RIPOLL
Città della Spagna nordorientale, in Catalogna (prov. Gerona), posta sulle pendici dei Pirenei, alla confluenza dei fiumi Ter e Fresser.R., crocevia di strade tra il Sud-Est della Gallia e le zone centrali dell'antica Marca Hispanica, nacque intorno al monastero benedettino di Santa Maria di R. (Rivipollens), fondato da Vilfredo il Villoso, conte di Barcellona, nell'880 ca. per il ripopolamento delle terre di Ausona e divenuto poi uno dei centri di potere monastico più importanti della contea catalana nell'Alto Medioevo (d'Abadal, 1962; Rico, 1976).Arnulf, abate di R. (948-970) e vescovo di Gerona, ottenne nel 951 una bolla dal papa Agapito II (m. nel 955), con la quale il monastero rimaneva sotto la protezione di Roma. Dopo aver goduto di un lungo periodo di splendore sotto l'abate Oliva (1008-1046) - figlio minore del conte di Cerdanya e Besalú, titolare di Saint-Michel-de-Cuxa (1008) e della sede episcopale di Vic (1017) -, una serie di intromissioni feudali e la denuncia del degrado morale dei monaci fecero sì che nel 1070 il conte Bernardo II di Besalú incorporasse il cenobio alla giurisdizione di Saint-Victor a Marsiglia, monastero diffusore dell'incipiente riforma gregoriana (Beer, 1909, pp. 96-97). Il monastero, favorito dal nuovo impulso della dinastia comitale barcellonese, sotto Raimondo Berengario III (1097-1131) e Raimondo Berengario IV (1131-1162) recuperò il posto di privilegio che gli era appartenuto (Barral i Altet, 1973b; Rico, 1976) e rivendicò la sua indipendenza da Marsiglia, conseguita nel 1169.Nei secoli 13°-14° iniziò il declino di fronte all'impulso della Catalunya Nova. La città fu dominio dell'abbazia fino al 18° secolo. Nel 1835 un saccheggio e un incendio lasciarono in rovina il monastero e la sua biblioteca (Tarracó, 1989).
La chiesa del monastero di Santa Maria, consacrata nell'888 da Vilfredo il Villoso, subì diversi rifacimenti e consacrazioni: nel 935 sotto l'abate Ermengo, nel 977 sotto Guidiscle e nel 1032 sotto l'abate-vescovo Oliva. La chiesa di Guidiscle seguiva un modello basilicale paleocristiano a cinque navate, separate da serie di arcate (fornicibus subactis; Brevis historia monasterii Rivipullensis, in de Marca, 1688, app. CXXIII), con pilastri rettangolari nella navata centrale e alternanza di pilastri e colonne in quelle laterali, secondo il modello di S. Maria in Cosmedin a Roma (sec. 8°) e di alcune chiese carolinge (per es. Reichenau III, 797-816) e ottoniane (per es. collegiata di St. Cyriakus a Gernrode, nello Hartz, del 961; Adell i Gisbert, 1987). Essa presentava copertura lignea ed era dotata di cinque altari, il maggiore dedicato a s. Maria e i minori al Salvatore, alla Santa Croce, a s. Michele Arcangelo e a s. Ponzio (Junyent, 1960; de Dalmases, José i Pitarch, 1986, pp. 40-41).Secondo la tradizione accolta da Villanueva (1821, p. 20), l'abate Oliva si sarebbe limitato ad ampliare l'edificio precedente con un transetto voltato, con archi trasversali, cupola e sette absidi semicircolari, senza campate antistanti (Junyent, 1960; de Dalmases, José i Pitarch, 1986). Tuttavia, sia il carattere unitario del complesso (Durliat, 1993, p. 30) sia i testi dell'atto di consacrazione del 1032 (a fundamenta extruens; Brevis historia monasterii Rivipullensis, in de Marca, 1688, app. CCVIII) e del poema In laudem monasterii Rivipullensis ("Presul Oliba sacram struxit hic funditus aulam"; Junyent, Mundo, 1992) suggeriscono una riedificazione completa della chiesa, nelle cui navate si sarebbe seguita la pianta della costruzione precedente, riutilizzandone i capitelli e coprendola con tetto ligneo. Le ampie proporzioni della basilica di Oliva (m 6040), la decorazione