riscontro
Il r. è la riprova fattuale di un ragionamento, di un’intuizione, di un sospetto (Principe vii 17). In senso pregnante r. è incontro, corrispondenza, fra l’agire umano e i tempi e le cose; è accordo, conformità, incrocio (Istorie fiorentine IV xxiii 3) fra l’azione e il suo contesto; è controprova dell’appropriatezza delle scelte politiche (Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, § 46). Se il r. si realizza l’azione ha successo, è «felice»; altrimenti, il soggetto agente va incontro alla rovina.
La tematica del r. ha origine in M. dal riconoscimento dell’impossibilità di spiegare e di prevedere razionalmente gli esiti dell’agire umano, cioè dalla constatazione che il successo politico non è interamente nelle mani del soggetto, ma che esige appunto il r. della prassi politica con forze storiche e naturali extraindividuali: un incontro le cui caratteristiche elusive devono essere comprese. Nella questione del r. M. affronta, attraverso molte oscillazioni, l’irrisolto enigma della politica, cioè tanto le aporie quanto la potenza che derivano dall’infondatezza e dall’autonomia della politica moderna: la sconnessione non pienamente componibile fra azione e mondo, ovvero l’incommensurabilità della politica, la sua intrinseca eccezionalità, la sua libertà e, al contempo, la sua immanente doverosità.
La questione nasce dal fatto che si vede «con varii governi [scil. modi d’agire] conseguire una medesma cosa e diversamente operando avere uno medesimo fine [scil. esito]» (Ghiribizzi al Soderino, Lettere, p. 136). E la spiegazione è appunto la teoria del r., ovvero dell’incontro efficace fra il singolo attore politico – che «secondo lo ingegno e fantasia sua si governa» – e i «tempi», che «sono varii et li ordini delle cose ‹che› sono diversi»; così che
a colui succedono ad votum e suoi desiderii, e quello è felice che riscontra el modo del procedere suo con el tempo, e quello, per opposito, è infelice che si diversifica con le sue azioni da el tempo e da l’ordine delle cose. Donde può molto bene essere che dua, diversamente operando, abbino uno medesimo fine, perché ciascuno di loro può conformarsi con el riscontro suo, perché e’ sono tanti ordini di cose quanti sono provincie et stati (p. 137).
Non diversamente il problema è posto in Principe xxv 13-14, a proposito delle due modalità dell’agire, il respetto e l’impeto:
vedesi ancora dua respettivi, l’uno pervenire al suo disegno, l’altro no; e similmente dua equalmente felicitare con diversi studi, sendo l’uno rispettivo e l’altro impetuoso [...]. Di qui nasce [...] che dua, diversamente operando, sortiscono el medesimo effetto; e dua, equalmente operando, l’uno si conduce al suo fine, e l’altro no.
E non diversamente è risolto: «Credo ancora che sia felice quello che riscontra il modo del procedere suo con la qualità de’ tempi, e similmente sia infelice quello che con il procedere suo si discordano e’ tempi» (Principe xxv 11). E anche in Discorsi III ix 2, si sostiene che «la cagione della trista e della buona fortuna degli uomini è riscontrare il modo del procedere suo con i tempi».
Successo e fallimento derivano non da una causa razionale e univoca (soggettiva o oggettiva che sia), ma dal r. o dalla discordia, dalla sintonia o dalla divaricazione, fra agire umano («respettivo» o «impetuoso») e «qualità dei tempi» e «ordine delle cose»: espressioni, queste, che indicano la contingenza, cioè le incontrollabili cause, le molteplici relazioni e gli innumerevoli fattori che costituiscono lo spazio storico e sociale dell’azione politica (Morfino 2006, p. 92), e che al soggetto agente si presentano come infiniti casi naturali, storici, geografici e sociali, sui quali non ha dominio o controllo razionale.
