Riserva di legge e norme regionali in materia penale
Nel silenzio originario della Costituzione, la Corte costituzionale – con l’avallo della dottrina dominante – ha negato costantemente alle Regioni il potere di legiferare in materia penale, interpretando la riserva sancita dall’art. 25, co. 2, Cost., alla luce della sua matrice storico-ideologica, come riserva di legge statale. Nell’offrire, con il nuovo art. 117, co. 2, lett. l), Cost., una espressa base normativa a tale indirizzo, la l. cost. 18.10.2001, n. 3 ha lasciato tuttavia aperto – ed anzi acuito – il problema della possibile incidenza indiretta della legislazione regionale sulle incriminazioni statali.
Alla posizione tuttora restrittiva della Corte costituzionale, che omologa per questo verso le leggi regionali alle fonti secondarie statali, si contrappongono posizioni più aperte della dottrina, tese alla ricerca di un diverso punto di equilibrio tra monopolio punitivo statale e competenza concorrente o esclusiva delle Regioni sulle materie incise dalla fattispecie penale.
Originato storicamente dalla visione illuministica della legge statale come “massima garanzia di libertà individuale” e «ordinato vivere sociale», di contro al caos delle fonti dell’Antico Regime – essendo il «soggetto-Parlamento» rappresentativo «della società tutta, unita per contratto sociale», la quale può così attendersi che l’esercizio del potere punitivo «non avvenga arbitrariamente bensì per il suo bene e nel suo interesse»1 – il monopolio del legislatore statale in materia penale si trova attualmente a fronteggiare spinte erosive sempre più marcate e di segno contrapposto.
Ai condizionamenti dall’alto, derivanti dall’espansione degli obblighi di incriminazione di matrice sovranazionale, nella prospettiva di una uniformità di interventi che varchi i confini dei singoli Stati, fanno da contraltare i condizionamenti dal basso – espressivi, all’inverso, di istanze di differenziazione su base localistica – connessi alle interazioni delle fattispecie penali con le leggi regionali relative al settore inciso2: fenomeno che la generale riallocazione della potestà legislativa conseguita alla riforma del titolo V della Costituzione (l. cost. n. 3/2001) ha sensibilmente “ispessito”, sul piano quali-quantitativo.
Il problema dei “limiti di ingresso” della normativa regionale nell’area penale – ancora in attesa di una tranquillante definizione a quasi tre lustri dalla riforma – è riportato all’attenzione degli interpreti da una recente sentenza della Corte costituzionale (13.3.2014, n. 46), che ha ritenuto legittima una norma regionale con effetti “liceizzanti” in materia penale urbanistica.
Al riguardo, giova muovere da un preliminare, sintetico excursus sulle coordinate costituzionali relative alla spettanza del potere punitivo.
2.1 Il monopolio statale
Anteriormente alla riforma del titolo V, il testo della Costituzione non forniva, in effetti, indicazioni puntuali e univoche sul punto. Nell’art. 25, co. 2, Cost. – che sancisce la riserva di legge in materia penale – il sostantivo “legge” si prestava infatti a ricomprendere, di per sé, anche la legge regionale; a sua volta, l’art. 117 Cost. non specificava quale tipo di disciplina (amministrativa, civile o penale) le Regioni potessero adottare nelle materie di loro competenza.
Fin dalla sentenza 26.6.1956, n. 6, tuttavia, la Corte costituzionale ha perentoriamente negato che, per il solo fatto di avere autonoma potestà legislativa in determinate materie, le Regioni, anche a statuto speciale, disponessero del potere di introdurre, rimuovere o variare norme penali nelle materie stesse, dovendosi intendere la riserva di cui al citato art. 25, co. 2, Cost. come riserva di legge dello Stato3: prospettiva nella quale l’esigenza di assicurare l’effettività della normativa regionale rimaneva affidata alle sole sanzioni amministrative4.
