovarono la morte sei persone e oltre 1000 furono i feriti. Per questo attentato negli Stati Uniti fu condannato a 240 anni di carcere l'iracheno Ramzi Ahmed Yousef, considerato uomo di Osama Bin Laden, lo sceicco arabo da allora sospettato di essere il principale mandante del terrorismo islamico. A Bin Laden è stata attribuita anche la responsabilità del simultaneo attacco, compiuto il 7 agosto 1998, alle ambasciate degli Stati Uniti a Dar-es-Salaam, in Tanzania, e a Nairobi, in Kenya, nel corso del quale morirono 233 persone.
Il terrorismo islamico si è manifestato anche in Stati musulmani confessionali, come l'Arabia Saudita (dove nell'agosto 1987 fu perpetrato un assalto alla Grande Moschea della Mecca in cui morirono circa 400 persone), o in paesi del continente asiatico dove spesso si è intrecciato a istanze indipendentistiche. In India, nonostante l'inasprimento della repressione governativa in seguito all'uccisione dell'ex primo ministro R. Gandhi (maggio 1991) da parte dell'organizzazione clandestina Tigri di liberazione Tamil dello Sri Lanka, decisa a vendicare l'intervento militare indiano, i gruppi separatisti si sono moltiplicati rispecchiando l'eccezionale frammentazione etnica del paese (come nel Kashmir, a maggioranza musulmana, dove il terrorismo appoggia la separazione dall'India e l'annessione al Pakistan). Analoghe tensioni e violenze caratterizzano la vita politica di paesi come lo Sri Lanka, le Filippine meridionali, il Pakistan, l'Indonesia.
Il terrorismo nel diritto internazionale
A seguito dell'intensificarsi degli atti di terrorismo internazionale, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite è andata progressivamente abbandonando la tendenza, che si era affermata negli anni Settanta, a recepire la contrapposizione tra terrorismo di Stato e terrorismo di individui. Secondo questa impostazione, in numerose risoluzioni adottate da quell'organo, alla dura condanna del primo, inteso come perpetrazione di atti di repressione da parte di regimi coloniali, razzisti e stranieri, volti a privare i popoli del diritto all'autodeterminazione e all'indipendenza, si accompagnava, se non la legittimazione, certamente una giustificazione di quelle manifestazioni del terrorismo individuale che potevano essere inquadrate nel contesto delle lotte di liberazione nazionale. La risoluzione nr. 49/60 del 9 dicembre 1994 (Dichiarazione sulle misure per eliminare il terrorismo internazionale) ha espresso invece la condanna nei confronti di tutti gli atti criminali concepiti per provocare il terrore nell'opinione pubblica, e indirizzati contro gruppi o singoli individui, quali che siano i motivi di natura politica, filosofica, ideologica, razziale, etnica, religiosa, che possano essere invocati per giustificarli. La risoluzione, inoltre, afferma l'obbligo degli Stati, da considerarsi vincolante in quanto già vigente nell'ordinamento internazionale in virtù di norme convenzionali, di astenersi dal prestare sostegno, in qualsiasi forma, all'organizzazione o all'esecuzione di atti terroristici.
Nel frattempo la normativa in materia di prevenzione e repressione degli atti terroristici era stata integrata, sul piano convenzionale, con l'adozione delle Convenzioni di New York del 17 dicembre 1979, contro la presa di ostaggi, e di Roma del 10 marzo 1988, sulla repressione degli atti illeciti contro la sicurezza della navigazione marittima (promossa dall'International maritime organization a seguito del sequestro della nave Achille Lauro). In linea generale le convenzioni internazionali contro il terrorismo recepiscono tutte uno standard normativo comune: in primo luogo, impongono agli Stati contraenti l'obbligo di inserire nei rispettivi ordinamenti interni norme incriminatrici delle singole fattispecie criminose considerate, di comminare pene adeguatamente severe, di astenersi da qualsiasi tipo di appoggio all'azione dei gruppi terroristici, di impegnarsi nella collaborazione e nello scambio di informazioni; in secondo luogo, adottano il principio in base al quale lo Stato sul cui territorio si trovi l'autore di un atto di terrorismo è tenuto a estradarlo verso lo Stato che presenti il maggiore collegamento con l'atto stesso, superando pertanto il tradizionale attaccamento dello Stato per la territorialità della giurisdizione penale, in particolare per quanto riguarda i reati di natura politica; in alternativa, lo Stato è obbligato a promuovere l'azione penale nei confronti dell'indiziato sulla base del proprio ordinamento. Lo Stato che si rifiuti di estradare l'indiziato di reati di terrorismo deve offrire adeguate garanzie di volersi effettivamente adoperare per giungere alla condanna del colpevole. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, per es., nel 1992 non ha considerato sufficienti le assicurazioni offerte in tal senso dalla Libia, la quale si era rifiutata di estradare due cittadini libici accusati dell'esplosione dell'aereo della Pan Am nel cielo di Lockerbie, nel dicembre 1988; avendo valutato tale atteggiamento come protezione del terrorismo stesso, il Consiglio di sicurezza vi ha ravvisato gli estremi di una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali e ha decretato sanzioni economiche e diplomatiche contro lo Stato libico (dopo lunghe trattative l'estradizione fu concessa dalla Libia nel 1999, in cambio della rimozione dell'embargo).
In ambito europeo, la cooperazione prevista dalla Convenzione di Strasburgo, adottata dal Consiglio d'Europa nel 1979, è stata rafforzata con l'accordo relativo all'applicazione della Convenzione europea per la repressione del terrorismo tra gli Stati membri delle Comunità Europee, adottata a Dublino il 4 dicembre 1979, e dall'art. K. 1. del Trattato di Maastricht (febbraio 1992), che ha introdotto procedure di consultazione e di azione comune.
Dopo gli attentati terroristici dell'11 settembre 2001, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha approvato una risoluzione che punta a togliere il sostegno finanziario e logistico alle reti terroristiche: i paesi membri delle Nazioni Unite devono considerare reato il finanziamento volontario del terrorismo e interrompere ogni forma di sostegno a persone o gruppi coinvolti in attività terroristiche, negando loro rifugio e congelandone i conti bancari. A livello europeo, provvedimenti di coordinamento delle polizie e di cooperazione giudiziaria sono stati decretati dal Consiglio dei ministri dell'Interno e della Giustizia dell'Unione.