In questi termini il r. non è una vera soluzione: è la constatazione che il successo politico, la felicità dell’azione, non dipendono interamente dal soggetto, ma dalla sua sintonia con un contesto di fattori esterni, efficacissimi e cogenti benché imponderabili e indeterminati. E quel contesto, non conoscibile ex ante, ma solo ex post, è instabilità, incertezza (Inglese 2006, pp. 73 e 153). Scartata l’ipotesi del semplice azzardo – l’appoggiarsi «tutto in sulla fortuna» – perché chi agisce così «rovina, come quella varia» (Principe xxv 10), M. supera anche l’ipotesi opposta, che il successo sia causato direttamente dall’agire del principe (respettivo o impetuoso che sia) e dal valore del «savio».
È infatti certamente vero che «chi fussi tanto savio, che conoscessi e’ tempi e l’ordine delle cose et accomodassisi a quelle, arebbe sempre buona fortuna o e’ si guarderebbe sempre da la trista» (Ghiribizzi, Lettere, p. 137); e non a caso il principe deve avere «uno animo disposto a volgersi secondo che e’ venti della fortuna e la variazione delle cose li comandano» (Principe xviii 15). L’accomodarsi e il volgersi non sono mero adattamento opportunistico dell’agire alle circostanze: il «savio», in grado di comandare «alle stelle et a’ fati» (Ghiribizzi, Lettere, p. 137), si adegua attivamente ed efficacemente ai loro mutamenti (qui M. si mostra in linea con il tema protomoderno, che in seguito sarà anche baconiano, del parendo imperare). Questo esito positivo dell’azione politica si avvicina alla tesi espressa in Discorsi II i 33 (la virtù dei Romani ha contato più «che la fortuna loro ad acquistare quello imperio») e nella prima parte di Principe xxv 7, dove si afferma che la virtù è in grado di contrastare la fortuna, con il preparare «argini» e «ripari a tenerla», mentre quella si scatena e travolge le opere umane «dove non è ordinata virtù a resisterle». Con la fortuna si può vittoriosamente interagire, e la sua mutevolezza non è del tutto imprevedibile a una ragione politica adeguata – cioè che si orienti al caso peggiore (Inglese 2006, p. 73) –: quindi, chi, come i principi italiani, non prepara gli argini è un ignavo, un incapace.
Queste considerazioni valgono in generale, come valutazione ex post e come indicazione di un dovere; ma, dal punto di vista particolare del soggetto coinvolto nell’azione, la virtù dominatrice e arginatrice non basta a garantire il successo. In Principe xxv 10, infatti, M. afferma che «si vede oggi questo principe felicitare e domani ruinare sanza avergli veduto mutare natura o qualità alcuna»: i tempi e le cose hanno un dinamismo autonomo, capace di disorientare anche il politico più accorto e prudente. La virtù può essere scavalcata dal corso del mondo, dagli accidenti, dalle contingenze, da una complessità di cause che il soggetto non può dominare, ma non per sua colpa o per sua trascuratezza, sì per un limite strutturale della natura umana. A fianco e oltre l’ottimismo della virtù, la questione del successo è trattata da M. con scetticismo: perché l’azione abbia esito felice, il soggetto ha bisogno di un r. con i tempi del quale egli, con la sua azione, non può essere la causa.
Il r. è difficile e precario; e la causa di questa difficoltà sta anzitutto nell’uomo, nella sua natura. Per due ordini di motivi.
Il primo è che, per M. la natura umana in generale è invariante: gli uomini «hanno ed ebbono sempre le medesime passioni» (Discorsi III xliii 3), ovvero la ricerca di «gloria e ricchezze» (Principe xxv 12), tanto nel bene (poiché «il cielo, il sole, gli elementi, gli uomini» non sono «variati di moto, di ordine e di potenza da quello ch’egli erono anticamente», è possibile anche oggi l’imitazione della virtù degli antichi: Discorsi I proemio A 8) quanto nel male (occorre «presupporre tutti gli uomini rei», Discorsi I iii 2; ovvero «ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno»: Principe xvii 10). Per di più, hanno la «vista corta» (Ghiribizzi, Lettere, p. 137), cioè sono troppo attenti all’interesse di breve periodo, il che li rende impreparati davanti al succedersi degli eventi.