ad affresco - che interessava anche il portale -, il ricco arredo liturgico, così come la pianta basilicale a cinque navate, transetto e sette absidi, trasformarono l'edificio in una copia della basilica costantiniana di S. Pietro in Vaticano (Puig i Cadafalch, de Falguera, Goday i Casals, 1911-1918, II), che Oliva aveva visitato in due occasioni (1011; 1016-1017). All'architettura lombarda rimandavano, tuttavia, l'impiego del sillarejo (pietra di piccole dimensioni lavorata rozzamente), la decorazione esterna con arcate cieche e lesene e le due torri campanarie su entrambi i lati della facciata, molto restaurate da Elías Rogent alla fine del secolo scorso. Quella di destra - in origine dotata solo di quattro piani di due vani, su ogni lato, e tetto piramidale - seguiva il modello di Sant Martí a Canigó, ripetuto a sua volta nelle cattedrali di Vic e Gerona (Bailbe, 1972).Durante la ristrutturazione del monastero nel sec. 12° si realizzò il portale occidentale, si coprirono con volte le navate e si stese nel presbiterio un pavimento musivo (m 119) - distrutto durante il restauro del sec. 19° -, combinazione di opus tessellatum e di opus sectile, firmato nella cornice da Arnal(dus) e diviso in due campi da una fascia ornamentale vegetale molto simile a quella della facciata (Barral i Altet, 1971). Il campo superiore era formato da ventiquattro tondi con animali, secondo uno schema simile a quello di Saint-Genès a Thiers (dip. Puy-de-Dôme), il cui prototipo comune è individuabile nei tessuti ispano-musulmani (Barral i Altet, 1971). L'analisi dei motivi iconografici rafforza l'ipotesi di un confronto con Thiers - soprattutto per la figura del basilisco -, ma attesta anche che un'ispirazione fu presa nella biblioteca dell'abbazia: il felino con serpente appare già nella Bibbia di Sant Pere de Rodes (Parigi, BN, lat. 6, c. 6v; Barral i Altet, 1971); il mostro marino è simile al cetus del codice miscellaneo di computo realizzato nel 1055 a R. (Roma, BAV, Reg. lat. 123, c. 201v; Ibarburu Asurmendi, 1986; 1987) e a quello raffigurato nel quinto giorno della Creazione del Tapís de la Creació (Gerona, Mus. de la Catedral); infine, i delfini della parte inferiore del mosaico ricordano la costellazione omonima raffigurata nel citato codice miscellaneo di computo (c. 198v; Castiñiras González, 1994).Sotto l'abate Ramon de Vilaregut (1291-1310) venne realizzato il portico occidentale ogivale, nel cui lato nord l'abate Jaume de Vivers (1351-1362) costruì la cappella di San Vicente.
Dalla basilica del 977 provengono alcuni capitelli corinzi (Ripoll, Monastero di Santa Maria, mus.), decorati con palmette e realizzati con tecnica a ugnatura, molto simili a quello della basilica di Cornellà de Llobregat; in essi Hernández (1930) e Puig i Cadafalch (1936) videro un'interpretazione del capitello califfale cordovano, frutto dell'avvicinamento del conte Borrel II (954-992) al califfato di Córdova. Potrebbe trattarsi, tuttavia, di un semplice recupero della tradizione romana della provincia tarraconense (de Dalmases, José i Pitarch, 1986).Il portale occidentale (1140-1170 ca.), molto danneggiato, è un esemplare unico nel Romanico europeo; fu addossato a un'antica facciata dipinta del sec. 11°, i cui resti sono tuttora visibili (Barral i Altet, 1973a; 1973b). L'opera del sec. 12° consiste in una struttura quadrangolare, divisa in altezza in tre corpi marcati da cornici aggettanti, delimitata da due ordini di colonne negli angoli e da un fregio continuo nella fronte superiore. Aperto nella parte centrale, il portale appare interamente ricoperto da rilievi disposti in sette registri orizzontali con scene bibliche e allegoriche. Nella