Abstract
Si analizzano la nascita e l’evoluzione del principio del consenso al tributo nell’ordinamento italiano, fino alla codificazione, a livello costituzionale, nella riserva di legge in materia tributaria contenuta nell’art. 23 Cost., volto proprio a coniugare i temi della tassazione e del consenso al tributo.
Nel nostro ordinamento, il principio garantistico del consenso al tributo, quale strumento per contenere l’arbitrio fiscale del sovrano - il corrispondente del principio no taxation without representation, affermatosi in Inghilterra già con la Magna Charta del 1215 e poi con la Confirmatio Chartarum di Edoardo I del 1297 (cfr.: Marongiu, G., I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria: profili storici e giuridici, Torino, 1995, 28) - trova codificazione già con l’art. 30 dello Statuto albertino, il quale prevede che «nessun tributo può essere imposto o riscosso se non è stato consentito dalle Camere e sanzionato dal Re».
Da questa originaria vocazione a tutelare il patrimonio dei singoli dall’arbitrio del sovrano, il principio del consenso all’imposta si è poi evoluto, a compimento del suo percorso garantistico in uno Stato democratico di diritto, nella riserva di legge formulata, in materia tributaria, nell’art. 23 della Costituzione repubblicana; articolo secondo cui «nessuna prestazione, personale o patrimoniale, può essere imposta se non in base alla legge». Tra le due norme – quella dello Statuto albertino e quella della Costituzione – corre più di una differenza; ma certo la principale distinzione tra le due previsioni va colta nella valenza, non solo giuridica ma morale, che la riserva di legge assume nella Costituzione repubblicana. La stessa collocazione sistematica dell’art. 23 nel titolo dedicato ai “Rapporti civili” rivela come il principio del consenso all’imposizione tuteli, in modo immediato e prevalente, “interessi generali” e, solo in via indiretta e subordinata, “interessi dei privati”, posto che l’integrità patrimoniale di questi ultimi trova piuttosto tutela nel disposto dell’art. 41 Cost.
L’art. 23 della Costituzione coniuga i temi della tassazione e del consenso all’imposizione (o, più correttamente, della partecipazione dei consociati alla definizione delle scelte di politica fiscale del Paese) e garantisce che il prelievo fiscale si fondi e trovi prima legittimazione solo nella legge.
Il significato della norma è chiaro: le scelte di politica tributaria sono riservate al legislatore ordinario e, dunque, sottratte al potere discrezionale dell’esecutivo (e, come sottolineato dalla più recente dottrina, sottratte al potere discrezionale della stessa Amministrazione finanziaria, a garanzia, sotto quest’ultimo profilo, dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria intesa come assenza di discrezionalità amministrativa sull’an e sul quantum debeatur).
La legge è concepita come l’ideale strumento per l’attuazione dei valori costituzionali tanto per la collegialità e la democraticità dell’organo di cui è emanazione (organo rappresentativo anche delle minoranze) quanto per la pubblicità e per l’articolazione del suo procedimento di formazione; e questa affermazione appare rafforzata dalla collocazione del principio di riserva di legge in materia tributaria in una Costituzione rigida, che dunque esclude a priori la legittimità di norme aventi valore di legge ordinaria con esso contrastanti.
Le scelte tributarie devono “passare” dal Parlamento, concepito dalla nostra Costituzione nell’ottica hegeliana di “porticato” tra il popolo e le istituzioni. Se lo Stato costituzionale moderno si caratterizza per il pluralismo delle istituzioni, in questo Stato il Parlamento gioca un ruolo relazionale fondamentale, che è di investitura, indirizzo o controllo nei confronti delle altre istituzioni.
