Abstract
Viene esaminato l’istituto della riserva di legge nel quadro di un’interpretazione valoriale del testo della Costituzione repubblicana, mettendo, fra l’altro, l’istituto stesso in relazione con il principio di legalità. Seguendo il suddetto metodo interpretativo si affrontano i principali problemi posti dall’istituto, come quello della distinzione tra riserve assolute e riserve relative, quello delle cd. riserve rinforzate, quello dello spazio che la riserva di legge lascia all’intervento di altre fonti normative nella stessa materia.
L’istituto della riserva di legge, secondo la definizione che se ne dà correntemente, raggruppa tutte quelle vicende, in cui norme materialmente costituzionali, quale che ne sia la fonte di produzione, prescrivono che determinate materie o specifici oggetti debbano essere regolati da quel particolare atto normativo denominato legge.
L’istituto nasce in seguito al pieno trionfo – con la Rivoluzione francese – di alcuni princìpi fondamentali, riguardanti l’organizzazione ed il funzionamento dello Stato moderno: e tra essi della “legge”, come risultato di un procedimento, il cui contenuto è costituito dalla volontà delle Assemblee rappresentative del popolo o della Nazione, onde la legislazione si “afferma” quale fonte principale, anzi tendenzialmente esclusiva, dell’ordinamento giuridico.
La successiva «esperienza storica del sec. XIX» presenterà «una gamma di costituzioni assai diverse, ma può dirsi carattere comune l’attribuzione dell’esercizio della funzione legislativa alle assemblee parlamentari» (Astuti, G., Legge (dir. Intermedio), in Enc. Dir., XXIII, Milano, 1973, 868).
In tale contesto la riserva di legge ed il suo sviluppo, unitamente al principio di legalità ed a quello di preferenza della legge (Vorrang des Gesetzes) fanno parte dell’attuazione (o inveramento) progressiva (o) dei valori di democrazia e libertà.
È nel clima della Francia rivoluzionaria, già con la Costituzione del 1791, che si affermano tanto il principio della preferenza della legge (art. 3, Tit. III, capo II, sez. I) quanto quello di legalità (art. 5 della Dichiarazione dei diritti del 1789 ed artt. 2, 3 e 4, Tit. III, capo IV, Sez. II ed art. 6, Tit. III, capo IV, sez. I).
La diffusione del principio di legalità – nel duplice aspetto formale (o debole) di mero fondamento della legittimità dell’attività esecutiva e giurisdizionale e di limite esterno agli atti di questi due poteri (art. 6, Tit. III, capo IV, sez. I, ed art. 3, Tit. III, capo V) – e di quello di prevalenza della legge su tutti gli altri atti autoritativi sembravano in grado di assicurare che la libertà del cittadino potesse essere limitata solo da atti basati su norme, alla cui redazione egli avesse in qualche modo partecipato attraverso i propri rappresentanti.
Si delineava una cd. riserva generale di legge, che si identificava, in fin dei conti, nel principio di prevalenza della legge su tutte le altre fonti, cioè in uno degli aspetti del principio di legalità.
I princìpi della Restaurazione e dell’Atto finale di Vienna in ambiente francese ebbero breve vita e furono presto superati in Francia, Belgio, Italia (dove lo Statuto Albertino del 1848 ebbe rapida evoluzione nel senso di una monarchia parlamentare). Mentre in ambiente tedesco resistettero fino alla rivoluzione del 1848, dalla quale prese vita un sistema (quello della monarchia costituzionale), in cui sussisteva un “dualismo” fra governo regio e rappresentanza popolare: nella sostanza la decisione circa la spettanza del potere costituente (al popolo o al Monarca) restava impregiudicata (Schmitt, C., Dottrina della Costituzione, trad. it., Milano 1984, 80 ss.).
E se si parlava di “sovranità della costituzione”, ciò serviva a relegare nel campo del non giuridico tutto quanto quest’ultima esplicitamente non avesse regolato, consentendo così al Monarca la decisione di tutti i casi dubbi, in virtù della presunzione di competenza implicita nel principio monarchico, mai eliminato e del quale le Assemblee rappresentative (dei ceti e del popolo) si limitavano a circoscrivere la piena espansione.
Qui, l’istituto della riserva di legge venne costruito dalla prassi e dalla dottrina, che tentarono di configurarlo come istituto di carattere generale (Thoma, R., Der Vorbehalt der Legislative und das Prinzip der Gesetzmässigkeit von Verwaltung und Rechtsprechung, in Handbuch des deutschen Staatsrechts, Tübingen, 1932, 221 ss.), che assicurasse, per un verso, che nell’ambito, che si poteva ritenere riservato alla legge, non potessero intervenire altre fonti del diritto, che non fossero state autorizzate dalla legge stessa, e per altro verso, che al di fuori di quell’ambito fossero mantenute immutate le prerogative regie, fatte salve ovviamente quelle materie, in cui esplicite disposizioni costituzionali stabilivano, invece, una speciale riserva di legge, prevedendo che su di esse dovesse in ogni caso esprimersi l’Assemblea rappresentativa. Si realizzava così una garanzia reciproca tra quest’ultima ed il Sovrano.