parte superiore, sopra l'arco dell'ingresso, in un fregio con resti della policromia originale, è rappresentata la Chiesa trionfante della Parusia, con il Pantocratore circondato dagli angeli, i simboli degli evangelisti e i ventiquattro vegliardi dell'Apocalisse, che, incoronati, si dirigono in processione verso il centro, con le coppe e le cetre. Il tema apocalittico prosegue nel registro inferiore con la rappresentazione degli apostoli, rivolti verso il Pantocratore con cartigli, in modo analogo a come appaiono nel coevo frontale d'altare della chiesa di Martinet (Worcester, MA, Art Mus.; Gudiol i Cunill, 1909). Per completare questa visione della Chiesa trionfante, nei pennacchi dell'arco della porta compaiono due aironi; questo animale viene interpretato dall'esegesi medievale come il complesso dei santi o il protettore del popolo di Dio (Sanfaçon, 1970).Al centro, su entrambi i lati della porta, sono rappresentati, in due registri, esempi da seguire sulla terra per arrivare a Dio, accompagnati da iscrizioni nella cornice superiore; figurano episodi dell'Esodo a destra e dei Libri dei Re a sinistra. I loro modelli si trovano nelle illustrazioni della Bibbia di R. (Roma, BAV, Vat. lat. 5729, cc. 1r, 95r; Pijoan, 1911-1912), realizzata nel secondo quarto del sec. 11° nello scriptorium dell'abbazia. Infine, nella parte inferiore sinistra si collocano, ospitati sotto archi, Davide in trono accompagnato da quattro musici danzanti, Eman, Asaf, Etan e Idutun - nei quali Pellicer y Pagés (1888) individuò un'illustrazione di Sal. 90 (89) -, alla destra Dio Padre che consegna le tavole della Legge a Mosè e personaggi di rilievo della Chiesa militante: un guerriero, un vescovo e un cavaliere (Rico, 1976). Gli ultimi due registri sono dedicati principalmente a rappresentazioni animalistiche; mentre quello superiore è stato identificato con la prima e la seconda Visione di Daniele, il che risulta peraltro abbastanza improbabile, quello inferiore è costituito da medaglioni con grifi e leoni e con la rappresentazione delle pene dei dannati (Barral i Altet, 1973a). Sul lato destro inferiore della facciata è raffigurata la Parabola del ricco epulone e di Lazzaro il mendicante.Su entrambi i lati della porta, strombata con sei archivolti, si collocano le statue-colonna dei Ss. Pietro e Paolo, che danno inizio a un archivolto decorato con un ciclo relativo alle loro storie, copia di un modello pittorico anteriore, basato sulla Passio sanctorum apostolorum Petri et Pauli, del sec. 5°-6° (Eleen, 1982). Nel primo archivolto figurano scene della vita dei profeti Giona e Daniele. Nell'intradosso dei piedritti del portale compare un ciclo con i Mesi, il primo della scultura romanica catalana. Tale ciclo presenta un'importante originalità creativa, frutto delle tradizioni molto diverse che esso riprende. Si tratta inoltre di un genuino calendario 'contadino', privo delle scene allegoriche e delle attività proprie dei Mesi 'aristocratici', comuni al resto dei cicli europei (Gudiol i Cunill, 1909; Sasoner, 1923; Castiñiras González, 1996b).Anche se Christe (1971) ha richiamato l'attenzione sul formato del portale, mettendolo in relazione con l'iconografia trionfale paleocristiana - esemplificata dai rilievi della colonna di Arcadio a Costantinopoli e dai mosaici di S. Pudenziana a Roma - e segnalando il precedente del c.d. arco di Eginardo sia nella struttura sia nell'esuberanza ornamentale (fusti a squame o con fogliame di acanto), il portale di R. ricorda la Porte Noire, o arco di trionfo di Marco Aurelio, a Besançon (Castiñiras González, 1994), dove i Mesi occupavano ugualmente i riquadri dei piedritti e in essi si utilizzavano