Ma la riserva fissata dall’art. 23 non è solo lo strumento per assicurare il pur necessario consenso all’imposizione; la garanzia democratica che al contribuente deriva dall’art. 23 non è, o non è solo, nel “mezzo” per le scelte tributarie, ma è anche nella “qualità” di un ordinamento giuridico che riconosce all’individuo quel valore e quella dignità costituzionali che non potrebbero trovare esclusivo fondamento nella deliberazione di un’assemblea di cittadini (per la più recente elaborazione in tal senso cfr: Scalinci C., Il tributo senza soggetto. Ordinamento e fattispecie, Padova, 2011, spec. 87 ss.).
Come ogni riserva di legge, anche quella in materia tributaria è destinata ad alterare i rapporti ordinari tra le fonti del diritto, perché preclude al legislatore la possibilità di demandare la disciplina che gli è riservata ad altre fonti normative, spesso subordinate, a cominciare dai regolamenti dell’esecutivo.
La riserva fissata dall’art. 23 Cost., peraltro, non è assoluta ma relativa («in base alla legge», recita la norma), nel senso che è “riservata” alla legge in senso formale o agli altri atti aventi forza di legge – dunque non solo alle leggi in senso stretto e alle leggi delle Regioni, a statuto ordinario o speciale, e delle Province autonome di Trento e Bolzano (v. C. cost. sentenze nn. 64/1965, 148/1979, 180/1996, 269/1997 e 435/2001), ma anche ai decreti-legge e ai decreti delegati – la disciplina degli elementi identificativi essenziali della prestazione impositiva, salvo lasciarne la disciplina di dettaglio ad atti normativi diversi o addirittura ad atti amministrativi generali («Intendendo che il fondamento del prelievo, ma non ogni suo elemento, debba trovarsi nella legge»; così Forte, F., Note sulla nozione di tributo, in Riv. dir. fin., 1956, 279).
La scelta costituzionale di prevedere, in materia tributaria, una riserva relativa e non assoluta trova facile spiegazione ove si rifletta sulla necessità di disciplinare anche aspetti estremamente tecnici o specifici, per i quali la legge formale o altro atto di pari grado potrebbero apparire poco indicati.
Proprio per questa ragione, l’art. 23 Cost., se «vieta che le prestazioni personali o patrimoniali siano imposte direttamente da una fonte secondaria», «non esclude», invece, «che il precetto legislativo possa essere da detta fonte integrato» «essendo anche ammissibile il rinvio a provvedimenti amministrativi diretti a determinare elementi o presupposti della prestazione, purché risultino assicurate, mediante la previsione di adeguati parametri, le garanzie in grado di escludere un uso arbitrario della discrezionalità amministrativa» (così Cass., 28.5.2003, n. 16498; 20.11.2003, n. 17602; 10.9.2004, n. 18262): in altre parole, l’integrazione ad opera di fonti secondarie è ammessa a condizione che la legge stabilisca criteri idonei a disciplinare gli eventuali margini di discrezionalità lasciati alla pubblica Amministrazione nella determinazione in concreto della prestazione e ne individui almeno l’oggetto.
Premessa la possibilità di integrare la disciplina della prestazione imposta ad opera di fonti secondarie, occorre individuare quale sia il contenuto minimo della fattispecie impositiva definita dalla legge, tenendo conto che esso «può variare in dipendenza della natura della prestazione patrimoniale imposta e, soprattutto, della sua giustificazione e funzione: distributiva della spesa, piuttosto che redistributiva della individuale ricchezza» (così Fantozzi, A., Riserva di legge e nuovo riparto della potestà normativa in materia tributaria, in Riv. dir. trib., 2005, I, 9).
Per lungo tempo, dottrina e giurisprudenza costituzionale hanno affermato che dovessero essere individuati e disciplinati con legge (o con altri atti avente forza di legge) gli elementi essenziali identificativi della prestazione patrimoniale imposta, e dunque: il presupposto, cioè il fatto al verificarsi del quale la prestazione è dovuta; i soggetti passivi, cioè i soggetti cui quel presupposto è riconducibile; i criteri oggettivi per la determinazione del quantum della prestazione (base imponibile e aliquota).