Nella ricerca dell’ambito riservato alla legge, la tesi più diffusa al tempo della monarchia costituzionale era proprio quella, per la quale gli interventi sulla libertà e sulla proprietà (Eigentum und Freiheit) dei singoli dovevano necessariamente svolgersi sulla base della legge. Tale tesi, che, talora si presentava in combinazione con l’altra, per la quale contenuto tipico della legge era costituito dalle norme generali ed astratte, rispondeva alle esigenze di tutela degli interessi della borghesia emergente e lasciava nella piena disponibilità del sovrano materie assai importanti, come la disciplina dell’esercito, l’organizzazione dell’amministrazione, i cd. rapporti di supremazia speciale. La riserva di legge non è, quindi, un mero “aspetto” del principio di legalità (Fois, S., La riserva di legge (1963), ora in La crisi della legalità, Milano, 2010, 45), in quanto quest’ultimo, allorché pervade l’intero ordinamento giuridico, implica l’onnipotenza della legge e, quindi, la sua illimitata capacità espansiva: il che usa esprimersi come piena coincidenza tra i due istituti in regime di costituzione flessibile (Crisafulli, V., Lezioni di diritto costituzionale, II, Padova, 1984, 58-59).
Infatti essi tendono a seguire logiche diverse solo quando la legge perde la propria centralità e primazia nel sistema delle fonti, affermandosi sopra di essa una fonte di grado superiore (la Costituzione), che non soltanto non tollera che la legge ordinaria vi possa derogare, ma crea anche istituti diretti ad impedire a quest’ultima di disporre in senso contrastante o difforme.
In conclusione, si deve constatare che, se per un verso la riserva di legge appare come un istituto direttamente collegato all’assetto di poteri nel quadro istituzionale dello Stato monoclasse borghese, per altro verso essa costituisce sin dall’inizio l’espressione di un preciso sistema valoriale, che non è solo quello proprio della democrazia liberale. Sotto questo profilo anche la riserva di legge non potrà non subire i contraccolpi dei mutamenti sociali ed ideali, che verranno determinandosi con lo scorrere della storia, anche e soprattutto con riferimento alle esigenze sociali e culturali, che troveranno sempre più diffuso riconoscimento nelle Carte costituzionali.
La vigente Costituzione italiana, assieme alle classiche disposizioni sui diritti di libertà, contiene disposizioni, dalle quali si ricavano diritti a determinate prestazioni pubbliche e ad usufruire di pubblici servizi (come il diritto alla salute ed all’istruzione), nonché princìpi destinati a valere anche nei rapporti dei singoli tra loro (artt. 29, 30, 36 e 37 Cost.), delineando un vero e proprio programma per la realizzazione di una società futura (Scheuner, U., Verfassung (1963), ora in Staatstheorie und Staatsrecht, Berlin, 1973, 172 e passim). Essa appartiene alle costituzioni rigide e garantite da uno specifico istituto (la Corte costituzionale) per l’annullamento delle leggi incostituzionali; e, se vede moltiplicarsi i richiami alla legge, contiene anche tutte le condizioni perché la riserva di legge emerga come istituto avente specifiche caratteristiche, che non possono essere soddisfatte con il semplice ricorso al principio di legalità, in quanto le due figure giuridiche rispondono, come si è visto, a logiche differenti.
Ora, il primo problema che si pone all’interprete della Costituzione italiana del 1948, è se da essa possa ricavarsi la sussistenza di una riserva di legge c.d. generale, nel senso che la Costituzione, presupponendo un concetto materiale di legge, obblighi implicitamente ad adottare tutti gli atti aventi un certo contenuto (ricavabile dalla Costituzione materiale) nella forma tipica della legge, così come disciplinata dagli artt. 70 ss. Se si guarda, però, alla lettera della Costituzione dovrebbe dirsi che una tale generale riserva di legge è ad essa, come a molte altre Costituzioni contemporanee, sconosciuta.
Se è vero che la legge può assumere qualsiasi contenuto, che non contrasti con la Costituzione, e che alla legge può ancora attribuirsi, malgrado la perdita della centralità, che la caratterizzava nello Stato monoclasse borghese, non solo la potenziale capacità di disporre in tutte le materie, ma anche quella di lasciare la regolazione di alcune materie ad altre fonti (consuetudine, regolamenti indipendenti, etc.), non sembra possibile ritenere che sussista una generale riserva di legge. Altrimenti opinando, sarebbe la stessa potestà regolamentare dell’Esecutivo ad essere messa in forse, visto che, anche accogliendo la tesi per la quale la potestà regolamentare deve in ogni caso fondarsi su una specifica autorizzazione legislativa, vi è pur sempre uno spazio nel quale l’Amministrazione potrebbe esercitare quel poco di discrezionalità, che la legge dovesse averle lasciato, autolimitandosi nel suo esercizio attraverso norme generali ed astratte; il che dovrebbe paradossalmente escludersi in quanto in contrasto con l’ipotetica riserva generale di legge. Occorre domandarsi, poi, se nel nostro ordinamento non possa sussistere, invece, un generale principio di legalità; ed in caso di risposta affermativa, se esso si configuri in senso solo negativo o formale (debole o addirittura debolissimo) oppure in senso positivo (cioè, forte), dove il primo modo di intenderlo si limita ad esigere che ogni atto di esercizio dell’autorità abbia una base legislativa (principio di legalità in senso debolissimo) e non contrasti con quanto disposto dalla legge (principio di legalità in senso debole), mentre il secondo pretende che gli atti di autorità si conformino in senso positivo alla legge e ne attuino le finalità (principio di legalità in senso forte), sicché la legge dovrebbe sempre ed in ogni caso disciplinare il potere, che essa conferisce, e determinare le modalità del suo esercizio.
