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(XXIX, p. 398; App. III, II, p. 614; IV, III, p. 223)
Negli anni Settanta le conquiste della genetica avevano polarizzato l'attenzione soprattutto sugli aspetti molecolari della riproduzione. Nel frattempo la fisiologia della r. si andava arricchendo di importanti scoperte nel campo del controllo neuroendocrino, in particolare per quanto riguarda i cicli riproduttivi. Il significato adattativo della ciclicità riproduttiva è noto da tempo e già nel Settecento vennero individuati i rapporti tra fattori ambientali e r., grazie alle osservazioni di Spallanzani pubblicate nelle sue Dissertazioni di fisica animale e vegetabile (1784): ogni specie regola nel tempo la propria attività riproduttiva in modo da far sì che la progenie si sviluppi nei periodi dell'anno più favorevoli. Ma solo recentemente sono stati studiati i meccanismi che presiedono alla ciclicità riproduttiva.
Controllo dei cicli riproduttivi nelle piante. - Tra i fattori ambientali che variano nel corso dell'anno, il fotoperiodo è l'unico che si ripete con costante regolarità (v. fotoperiodismo, App. IV, i, p. 847), mentre altri fattori, come la temperatura e l'alimentazione, variano nel corso dell'anno con minore regolarità: infatti una primavera può essere più o meno calda o più o meno fredda (così come la disponibilità di sostanze nutritive può variare enormemente da anno ad anno), ma a una data latitudine, un dato giorno ha sempre la stessa durata del periodo d'illuminazione. Fino agli anni Venti invece erano la temperatura e l'alimentazione a essere considerate i soli fattori capaci d'influenzare il ritmo riproduttivo. Non va dimenticato, inoltre, che dal punto di vista sperimentale, la luce è il solo fattore ambientale veramente controllabile: infatti solo la luce può essere eliminata completamente, oltre che graduata quantitativamente e qualitativamente, mentre gli altri fattori ambientali, come la temperatura, possono essere solo variati ma non soppressi.
Nei metafiti superiori la più caratteristica e appariscente reazione al fotoperiodo è la fioritura. Essa fu studiata per la prima volta da W.W. Garner e H.A. Allard nel 1920 ed è la reazione fotoperiodica più conosciuta nelle piante, sia perché è facilmente quantificabile sia perché interessa uno dei momenti più importanti del loro ciclo vitale in quanto segna il passaggio dalla fase di attività vegetativa a quella riproduttiva. Questo stadio del ciclo vitale della pianta, definito ''maturità della fioritura'', viene raggiunto in tempi variabili da specie a specie. Nella maggioranza dei casi la risposta al fotoperiodo dipende dal periodo di buio piuttosto che dalla durata dell'illuminazione (Lang 1965). Un periodo di buio più lungo di quello critico induce la fioritura nelle piante brevidiurne, mentre la inibisce nelle longidiurne. Pertanto la luce funziona semplicemente da modulatore di reazioni che si realizzano al buio. Sperimentalmente è possibile far fiorire le piante brevidiurne anche con giorno lungo purché la fase oscura sia più breve del valore critico proprio di quella specie. Ne consegue che le piante longidiurne dovrebbero essere più propriamente chiamate ''brevinotturne'' e quelle brevidiurne ''longinotturne''. Se s'interrompe la fase oscura in momenti diversi e per un breve tempo, è possibile indurre l'effetto di giorno lungo o breve. È dunque dimostrato che l'effetto del fotoperiodo sulla fioritura non è dovuto alla quantità di luce o di buio in senso assoluto. Infatti lo stesso numero di ore di luce o di buio può avere un effetto di giorno breve o lungo a seconda del momento in cui viene interrotto il periodo di oscurità.
Nello studio del meccanismo dell'azione fotoperiodica sono da tenere presenti i seguenti momenti: a) la percezione dello stimolo fotoperiodico; b) l'induzione dell'effetto fotoperiodico. Circa la percezione dello stimolo fotoperiodico, l'organo percettore è la foglia (Knott 1934), che per effetto del fotoperiodo caratteristico della fioritura acquista la capacità d'indirizzare gli apici caulinari verso la fioritura, cioè verso l'attività riproduttiva. Tale capacità è conservata per alcuni giorni dalla foglia, anche se le condizioni del fotoperiodo non sono più adatte alla fioritura. D'altra parte sembra dimostrato che le foglie non indotte esercitino un'azione antagonista rispetto a quella delle foglie antotrope. Dalla concentrazione relativa dei fattori florigeni e di quelli antiflorigeni dipende in effetti la fioritura o la sua inibizione. Riguardo alla proprietà antotropa delle foglie, gli esperimenti d'innesto eseguiti sul giusquiamo hanno dimostrato che essa è di natura umorale (ci si chiede se è ormonale). Se s'innesta una pianta biennale, non vernalizzata, su un'altra pianta biennale o anche annuale, purché vernalizzate, le proprietà antogene passano da queste alla prima (Stout 1945). Si tratta quindi di una sostanza di natura umorale che passa con l'innesto. Essa non è specie-specifica in quanto risultati simili si ottengono anche con innesti tra specie diverse.