La disciplina dell’attuazione dell’imposta (accertamento e riscossione) si è ritenuto che potesse essere invece rimessa dal legislatore a fonti subordinate, purché con l’indicazione di principi e criteri volti a evitare l’arbitrio dell’Amministrazione e ad assicurare la congruità e la corrispondenza della capacità contributiva astrattamente colpita dalla legge con quella concretamente assoggettata al tributo.
Se, in linea generale, soggetti passivi, presupposto e indici di contribuzione continuano ancor oggi a costituire il nucleo essenziale e irrinunciabile che realizza quel criterio di riparto delle spese pubbliche che è valore costituzionalmente tutelato e affidato alla riserva di legge, entità, generalità ed effettività del prelievo rappresentano, invece, aspetti che a determinate condizioni possono essere demandati, anche secondo la giurisprudenza costituzionale, a scelte locali per il tramite di fonti normative non legislative.
Nel tempo, il vincolo sancito dall’art. 23 Cost. sembra essersi progressivamente allentato anche nella giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha finito per relativizzare la portata del principio. In alcuni casi la Corte (v. sentenze: 26.1.1957, n. 4; 13.7.1963, n. 127; 29.3.1972, n. 56; n. 10.7.1981, n.127) ha, infatti, riconosciuto la possibilità di rimettere ad atti diversi dalla legge anche l’individuazione del presupposto o dei soggetti. Ancor più ampi sono stati i casi in cui ad atti diversi dalla legge è stata demandata la quantificazione della prestazione, o si è svalutato il criterio dei limiti in senso stretto per effetto del suo concorso e del suo bilanciamento col criterio del fabbisogno finanziario: considerato - specie per i tributi dovuti agli enti locali - parametro utile a determinare il tributo.
Quanto al fondamento del potere di integrare la disciplina legislativa con fonti secondarie - sostanzialmente i regolamenti - parte della dottrina ritiene che nei settori riservati alla legge i regolamenti in materia di prestazioni patrimoniali imposte debbano essere autorizzati o delegati. Altra parte della dottrina ricostruisce invece la relazione tra regolamento e legge come un rapporto non di autorizzazione, ma di subordinazione, sul presupposto che i poteri di integrazione debbano essere attribuiti dalla legge stessa. Nella prassi si ricorre sia a regolamenti autorizzati o delegati, che si limitano a dare attuazione alla legge, sia a regolamenti subordinati: i decreti ministeriali che approvano i modelli di dichiarazione fiscale o individuano gli Stati e i territori a fiscalità privilegiata (le cd. black list), i decreti sui coefficienti di ammortamento, e cosi via. È, peraltro, molto complesso, in concreto, distinguere gli uni dagli altri.
Quanto all’integrazione non già a livello generale ed astratto - con un regolamento - bensì con atti amministrativi singolari, che incidano su uno specifico rapporto, parte della dottrina la esclude (cfr.: Guarino, G., Sul carattere discrezionale dei regolamenti, in Foro it., 1953, I, 541 ss.); altra parte, invece, ammette la possibilità di un concreto disporre che, essendo discrezionale, realizzi e precisi la disciplina posta con legge (cfr. Fois, S., Legalità (principio di), in Enc. dir., XXIII, 664 ss.).
Un limite fondamentale all’integrazione della legge è, in ogni caso, il rispetto dei principi costituzionali, specie quelli di uguaglianza (art. 3) e di capacità contributiva (art. 53) che precludono ogni disparità di trattamento tra i diversi soggetti cui è imposta la prestazione, così come lo sono, persino per i regolamenti delegati, sia «i principi che ispirano il settore tributario» nel quale essi si inseriscono «sia l’ambito della disciplina di attuazione e di accertamento» nella quale essi sono «destinati a produrre effetti», sia, ancora, «in dettaglio, la specifica norma di investitura» (cfr.: Di Pietro, A., I regolamenti, le circolari e le altre norme amministrative per l’applicazione della legge tributaria, in Trattato di diritto tributario, a cura di, A. Amatucci, Padova, 1994, 626).