Fatto sta che il fondamento del principio di legalità non sembra debba essere ricercato in una sola specifica disposizione costituzionale. Esso anima di sé tutto il testo della Carta costituzionale (C. cost., 23.5.1964, n. 40) e viene espresso anche da quelle proposizioni, che si limitano ad un semplice, generico riferimento alla legge per la disciplina di alcuni oggetti. Del resto, se nel nostro ordinamento l’esistenza del generale principio di legalità può essere ricavata dalla “struttura” della riserva di legge, è evidente come, a questo proposito, entrino in gioco tutte le disposizioni, nelle quali, facendosi riferimento alla legge, si pone all’interprete un problema di rapporti tra la legge stessa e gli atti subordinati (Fois, S., La riserva cit., 284 e passim).
Anche a voler ammettere l’equivalenza “legge-ordinamento”, il riferimento costituzionale alla legge implica pur sempre che a quest’ultima incomba l’obbligo di organizzare il sistema delle norme relative a quella determinata materia in modo da assicurare che i fini, indicati dalla disposizione costituzionale, siano perseguiti; di qui l’incostituzionalità delle disposizioni legislative, che dovessero o contrastare direttamente con gli scopi perseguiti dal Costituente o consentire che si realizzi un diritto vivente in aperta violazione di quegli scopi, come si evince, peraltro, ad es., dagli artt. 45, co. 1, e 33, co. 4, Cost.
L’articolarsi del principio di legalità in una pluralità di disposizioni costituzionali aventi differenti finalità e funzioni, ora, ad es., istituenti particolari meccanismi di tutela nei riguardi di atti amministrativi in violazione della legge, ora riservando la disciplina di talune materie od oggetti alla legge, ora ancora prescrivendo alla legge il raggiungimento di talune finalità; ed il suo inverarsi in molte regole particolari, trascendendole, non consente di sostenere che il principio in questione, così come accolto in Costituzione, sia sempre e comunque quello in senso cd. forte, alla luce del quale la legge debba sempre in positivo circoscrivere entro limiti possibilmente definiti l’attività dell’Amministrazione, riducendone, per quanto possibile, la discrezionalità. Il comune denominatore, infatti, di tutte le diverse disposizioni, che direttamente o indirettamente presuppongono il principio di legalità, indirizza verso una sua interpretazione in senso formale, per cui gli atti autoritativi dello Stato (siano essi amministrativi o giurisdizionali) devono essere fondati su un’attribuzione di potere da parte della legge e non possono contravvenire a quanto da questa disposto. Il che non esclude, però, che diverse disposizioni costituzionali consentono di individuare un quid pluris rispetto a quel contenuto minimo, affermando, perciò, un principio di legalità in senso forte.
Se il principio di legalità garantisce che gli atti dell’amministrazione (e quindi anche i regolamenti) si fondino su un’attribuzione di potere da parte della legge e non contravvengano a quanto da essa disposto, la riserva di legge svolge una funzione ben diversa e non può costituire un mero derivato del principio di legalità, in quanto è diretta a porre un limite alla legge stessa, non solo impedendo che altri atti-fonte vengano a disciplinare gli oggetti riservati, ma soprattutto imponendo alla legge di disciplinare quegli oggetti e di non rimetterne la disciplina ad altre fonti.
I tanti riferimenti, richiami o rinvii, che dir si voglia, alla “legge” contenuti nella nostra Costituzione (e non solo quelli che esplicitano una vera e propria riserva di legge) implicano che non possa parlarsi di un’unica ratio e, se si vuole, di un’unica funzione della riserva di legge, dovendosi invece ricavare tale ratio e tale funzione dal tenore delle singole disposizioni costituzionali e, soprattutto, dall’oggetto riservato alla legge nonché dall’eventuale contenuto obbligatorio che quest’ultima deve assumere.
Dalla marcata variabilità delle proposizioni costituzionali, che o fanno riferimento alla legge o impongono una vera e propria riserva di legge, quale che essa sia, deriva che scarso significato assume nello Stato contemporaneo la discussione tra chi ritiene che le norme sulla riserva di legge si risolvano in una mera attribuzione di competenze normative e chi ne fa, invece, un aspetto essenziale dell’assetto di potere delineatosi nell’ordinamento italiano, in altri termini un elemento della forma di Governo (Carlassare, L., Legge (riserva di), in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1990, 2), se non addirittura della stessa forma democratica dello Stato.
Ogni riserva di legge, ogni rinvio alla legge, quale che ne sia la formulazione e quale che ne sia l’oggetto, esprime un valore: un valore di libertà per alcune disposizioni, un valore di solidarietà per altre, un valore di tipo organizzativo (si pensi al principio democratico) per altre ancora, etc.
Tutte le disposizioni costituzionali, in cui si fa menzione della disciplina legislativa, esprimono «essenzialmente dei princìpi, che necessitano di un completamento e di una concretizzazione» (Böckenförde, E.W., I metodi dell’interpretazione costituzionale. Ricognizione e critica (trad. it.), ora in Stato, costituzione, democrazia, Milano, 2006, 68), indicano obiettivi da raggiungere, che «lasciano aperte (sic!) modalità, mezzi e intensità della loro realizzazione». Dietro di esse non sta un solo valore, ma il più delle volte stanno diversi valori, che concorrono ad illuminare l’interprete sul loro preciso significato. Dipenderà quindi dai valori in gioco se quel certo richiamo della Costituzione alla legge debba interpretarsi, ad esempio, come una stringente riserva o come una mera esigenza che la legge assicuri il perseguimento di certe finalità o la realizzazione di certi programmi.