analoghi schemi di rappresentazione (Castiñiras González, 1996b). Questo substrato antico è visibile anche nella sovrapposizione di colonne negli angoli del portale, insolita nell'arte romanica, i cui precedenti sono nella navata centrale della chiesa catalana di Sant Pere de Rodes. Tarracó (1976) ha segnalato le armoniche proporzioni e la simmetria delle misure del rettangolo del portale in rapporto alle indicazioni di Vitruvio (De architectura, III), la cui relazione 2 a 3 tra altezza e larghezza si ripete anche nella pianta dell'edificio, spiegabile a partire dalle conoscenze matematiche documentate da opere attestate a R. e conservate nella biblioteca di Barcellona (Arx. Cor. Arag., Bibl. Auxiliaria): un testo di agrimensura della metà del sec. 10° (Ripoll 106), nonché le opere del monaco Oliva, il Breviarium de musica (Ripoll 103), il De ponderibus et mensuris (Ripoll 37) e la Regula abaci (distrutto; Rico, 1976).Yarza Luaces (1987) ha individuato nel portale l'intervento di due mani: mentre alla prima vanno riferite figure tozze e pesanti, collocate nella zona superiore e nel gruppo di Dio Padre, Mosè e personaggi storici, la seconda elaborò figure più slanciate e articolate nelle scene bibliche, negli archivolti, nell'intradosso dell'arco e nei piedritti, nelle statue-colonna e nelle figure di Davide e dei musici. A partire da questa opera si generò la c.d. scuola di R., che ebbe grande influenza nel centro della Catalogna nell'ultimo terzo del sec. 12°, come dimostrano i casi del chiostro romanico di Lluçà, di Sant Joan de les Abadesses, del timpano di Sant Pol de Mar e del portale di Santa Eugènia de Berga; occorre poi menzionare il controverso portale della cattedrale di Vic e la porta nord del Grossmünster di Zurigo, derivazioni della prima mano di R. (Yarza Luaces, 1987).Il chiostro del monastero servì, fin dagli inizi, come pantheon dei conti di Barcellona, Cerdanya e Besalú. Particolarmente rilevante appare il sepolcro di Raimondo Berengario III, realizzato dalla stessa bottega che lavorò al portale nel 1140 ca. (Porter, 1923), come è evidente nella fronte decorata con scene narrative della morte e delle esequie del conte, inquadrate in sei pannelli e accompagnate da iscrizioni, così come nel coronamento decorato con una fascia ornamentale vegetale. Il chiostro attuale, a due piani, fu iniziato dall'abate Ramon di Berga (1172-1205), che realizzò l'ala nord, con tredici archi a tutto sesto, ornati da foglie di acanto lisce, sostenuti da colonnine binate, con capitelli corinzi o con figure animalistiche affrontate (grifi, sirene, scimmie, felini, aquile), chiaramente debitrici dell'arte rossiglionese (Serrabona, Santa Maria; Saint-Michel-de-Cuxa), poi peculiari dell'irradiazione della scultura di Ripoll. Nel pilastro dell'angolo nordorientale si trova il rilievo con la figura dell'abate Ramon sotto un'arcata, con libro e croce abbaziale, che ricorda l'abate Gregori di Cuxa o lo stesso vescovo rappresentato nella facciata ripollese (Barral i Altet, 1987). Che l'opera romanica si estendesse molto oltre una sola galleria è suggerito dalla serie di capitelli coevi riutilizzati nelle altre ali. Due secoli dopo l'opera venne continuata dall'abate Galcerán di Besora (1380-1383), che, rispettando le proporzioni romaniche, iniziò il secondo ordine dell'ala nord, nei cui capitelli e gole compare lo stemma della Catalogna. Il suo successore, Ramon Descatlar (1383-1408), proseguì la costruzione del chiostro inferiore, iniziando dall'ala ovest, del maestro Colí, e continuando da quella sud, nel 1390, con le colonne del maestro scalpellino Pedro Gregorio di Perpignano e i capitelli, le basi e i pulvini dello scultore 'italianizzante' Jordi de Déu (Durán i Sanpere, Ainaud de Lasarte, 1956).