A sostegno della tesi – condivisa dalla dottrina largamente maggioritaria5 – si rilevava che le restrizioni dei beni fondamentali della persona (in specie, della libertà personale), insite nella pena, presuppongono «una generale e comune valutazione degli interessi della vita sociale», che solo la legge statale potrebbe operare6: e ciò anche alla luce dei principi di eguaglianza (art. 3 Cost.) e di unità politica della Repubblica (art. 5 Cost.), nonché del divieto di provvedimenti regionali che ostacolino il libero esercizio dei diritti fondamentali (art. 120, co. 2 e 3, Cost.), i quali precluderebbero discipline penali differenziate da Regione a Regione.
Tale indirizzo trovava la sua definitiva consacrazione nella fondamentale sentenza n. 487/1989.
Nell’occasione, valorizzando la ricordata matrice illuministica della riserva e il suo collegamento con il principio di extrema ratio, la Corte riteneva che l’esclusione della potestà penale delle Regioni derivasse dall’incapacità del legislatore regionale di applicare coerentemente i criteri politico-criminali a fondamento costituzionale, segnatamente in punto di selezione dei beni meritevoli di tutela: «la criminalizzazione comporta una scelta tra tutti i valori e
i beni emergenti nell’intera società e tale scelta non può essere realizzata dai consigli regionali (ciascuno per proprio conto) per la mancanza di una visione generale dei bisogni ed esigenze dell’intera società».
Nessuno dei ricordati argomenti appariva, peraltro, totalmente irrefutabile7. Il principio di eguaglianza avrebbe potuto, in effetti,militare in direzione opposta, di fronte a realtà regionali differenziate; l’unità della Repubblica non appariva necessariamente compromessa dalla presenza di norme penali ad efficacia territoriale limitata; il divieto posto dall’art. 120 Cost. atteneva alla libertà di transito e di commercio; il diritto penale tutelava anche interessi di competenza concorrente o esclusiva delle Regioni, rispetto ai quali l’esigenza di valutazioni particolari su base territoriale era insita nel disegno costituzionale, rappresentando l’essenza stessa dell’autonomia regionale.
Limiti di persuasività connotavano anche l’argomento dottrinale basato sulla carenza di legittimazione democratica del Consiglio regionale nei confronti dei cittadini non residenti in Regione (e perciò non ammessi a concorrere con il voto all’elezione dell’organo), i quali avessero commesso l’illecito nel territorio della Regione stessa8. Dal lato passivo (destinatari della norma), l’argomento provava troppo (alla sua stregua, lo straniero non dovrebbe essere punito per i reati commessi sul territorio nazionale); dal lato attivo (potestà punitiva come espressione della sovranità, una e indivisibile), esso appariva contraddetto dall’indagine storico-comparatistica9.
Alla resa dei conti, l’indirizzo in questione esprimeva, dunque, un’opzione “politica”. Alla sua base vi era il timore – non ingiustificato – della “babele penalistica”: che l’aggiunta, cioè, di norme incriminatrici delle diverse Regioni a quelle, già pletoriche, dello Stato minasse la compattezza complessiva del sistema penale. L’autonomia regionale rappresentava bensì un valore, ma non fino al punto di estenderla «a decisioni così delicate e vitali come il potenziale sacrificio della libertà personale»10.
Ogni dubbio sul postulato di fondo è stato, peraltro, fugato dalla riforma costituzionale del 2001.
In parallelo al ribaltamento del criterio di allocazione della potestà legislativa – quest’ultima, per tutte le materie non assegnate nominatim, spetta ora alle Regioni (art. 117, co. 4, Cost.) – lo Stato si è vista attribuita espressamente la competenza esclusiva sull’«ordinamento penale» (art. 117, co. 2, lett. l), Cost.), così da evitare che talemateria ricadesse nella potestà residuale regionale.
Al di là della formula poco perspicua, l’operazione “convalida” comunque – per communis opinio11 – l’orientamento della Corte costituzionale, circa l’inesistenza di una potestà penale delle Regioni12.