Le conclusioni, ma anche i dubbi, cui si è pervenuti nell’esame della storia dell’istituto e nella individuazione della sua funzione, anche in rapporto con il principio di legalità, inducono a far riferimento alla terminologia usata dalla nostra Costituzione in relazione alla “legge”, non figurandovi espressioni come “è riservato”, “riserva” o equivalenti e comparendovi piuttosto meri riferimenti alla legge del tipo «la legge stabilisce…» (art. 13., u.c., 21, u.c.), «… è regolata dalla legge» (art. 10, co. 2), «secondo le condizioni stabilite dalla legge» (art. 10, co. 3, 15, co. 2), «nei soli casi e modi previsti dalla legge» (art. 13, co. 2), «se non in base alla legge» (art. 23), «si possono stabilire con legge limitazioni…» (art. 98. u.c.), «regolare con legge» (art. 77, u.s.), «nei limiti e modi stabiliti dalla legge» (art. 52, co. 1, ed art. 46), «la legge provvede» (art. 45), «la legge stabilisce» (art. 48, co. 3 ed art. 42, co. 3), «la legge promuove» (art. 45) o «la legge aiuta» o «la legge dispone» (art. 44), oppure «la legge determina» (art. 24, u.c.), «secondo le norme di legge» (art. 39, co. 2), «secondo i requisiti stabiliti dalla legge» (art. 51, co. 1), «per legge» (art. 8).
L’uso di una terminologia non univoca e talora imprecisa, nonché lo scambio, che sussiste nel linguaggio corrente tra “legge” e “diritto positivo” – per cui talora il riferimento della Costituzione alla legge sembrerebbe, secondo alcuni, significare un generico obbligo di disciplina (il più delle volte secondo certi contenuti o per il perseguimento di determinati fini) di alcuni oggetti o materie più o meno definiti – sembrerebbe imporre che l’interprete debba distinguere tra disposizioni della Costituzione, che prevedono una vera e propria riserva di legge, e disposizioni che si limitano a rinviare alla legge come sinonimo di “ordinamento giuridico” e, quindi, a norme giuridiche, quale che ne sia la fonte.
Si tratta, quindi, di interpretare la singola disposizione della Costituzione al fine di determinare se il riferimento alla legge risponda allo scopo di riservare alla disciplina con legge la materia o l’oggetto indicato o se invece il riferimento debba intendersi genericamente al diritto positivo.
Dire, infatti, che il rinvio alla legge equivale a rinvio all’ordinamento, come complesso di norme giuridiche positive (o tutt’al più come complesso di norme prodotte da fonti-atto), contraddice alla presunzione generale per cui i «riferimenti alla legge … debbono essere intesi come riguardanti gli atti legislativi in senso tecnico» (Fois, S., Legalità (principio di) (1973), ora in La crisi, cit., 442).
La tesi dell’identificazione tra legge ed ordinamento giuridico svilisce il significato stesso del termine “legge” usato dal Costituente, identificandolo con quello di “Repubblica”, spesso sinonimo di Stato-ordinamento (art. 51, co. 1, secondo periodo; 45, co. 1; 31, u.c.; 35; 37, u.c.; 29, co. 1; 32, co. 1; 33, co. 2; 47, co. 1 e 2). La stessa funzione giurisdizionale (ivi compresa la giurisdizione costituzionale) ne sarebbe, in certo qual senso, sminuita, essendo ad essa inibito, una volta accertato il rispetto del principio di legalità in senso formale, andare alla ricerca di come le fonti di rango inferiore alla legge ordinaria abbiano realizzato i fini, che spesso il testo costituzionale impone siano perseguiti dalla “legge”.
Del resto è molto dubbio che, ad es., nei casi contemplati dagli artt. 54, co. 1, 101, co. 2, e 111, co. 7, si tratti di un mero rinvio alla “legge”, intesa quest’ultima come sinonimo di diritto positivo, e non di un richiamo alla legge intesa come specifico atto normativo.
Analogamente non sembra possa esservi perplessità che gli artt. 29, co. 2, 30, co. 3 e 4, 36, co. 2, 37, co. 2 etc. prevedano una riserva di legge. L’uso in uno di questi casi della locuzione «la legge detta le norme...», se non vuole ridursi ad una frase vuota di significato, denota che l’intento del Costituente è stato quello di assegnare uno specifico obbligo alla legge, cui è stata riservata una disciplina di quell’oggetto (ricerca della paternità). Ma il ragionamento vale in linea di massima anche per le altre ipotesi testé ricordate.
Senonché, non tutte le proposizioni costituzionali in cui vi è un riferimento alle “leggi”, e neppure quelle interpretabili come recanti una vera e propria riserva di legge, hanno il medesimo significato, sicché dottrina e giurisprudenza hanno dovuto procedere a raggruppare le diverse riserve di legge secondo tipi, ricollegando alla riserva effetti diversi a seconda del tipo, in cui essa debba farsi rientrare.