Ma oltre all’invarianza universale, di genere, degli appetiti degli uomini, e alla limitatezza della loro capacità conoscitiva e predittiva, esiste per M. anche un’invarianza del carattere del singolo. Ancora in Ghiribizzi (p. 137) si legge: «ma perché e tempi e le cose universalmente e particularmente si mutano spesso, e li uomini non mutono le loro fantasie né e loro modi di procedere, accade che uno ha un tempo buona fortuna et uno tempo trista». Il «modo di procedere» – un termine cancelleresco, che si specifica appunto nel respetto e nell’impeto – viene insomma da M. fatto risalire, oltre che alle caratteristiche universali del genere umano, al carattere del singolo. E il rapporto fra il carattere e la prassi politica è ancipite: certo, è vero che «quello viene a errare meno e avere la fortuna prospera, che riscontra con il suo modo il tempo, e sempre mai si procede secondo ti sforza la natura [scil. il carattere]» (Discorsi III ix 4); ma è anche vero – poiché nessuno «si può deviare da quello a che la natura lo inclina» (Principe xxv 16) – che «un uomo che sia consueto a procedere in un modo, non si muta mai, e conviene di necessità che, quando e’ si mutano i tempi disformi a quel suo modo, che rovini» (Discorsi III ix 12). Insomma, il carattere non può non essere obbedito, ma successo e insuccesso dipendono dal fatto che il carattere, e il modo di procedere che ne discende, riscontri o no le circostanze esterne. E poiché il carattere è per definizione fisso, mentre le cose e i tempi si muovono, quell’incontro (il r.) è casuale e contingente.
Questa difficoltà non è superata, ma è anzi aggravata dalla mobilità – la seconda causa della difficoltà del r. – che a volte M. riconosce all’animo umano, per es. là dove afferma che «gli uomini sogliono affliggersi nel male e stuccarsi nel bene» (Discorsi I xxxvii 2) e che, quando non sono mossi dalla necessità, lo sono dall’ambizione (il che significa che i loro desideri sono incalcolabili e infiniti, perché non sono dettati solo da bisogni elementari). E anche in Discorsi II proemio 19-21 – dopo avere parlato di una mutevolezza che coinvolge l’uomo, la sua capacità di «giudizio» e i suoi «appetiti», che variano dalla giovinezza alla vecchiaia e lo portano a valutare diversamente, nel corso del tempo, circostanze e cose – M. sottolinea, ancora più radicalmente, le opposte dinamiche degli «appetiti umani insaziabili» che rendono l’uomo capace di «desiderare ogni cosa», e della fortuna, la quale fa sì che l’uomo, di ciò che desidera, possa «conseguitare» ben poco; il che genera, «senza ragionevole cagione», una «mala contentezza nelle menti umane e uno fastidio delle cose che si posseggono».
Questa mobilità non è il libero arbitrio né la plasticità del «savio», capace di adattarsi vittoriosamente alla contingenza e di comandare «alle stelle e ai fati»; è un’incostanza, un’insofferenza, un disagio perenne; insomma, un mutare di opinioni e di passioni, capriccioso ma al contempo fatale (tale cioè che a esso il soggetto non può sottrarsi), che coesiste con la limitatezza del carattere e delle opzioni pratiche a disposizione del soggetto. Perché il successo sia possibile l’uomo dovrebbe sapere fronteggiare in modo diverso eventi diversi, mentre questa volubilità è tanto una dissimmetria fra desiderio illimitato e appagamento, fra aspettative e realistiche possibilità di successo, quanto un’instabilità esistenziale, una variabilità di umore che non si adatta al cambiare dei tempi e delle cose, all’azione della fortuna, ma anzi ne fa parte, collocando l’uomo dal lato del problema e non della soluzione. Troppo fisso e al contempo troppo mobile, il soggetto non è attivamente plastico – non è il «camaleonte» del neoplatonismo umanistico (Sasso 1993, p. 236) –, ma (benché cerchi di vincerli con la disciplina della virtù) finisce con il patire i propri invincibili tratti di naturalità e di contingenza.
La fissità del carattere del singolo e delle sue motivazioni, unita alla sua volubilità e passiva mutevolezza, spiegano quindi perché il r. non dipende solo dalle capacità umane:
perché di questi savi non si truova, avendo li uomini prima la vista corta e non potendo poi comandare alla natura loro, ne segue che la fortuna varia e comanda a li uomini, e tiegli sotto el giogo suo (Ghiribizzi, Lettere, pp. 137-38).