Non paiono, infatti, praticabili letture “riduzioniste”, quale quella che vorrebbe riservata allo Stato la sola sistematica generale dei reati e delle pene13: soluzione che avrebbe richiesto, a tacer d’altro – stante il pregresso quadro interpretativo – una più puntuale presa di posizione del legislatore costituzionale14.
2.2 Le interferenze indirette
Anche in quest’ottica, il citato art. 117, co. 2, lett. l), Cost. è, peraltro, lungi dall’aver risolto ogni questione. Esso preclude certamente un intervento diretto del legislatore regionale nella materia considerata: le Regioni – come già affermato dalla Corte – non possono, cioè, introdurre nuove incriminazioni, né creandole ex novo15, né configurandole per relationem, con il richiamo alle pene previste da leggi dello Stato per la violazione dei propri precetti16; specularmente, non possono abrogare figure criminose17 o trasformarle in illeciti amministrativi18. Permane, tuttavia, il problema – centrale sul piano pratico – dell’intervento indiretto: se e in quali limiti, cioè, la legge regionale possa interferire sull’ambito applicativo delle incriminazioni statali19. Una simile interferenza si verifica a causa degli inevitabili momenti di contatto tra la legislazione penale statale e la normativa regionale extrapenale di disciplina delle materie di competenza delle Regioni stesse (urbanistica, caccia, ambiente, ecc.), normativa che può,
di volta in volta, interagire con cause di giustificazione, norme penali parzialmente in bianco, presupposti ed elementi normativi della fattispecie.
Su questo versante, l’orientamento tradizionale della Corte costituzionale è di segno “rigorista”. Per affermazione ripetuta, le Regioni non possono considerare lecita un’attività penalmente sanzionata dall’ordinamento nazionale20, né possono incidere altrimenti sulla punibilità, prevedendo o estendendo cause di estinzione del reato21, o introducendo nuove ipotesi di immunità22.
Un illegittimo intervento “liceizzante” del legislatore regionale è stato ritenuto, d’altro canto, configurabile dalla Corte non soltanto allorché la norma regionale consenta in modo diretto l’attività penalmente repressa dalla legge statale – ad esempio, prevedendo l’inapplicabilità alla cessione di software libero delle disposizioni penali in tema di tutela del diritto d’autore23, o consentendo l’apertura di case da gioco nel territorio regionale, in deroga al divieto penalmente
sanzionato del gioco d’azzardo (art. 718 c.p.)24 – ma anche quando la legge regionale incida indirettamente sulla norma incriminatrice statale, tramite la diversa regolamentazione dei relativi presupposti amministrativi di operatività. Il tema è venuto in particolare rilievo, prima della riforma del titolo V, nella materia ambientale, con riferimento a disposizioni regionali che escludevano (talora anche solo in via transitoria) la necessità di munirsi di specifica autorizzazione per l’esercizio di determinate attività (stoccaggio provvisorio di rifiuti, rottamazione di veicoli a motore, installazione di impianti di smaltimento di rifiuti solidi urbani, ecc.): autorizzazione viceversa richiesta, sotto minaccia di pena, dalla legge statale25. L’idea sottesa a dette pronunce è che, nelle ipotesi considerate, la protezione penale abbia ad oggetto la funzione amministrativa di previo controllo di attività potenzialmente nocive, in chiave strumentale alla salvaguardia di beni finali (integrità ambientale, salute pubblica, ecc.). Se, dunque, è il tipo procedimentale che costituisce il nucleo della tutela, la sottrazione di determinate fattispecie al suo campo applicativo si porrebbe inevitabilmente in conflitto con la norma penale statale.