A parte i casi in cui è indubitabile che l’espressione “legge” sta a significare l’atto adottato secondo quello specifico procedimento regolato dagli artt. 70 e ss. Cost. (a questo proposito si può far riferimento agli artt. 76, 77, 78, 80 e 81 Cost.), la dottrina e la giurisprudenza costituzionale (v. fra le tante, Corte cost., 8.7.1957, n. 122; 8.7.1957, n. 103; 17.3.1969, n. 32; 15.5.2015, n. 83; 7.4.2017, n. 69; 13.7.2017, n. 174) sono state indotte a distinguere le cd. riserve assolute di legge dalle cd. riserve relative, le prime comportando in linea tendenziale l’esclusione di altri atti autoritativi di rango subordinato, che regolino la materia o l’oggetto riservati senza limitarsi alla mera esecuzione della legge, dovendo escludersi, quindi, ogni possibilità per quest’ultima di allargare l’ambito di discrezionalità dell’amministrazione sia per ciò che riguarda l’esercizio della potestà regolamentare, che per quanto riguarda l’emissione di concreti provvedimenti. A riguardo si suole ritenere esempi paradigmatici di riserve assolute quelle contenute negli artt. 13; 14, co. 2 e 3; 15, co. 2; 16, co. 1; art. 18, co. 1; 21, co. 3 e 5; 24, u.c.; 27, u.c.; 30, co. 3 e 4; 32, co. 2; 33, u.c.; 35, u.c.; 40, co. 1; 42, co. 3; 46; 98, u.c.: ma l’elenco non sembra esaurirsi qui.
Con le riserve relative, invece, la Costituzione si limiterebbe ad esigere che la legge (o gli atti ad essa equiparati) detti la disciplina di principio, i princìpi fondamentali (Guastini, R., Legge (Riserva di), in Dig. Disc. Pubb., IX, Torino, 1994, 169) o gli aspetti essenziali della materia, «in modo da circoscrivere la discrezionalità dell’attività amministrativa» (Crisafulli, V., op. cit., 56); sicché, ad. es., la giurisprudenza della Corte costituzionale è partita dall’assunto che debba trattarsi di riserva relativa nelle materie di cui agli artt. 23, 41, co. 2, 97, co. 1; anche se si può constatare una tendenza della Corte stessa ad allargare, a scapito della riserva c.d. assoluta, le ipotesi di riserve di legge da ritenersi solo relative (Guastini, R., op. cit., 170 nt.).
Malgrado ciò, nella pratica giurisprudenziale si assiste, all’inverso, ad un progressivo farsi evanescente del confine tra le due ipotesi, che tendono a confondersi, allorché la giurisprudenza si trova a dover precisare in cosa consistano i contenuti e i modi dell’azione amministrativa o, per ciò che riguarda la riserva assoluta, se possano consentirsi provvedimenti discrezionali della p.a.
La Corte costituzionale, quindi, ha ammesso che la norma di legge in materia di misure di prevenzione lasciasse all’autorità amministrativa un certo spazio discrezionale, purché quest’ultimo si esercitasse entro limiti ben individuati (sent. 14.7.1971, n. 173; 17.3.1969, n. 32), oppure in materia penale ha consentito che la norma di legge attribuisse all’autorità amministrativa poteri di completamento della fattispecie (Carlassare, L., op. cit., 8) penalmente sanzionata (exempli gratia art. 650 c.p.): del resto l’uso di espressioni dotate di una certa elasticità nelle proposizioni normative penali, finisce per attribuire una certa qual discrezionalità al giudice (l’espressione “discrezionalità del giudice” è qui usata nella consapevolezza di tutte le difficoltà che essa comporta) nella loro applicazione (ma v. anche C. cost., 9.4.1981, n. 96, che dichiara incostituzionale il reato di plagio), così come potrebbe ritenersi che analoga discrezionalità il giudice stesso abbia nella determinazione della sanzione tra un minimo ed un massimo (la Corte costituzionale ha, però, ritenuto in violazione della riserva di legge una norma che mancasse dell’indicazione del massimo della pena: sent. 24.6.1992, n. 299).
Per superare le difficoltà testè delineate parte della dottrina (Tosato, E., Prestazioni patrimoniali imposte e riserva di legge, in Scritti in onore di G. Ambrosini, III, Milano, 1970, 2118 ss; Balduzzi, R.,-Sorrentino, F., Riserva di legge, in Enc. Dir., XL, Milano, 1989, 1216), aderendo all’idea che tutte le riserve debbano considerarsi assolute (Paladin, L., La potestà legislativa regionale, Padova, 1958, 80; S. Fois, La riserva, cit., 331 s.) ed abbiano, quindi, la medesima efficacia, ha ritenuto che la differenza tra le due ipotesi non consista in una diversa vincolatività nei riguardi del legislatore, bensì nel diverso oggetto della riserva, non dovendosi confondere la materia «in senso lato cui la riserva si riferisce, con la materia in senso stretto, in quanto oggetto limitato dalla riserva» (Tosato, E., op. cit., 2124).
L’individuazione della riserva relativa di legge e la tendenza ad estenderne il campo risponde ad un preciso intento di politica istituzionale, che è quello di evitare che il Parlamento debba occuparsi della normazione nei più minuti dettagli, e quello di lasciare uno spazio più o meno ampio alle norme, il più delle volte aventi o carattere tecnico o carattere meramente organizzativo, adottate dal complesso Governo-Amministrazione.