Sulla ricostruzione del rapporto tra potere regolamentare e art. 23 Cost., infine, incide anche l’art. 17, co. 2, della l. 23.8.1988, n. 400 il quale prevede che le singole leggi, relative ai settori da delegificare, dispongano, contestualmente, l’effetto delegificante e la fissazione di principi generali della materia, cosicché la normazione secondaria deve comunque occupare uno spazio già delimitato dalle norme generali regolatrici della materia.
La Corte costituzionale ha confermato l’immutata persistenza e valenza dell’art. 23 Cost. anche a seguito della riforma del titolo V della Costituzione (v. Scalinci, C., Riserva di legge e primato della fonte statale nel “sistema” delle autonomie fiscali, in Riv. dir. trib, 2004, II, 233 ss.). In attesa dell’emanazione della legge statale di coordinamento della finanza pubblica, la Corte aveva chiarito (cfr.: C. cost. 26.1.2004, n. 37) che non vi era alcuna possibilità, per le Regioni, di intervenire istituendo nuovi tributi, e che anche a regime, avrebbe dovuto essere pur sempre lo Stato ad individuare limiti e spazi entro i quali avrebbe potuto esplicarsi l’autonomia tributaria regionale: sia fissando «i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi», sia determinando «le grandi linee dell’intero sistema tributario» e «gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, regioni ed enti locali». In assenza della legge statale di coordinamento, le Regioni a statuto ordinario non potevano, dunque, intervenire nella disciplina di tributi già istituiti con legge statale o introdurre nuovi tributi aventi lo stesso presupposto dei preesistenti tributi statali; potevano solo sfruttare lo spazio residuo rappresentato dall’istituzione di tributi propri aventi presupposti diversi da quelli già assoggettati ad imposizione erariale. Per tali tributi propri, che le Regioni potevano stabilire in base all’art. 117, co. 4, Cost. (trattandosi di «materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato»), non rilevava la mancanza di una legge di coordinamento, ma la condizione che tali tributi, oltre ad essere in linea con la Costituzione, rispettassero i principi dell’ordinamento tributario, ancorché solo “incorporati” in un sistema di tributi sostanzialmente governati dallo Stato (cfr. la sentenza n. 15.4.2008, n. 102).
Maggiore autonomia la Corte costituzionale l’aveva riconosciuta, in attesa dell’emanazione della legge delega, alle Regioni a statuto speciale (specie nella ricordata sentenza n. 102/2008 sui tributi istituiti dalla Regione Sardegna), delineando così una forte differenziazione tra Regioni a statuto ordinario e Regioni a statuto speciale. Per queste ultime era riconosciuta la prevalenza delle norme statutarie sulla disciplina del Titolo V della Costituzione, con l’unico baluardo della necessità che i tributi regionali che si sovrapponessero a quelli statali non confliggessero con gli istituti di fondo e con la ratio dei tributi statali; le Regioni a statuto ordinario rimanevano invece soggette, in base agli artt. 117 e 119 Cost., a un vero e proprio divieto di sovrapposizione rispetto ai tributi statali, oltre che alla precondizione e ai limiti della legge statale di coordinamento.
Nella difficile evoluzione “federalista” del nostro ordinamento, l’art. 1, co. 1, della legge delega 5.5.2009, n. 42 ha poi continuato a collocare, tra gli obiettivi del coordinamento del sistema tributario, «l’effettività e la trasparenza del controllo democratico nei confronti degli eletti»; e le scelte operate dalla citata legge n. 42 sul lato delle entrate non sembrano prevedere la reale possibilità di ridefinire, a livello locale, le forme della tassazione e il livello del prelievo. Il finanziamento delle Regioni, delle Province e dei Comuni resta affidato, come in precedenza, a un paniere di tributi e compartecipazioni; la legge delega, sciogliendo i dubbi sulla possibilità di una “regionalizzazione” dei presupposti di imposta, distingue (art. 7, lett. b), per le Regioni, tra tributi propri derivati e tributi propri in senso stretto: i primi sono quelli «istituiti e regolati da leggi statali, il cui gettito è attribuito alle Regioni» (ad esempio, l’Irap); i secondi sono quelli «istituiti dalle Regioni con proprie leggi in relazione ai presupposti non già assoggettati ad imposizione erariale».