Per quanto concerne il modo in cui la foglia percepisce il fotoperiodo e reagisce a esso, siamo ormai in possesso di una notevole quantità di dati che attribuiscono al fitocromo (P), coinvolto anche nel processo di germinazione, la proprietà di reagire al fotoperiodo (Salisbury 1982; Takimoto e Saji 1984). Il fitocromo è una cromoproteina, dove il cromogeno è un composto a catena tetrapirrolica aperta. Di esso si conoscono due forme, una stabile e inattiva che assorbe a 660 nm, detta P660 oppure Pr, e l'altra instabile e attiva che assorbe a 700 nm, indicata con P730 o Pfr. In alcune piante esiste un rapporto diretto tra spettro di assorbimento alla luce e fioritura. Attraverso il fitocromo vengono anche segnalate alla pianta, e in particolare alla foglia, le variazioni del fotoperiodo. Non è stato finora chiarito se a dare il segnale sia la diminuzione del Pfr fino a una concentrazione minima, in seguito alla sua decomposizione o alla sua trasformazione in Pr; oppure se vengano recepiti un particolare rapporto tra Pr e Ptotale o la velocità di conversione tra Pr e Pfr; oppure se ci sia un orologio interno, indipendente, che controlla le variazioni di concentrazione delle due forme di P; o infine se tutte queste possibili variabili interagiscano tra loro o addirittura se ci siano altre cause della reazione fotoperiodica. Nonostante i numerosi esperimenti eseguiti finora, non è ancora possibile dare una risposta definitiva a questo problema fondamentale del meccanismo d'azione del fotoperiodo sulla fioritura. Per quanto attiene all'induzione della fioritura, è stato affermato che è il periodo di buio piuttosto che quello di luce a regolare il fotoperiodismo. Quindi è la quantità di P a regolare l'inizio della fioritura: un aumento parziale sarà favorevole alle piante brevidiurne, mentre una diminuzione indurrà la fioritura nelle piante longidiurne.
Va infine notato che la periodicità della r. nelle piante può in alcuni casi conservarsi anche quando le condizioni di luce rimangono costanti, come dimostrato con l'uso dei fitotroni (Bünning 1963). Si tratta di comportamenti che rientrano nei ritmi endogeni.
Sebbene la fioritura sia sotto il controllo delle stimolazioni luminose, in una fase del ciclo vitale detta ''fotostadio'', essa non è insensibile ad altri fattori ambientali quali la temperatura, il substrato nutritivo e l'umidità. In particolare gli effetti della temperatura spesso non possono essere disgiunti dalla reazione fotoperiodica. La temperatura può infatti condizionare la fioritura per le sue variazioni in rapporto all'alternarsi del giorno e della notte (Evans 1969). Il termoperiodo, senza assurgere alla stessa importanza del fotoperiodo, si sovrappone a questo. Sembra infatti dimostrato che sono le condizioni termiche della fase oscura ad avere molta importanza. Il condizionamento del fotoperiodo da parte della temperatura risulta evidente in particolare nelle piante neutrodiurne che si comportano da brevidiurne o longidiurne variando la temperatura (Schwabe 1971). In tutti i casi finora studiati, la risposta fotoperiodica è stata modificata variando la temperatura. Le variazioni di temperatura comunque non hanno effetto sull'interruzione del periodo oscuro. Un aspetto particolare dell'azione della temperatura sulla fioritura è la ''vernalizzazione'', cioè l'induzione della fioritura seguita al trattamento breve o prolungato della pianta con temperature vicine al punto di congelamento. Infatti sono poche le piante che si comportano da neutrodiurne dopo la vernalizzazione. Lo stimolo termico è raccolto dagli apici caulinari e la vernalizzazione è seguita da una risposta quantitativa o qualitativa al fotoperiodo. Tra i molti altri fattori ambientali che interagiscono con il fotoperiodo oltre alla temperatura, sono da ricordare i fattori nutritivi e l'umidità (v. fig. 1).