Tuttavia, quale che sia il significato che si voglia dare al riferimento alla “legge”, violerebbe la prescrizione costituzionale una legge che lasciasse alle altre autorità un margine di discrezionalità talmente ampio da consentire che lo scopo indicato in modo esplicito o implicito dalla Costituzione venisse eluso o addirittura convertito nello scopo opposto.
In casi di questo genere la dottrina dominante (Mortati, C., Istituzioni di diritto pubblico, I, Padova, 1975, 343) e la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale (sent. 3.5.1984, n. 139) parlano di «riserva rinforzata di legge», individuando così un sottotipo di riserva di legge avente, appunto, specifiche caratteristiche.
La specificità delle riserve assolute, relative o rinforzate di legge, può, in certo qual senso, essere prospettata sotto un diverso profilo, visto che ogni riserva di legge è collegata alla tutela di un valore, che la Costituzione ha fatto proprio e che ovviamente andrà bilanciato (abgewägt) con gli altri valori costituzionalmente espressi in disposizioni di principio formalmente costituzionali. Tuttavia il rapporto tra la riserva di legge ed il valore protetto non mancherà di dispiegare i propri effetti, allorché si dovrà individuare la particolare efficacia della riserva stessa (v. in senso analogo C. cost. 15.1.1969, n. 1): quanto più irrinunciabile è il valore, alla cui protezione essa è funzionale, tanto maggiori saranno i vincoli imposti alla legge.
Lo stesso problema del rapporto tra legge ed altre fonti del jus volontarium nell’ambito della materia o dell’oggetto riservato può essere soddisfacentemente risolto collegando la riserva di legge al valore costituzionalmente tutelato.
Occorre preliminarmente sgombrare il campo da tutti quei settori, che il Costituente ha voluto sottrarre alla legge ordinaria, riservandone la disciplina alla legge costituzionale.
È noto che la revisione unilaterale dei Patti Lateranensi (art. 7), l’attribuzione dell’iniziativa legislativa (art. 71), l’approvazione e la modificazione degli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale (art. 116), la creazione di nuove Regioni (art. 132) e le prescrizioni relative a «le condizioni, le forme, i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale e le garanzie di indipendenza dei giudici della Corte» costituzionale (art. 137) sono riservate a leggi costituzionali.
Si tratta di disposizioni della Costituzione che vanno messe in relazione con l’art. 138, che, a sua volta, riserva alle leggi approvate con il procedimento ivi previsto la puntuale revisione del testo della Costituzione (Esposito, C., Costituzione legge di revisione della Costituzione e “altre” leggi costituzionali, in Raccolta di scritti in onore di A.C. Jemolo, III, Milano, 1962, 191 ss.) e – secondo una diffusa autorevole opinione (Crisafulli, V., op. cit., 78) – «di norme inespresse, purché implicite in disposizioni formalmente costituzionali e da questa desumibili». Dall’art. 138 può trarsi tutt’al più un principio di rigidità della Costituzione e di prevalenza di quest’ultima (e delle altre leggi costituzionali) su tutte le fonti dell’ordinamento, che le sono subordinate. Princìpi, questi ultimi, che sono connessi al valore di democraticità dell’ordinamento e di stabilità delle sue norme fondanti.
Nel nostro ordinamento la riserva di legge costituzionale assume un significato autonomo rispetto al principio di legalità costituzionale, non tanto perché la nostra è una Costituzione rigida, quanto perché sussiste un giudice, competente a sindacare la conformità delle stesse leggi costituzionali ai princìpi supremi contenuti in Costituzione e conseguentemente ai suoi valori fondanti (da ultimo C. cost., 2.2.1982, n. 16; 2.2.1982, n. 18; 8.6.1984, n. 170; 29.12.1988, n. 1146; 21.4.1989, n. 232), onde una legge costituzionale non potrebbe mai contrastare con questi ultimi valori, né rinunciare del tutto a disciplinare la materia che la Costituzione le ha riservato, perché altrimenti violerebbe – se non giustificata dalla sussistenza di altri e diversi valori che nell’operazione di bilanciamento (Abwägung) siano destinati a prevalere (si pensi al valore dell’unità della Repubblica) – quel valore fondamentale a tutela del quale la riserva è stata stabilita (si può fare l’esempio di una legge costituzionale che, autorizzando una legge ordinaria a disciplinare la materia di cui all’art. 137, mettesse nella disponibilità di una contingente maggioranza parlamentare quella stessa materia).
Quanto, poi, alle questioni relative alle ordinarie riserve di legge ed al problema se la disciplina di materie riservate alla legge possa essere contenuta in fonti-atto, da ritenere pur sempre collocate ad un livello superiore alla legge ordinaria, come nel caso del diritto comunitario, o ad essa equiordinate (decreti delegati o decreti-legge), un ricorso ai valori, che stanno dietro alle diverse riserve di legge costituzionalmente previste può risolvere molti dei problemi sui quali l’interprete trova difficoltà ad assumere un orientamento. Per quanto riguarda il diritto dell’U.E., che ormai si ritiene prevalga sulle norme dell’ordinamento interno, la tesi che tale diritto superi le riserve di legge stabilite in Costituzione sembrerebbe, a rigor di logica, conseguire inevitabilmente da tale prevalenza; ne risulterebbe pertanto soddisfatta la riserva di legge sia nel suo aspetto positivo (obbligo della legge di disciplinare una certa materia), sia in quello negativo (necessità che in quella medesima materia la disciplina legislativa abbia prevalenza sulle regole provenienti da altre fonti).