La basilica di Oliva constava di sette altari rivestiti con antependia di oreficeria, tra i quali emergeva quello centrale, che era costituito da una cornice di diaspro, ricoperta nella sua parte anteriore da un pannello d'oro con pietre preziose e smalti, ed era protetto da un baldacchino con lastre di argento cesellato (Junyent, 1960). Si tratta di una tipologia di origine italiana, abbastanza diffusa nella regione catalana - Saint-Michel-de-Cuxa, in marmo e legno, del 1040 ca., coevo a quello di R., e alcuni del sec. 12°-13°, come quelli, lignei, di Toses ed Estamariu (Barcellona, Mus. d'Art de Catalunya) e di Prats de Balaguer (Perpignano, Palais des Corts) - o in chiese peninsulari di primaria importanza, come attestava quello in argento e oro, del 1105, originariamente conservato nella cattedrale di Santiago de Compostela, distrutto (Barral i Altet, 1973b; 1987). Durante i rifacimenti della metà del sec. 12° si sostituì l'antico baldacchino con un altro in pietra, del quale si conservano alcuni resti (Ripoll, Monastero di Santa Maria, mus.): quattro basi (un uomo tra leoni, un leone tra uomini, quattro leoni rampanti, quattro uomini) e frammenti di rilievo (figure nimbate sotto un'arcata), il cui stile è stato messo in relazione con modelli italiani, con gli artisti della facciata e del chiostro e con la scultura rossiglionese (Barral i Altet, 1973b; 1987). Inoltre, sull'altare maggiore era collocata una statua romanica della Vergine, dispersa (Pellicer y Pagés, 1888).Si parla anche di una bottega di R. di pittura su tavola, attiva nella zona nella seconda metà del sec. 12°, partecipe delle caratteristiche della scultura monumentale ripollese, come testimoniano i frammenti del baldacchino di Santa Maria de Ribes de Freser (Vic, Mus. Arqueologic-Artistic Episcopal), l'antependium di Esquius, i frontali di Sant Pere di Mogrony (Vic, Mus. Arqueologic-Artistic Episcopal), di Sant Esteve a Llanars, di Sagàs (Cook, Gudiol Ricart, 1950; Sureda, 1981), ai quali si deve aggiungere l'antependium proveniente da Sant Pere a R. (Vic, Mus. Arqueologic-Artistic Episcopal).
L'attività dello scriptorium di R. sembra essere iniziata alla metà del sec. 10° sotto l'abate Arnulf. Infatti nell'inventario del 979 la biblioteca contava già sessantacinque manoscritti (Beer, 1909; Ibarburu Asurmendi, 1987). Tra questi figurava il distrutto Salterium argenteum del sec. 9°, un codice purpureo con lettere in argento ed epigrafi in oro, nella cui ultima pagina si leggeva: "Karolus gratia Dei rex et imperator Franchorum" (Villanueva, 1821). Esso fu sicuramente realizzato in una bottega palatina - dell'epoca di Carlo Magno o di Carlo il Calvo - e donato a R. da un personaggio franco (Beer, 1909) o dallo stesso Vilfredo il Villoso (de Eguren, 1859).Frutto dell'attività dello scriptorium di R. nel primo periodo sono i codici conservati a Barcellona (Arx. Cor. Arag., Bibl. Auxiliaria): si distinguono per il loro interesse scientifico il citato Ripoll 106 - miscellanea di computo con testi di Boezio e di agrimensura - e il Ripoll 225, della fine del sec. 10°, che contiene il Liber de astrolabio e la traduzione del trattato arabo De mensura astrolabii, la quale è in relazione con la visita a R. di Gerberto di Aurillac (967-970), invitato dal conte Borrell II. Le capitali fitomorfe, con terminazioni bulbose a tre lobi, di colore rosso arancio, del Liber glossarum et etymologiarum (Ripoll 74), della Boetii editio prima super cathegorias Aristotelis (Ripoll 83) e dell'Ars Prisciani (Ripoll 59) sono caratteristiche dello scriptorium di R. e di quello di Vic.Durante