In questa prospettiva, l’apporto della legislazione regionale alla disciplina penalistica si limiterebbe alla possibilità di «concorrere a precisare, secundum legem, i presupposti di applicazione di norme penali statali», svolgendo, in pratica, «funzioni analoghe a quelle che sono in grado di svolgere fonti secondarie statali»: ciò particolarmente quando la legge statale «subordini effetti incriminatori o decriminalizzanti ad atti amministrativi (o legislativi) regionali» (il riferimento è, in specie, alle cd. norme penali in bianco)26.
L’obiezione mossa in dottrina a detta impostazione è che essa legittimerebbe la surrettizia espropriazione, da parte dello Stato, tramite la “leva penalistica”, di competenze legislative regionali concorrenti e finanche esclusive o piene: rischio particolarmente avvertibile nel caso di norme incriminatrici che prevedano la penalizzazione “a tappeto” delle violazioni ad interi plessi di disciplina, col risultato di sottrarli, in tesi, a ogni possibile modifica da parte del legislatore
regionale.
La Corte è parsa, in verità, sinora incline a disattendere simili obiezioni. Si è rilevato, infatti, che la materia penale configura un limite “trasversale”, che attraversa tutte le materie-oggetto, comprese quelle di competenza regionale esclusiva: detta materia, infatti, «intesa come l’insieme dei beni e valori ai quali viene accordata la tutela più intensa, non è di regola determinabile a priori; essa nasce nel momento in cui il legislatore nazionale pone norme incriminatici e ciò può avvenire in qualsiasi settore, a prescindere dal riparto di attribuzioni legislative tra lo Stato e le Regioni»27. In quest’ottica, «la considerazione del trattamento penale assume … preminenza agli effetti delle competenze legislative, pur nella generica riconducibilità ad altra materia delle norme precettive la cui violazione è sanzionata»28: con la conseguenza che i condizionamenti che dalla normazione penale statale derivano alla legislazione regionale, lungi dal risultare irrazionali, risponderebbero pienamente alla “logica del gioco”29.
A parziale temperamento di siffatta conclusione, la Corte ha comunque rimarcato l’esigenza che, proprio a fronte delle evidenziate conseguenze, l’esercizio della potestà statale in materia penale resti contenuto nei limiti della non manifesta irragionevolezza, in ossequio al criterio dell’extrema ratio: criterio alla stregua del quale «la compressione delle competenze legislative regionali è giustificata quando la legge nazionale sia protesa alla salvaguardia di beni, valori e interessi propri dell’intera collettività tutelabili solo su base egalitaria»30.
In senso critico, si è peraltro rilevato, in dottrina, come l’omaggio reso dall’art. 117, co. 2, lett. l), Cost. alla statualità dell’ordinamento penale non possa interpretarsi contro la filosofia di fondo della riforma costituzionale del 2001, esplicitamente tesa ad ampliare i poteri delle Regioni. In questa prospettiva, sarebbe paradossale che si negassero legittimi spazi di interferenza regionale in materia penale: spazi che non potrebbero rimanere confinati a quelli del parallelismo con le fonti secondarie statali. Occorrerebbe piuttosto trovare un punto di equilibrio tra competenza esclusiva statale in materia penale e competenza concorrente o esclusiva delle Regioni sulle materie in cui incide la pena. Tale punto di equilibrio si concreterebbe in un doppio vincolo: lo Stato non potrebbe, attraverso il diritto penale, stravolgere il campo delle autonomie regionali; le Regioni, a loro volta, non potrebbero incidere sulle scelte di politica criminale,ma solo su singoli aspetti di disciplina delle materie di propria competenza sanzionati dalla norma incriminatrice31. Detto altrimenti, «le Regioni potrebbero legiferare nelle materie di propria competenza esclusiva o concorrente anche laddove le relative disposizioni interferiscano con il diritto penale, purché l’intervento sia direttamente e precipuamente finalizzato a disciplinare le “proprie” materie e non, in via esclusiva o prevalente, ad incidere sul modo di disciplina penale, e cioè sull’applicazione o non applicazione di fattispecie penali»32.