L’autonomia tributaria delle Regioni a statuto ordinario incontra, quindi, limiti importanti, derivanti dall’art. 2, co, 2, lett. t), della legge delega, che, tra l’altro, fa salve le “sovrapposizioni” dello Stato sulle basi imponibili e sulle aliquote dei tributi degli enti locali, sui tributi propri derivati regionali e sulle addizionali (art. 7, lett. b), nn. 1 e 2). In questo quadro, è solo sui tributi regionali in senso stretto che lo Stato non ha margini di intervento; per i tributi introdotti dalle Regioni ma destinati a Comuni e Province (tributi degli enti locali), si delinea, invece, uno schema di intervento tripartito, nel senso che possono coesistere la disciplina regionale (che istituisce e definisce il prelievo nei suoi elementi fondamentali), la disciplina statale (di intervento sulle basi imponibili e sulle aliquote) e quella regolamentare comunale e provinciale. Lo Stato mantiene, dunque, il potere di decidere l’istituzione dei principali tributi, come il livello di tassazione, e la pressione fiscale sugli enti sub-statali resta etero determinata; ne deriva un vulnus evidente al principio di responsabilità perché se è un altro livello di Governo a scegliere le forme e i livelli della tassazione (e dunque l’ammontare delle risorse a disposizione), allora gli enti sub-statali destinatari del gettito non avranno alcun reale incentivo a contenere la spesa (per considerazioni critiche in questo senso v. Stevanato, D., Il federalismo fiscale come trasferimento del gettito nelle aree di produzione, in Dialoghi tributari, n. 4/2008, 25; Id., I “tributi propri” delle regioni nella legge delega sul federalismo fiscale, in Dir. prat. trib., 2010, 396 ss.).
In definitiva, in tema di entrate la l. n. 42/2009 sembra aver raccolto e cristallizzato le conclusioni della Corte costituzionale sul riparto delle competenze tributarie tra Stato ed enti locali, nella misura in cui la Consulta aveva respinto le interpretazioni maggiormente regionalistiche del Titolo V (v. sentenze 26.9.2003, n. 296, n. 297 e 15.10.2003, n. 311) enucleando il divieto di doppia imposizione sul medesimo presupposto (v. C. cost. n. 102/2008); ed, infatti, l’art. 2 della delega vieta ogni doppia imposizione sul medesimo presupposto, riservando prioritariamente allo Stato la scelta degli oggetti economici da tassare, ed esclude interventi sulle basi imponibili e sulle aliquote di tributi che non siano del medesimo livello di Governo, ed il successivo art. 7 limita la possibilità per le Regioni di istituire tributi propri escludendo quelli che insistano su presupposti già assoggettati ad imposizione erariale. Occupati dallo Stato i principali presupposti di imposta (reddito, consumi, trasferimenti di ricchezza a titolo oneroso o gratuito, patrimonio immobiliare, atti giuridici) resta, quindi, difficile immaginare su quali presupposti potranno insistere i tributi propri delle Regioni, la cui scelta sarà, di fatto, limitata ai tributi di scopo o corrispettivi, aventi un presupposto diverso da quello degli esistenti tributi erariali.