l'abbaziato di Oliva, R. si trasformò in uno dei centri culturali più importanti dell'Occidente latino, tanto che nell'inventario del 1047 si contano duecentoquarantasei codici (Beer, 1909). Nel secondo quarto del sec. 11° venne realizzata la citata Bibbia di R. (Roma, BAV, Vat. lat. 5729), che per qualche tempo si ritenne prodotta a Farfa, poiché lì fu temporaneamente conservata. Si tratterebbe di una delle tre bibbie che figurano nel catalogo del 1047, le cui grandi dimensioni - quattrocentosessantacinque carte di pergamena (cm 5537), decorate da trecento miniature - la rendono erede della tradizione carolingia. Pijoan (1911-1912) confermò la sua origine ripollese, dimostrando l'innegabile relazione tra l'illustrazione dell'Esodo e dei Libri dei Re e i rilievi con lo stesso tema del portale occidentale. D'altra parte esiste una serie di rapporti paleografici e stilistici tra questa Bibbia e manoscritti ripollesi di poco posteriori, come la Vita Gregorii di Giovanni Diacono (Barcellona, Arx. Cor. Arag., Bibl. Auxiliaria, Ripoll 52; Mundó, 1976).La Bibbia di R. stilisticamente si caratterizza per le figure dal disegno agile e nervoso, dai profili vivi e dal tratto rapido, dai movimenti e dalle pose varie, in cui predominano i volti di tre quarti (de Dalmases, José i Pitarch, 1986). Le composizioni aperte, generalmente asimmetriche, occupano tutta una carta o si giustappongono a due a due in senso verticale, prevalendo nelle illustrazioni il carattere narrativo e storico. Questo codice si inquadrerebbe così fra quelli che derivano dalla miniatura carolingia della c.d. scuola di Reims, rappresentata per es. dal Salterio di Utrecht (Bibl. der Rijksuniv., 32). Secondo Ibarburu Asurmendi (1992) si deve distinguere tra il disegnatore e il miniatore della Bibbia di R.: al disegno in nero si aggiunsero colori diluiti, chiari, tra i quali predominano il blu, il verde, il giallo, l'arancione, il rosa, l'azzurro e il violaceo, disposti in forma piana sulle figure e sui motivi architettonici o sottolineanti con leggeri tocchi i contorni e alcuni fondi. Si è insistito, inoltre, sull'interesse documentario di queste pitture, nelle quali entrano, in numero variabile, frammenti di architettura, altari, troni, arredi e altri diversi oggetti, al fine di illustrare il racconto biblico in modo più suggestivo. Mundó (1976) ha individuato tre mani: quella impressionista o preromanica che realizzò quasi interamente l'Antico Testamento, quella manierata del postcarolingio-protoromanico, attiva al Nuovo Testamento, e quella romanica dell'Esodo.Quanto all'iconografia, all'influenza carolingia si devono aggiungere gli apporti bizantini, molte volte assimilati attraverso l'Italia. Nelle scene dei primi capitoli della Genesi (cc. 5v-6r) emerge una curiosa fusione tra recensioni del Genesi Cotton (Londra, BL, Cott. Otho B.VI) e gli ottateuchi greci, che hanno indotto Sherman (1981) a stabilire la sua derivazione da un archetipo paleocristiano del 4° secolo. Agli ottateuchi bizantini (Roma, BAV, Vat. gr. 747; 746) rimandano le rappresentazioni dell'Abisso e del Disco del cosmo, così come le personificazioni del Giorno e della Notte. Il motivo di Abele morto, racchiuso in un fregio nella scena del Rimprovero di Caino, rinvia ancora a un modello bizantino, come i Sacra Parallela di Giovanni Damasceno (Parigi, BN, gr. 923, c. 93r). Il racconto della storia di Adamo ed Eva sembra avere fonti nella tradizione del Genesi Cotton, come è visibile nella scena di Dio che modella Adamo con le sue mani (c. 5v).Invenzione o attualizzazione della tradizione del Genesi Cotton è la scena di Eva che aiuta Adamo nel dissodamento della terra, con paralleli in