Così, nel campo delle scriminanti, la Regione non potrebbe introdurre nuove cause di giustificazione, o mutare la struttura di quelle previste dalla legge statale; nondimeno, le scriminanti “a struttura aperta” – quale tipicamente quella descritta dall’art. 51 c.p. – potrebbero bene trovare integrazione in un diritto o in un dovere derivante da fonte regionale33.
Il “diritto scriminante regionale” rimarrebbe, peraltro, soggetto ad un doppio test di ragionevolezza: al test ordinario, di proporzione e adeguatezza allo scopo, se ne aggiungerebbe infatti uno di “legittimazione relazionale”, nel senso che il sacrificio della norma penale statale (paralizzata dalla norma regionale che consente o impone la condotta costituente reato) dovrebbe risultare ragionevole nel bilanciamento con le invocate peculiarità locali34.
Allo stesso modo, la legge regionale potrebbe integrare elementi normativi della fattispecie35. In particolare, essa potrebbe incidere sul momento autorizzativo che figura nella struttura della fattispecie incriminatrice, ovvero di una fattispecie estintiva (quale, in specie, il condono)36: ciò sempre a condizione che la Regione si limiti a dettare una disciplina amministrativa nell’ambito della propria competenza e che l’intervento non appaia precipuamente finalizzato a derogare la disciplina penale37.
2.3 La sentenza n. 46/2014
Un campo elettivo nel quale la (legittima) interferenza della normativa regionale sulla disciplina penalistica potrebbe manifestarsi è quello del diritto penale urbanistico, il quale è intrinsecamente permeato da esigenze di “adattamento territoriale”, scontando, con ciò, a priori una relativa difformità a seconda dei luoghi38.
È proprio su questo campo – nel quale si era registrata una precedente apertura della Corte costituzionale agli apporti regionali in materia penale39 – che incide la citata sentenza del 13.3.2014, n. 46. Si discuteva, nella specie, della norma della legge della Regione Sardegna sul “piano casa” (art. 2, l. reg. 23.10.2009, n. 4) che – in attuazione dell’intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata e sulla falsariga di quanto stabilito da gran parte delle altre Regioni – ha consentito, in via straordinaria e temporanea, incrementi volumetrici dei fabbricanti esistenti, anche in deroga agli indici di fabbricabilità previsti dagli strumenti urbanistici. Il sospetto di violazione del monopolio penale statale nasceva dal fatto che l’edificazione in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici è configurata come contravvenzione dall’art. 44, co. 1, lett. a), d.P.R., 6.6.2001, n. 380.
Nel dichiarare infondata la questione, la Corte non ha mosso “passi in avanti” nella direzione del riconoscimento delle chance di legittimo intervento delle Regioni, cui pure l’occasione poteva risultare propizia. Infatti, il “salvataggio” della norma è stato basato, in continuità con l’indirizzo tradizionale, sulla circostanza che la citata disposizione statale ha natura di norma penale in bianco, rinviando ad una serie di altre fonti, normative e non (le norme contenute nel medesimo titolo, i regolamenti edilizi, gli strumenti urbanistici, il permesso di costruire), per la individuazione dei precetti penalmente sanzionati40.
Per questo verso, una parte del ragionamento sotteso alla decisione è rimasta, peraltro, implicita. Il citato art. 44, co. 1, lett. a), non include espressamente le leggi regionali tra le fonti di integrazione del precetto: nondimeno, la Corte di cassazione ha ritenuto che anche la violazione di esse, in quanto costituenti integrazione o modifica delle norme per il controllo dell’attività urbanistica ed edilizia, possa integrare il reato41, e ciò anche quando si discuta di un intervento consentito dagli strumenti urbanistici, ma vietato dalla norma regionale42. Ma se le leggi regionali sono idonee ad integrare il precetto penale di cui si discute in funzione “incriminatrice”, soverchiando (in quanto sovraordinate) le previsioni degli strumenti urbanistici, deve valere anche l’inverso: e, cioè, che la normativa regionale possa svolgere una funzione “liceizzante”.