Ugualmente, nella Vita di Castruccio Castracani (§ 132) M. afferma che la fortuna «vuol essere arbitra di tutte le cose umane». E in Principe xxv 17 si dice che «se si mutassi natura co’ tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna» (cioè il successo sarebbe assicurato), ma non «si truova uomo sì prudente che si sappi accomodare a questo [scil. al mutare dei tempi]» (Principe xxv 16): natura e tempi, nella loro complessità e accidentalità stanno davanti all’uomo come una natura scarsamente dominabile.
Ciò vale anche per le realtà collettive: in Discorsi III ix 11 si afferma infatti che
una repubblica ha maggiore vita e ha più lungamente buona fortuna che uno principato, perché la può meglio accomodarsi alla diversità de’ temporali, per la diversità de’ cittadini che sono in quella, che non può uno principe
(e ciò si assomma all’osservazione di Discorsi I lviii 33, che «se i principi sono superiori a’ popoli nello ordinare leggi, formare vite civili, ordinare statuti e ordini nuovi, i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinate»).
M. disegna una natura umana simile a quella che sarà prevista da Thomas Hobbes nello stato di natura, caratterizzata cioè dalla necessità e dall’ambizione (nel linguaggio hobbesiano, dalla penuria e dalla vanagloria); in M. però il soggetto esibisce una minore consapevolezza che la vita sia il bene primario – lo sono semmai «glorie e ricchezze» –, il che amplifica il disagio psicologico, l’indeterminatezza e l’instabilità esistenziale del soggetto. E lo colloca in una condizione di generale incertezza: la mutevolezza della «natura, che è varia» (M. a Francesco Vettori, 31 genn. 1515, Lettere, p. 349) coinvolge anche l’uomo e quindi l’errore, l’illusione, l’inganno, sono la sua condizione naturale. Il r., insomma, non si dà fra entità diverse e rigidamente separate (uomo e tempi): anche l’uomo è immerso nel flusso del tempo e delle cose, che si muovono insieme a esso, benché asincronicamente rispetto a esso. La civiltà conserva in sé, per M., molto di quello che Hobbes definirà stato di natura.
Proprio sul tema del r. fra uomo e tempi e della sua intrinseca difficoltà si coglie dunque che M., nel suo naturalismo, è esterno alla riduzione e alla semplificazione operate dal dispositivo razionale pienamente moderno, che fa dell’uomo il Soggetto dominatore della natura e il protagonista della società, in quanto è capace di progetto a lungo termine, cioè di calcolare la propria utilità e di costruire le condizioni istituzionali adeguate a tal fine, e fa parimenti del mondo l’Oggetto sussumibile all’interno delle coordinate ordinative della ragione. In questa costruzione artificiale, geometrica e trasparente, il r. fra agire umano e mondo avviene con certezza causale perché la realtà empirica è disponibile al calcolo, alla misura, della ratio tecnico-scientifica di un soggetto che è, a sua volta, una funzione operativa e non una creatura in carne, ossa e carattere. Qui la natura individuale – respettiva o impetuosa che sia – e la mutevolezza degli umori sono sì un problema per la stabilità dell’ordine politico, ma il logos umano è ben in grado di oggettivare la complessità e la mutevolezza della natura e della società, di decifrarne operativamente le leggi intrinseche che spiegano il suo variare, di essere efficacemente sincrono con essa.
Neppure la storia è portatrice di una necessità razionale oggettiva che, nella forma di leggi o di regolarità, sia causa riconoscibile e prevedibile di un r. positivo e durevole fra uomo e mondo.
Nonostante M. sostenga, nel discorso sul Modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (§ 20), che «le istorie sieno la maestra delle azioni nostre», il loro insegnamento si attua, in realtà, con le «battiture», i colpi e le sconfitte inferte agli uomini: sono queste a renderli «savi» (Istorie fiorentine V i 6); il sapere umano che si trae dalla storia, dai tempi, nasce dall’urto dei soggetti contro una realtà la cui razionalità è, in medias res, inafferrabile. La permanenza, attraverso i mutamenti, di strutture e di regolarità nella storia può essere riconosciuta ex post, ma non ha lo statuto di una necessità che possa guidare la concreta prassi umana (Inglese 2006, p. 73).