In conclusione, la legge n. 42/2009 sembra coerente alla lettura tradizionale del principio di riserva di legge già fatta propria dalla Corte costituzionale nella sentenza 24.2.2006, n. 75. Esclusa la possibilità di “regionalizzare” i presupposti, che pure sembrava ammissibile in base lettera dell’art. 117, co. 4, Cost., la fiscalità regionale e quella locale si fondano su tributi propri derivati: tributi sui quali le Regioni a statuto ordinario potranno intervenire nei soli limiti riconosciuti dalla legge statale; «strumenti tributari eterodiretti, che solo marginalmente possono considerarsi rientrare nell’autonomia tributaria delle regioni» (così Sacchetto, C.-Bizioli, G., Può ancora chiamarsi federalismo fiscale una riforma che limita la potestà legislativa tributaria delle Regioni?, in Dir. prat. trib., 2009, I, 859). Unico temperamento a questa scelta centralista resta il potere regionale di istituire tributi propri aventi ad oggetto presupposti non “occupati” dal legislatore statale.
Resta dunque aperto il tema dell’inquadramento della potestà normativa degli altri enti locali che pure, ad avviso di parte della dottrina (così Gallo, F., Prime osservazioni sul nuovo art. 119 della Costituzione, in Rass. trib., 2002, 590), avrebbero oggi un’autonomia normativa tributaria garantita dall’art. 119 Cost., al punto che l’individuazione della base imponibile e la misura massima dei tributi locali non sarebbero più necessariamente di competenza della legge, statale o regionale. A questa tesi, che rischia di ridurre la riserva di legge a una sorta di autorizzazione legislativa, si contrappone chi (cfr.: Fantozzi, A., Riserva di legge, cit., 26-27), in base a una lettura sistematica del nuovo testo costituzionale, vede confermato il primato della legge statale e ritiene che, nonostante l’equiordinazione tra Stato e Regioni disposta dalla lettera dell’art. 119 Cost., il potere impositivo riconosciuto a Regioni ed enti locali sia tutt’altro che incondizionato, posto che la riforma del Titolo V non ha modificato l’art. 23 Cost. e che la potestà legislativa è riconosciuta solo alle Regioni, potendo gli altri enti locali emanare solo atti normativi di natura regolamentare. La possibilità di stabilire tributi ed entrate, che l’art. 119, co. 2, Cost. riferisce indistintamente a tutti gli enti locali, dunque, non potrebbe essa stessa costituire fondamento costituzionale di un’autonoma potestà normativa regolamentare degli enti locali, sottratta alla riserva di cui all’art. 23 Cost., anche perché «l’interpretazione evolutiva può eventualmente modificare la specie di legge espressamente indicata dall’art. 23 Cost., ma non certo sostituirla con un diverso atto normativo» (così Amatucci, A., L’ordinamento giuridico della finanza pubblica, cit., 80).
Il riparto delle competenze normative in materia tributaria delineato dal nuovo Titolo V della Costituzione avrebbe, pertanto, un andamento “circolare” (così nella suggestiva ricostruzione di Fantozzi, A., Riserva di legge, cit., 40-41; cfr., altresì, Scalinci, C., Il tributo senza soggetto, cit., 11 e 93 ss): la potestà normativa tributaria, decentrata per effetto degli artt. 117 e 119 Cost., tornerebbe ad accentrarsi per effetto del coordinamento indispensabile alla realizzazione di un sistema tributario conforme alle esigenze redistributive postulate dall’art. 53 Cost.; le autonomie normative degli enti locali tornerebbero così ad essere delimitate e arginate dalla necessità che il sistema tributario sia unico ed unitario e che, “in armonia con la Costituzione”, come dispone l’art. 119 Cost., sia sempre la legge a definire gli spazi di manovra dell’ente locale.
La presenza dell’art. 23 Cost. finisce così per ridimensionare l’autonomia fiscale di Province, Comuni e, in prospettiva, delle città metropolitane e segna una permanente distanza tra il ruolo giocato dallo Stato e quello che potranno giocare le Regioni, valorizzando la funzione di coordinamento assegnata alla legge statale.