Se, de iure condendo, la proposta di riconoscere alle Regioni una potestà punitiva diretta, limitata al rafforzamento dei precetti rientranti nella propria competenza legislativa43, continua a lasciare scettici – per il rischio, in essa insito, di eccessi o deficit di tutela e, comunque, di diseguaglianze di trattamento di fattispecie omologhe, non giustificabili sulla sola base delle diverse esigenze territoriali – de iure condito, la decisa pendenza della bilancia dal lato della
competenza statale – riscontrabile nella ricostruzione della giurisprudenza costituzionale – può risultare meritevole di futuri aggiustamenti.
1 C. cost., 25.10.1989, n. 487.
2 Ruga Riva, C., Diritto penale, Regioni e territorio,Milano, 2012, 4.
3 Ex plurimis, C. cost., 1.12.1959, n. 58; C. cost., 12.5.1977, n. 79; C. cost., 7.7.1986, n. 179; C. cost., 3.4.1987, n. 97; C. cost., 6.7.1989, n. 370; C. cost., 2.2.1990, n. 43; C. cost., 22.6.1990, n. 309; C. cost., 18.1.1991, n. 14; C. cost., 24.5.1991, n. 213.
4 Impostazione, questa, riflessa nell’art. 9, co. 2, l. 24.11.1981, n. 689, che conferma l’incompetenza delle Regioni a incidere nella materia penale.
5 Per ampi riferimenti, Ruga Riva, C.,Diritto penale, cit., 6; Vinciguerra, S., Le leggi penali regionali,Milano, 1974, passim.
6 C. cost., 26.1.1957, n. 21.
7 Sul punto Piergallini, C., Norma penale e legge regionale: la costruzione del «tipo», in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, 470 ss.; Ruga Riva, C., op. cit., 14 ss.
8 Marinucci,G.-Dolcini, E., Corso di diritto penale, III ed., Milano, 2011, 53; Ronco, M., Il principio di legalità, in Ronco, M., a cura di, Commentario sistematico al codice penale, I, Bologna, 2006, 26; Piergallini, C., Norma penale, cit., 477 s. Un argumentum a contrario era tratto anche dall’art. 23 dello Statuto della Regione Trentino-Alto Adige, che consente alla Regione e alle Province di utilizzare, a presidio delle rispettive norme, le sanzioni penali stabilite dalle leggi statali per le stesse fattispecie. La circostanza che per introdurre tale eccezione fosse stata necessaria una legge costituzionale (la l. cost. 10.11.1971, n. 1,modificativa dello Statuto) avrebbe infatti confermato la regola (Vinciguerra, S., La tutela penale dei precetti regionali cinquant’anni dopo, in Vassalli, G., a cura di, Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006, 116 s.). Per una lettura restrittiva della citata norma statutaria, v., tuttavia, C. cost., 25.11.2008, n. 387.
9 Ruga Riva, C., op. cit., 19 ss.
10 Romano, M., Complessità delle fonti e sistema penale. Leggi regionali, ordinamento comunitario, Corte costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 540.
11 Per ampi riferimenti, Ruga Riva, C., op. cit., 35.
12 In questo senso, C. cost., 24.6.2004, n. 185, nonché la dottrina dominante (tra i molti, Cadoppi, A., Il principio di legalità e i suoi corollari: principi e disciplina, in Cadoppi, A.- Canestrari S.-Manna, A.-Papa,M., diretto da, Trattato di diritto penale, I, Torino, 2011, 104; De Vero, G., La riserva di legge penale, in De Vero, C., a cura di, La legge penale, il reato, il reo, la persona offesa, Torino, 2010, 13; Romano,M., Complessità delle fonti, cit., 542).
13 D’Amico,M., Riforma del titolo V della Costituzione: legislazione esclusiva statale e ordinamento penale, in www.federalismi.it, 5.