In particolare, neppure il r. fra tempi diversi – cioè la corrispondenza intesa come somiglianza o analogia strutturale fra l’antichità e la modernità – implica un’oggettiva razionalità trans-storica, come si evince da Discorsi III xliii 2-3. Lì, certo, si afferma:
sogliono dire gli uomini prudenti [...] che chi vuole vedere quello che ha a essere, consideri quello che è stato: perché tutte le cose del mondo in ogni tempo hanno il proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che nasce perché essendo quelle operate dagli uomini, che hanno ed ebbono sempre le medesime passioni, conviene di necessità che sortischino il medesimo effetto.
Un tema analogo è rinvenibile nel prologo della Clizia, in cui si afferma che il ritorno «dei medesimi casi» unito al ritorno dei «medesimi uomini», produrrebbe le «medesime cose».
Nondimeno, questa corrispondenza non produce necessariamente il r. fra uomo e tempi: gli uomini e il loro agire sono esposti alla contingenza. Il medesimo passo dei Discorsi prosegue infatti con una forte avversativa:
Vero è che le sono le opere loro ora in questa provincia più virtuose che in quella e in quella più che in questa, secondo la forma della educazione nella quale quegli popoli hanno preso il modo del vivere loro.
Spazio e costumi, insomma, rendono di fatto indeterminato il r. fra i tempi, che è forse dominabile dallo sguardo storico comparativo, ma che certo non garantisce il successo dell’azione.
Infine, è certamente vero che questa analogia strutturale fra tempi diversi rende possibile non solo la comparazione ex post, ma anche, in linea di principio, l’imitazione degli antichi e della loro virtù: infatti il «moto», l’«ordine» e la «potenza» propri del «cielo», del «sole», degli «elementi», degli «uomini» non variano fra i tempi antichi e oggi (Discorsi I proemio 6); e quindi in Discorsi I xxxix 2-3 si parla della «similitudine degli accidenti» fra antico e moderno. Nondimeno, benché l’imitazione – consentita dal r. fra i tempi diversi – sia un dovere etico-politico, essa esige il concreto r., per nulla necessario, fra azione umana e qualità dei tempi.
Il successo dell’azione non è causato direttamente né dalla virtù soggettiva né da una presunta necessità oggettiva: i tempi mutano secondo schematismi oggettivi ripetitivi, ma non unilinearmente necessitanti (Raimondi 2009, p. 44), e d’altra parte il soggetto è fisso nel carattere e cangiante nell’umore, il che lo espone a sconfitte, a errori per ignavia o superbia o leggerezza o avidità, o per la limitatezza intrinseca all’uomo (anche il più virtuoso, il Valentino, non ha piena capacità di previsione, il che gli fa commettere l’errore fatale: Principe vii). Il r. è aleatorio perché il concorso, ossia il con-venire, fra uomo e mondo, si dà non in una riconoscibile e prevedibile catena di causalità (soggettive o oggettive che siano), ma nella contingenza, nella mancanza di necessità o di armonia fra uomo e mondo, sia questa divinamente prestabilita, storicamente provvidenziale, o umanamente costruibile. Perché la politica è infondata, indeducibile dalla ragione (Althusser 1995).
Più che dal r. fra azione e mondo la vicenda umana sembra segnata dal suo contrario, dall’inconveniente, dal loro non adattarsi reciproco. E infatti si legge in Discorsi III ix 3, che, comunque si agisca (con impeto o con rispetto), fatalmente «si passano e termini convenienti, non si potendo osservare la vera via», e quindi «nell’uno o nell’altro [scil. modo] si erra».