Controllo dei cicli riproduttivi negli animali (vertebrati). − Solo nel 20° secolo, tra gli anni Trenta e Quaranta, si è iniziato uno studio approfondito sulle interazioni tra ambiente e r. negli animali, in particolare a opera di F.H.A. Marshall. Del tutto recenti sono invece le ricerche rivolte alla conoscenza dei meccanismi neuroendocrini mediante i quali l'ambiente controlla i cicli riproduttivi.
Il ritardo con cui sono state riprese le ricerche in questo fecondo campo della neuroendocrinologia è certamente dovuto al fatto che solo pochi animali di laboratorio e poche specie domestiche sono riproduttori stagionali, mentre la maggioranza di esse si riproducono durante tutto l'anno. La perdita della stagionalità riproduttiva è stata probabilmente dovuta alla domesticazione: vi sono infatti buone ragioni per ritenere che ai primordi della sua storia evolutiva anche l'uomo abbia avuto cicli riproduttivi stagionali, primaverili, secondo i risultati di analisi statistiche delle nascite mensili; solo in seguito l'ambiente favorevole contro le calamità naturali avrebbe permesso il prolungarsi dell'attività riproduttiva dell'uomo durante tutto l'anno. La storia dell'uomo negli ultimi 10.000 anni è anche quella del cavallo, del bue, della pecora, del gatto, del cane, cioè delle specie che devono aver posseduto, a differenza di altre, una notevole dose di adattamento: in queste specie addomesticate, a differenza degli uccelli che pure in gran numero hanno subito la domesticazione, si osserva la perdita della ciclicità dell'attività riproduttiva. Anche altri piccoli mammiferi che convivono con l'uomo, pur indesiderati, tendono a riprodursi continuamente: così è per il topolino domestico e il ratto, sebbene per quest'ultimo il periodo di maggiore attività sessuale vada da marzo a giugno.
L'aver compreso che il fenomeno della stagionalità non è un'eccezione, ma la regola, in natura, e che il controllo ''naturale'' delle nascite è alla base della conservazione della specie, ha stimolato le ricerche sui meccanismi che regolano i ritmi riproduttivi. Tali ricerche hanno anche importanti riflessi economici, poiché possono portare a migliorare l'efficienza degli allevamenti e forse, nel tempo, anche dare suggerimenti utili nel campo della contraccezione umana.
Nei climi temperati del nostro emisfero il parto o la schiusa nei vertebrati avvengono genericamente in primavera, quando si verificano le migliori condizioni di sopravvivenza per i neonati. La stagione degli amori, quindi, dev'essere sincronizzata con tali esigenze vitali, per cui il periodo di fertilità in un ciclo riproduttivo varia secondo la lunghezza del tempo necessario per lo sviluppo embrionale. Così gli ovini, che hanno una gestazione di 6 mesi, si accoppiano in autunno; i roditori, gli uccelli e gli eterotermi, che generalmente sono caratterizzati da un rapido sviluppo embrionale, si accoppiano nella primavera e nella stessa stagione nasce la prole (fig. 2).
Tra gli omeotermi, il principale regolatore ambientale è il fotoperiodo. Questo, che è una variabile costante negli anni, sincronizza con precisione assoluta i cicli riproduttivi. Di conseguenza è possibile dividere i riproduttori stagionali in due grandi categorie: quella rappresentata dagli animali la cui stagione degli amori è circoscritta a periodi dell'anno caratterizzati da fotoperiodi lunghi o che hanno, in genere, un breve periodo di gestazione; e quella rappresentata da animali che si accoppiano solo quando il fotoperiodo decresce (autunno), e hanno periodi lunghi di gestazione.
Tra i mammiferi molto studiati sono gli ovini dell'emisfero settentrionale che popolano la Francia, la Gran Bretagna (Lincoln e Short 1980) e il Nord America (Karsch e coll. 1984). Pur essendo specie domestiche da migliaia di anni, gli ovini hanno conservato il ritmo riproduttivo stagionale. Il periodo riproduttivo dura circa 6 mesi, ma alcune razze, a seguito di selezione artificiale, possono riprodursi per periodi ancora più lunghi, fino a 8÷10 mesi come nel caso della razza Gentile di Puglia, studiata da Dell'Aquila e coll. (1988). L'ovulazione e la spermatogenesi si attivano a fine estate, quando il fotoperiodo decresce. Il ciclo estrale dura circa 16 giorni e persiste fino al termine dell'inverno, a meno che non intervenga una gravidanza che dura 148 giorni. Alla fine dell'inverno i cicli estrali cessano e inizia il periodo di anestro (circa 6 mesi). Questo ritmo riproduttivo stagionale fa sì che le nascite si concentrino fra la fine dell'inverno e l'inizio della primavera. È possibile invertire questo ritmo invertendo artificialmente il fotoperiodo. Inoltre l'esposizione a cicli di 90 giorni lunghi alternati ad altrettanti giorni brevi provoca due cicli estrali all'anno. Ciò si ottiene modificando solo il regime fotoperiodico, lasciando inalterate le altre variabili ambientali. Quindi è il fotoperiodo l'unico fattore ambientale responsabile del ciclo riproduttivo degli ovini (fig. 3).