14 Barbieri, M.C., Art. 1, in Marinucci, G.-Dolcini, E., a cura di, Codice penale commentato, III ed.,Milano, 2011, 35; Ruga Riva, C., op. cit., 34 ss.
15 Ipotesi “macroscopica”, questa, presentatasi solo nei primi anni di attività della Corte, in rapporto a norme di Regioni a statuto speciale: cfr. C. cost. nn. 6/1956 e 21/1957.
16 Ad es., C. cost., 13.4.1957, n. 51; C. cost., 17.4.1957, n. 58; C. cost., 8.7.1957, n. 104; C. cost., 14.6.1962, n. 60. In qualche occasione, peraltro, l’atteggiamento della Corte con riguardo al fenomeno considerato è apparso più indulgente, conducendo all’esclusione della violazione: cfr. C. cost. n. 104/1957; C. cost., 20.11.1969, n. 142. Più di recente, tuttavia, sulla non spettanza, al legislatore regionale, del potere di determinare in modo autonomo le fattispecie cui sono collegate le sanzioni penali previste dalla legislazione statale, C. cost. n. 387/2008 (con riguardo all’attività venatoria), C. cost., 13.11.2009, n. 295 (in tema di comparaggio farmaceutico).
17 C. cost., 16.7.1979, n. 77.
18 C. cost. n. 309/1990.
19 Sul tema, v., ante riforma, l’ampio contributo di Piergallini, C., Norma penale, cit., 457 ss.
20 C. cost. nn. 370/1989, 43/1990, 309/1990, 14/1991, 213/1991 e 185/2004.
21 Con riguardo a sanatorie o condoni edilizi, C. cost. nn. 179/1986, 487/1989; C. cost., 18.1.1991, n. 18; C. cost., 13.5.1993, n. 231; C. cost., 22.6.1995, n. 273.
22 C. cost., 13.6.2008, n. 200.
23 C. cost., 26.3.2010, n. 122.
24 C. cost. n. 185/2004. Per una ipotesi nella quale la disciplina regionale (inerente alla casa da gioco di San Vincent) si innestava su una previa deroga statale al divieto di case da gioco, con conseguente dichiarazione di infondatezza della questione, C. cost., 7.11.2002, n. 438.
25 Nel senso dell’incostituzionalità di simili disposizioni, C. cost. nn. 370/1989, 43/1990, 309/1990, 14/1991, 213/1991; C. cost., 30.12.1991, n. 504; C. cost., 13.6.1995, n. 234. Tale indirizzo incontra due eccezioni in C. cost., 23.6.1988, n. 717 e C. cost., 2.5.1991, n. 197. Dopo la riforma del 2001, questioni analoghe sono state dichiarate fondate in rapporto a diversi parametri, ritenendo «assorbita» la censura di violazione dell’art. 117, co. 2, lett. l), Cost. (C. cost., 22.12.2006, n. 441 e C. cost., 31.5.2012, n. 133).
26 C. cost. n. 487/1989. In dottrina, in senso analogo, Palazzo, F., Corso di diritto penale, II ed., Torino, 2006, 111; Vinciguerra, S., La tutela penale, cit., 124. Per una recente applicazione di tale indirizzo, con riguardo ad una norma regionale (art. 30, co. 4, dello statuto della RegioneMolise) relativa all’esonero dal segreto d’ufficio dei funzionari dell’amministrazione regionale convocati davanti le commissioni permanenti in sedute non pubbliche, C. cost., 21.3.2012, n. 63. La Corte ha rilevato che l’oggetto tutelato dal segreto d’ufficio è costituito dal buon andamento della pubblica amministrazione, onde non può che spettare al legislatore regionale, nell’ambito della propria sfera di competenza, individuare i casi nei quali la tutela del buon andamento debba essere assicurata attraverso l’apposizione del segreto d’ufficio, senza che ciò leda la competenza statale in materia penale, proprio perché le Regioni hanno il potere di concorrere a precisare, secundum legem, i presupposti d’applicazione di norme penali statali, nonché a definire gli elementi costitutivi di talune fattispecie incriminatrici.