Quindi, non resta che cercare di «errare meno» (§ 3): «si debbe considerare dove sono meno inconvenienti [...] ‹perché› tutto netto, tutta sanza sospetto non si truova mai» (Discorsi I vi 22); e anche in Principe xxi 24 si legge: «mai si cerca di fuggire uno inconveniente che non si incorra in uno altro». Che il mondo, insomma, sia sempre «stato ad uno medesimo modo», implica che contenga sempre «tanto di buono quanto di cattivo» (Discorsi II proemio 12): bene e male, utilità e danno, si mescolano nella storia, assumendo differenti e imprevedibili configurazioni («sempre da il bene si scende al male, e da il male si sale al bene», Istorie fiorentine V i 1), ma anche confondendosi l’uno nell’altro, così che non si può tracciare una linea netta che li separi: «la Fortuna e la Natura tiene el conto per bilancio: la non ti fa mai un bene, che, a l’incontro, non surga un male» (Mandragola IV i). Dal punto di vista sia dell’agire soggettivo sia del darsi oggettivo dei casi, l’inconveniente, il non-riscontro, è il principio d’indeterminazione attraverso il quale M. nomina la natura eccezionale, non normabile, della politica.
Il naturalismo di M. gli fa riconoscere e accettare l’opacità, l’assenza di causalità lineare, nella natura e nelle formazioni sociali, e l’unicità, la varietà e la complessità inestricabile della natura umana e non-umana (di cui è emblema il principe/centauro); al contempo, M. coltiva però l’umano desiderio che la politica sia tanto potente da lasciare un segno nel corso dei tempi. A tale scopo M. consiglia al principe di «pigliare», fra gli inconvenienti, «el men tristo per buono» (Principe xxi 24).
Non è un consiglio di passività né di rassegnazione, ma di azione disincantata. Se è «verissimo» che «gli uomini possono secondare la fortuna e non opporsegli; possono tessere gli orditi suoi, e non rompergli», è anche vero che
debbono bene non si abbandonare mai; perché non sappiendo il fine suo [scil. della fortuna], e andando quella per vie traverse ed incognite, hanno sempre a sperare, e sperando non si abbandonare, in qualunque fortuna e in qualunque travaglio si truovino (Discorsi II xxix 24-25).
Insomma, se la sovrana libertà del soggetto è esclusa (l’uomo non è, e non ha, la misura delle cose), lo è anche la rigida oggettiva necessità: emerge piuttosto, dall’imperativo di non abbandonarsi, che nel tema del r. non è implicata solo la possibilità dello scacco, ma anche l’intrinseca doverosità della politica e della libertà dell’azione come occasione di potenza, come azzardata possibilità.
Proprio l’inconveniente come dato naturale del mondo sociale e storico, come principio d’indeterminazione che rende aleatorio il r. fra uomini e tempi, proprio la consapevolezza che non vi è una via sicura e razionale al successo, spingono l’uomo adagire. È la realtà del travaglio e non la ricerca di sicurezza la molla della politica; non la certezza del sapere bensì la speranza nell’incontro tra azione e fortuna; non il progetto a lungo termine, ma l’agire rischioso; non la sovrana superiorità sulla natura (fisica e sociale) ma la lotta contro la natura dall’interno della natura.
M. individua due modalità dell’agire rivolto alla potenza: gli uomini procedono «variamente; l’uno con rispetto, l’altro con impeto; l’uno per violenzia, l’altro con arte; l’uno con pazienza, l’altro col suo contrario» (Principe xxv 12). E in Discorsi III ix 3 ribadisce che «gli uomini nelle opere loro procedono, alcuni con impeto, alcuni con rispetto e con cauzione», e offre come esempio di un modo papa Giulio II, e dell’altro Quinto Fabio Massimo.
Nessuno dei due modi dell’azione – che derivano dal carattere del soggetto – è di per sé risolutivo, né ha in sé la chiave del successo; da questo punto di vista sono paritetici, e in ciascuno di essi «si erra» (Discorsi III ix 3) se l’agire, impetuoso o respettivo che sia, non si riscontra con la «qualità de’ tempi».