Recentemente sono state scoperte le vie seguite nella trasmissione fotoneuroendocrina: gli stimoli luminosi vengono raccolti dalla retina, come hanno dimostrato S.G. Legan e F.J. Karsch (1983), inibendo il controllo fotoperiodico della r. in pecore accecate. Gli stimoli luminosi attraverso il tratto neurosinaptico retinoipotalamico raggiungono il nucleo soprachiasmatico (Legan e Winans 1981). Dall'ipotalamo gli stimoli raggiungono il ganglio cervicale superiore e di qui la ghiandola pineale (Lincoln e Short 1980): l'asportazione della pineale provoca la perdita del controllo fotoperiodico della riproduzione. La base biochimica di questo processo potrebbe essere data dalla melatonina che viene secreta durante le ore di buio, per cui la durata della sua secrezione aumenta con fotoperiodi brevi. Quindi lo stimolo fotoperiodico, breve o lungo, regola attraverso la pineale la sensibilità del generatore di pulsazioni del GnRH al feedback negativo dell'estradiolo nella femmina e del testosterone nel maschio (fig. 4).
Nei mammiferi che hanno un breve periodo di gestazione, la melatonina svolge senz'altro un ruolo fondamentale nel regolare l'attività riproduttiva. Infatti nel caso di un criceto esposto a un fotoperiodo lungo, la melatonina, se somministrata una volta al giorno di pomeriggio, induce la regressione del testicolo, mentre se è somministrata al mattino non esercita alcun effetto. Paradossalmente, se somministrata cronicamente, previene la regressione della gonade in animali esposti a fotoperiodi brevi: quest'ultima risposta alla melatonina può essere dovuta a un meccanismo di down regulation in quanto scomparirebbero i suoi recettori, rendendo così i tessuti-bersaglio insensibili all'ormone endogeno (Reiter 1973). Un altro fattore che sembra intervenire nella modulazione del generatore di pulsazioni del GnRH è rappresentato dagli oppioidi (Lincoln e Short 1980).
Gli uccelli, come i roditori, sono stimolati da fotoperiodi crescenti. Negli omeotermi quindi il principale regolatore della stagionalità riproduttiva è il fotoperiodo. Nei vertebrati eterotermi invece insieme al fotoperiodo nel controllo dei cicli riproduttivi acquista importanza la temperatura (v. tab.). Di questi due fattori ambientali, uno sembra acquisire un ruolo preponderante rispetto all'altro: nei rettili la temperatura condiziona l'azione del fotoperiodo lungo nell'attivare la gametogenesi, mentre negli anfibi sembra verificarsi l'opposto.
Uno dei più grandi problemi insoluti della fisiologia della r. resta il fenomeno della refrattarietà postriproduttiva, caratterizzata dall'impossibilità d'indurre un nuovo ciclo riproduttivo anche conservando le condizioni ambientali favorevoli, secondo un fenomeno analogo alla diapausa obbligatoria degli insetti. Varie sono le ipotesi avanzate per spiegare la fotorefrattarietà, tra cui quella di una modificazione del sistema fotoperiodico endogeno, dell'aumento della secrezione di un ormone ''antigonadotropo'', oppure dell'aumento improvviso della sensibilità al feedback negativo agli ormoni sessuali. Il significato adattativo della refrattarietà riproduttiva può essere molto esteso: esso per es. permetterebbe la r. solo all'inizio dell'anno, sincronizzandola nei nostri climi con i periodi di condizioni climatiche e alimentari migliori, oppure avrebbe il significato di controllare le nascite, cioè fungerebbe, secondo G.A. Lincoln e R.V. Short (1980), da vero e proprio contraccettivo naturale.