Complesso e delicato è il rapporto tra l’art. 23 Cost. e il primato nell’ordinamento interno del diritto comunitario, fondato sulle limitazioni di sovranità consentite dall’art. 117 Cost., perché ne è scaturita l’emersione di un’area, in tema di prestazioni patrimoniali imposte, che sfugge alla riserva di legge.
Gli atti normativi degli organi dell’Unione europea sono, infatti, sottratti all’operatività della riserva di legge (più volte la Corte costituzionale ha escluso l’applicabilità dell’art. 23 ai regolamenti comunitari, con riguardo all’art. 11 Cost.; v. sentenze: C. cost., 7.3.1964, n. 14; 27.12.1965, n. 98; 27.3.1973, n. 86; 27.12.1973, n. 183; 30.10.1975, n. 232 e 28.7.1976, n. 205); e ciò, fintanto che l’emanazione di regolamenti e direttive comunitarie resterà di competenza del Consiglio (organo non direttamente rappresentativo) e non del Parlamento europeo, deroga in qualche misura alla ratio democratica sottesa alla riserva di legge prevista dall’art. 23 della nostra Costituzione (in questo senso Fedele, A., Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, 95). Nonostante questo, ad oggi, il tema, «coinvolgendo la natura stessa delle istituzioni comunitarie», non si è mai risolto in «concreti rilievi di illegittimità» (ancora Fedele, A., op. ult. cit., 53).
L’art. 23 Cost., riferito alla categoria delle prestazioni personali e patrimoniali imposte, si coordina anzitutto con l’ulteriore riserva di legge posta dal successivo art. 25 Cost., in base al quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso e distolto dal giudice naturale precostituito per legge; un principio analogo a quello del divieto di retroattività della norma penale è stato introdotto anche in materia tributaria dallo Statuto dei diritti del contribuente (cfr. art. 3 della l. 27.7.2000, n. 212).
Il co. 2 dell’art. 75, che esclude l’ammissibilità del referendum abrogativo per le leggi tributarie e di bilancio, conferma la scelta costituente di riservare le prestazioni imposte alla legge in senso formale.
L’art. 81, laddove prevede che ogni altra legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte, è di complemento alla riserva di legge e all’autoimposizione: l’obbligo di indicare la fonte di finanziamento pone uno schermo, anche se fragile, alla tendenza dei parlamenti a gonfiare le spese e ad assumere impegni che eccedano le effettive disponibilità finanziarie. Ma è all’art. 23 Cost. che resta connessa la prevalente funzione di garanzia formale in campo tributario.
Art. 23 Cost.
Allorio, E., La portata dell’art. 23 della Costituzione e l’incostituzionalità della legge sui tributi turistici, in Dir. prat. trib., 1957, II, 86 ss.; Antonini, L., Art. 23, in Comm. Cost. Bifulco-Celotto-Olivetti, Torino, 2006; Bartholini, S., Il principio di legalità dei tributi in tema di imposte, Padova, 1957; Berliri, A., Appunti sul fondamento e il contenuto dell’art. 23 della Costituzione, in Studi per A.D. Giannini, Milano, 1961, 139 ss.; Cipollina, S., La riserva di legge in materia fiscale nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, in Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di L. Perrone– C. Berliri, Napoli, 2006, 163 ss.; Fedele, A., Art. 23 Cost., in Comm. Cost. Branca, Bologna-Roma, 1978; Fedele, A., La riserva di legge, in Trattato di diritto tributario diretto da A. Amatucci, vol. I, tomo I, Padova, 1994, 157 ss.; Fois, S., La riserva di legge. Lineamenti storici e problemi attuali, Milano, 1963, 295 ss.; Grippa Salvetti, M.A., Riserva di legge e delegificazione nell’ordinamento tributario, Milano, 1998; Marongiu, G., I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria, Torino, 1991; Morana, D., Libertà costituzionali e prestazioni personali imposte. L’art. 23 come norma di chiusura, Milano, 2007.