Italia, in una placca d'avorio, del 1084 ca., conservata a Salerno (Mus. Diocesano) e nella facciata della cattedrale di Modena, del 1115 circa. Si tratta dell'inizio delle sofferenze dei progenitori nella maledicta humus (Gn. 3, 17-18), piena di erbe cattive, così come sottolineano gli apocrifi e l'esegesi cristiana (c. 6r). In questa linea si comprende la scena seguente, in cui un enorme cardo compare tra Caino e Abele, nel momento in cui essi presentano le loro offerte a Dio: Abele, imberbe e rappresentato come il Buon Pastore, offre un agnello, mentre Caino, barbato e dall'aspetto maligno, sembra limitarsi a strappare una foglia del cardo che sta tra loro (Castiñiras González, 1995).Che la maggior parte delle illustrazioni della Bibbia di R. derivi da prototipi bizantini (Klein, 1993) diviene evidente nell'illustrazione del Nuovo Testamento (Neuss, 1922). La placca d'avorio di Salerno offre una possibilità di confronto nella scena della Visitazione (c. 366r), in cui una donna spia da dietro una cortina l'abbraccio tra Maria ed Elisabetta. Gli episodi della Risurrezione di Lazzaro o dell'Ultima Cena, con mensa semicircolare (c. 369r), rimandano a una fertile tradizione bizantino-mediterranea che ha una delle sue massime espressioni negli affreschi di Sant'Angelo in Formis (prov. Caserta).Per quanto riguarda la citata Bibbia di Sant Pere de Rodes (Parigi, BN, lat. 6), attualmente divisa in quattro volumi - cinquecentosessantasei carte -, vi sono motivi per affermare che la maggior parte di essa fu realizzata a R. nel secondo terzo del sec. 11° e che fu terminata a Rodes alla fine del secolo (Klein, 1972). Cinque miniatori parteciparono alla sua elaborazione. Il disegnatore del primo e del secondo volume, agile e rapido nel tratto, realizzò figure che sembrano ondeggiare e appare in stretta relazione con la Bibbia di R., sebbene abbia utilizzato una penna marrone e i colori risultino più brillanti. L'attitudine alla narrazione si fa evidente nel racconto della costruzione del Tempio di Salomone e dell'arrivo della regina di Saba e del suo seguito davanti al trono del monarca ebreo (1 Re 10, 1-2; 2 Cr. 9, 1; c. 129v). Per comporre quest'ultima scena il miniatore trasferì lo schema di un'epifania al corteo reale che presenta i suoi doni a Salomone, adottando per la regina la forma cerimoniale e simbolica della inmixtio manuum del rito feudale dell'omaggio, che ha paralleli nella miniatura catalana, per es. nel Liber feudorum maior (Barcellona, Arx. Cor Arag., Reg 1; Moralejo, 1981).Il secondo artista realizzò il terzo volume (testi profetici, libri di Tobia, Giuditta, Ester, Maccabei), probabilmente nella seconda metà dell'11° secolo. Partendo dall'esempio del primo miniatore, egli trasformò l'eredità classica in romanica, attraverso disegni a penna senza colore, composizioni a tutta pagina - suddivise in riquadri, più simmetriche e rigide - e tessuti e panneggi più ricchi e ampollosi, con le parti laterali a zig-zag e la parte bassa della falda a ventaglio (c. 65v; de Dalmases, José i Pitarch, 1986, p. 266). Klein (1972) e Alcoy (1987) hanno trovato in questo maestro un certo parallelismo con quelli che illustrarono le Homiliae e i Moralia in Iob di Gregorio Magno (Barcellona, Arx. Cor. Arag., Bibl. Auxiliaria, Ripoll 52; Vic, Mus. Arqueologic-Artistic Episcopal, 26), la miniatura di Cristo Maestro (Vic, Mus. Arqueologic-Artistic Episcopal), nonché le Homiliae di Beda (Gerona, Mus. d'Art). Diverse mani, infine, parteciparono al quarto volume, l'Apocalisse, più modestamente illustrato e realizzato presumibilmente a Rodes verso il 1100 (Klein, 1972).In relazione con il primo artista delle bibbie di Roda e di R., nello