Il rischio di un conflitto tra i valori, che sottendono a diverse riserve di legge previste in Costituzione relativamente soprattutto ai cd. diritti, scaturenti dalle varie disposizioni costituzionali in ambito economico-sociale e in quello etico-sociale, da un lato, ed i valori protetti dalla normativa dell’Unione europea è incombente, onde l’esigenza che si attui un bilanciamento tra gli stessi, al fine di valutare se la riserva di legge abbia avuto o no corretta applicazione, tenendo conto, tra l’altro, che molti dei diritti sociali sono strettamente connessi al valore della dignità dell’uomo ed al diritto al lavoro, di cui all’art. 4 Cost.
Tuttavia il problema ancora irrisolto è quello dell’organo che dovrà essere chiamato ad effettuare tale bilanciamento, dando la prevalenza ad uno dei valori in gioco: saranno gli organi giurisdizionali dell’Unione o sarà, invece, la Corte costituzionale? La questione ha costituito oggetto dell’ord. 26.1.2017, n. 24 della nostra Corte costituzionale, cui è seguita la decisione della Corte di Giustizia dell’U.E. (C. giust. 5.12.2017, C-42/17, M.A.S. in M.B.).
Quanto al problema se la materia o l’oggetto riservati alla legge possano essere disciplinati o no con un atto avente forza di legge, esso non si risolve in astratto, ma in concreto, attraverso cioè, un’attenta valutazione della ratio sottesa alla riserva e della eventualità che l’uso dell’atto avente forza di legge vìoli quella specifica ratio. Il dibattito dottrinale si è svolto e tuttora si svolge sulla base di pregiudizi di natura politico-istituzionale, che vedono schierati, da una parte quanti temono che si attribuisca al Parlamento il compito di disciplinare un eccesso di materie e di oggetti, incrementando così una sorta di giungla legislativa ed onerandolo della necessità di intervenire in materie eccessivamente tecniche e di dettaglio. E deve riconoscersi che tale tesi è prevalsa nella prassi e nella giurisprudenza della Corte costituzionale.
Sul fronte opposto, chi si oppone a tale prassi obietta che la riserva di legge non riguarda una mera ripartizione di competenze, ma risponde ad una precisa struttura istituzionale, nel quale la rappresentanza del popolo assume un ruolo centrale, sicché il riferimento del testo costituzionale alla legge deve intendersi come funzionale all’assetto di poteri voluto dal Costituente. E ciò in quanto il trasferimento di potere legislativo all’esecutivo appare pericoloso a fronte di una prassi sempre più diffusa di leggi di delegazione, per così dire, a maglie larghe e di decreti-legge, che potrebbero potenzialmente e gravemente incidere sulle libertà dei cittadini.
Solo una valutazione effettuata di volta in volta e che tenga conto dei valori, che la riserva di legge intende tutelare, in un accorto bilanciamento con quello della necessità ed urgenza del provvedere (per quanto riguarda il decreto-legge) o con quello dell’esigenza di assicurare un’armonica e tecnicamente corretta redazione delle norme (per il decreto legislativo), può aiutare a risolvere il problema.
Del resto un impedimento di principio per gli atti aventi forza e valore di legge ad intervenire sugli oggetti, la cui disciplina la Costituzione demanda alla legge, implicherebbe l’idea che, in tutti questi campi, unica fonte legittimata sarebbe quella che esprime – lo si voglia o no – in modo diretto o indiretto la volontà popolare, cioè dell’intero popolo. Ma l’adesione a questa idea, a sua volta, non si accorderebbe con la possibilità che anche le leggi regionali possano intervenire in materia riservata alla legge. Le leggi regionali, invece, hanno pur sempre lo stesso nomen juris e la stessa sottoposizione al sindacato della Corte costituzionale delle leggi statali e rientrerebbero nel più vasto genus delle “leggi”, in quanto approvate da un organo rappresentativo della comunità locale.
Tale estensione del concetto di “legge” si giustifica – oggi, a differenza di come si riteneva in passato per affermare che in materia riservata poteva intervenire solo la legge dello Stato – con il fatto che ci si trova di fronte ad una distribuzione di competenze legislative tra enti territoriali, che la Costituzione ha operato a far data dalla l. cost. 18.10.2001, n. 3, e che, in certo qual senso, si sovrappone all’istituto della riserva di legge, di guisa che, allorché si parla di legge, o di legislatore, o di obbligo per il legislatore, o di funzione attuativa dei princìpi costituzionali svolta dalla legge, ci si dovrà riferire pur sempre alla legge approvata dall’ente dotato di potestà legislativa specificamente competente ai sensi dell’art. 117 Cost., che dispone «Spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato». Principio, questo, che trova un proprio limite sia nella sussistenza di materie c.d. trasversali, attribuite all’esclusiva competenza dello Stato, che nel c.d. principio di sussidiarietà verticale legittimato dall’art. 118, co. 1, nonché nell’art. 5 Cost.
In tale intreccio di attribuzioni, per un verso, ad Enti e per l’altro, ad atti normativi, sembra che il criterio della individuazione del valore, che sottende alla riserva di legge, possa orientare l’interprete al fine di determinare se ed in quali limiti la legge regionale possa intervenire sull’oggetto, in ordine al quale la Costituzione conferisce alla legge la potestà di dettare la disciplina.