Il «respetto» (o «rispetto») ha diverse sfumature di significato: è l’esitazione, il timore, il tentennamento (detto di Callimaco, Mandragola II ii; dei principi che offendono il Valentino, Principe vii; del principe che deve essere rispettivo verso il popolo, Discorsi II xxiv 15; del male, dell’inconveniente, che va aggredito sul nascere senza rispetto, Discorsi I xxxiii); ma è anche la non violazione delle leggi (Discorsi I lviii 8); ed è, infine, accezione più appropriata in questo contesto, la freddezza del calcolo e dell’artificio, il consapevole temporeggiamento (Discorsi III ix 5 e Principe xxv 12, in endiadi con «pazienza»). Il ‘respetto’ non è quindi solo passivo, ma è una modalità d’azione attenta, prudente e riguardosa (Principe xv 11), e ha a che fare con la cautela, lo scrupolo, l’accortezza, la mediazione; certo, questa prudenza che asseconda gli avvenimenti, che vi si adatta non per passività, ma per consumarli con il suo attrito, non garantisce il controllo razionale della realtà (Discorsi III ix 5). Né, del resto, lo garantisce l’impeto, ossia la spinta, il colpo improvviso che tenta la forzatura di un contesto, e che quindi esprime un’attività non fondata sul calcolo prudente, ma sull’iniziativa energica, sulla risolutezza e sulla decisione (e non è però un mero affidarsi alla sorte). Il termine è frequente in M.; a titolo esemplificatorio, è associato all’assalto militare (Discorsi II xvii 9, xxiv 18; Ritratto delle cose di Francia, § 22; Legazione presso la corte papale, M. ai Dieci, 25 nov. 1503, LCSG, 3° t., p. 407; M. a Francesco Vettori, 10 dic. 1514, Lettere, p. 333, oltre che Arte della guerra, passim), al vigore, all’audacia, all’impazienza, alla feroce determinazione della gioventù (Principe xxv 27; e che la fortuna sia amica dei giovani per la loro energia è nelle glosse ai Ghiribizzi, Lettere, p. 136, in Clizia IV i, e nel capitolo “Di Fortuna”, vv. 162-65); e infine è associato a una forza inarrestabile, politica o naturale (Discorsi I xxxiii 7, riferito alla forza delle «cose»; Discorsi I lvii 9, nella forma «émpito», riferito alla moltitudine, mentre in Principe xxv 5, è detto dei fiumi; infine – oltre che in Discorsi III ix – è una modalità dell’agire umano).
Anche l’impeto ha bisogno del r. con i tempi per essere efficace: papa Giulio II «procedette con impeto e con furia», ma riuscì nelle sue imprese solo perché «i tempi l’accompagnarono bene» (Discorsi III ix 15); ma «se fussino venuti tempi che fussi bisognato procedere con respetti, ne seguiva la sua ruina» (Principe xxv 24); l’impeto ha quindi uno status pari al respetto, con il quale condivide la limitazione generale dell’agire umano.
Eppure, l’impeto è privilegiato da M., che sembra attribuirgli la capacità di forzare il r. fra azione e mondo, di fargli perdere casualità e di farlo dipendere dall’uomo: sull’impeto si determina lo scarto che fa sì che il naturalismo, e la sua impasse, venga superato. Attraverso una forte avversativa («bene») rispetto alla conclusione di Principe xxv 25, che «variando la fortuna e’ tempi e stando li uomini ne’ loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme e, come e’ discordano, infelici», M. «iudica» che
sia meglio essere impetuoso che respettivo; perché la fortuna è donna, e è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedono; e però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano (Principe xxv 26-27).
Paragonato al «respetto», l’impeto comporta un surplus d’iniziativa, di attività: è una violenza, ma calcolata e finalizzata, non cieca o azzardata; e non è certo un agire inconsulto che si affida alla fortuna(che anzi si vuole tenere sotto, e colpire). È il tentativo di imporre al mondo la misura dell’uomo, ovvero di sincronizzare il tempo umano alla qualità dei tempi, insomma di fare dell’azione la causa unica del successo: un obiettivo di potente ultra-razionalizzazione, mossa però non da un algoritmo logico sì dall’energia di un’ultra-volontà che si sforza di liberarsi dalle costrizioni.