Controllo locale dell'attività gonadica. - La storia della regolazione dell'attività gonadica (germinativa ed endocrina) risale ai primi del 20° secolo, quando, nel 1910, S.J. Crowe, H. Cushing e J. Homans osservarono nei cani ipofisectomizzati l'ipoplasia delle gonadi associata a uno stato d'infantilismo sessuale. Successivamente vennero scoperte le interazioni tra le gonadi e l'ipofisi (Moore e Price) e nel 1954 B. Flerkò descriveva il ''feedback lungo'' tra le gonadi e l'ipotalamo. Negli ultimi quindici anni sono andati accumulandosi numerosi dati in favore di un controllo locale dell'attività gonadica. Questo controllo può essere autocrino e paracrino (fig. 5). Il controllo autocrino consiste nella regolazione dell'attività cellulare da parte della sua stessa secrezione: questa, stimolando la produzione di recettori, modula la risposta dell'attività metabolica di altri ormoni. Il controllo paracrino si ha quando il prodotto di secrezione di una cellula agisce per diffusione su una cellula bersaglio adiacente. Questi tipi di comunicazione intercellulare sono molto diffusi anche in altri tessuti e nel caso delle gonadi interessano sostanze sia steroidi che non steroidi, come i peptidi. Il loro studio risulta molto promettente in particolare nel campo della sterilità e della fertilità (Chieffi 1989; AA.VV. 1993).
La partenogenesi. - La partenogenesi è una modalità di r. diffusa in particolare fra gli invertebrati, alternata in alcuni casi con l'anfigonia, e tra i vertebrati è un'eccezione. Da quando vennero scoperte alcune specie di lucertole partenogenetiche, ne sono stati studiati i particolari comportamenti sessuali e il loro controllo endocrino.
Nelle specie anfigoniche il corteggiamento delle femmine da parte dei maschi rappresenta una premessa necessaria per l'accoppiamento. Esso non solo assicura la fecondazione, ma svolge anche una funzione strettamente correlata a questa, in quanto stimola lo sviluppo ovarico e l'attività riproduttiva della femmina. Infatti le femmine tenute in isolamento non ovulano, mentre in presenza di maschi gli ovari si sviluppano rapidamente e le ovulazioni si susseguono numerose.
Nelle specie partenogenetiche, come la lucertola americana Cnemidophorus uniparens, in assenza di maschi dovrebbero mancare tali stimoli comportamentali. Invece recentemente D. Crews e M.C. Moore (1986) hanno scoperto che le femmine partenogenetiche, allevate in isolamento, depongono solo un terzo delle uova prodotte da quelle mantenute in presenza di altre femmine con le quali s'impegnano in pseudocopulazioni (fig. 6). Studiando i profili ormonali di una specie anfigonica (Cnemidophorus inornatus) è risultato che le femmine accettano il corteggiamento dei maschi solo nella fase follicolare, preovulatoria, mentre lo respingono nella fase luteinica, postovulatoria. Anche nella specie partenogenetica il comportamento femminile si manifesta solo nella fase preovulatoria, mentre quello maschile si realizza costantemente nelle femmine che hanno ovulato da poco (fig. 7). Così, in assenza di maschi, le femmine s'impegnano alternativamente in lunghi e complessi corteggiamenti del tutto paragonabili a quelli dei maschi delle specie anfigoniche. Durante la stagione riproduttiva, di norma primaverile, le femmine di una popolazione presentano comportamenti sessuali diversi, così classificabili: femmine con comportamento femminile (in fase preovulatoria in quanto hanno ovari ingrossati), femmine con comportamento maschile (in fase postovulatoria come indicato dalla presenza delle uova nell'ovidutto), e femmine sessualmente inattive (che hanno appena deposto le uova).
Nelle specie anfigoniche dei vertebrati, il comportamento dei maschi e delle femmine è controllato da due aree cerebrali: una, che comprende l'area preottica, controlla la monta e l'accoppiamento nel maschio; l'altra, che comprende la parte ventromediale dell'ipotalamo, controlla la recettività delle femmine. Recentemente nei neuroni di queste aree ipotalamiche è stata dimostrata la presenza di recettori per gli ormoni sessuali rispettivamente maschili e femminili. In collaborazione con M.L. Mayo e J. Wade, Crews (Crews 1987, 1988) ha impiantato dei cristalli di ormoni sessuali nell'area preottica e nell'ipotalamo ventromediale. I risultati sono stati sorprendenti: l'impianto di androgeni o progesterone nell'area preottica induce il comportamento maschile, mentre l'impianto di estrogeni nell'ipotalamo ventromediale induce il tipico comportamento femminile. Nelle femmine partenogenetiche che non producono o quasi ormoni maschili, è quindi il progesterone che, legandosi ai recettori per gli androgeni, ne mima la funzione. In tal modo una delle funzioni più importanti per l'attività riproduttiva, il corteggiamento, è stata conservata. Si tratta di un interessante esempio di adattamento dei meccanismi neuroendocrini alle condizioni di riproduzione partenogenetica.
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