27 C. cost., n. 185/2004; nonché, più di recente, C. cost. n. 63/2012.
28 C. cost., 5.5.2006, n. 183.
29 C. cost. n. 179/1986.
30 C. cost. n. 185/2004.
31 Ruga Riva, C., Il condono edilizio dopo la sentenza della Corte costituzionale: più potere alle Regioni?, in Dir. pen. e processo, 2004, 1097; Romano, M., op. cit., 542.
32 Ruga Riva, C., Diritto penale, cit., 38.
33 Nel senso che il diritto scriminante possa avere fonte regionale, Barbieri,M.C., Art. 1, cit., 37; Cadoppi, A., Il principio, cit., 107; De Vero, G., La riserva, cit., 17; Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, pt. gen., V ed., Bologna, 2007, 57; Marinucci, G.-Dolcini, E., Corso, cit., 58; Romano,M., op. cit., 543; Ruga Riva, C., Diritto penale, cit., 69. Contra, e nel senso che l’unità dell’ordinamento penale possa essere vulnerata anche agendo sulle scriminanti, Palazzo, F., Corso, cit., 376; Vinciguerra, S., La tutela penale, cit., 113.
34 Ruga Riva, C., Diritto penale, cit., 70. Si è sostenuto che, nelle materie di legislazione concorrente, la norma penale sarebbe, di per sé, espressiva di principi fondamentali di disciplina, non derogabili dalla legislazione regionale ai sensi dell’art. 117, co. 2, Cost. (Palazzo, F., op. cit., 376). Ma si obietta che i principi fondamentali riguardano l’oggetto disciplinato e non il modo di disciplina, qual è il diritto penale (Barbieri, M.C., op. cit., 37; Ruga Riva, C., Diritto penale, cit., 66).
35 Cadoppi, A., op. cit., 107; Piergallini, C., op. cit., 514.
36 Cadoppi, A., op. cit., 107; De Vero, G., op. cit., 16; Romano, M., op. cit., 545. Sul tema, altresì, Piergallini, C., op. cit., 517 ss.
37 Ruga Riva, C., Diritto penale, cit., 57.
38 Romano, M., op. cit., 544. Sui rapporti tra legge regionale e diritto penale urbanistico, Reynaud, G., La disciplina dei reati urbanistici, Torino, 2007, 11 ss.
39 C. cost., 28.6.2004, n. 196. Discostandosi parzialmente dal tradizionale orientamento in forza del quale la legge regionale non può introdurre cause di estinzione del reato, né modificarne il campo applicativo, la citata sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina statale sul condono edilizio, nell’occasione sottoposta a scrutinio, «nella parte in cui non prevede che la legge regionale possa determinare la possibilità, le condizioni e le modalità per l’ammissibilità a sanatoria di tutte le tipologie di abuso edilizio, nonché limiti volumetrici inferiori a quelli massimi statali». Su tale decisione, Ruga Riva, C., Il condono edilizio, cit., 1095 ss.
40 Per tale qualificazione, Cass. pen., S.U., 12.11.1993, n. 11635 (con riguardo alla corrispondente previsione di cui al previgente art. 20, co. 1, lett. a), l. 28.2.1985, n. 47). In dottrina, per tutti, Fantinato, L., Art. 44 d.P.R. n. 380/2001, in Gaito, A.-Ronco, M., a cura di, Leggi penali complementari commentate, Torino, 2009, 3145; Tanda, P., I reati urbanistico-edilizi, II ed., Padova, 2010, 124.
41 Cass. pen., 26.1.2011, n. 8086; nonché, con riguardo alla norma previgente, Cass. pen., 5.5.1994, n. 1428.
42 Cass. pen., 10.5.2012, n. 40111.
43 Proposta di vecchia data, ripresa da Ruga Riva, C., Diritto penale, cit., 217.