Nella metafora della natura femminile della Fortuna, che la renderebbe disponibile alla vis del maschio, l’impeto assume le sembianze dell’impazienza, di un consapevole tagliar corto, di una sbrigativa decisione; l’impeto implica che non si voglia sopportare l’attesa del temporeggiamento, ma che si voglia accelerare e produrre il r., in sé aleatorio, fra azione e corso degli eventi: è volontà apertamente parziale di immediatezza, di unilateralità. L’obiettivo di questa prova di forza non è l’eroica testimonianza, ma il successo: l’infondatezza e la non piena razionalità della politica si rivelano apertamente fattori non solo di debolezza e di incertezza, ma anche di possibile puntuale potenza.
Eppure, l’impeto non fronteggia la struttura non razionale del mondo più adeguatamente del rispetto: anche questo, infatti, ne fa esperienza, ed è insieme potente e disincantato. Né l’impeto obbedisce meglio all’imperativo di non abbandonarsi mai: da un punto di vista logico quel dovere di tenacia può infatti essere assolto anche dal temporeggiamento.
Questa difficoltà può trovare soluzione se si assume che, con il privilegiare l’impeto, M. non ha l’obiettivo di indicare una regola politica generale; piuttosto, l’impeto è una cifra espressiva concitata che radicalizza sia la struttura tragica dei tempi della situazione italiana (Inglese 1995, p. XLIII) sia il dovere di tentare di lasciarvi un segno politico. Il favore dato all’impeto ha a che fare con la contingenza storica, non con la coerenza di una deduzione logica; è un’eccezione che conferma la regola: la politica è stare nella contingenza, affrontarla senza poterne uscire.
Pur nella consapevolezza della sua valenza occasionale – l’eccezione italiana – si può nondimeno trovare un motivo di ordine generale nella preferenza accordata da M. all’impeto e interpretarlo come un atto di ribellione, che incorpora ed esprime (più vistosamente del respetto) la non normabilità come struttura permanente della politica. L’impeto ricapitola, nella plasticità di un gesto, il confronto con l’eccezione che, certo, è proprio anche del respetto, ma che qui è diluito e defatigante, mentre nell’impeto è concentrato al punto che esso diviene la cifra della struttura tragica del mondo e del dovere di lasciarvi un segno proprio a causa della potenza che in questa infondatezza è implicita come possibilità.
Del resto, lo scetticismo e l’audacia (che vale «impeto», ma più in generale assenza di tentennamenti nel percepire l’infondatezza della politica) stanno fra loro in rapporto diretto anche nelle glosse ai Ghiribizzi (Lettere, p. 136), dove M. dà per massima di «non consigliar persona né pigliar consiglio da persona, eccetto un consiglio generale che ognun facci quello che li detta l’animo e con audacia».
Questo scetticismo disincantato, ma agonistico, che implica un rapporto inconcluso fra uomo e mondo, questo risoluto accedere (secondo il carattere) tanto alla violenza quanto alla pazienza per trattenere una situazione sempre sul punto di sfuggire e di precipitare, ma anche per dare inizio a un evento nuovo, conferma che l’enigma del r. è in realtà l’orizzonte sia della condizionatezza umana sia della libertà – ma anche della doverosità e dell’essenziale rischiosità – dell’agire politico.
Bibliografia: G. Ferroni, Mutazione e riscontro nel teatro di Machiavelli e altri saggi sulla commedia del Cinquecento, Roma 1972, pp. 20-26; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Il pensiero politico, nuova ed. Bologna 1993, pp. 226-43 e 424-44; L. Althusser, Machiavel et nous, in Id., Écrits philosophiques et politiques, 2° vol., Paris 1995, pp. 39-168 (trad. it. Roma 1999); G. Inglese, introduzione a N. Machiavelli, Il Principe, Torino 1995, pp. V-LXXI; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006; V. Morfino, Tra Lucrezio e Spinoza: la ‘filosofia’ di Machiavelli, in Machiavelli. Immaginazione e contingenza, a cura di F. Del Lucchese, L. Sartorello, S. Visentin, Pisa 2006, pp. 67-110; F. Raimondi, ‘Necessità’ nel Principe e nei Discorsi di Machiavelli, «Scienza & politica», 2009, 40, pp. 27-50.