Gli stessi princìpi dovrebbero guidare in ordine alla domanda su quale sia lo spazio di discrezionalità che la legge può lasciare al potere esecutivo ed al potere giudiziario (la discrezionalità di quest’ultimo dovrà ovviamente intendersi diversamente da quella dell’Amministrazione) ed in particolare su quali siano le possibilità che fonti di rango secondario, emanate da autorità amministrative, intervengano, in concorrenza con la legge, a disciplinare materie od oggetti ad essa riservati.
Distinguere l’efficacia della riserva di legge a seconda che si tratti di rapportare alla legge atti giurisdizionali, atti normativi dell’esecutivo o provvedimenti amministrativi (o, se si vuole, atti di amministrazione), finirebbe per mischiare questioni attinenti al rispetto del principio di legalità (e, quindi, di quello di preferenza della legge) da parte di atti dell’esecutivo e del giudiziario con questioni attinenti, invece, alla possibilità che il potere legislativo si spogli di determinati oggetti o determinate materie. La riserva di legge si risolve nel principio di indisponibilità della competenza legislativa (Favoreau, L., Préface al volume di Trémeau, J., La réserve de loi, Paris, 1997, 5), di guisa che ogni questione ad essa relativa deve essere risolta (e non può non essere risolta che) in sede di giudizio di costituzionalità delle leggi e con i criteri che sovrintendono a tale giudizio.
A questa stregua andrà valutata l’eventuale capacità derogatoria di precedenti norme di legge, che la legge stessa abbia attribuito a fonti secondarie. Mentre nelle materie non coperte da alcuna delle riserve di legge previste in Costituzione l’atto derogatorio della normativa primaria dovrà essere valutato esclusivamente alla luce del principio di legalità e della sua specifica valenza nell’ambito considerato (in senso debolissimo, debole o forte), nelle materie o per gli oggetti, per i quali il Costituente ha direttamente o indirettamente previsto una riserva di legge, tutta la valutazione dell’atto derogatorio dovrà incentrarsi sul preventivo sindacato di costituzionalità della legge, che l’abbia eventualmente autorizzato: e ciò al fine di consentire il bilanciamento tra il valore che sta, per così dire, dietro le quinte della riserva, con l’eventuale valore che la legge, lasciando ampi spazi di discrezionalità all’atto subordinato, abbia voluto garantire. Tale criterio dovrebbe guidare, ad es., la decisione in ordine alla conformità a Costituzione del potere derogatorio delle leggi spettante alle ordinanze di protezione civile: trattandosi di far fronte ad eventi calamitosi si potrà anche accettare che provvedimenti dell’Esecutivo dispongano in deroga alla legge in materie coperte da riserva; ma certamente insorgeranno forti dubbi sulla costituzionalità della legge stessa, che li abiliti alla deroga, allorché e per la parte in cui la deroga stessa sia consentita, ad es., per i cd. grandi eventi.
Analogamente per ciò che riguarda i cd. regolamenti delegati (autorizzati dalle leggi, che li prevedono, a derogare a precedenti disposizioni di legge) nelle materie non coperte da riserva assoluta, secondo quanto previsto dall’art. 17, l. 23.8.1988, n. 400. La Corte costituzionale non potrà esimersi dal considerare il valore che sottende alla riserva relativa di legge in bilanciamento con gli altri valori che dovessero entrare in gioco: un primo decisivo criterio di bilanciamento essendo fornito proprio dall’art. 17, l. n. 400/1988, il quale sottopone a precise condizioni la delega alle fonti secondarie di un potere derogatorio delle leggi, di guisa che il mancato rispetto di quelle condizioni costituisce un indice dell’incostituzionalità della stessa legge, che autorizza il regolamento in deroga.
Nel caso in cui la legge dovesse autorizzare singoli, concreti provvedimenti amministrativi, concedendo all’amministrazione poteri discrezionali di ampiezza tale da consentire che si provveda anche derogandovi, sarà solo la dichiarazione d’incostituzionalità di una legge siffatta a riportare in vita, per così dire, il principio di legalità, ridando ad esso l’efficacia perduta quando la legge, violando i valori costituzionali, aveva consentito alla propria cedevolezza di fronte alla contraria volontà espressa nell’atto subordinato.
In tutti quei casi in cui il valore protetto con la riserva di legge assume un ruolo preponderante, la legge sarà tenuta a restringere al massimo l’ambito di discrezionalità di chi dovrà applicarla, di guisa che anche la potestà regolamentare dell’esecutivo potrà espandersi finché non metta in forse il valore, che sottende alla riserva, e potrà essere autorizzata dalla legge stessa ad esercitare solo nei limiti in cui sia mantenuta integra la tutela del valore che la riserva di legge esplicita.
Tutti i regolamenti, implicitamente ed esplicitamente autorizzati dalla legge a disciplinare una materia ad essa riservata, rientrano nella vasta categoria dei regolamenti esecutivi (Tremeau, J., La réserve cit., 33), sicché l’affermazione per la quale in materie coperte da riserva assoluta sarebbero ammissibili solo regolamenti esecutivi dice tutto e nulla.
Invece, un’attenta considerazione dei valori in gioco potrà determinare fino a che punto una mancata disciplina da parte della legge o un rinvio di quest’ultima ad altre fonti sia compatibile con la interdizione al legislatore di rinunciare al proprio potere di disporre sulla materia o sull’oggetto della riserva.
Costituzione della Repubblica Italiana.; L. cost. 18.10.2001, n. 3; L. 23.8.1988, n. 400.
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