scriptorium si miniava nel 1055 una superba opera che mostra gli interessi scientifici che avevano distinto l'abbazia nel secolo precedente: il citato codice vaticano di computo (Roma, BAV, Reg. lat. 123), probabile compilazione del monaco Oliva. Oltre a semplici diagrammi mnemotecnici di tipo cosmografico, che vanno dal movimento degli astri fino a una meridiana per viaggiatori, sono illustrati a penna, con alcune tinte a gouache, un mappamondo (cc. 143v-144r) e le personificazioni dei Pianeti e delle Costellazioni degli Astronomica dello pseudo-Igino. Se il mappamondo con la classica personificazione della Terra sembra derivare dai dipinti del palazzo di Teodulfo, vescovo di Orléans (799-818), a Germigny-des-Prés (Vidier, 1911), l'illustrazione delle Costellazioni presenta un'impronta ellenistico-bizantina che Ibarburu Asurmendi (1987) ha paragonato a quella del codice conservato a Roma (BAV, Vat. gr. 1987), il cui canale in Occidente potevano essere il De signis coeli dello pseudo-Beda, del sec. 9°, dell'abbazia di Montecassino (Bibl., 3; Castiñeiras González, 1994), e alcuni manoscritti del monastero di Saint-Martial di Limoges, come un'altra copia dello pseudo-Beda, del 950 ca. (Parigi, BN, 5239) e gli Astronomica di Igino trascritti e illustrati da Ademaro di Chabannes, del 1020-1030 (Leida, Bibl. der Rijksuniv., Voss.lat. 8°, 15). Il classicismo dell'illustrazione dei pianeti, a corpo intero ed entro medaglioni, induce a parlare di un modello carolingio (Ibarburu Asurmendi, 1987) in relazione con le recensioni del Cronografo del 354, molto eloquente nei casi di Marte, Mercurio e Saturno (cc. 170r, 171r, 174r; Castiñeiras González, 1994). Le illustrazioni del Sole e della Luna (cc. 164r e 167r) ebbero una precoce eco nel Dies Solis e nel Dies Lune del citato Tapís de la Creació di Gerona.Dall'attività dello scriptorium di R. nel sec. 12° emerge un codice miscellaneo di computo, realizzato verso il 1134-1150 (Madrid, Bibl. Nac., 19) a partire da un prototipo beneventano-cassinese perduto, il De temporibus di Beda, che figurava nel catalogo del 1047 (Millas Vallicrosa, 1931; Castiñeiras González 1994; 1996b; in corso di stampa). Nell'illustrazione del manoscritto si distinguono almeno due mani: la prima è relativa ai Phaenomena Aratea di Germanico (cc. 57r-74v), caratterizzata da uno stile rude, con incarnati e tavolozza brillanti, derivato dalla bottega del Maestro di Pedret; la seconda realizza i bei disegni a tinta marrone del De natura rerum di Beda (cc.115r-133v), che seguono, relativamente alle figure, la più pura tradizione del secondo e terzo maestro della citata Bibbia di Sant Pere de Rodes e, per quello che riguarda gli elementi ornamentali (fasce di volute sinuose con palmette), formule proprie della miniatura ripollese quali sono presenti in un codice miscellaneo del 1150 ca. (Parigi, BN, 5132; Castiñeiras González, in corso di stampa). A questo si devono aggiungere le iniziali in rosso, culminanti con palmette, confrontabili con quelle del Codex Calixtinus di R., del 1173 (Barcellona, Arx. Cor. Arag., Bibl. Auxiliaria, Ripoll 99). Il modello iconografico delle illustrazioni figurate del codice di computo si trova in manoscritti beneventani (Cava de' Tirreni, Bibl. dell'abbazia, 3), come anche nel De Universo di Rabano Mauro (Montecassino, Bibl., 132) o in codici dell'Italia meridionale in genere (Roma, BAV, Barb. lat. 96), il che suggerisce che il suo archetipo fosse un codice cassinese della fine del sec. 10°-inizi 11°, una copia del quale sarebbe arrivata a R. all'epoca dell'abate Oliva (Castiñeiras González, 1996a; in corso di stampa).
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