Riservatezza
Parte introduttiva
di Stefano Rodotà
Riservatezza e privacy
Il termine riservatezza è entrato ormai stabilmente nel linguaggio giuridico: adoperato prima dagli studiosi (Giorgianni 1970) e poi dalla giurisprudenza (Cassazione civile, 5 apr. 1978 nr. 1557; Corte costituzionale, 12 apr. 1973 nr. 38), è stato infine accolto nella legislazione (art. 6 della l. 20 maggio 1970 nr. 300, con riferimento ai soli lavoratori; e, in via generale, art. 1 della l. 31 dic. 1996 nr. 675). Prima di quest'ultima legge, già l'art. 615-bis del codice penale, introdotto dalla l. 8 apr. 1974 nr. 98, aveva vietato, sempre in generale, le interferenze illecite nella 'vita privata', attribuendo a questa espressione (corrente in altri paesi, come la Francia) un significato sostanzialmente identico a 'riservatezza'; e l'art.10 della legge di riforma della polizia (1° apr. 1981 nr. 121) aveva introdotto una sia pur circoscritta tutela generale dei dati personali.
Il primo, sostanziale riconoscimento legislativo della r., comunque, si trova nella l. 20 maggio 1970 nr. 300 (Statuto dei lavoratori), che disciplina rigorosamente una serie di comportamenti dell'imprenditore che incidono sulla sfera privata dei lavoratori, dall'uso di impianti di controllo a distanza agli accertamenti sanitari e alle visite di controllo. La norma più significativa, tuttavia, è contenuta nell'art. 8, che vieta le indagini sulle opinioni politiche, religiose e sindacali dei lavoratori, individuando così una categoria di dati personali che, insieme ad altri, saranno poi qualificati sensibili (art. 22 della l. 31 dic. 1996 nr. 675) e quindi tutelati in maniera particolarmente rigorosa. Si coglie qui un paradosso singolare e rivelatore. La privacy (come ormai si usa dire nel linguaggio corrente), tradizionalmente indicata come diritto tipico della borghesia, entra nell'ordinamento giuridico italiano attraverso una speciale tutela accordata ai diritti della classe operaia.
La privacy si libera così della sua vicenda d'origine, e si sottrae quindi all'inevitabile declino al quale, secondo alcuni, era condannata dall'avvento di una società pluriclasse. Tutto ciò avviene per effetto della sempre più pervasiva diffusione delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, che rendono sempre più agevole la raccolta e la gestione di banche dati che trattano le più diverse informazioni personali. Definendosi la nostra appunto come società dell'informazione, il tema della privacy era destinato ad assumere un'importanza centrale. Anche se si respinge, com'è giusto, una riduzione dell'individuo alle sue informazioni, è ormai del tutto evidente che lo statuto giuridico dei dati personali contribuisce a definire il carattere delle relazioni interpersonali e sociali, a presentarsi come un elemento della stessa cittadinanza, tanto che da anni ormai si sottolinea la necessità di un information bill of rights, di una dichiarazione dei diritti dell'informazione, con una suggestione che alcune costituzioni (come quella spagnola) hanno già raccolto, collocando la privacy tra i diritti fondamentali dell'uomo.
Nasce da qui un nuovo e complessivo statuto delle informazioni personali, la cui tutela è in primo luogo affidata a poteri direttamente esercitabili dagli interessati, che diventano così pienamente titolari del diritto sui dati che li riguardano: questa è l'indicazione della Direttiva 95/46 dell'Unione Europea, vincolante per tutti gli Stati dell'Unione. Si attua così una sostanziale redistribuzione di poteri giuridici e sociali, facendo cadere ogni privilegio dei detentori delle informazioni, obbligati a rendere conto agli interessati del modo in cui gestiscono i loro dati, ai quali gli interessati devono poter accedere liberamente. La gestione dei dati non è più incontrollabile, si possono far eliminare le informazioni raccolte illegalmente od obsolete, correggere quelle inesatte, integrare quelle incomplete. A una più forte tutela della r. corrisponde così una più accentuata trasparenza sociale.
La nascita della privacy
Per comprendere questa vicenda, più che insistere sui dati naturalistici relativi alla necessità biologica di una sfera riservata (Westin 1967, pp. 8-11), è opportuno ricordare il contesto socioeconomico in cui sono maturate le condizioni che hanno poi consentito l'affermarsi della privacy come esigenza bisognosa di autonoma tutela. Basta qui citare un'osservazione di L. Mumford: "il primo mutamento radicale [...] destinato ad infrangere la forma della casa di abitazione medievale fu lo sviluppo del senso di intimità. Questo, infatti, significava la possibilità di appartarsi a volontà dalla vita e dalle occupazioni in comune coi propri associati. Intimità durante il sonno; intimità durante i pasti; intimità nel rituale religioso e sociale; finalmente, intimità nel pensiero". Tale fatto segna "la fine delle reciproche relazioni sociali fra i ranghi superiori e quelli inferiori del regime feudale: relazioni che avevano mitigato la sua oppressione. Il desiderio d'intimità segnò l'inizio di quel nuovo schieramento di classi che era destinato a finire nella lotta di classe senza quartiere e nelle rivendicazioni individualistiche di un periodo posteriore" (Mumford 1938; trad. it. 1954, p. 29).
In questo senso, la nascita della privacy può essere storicamente riportata al disgregarsi della società feudale, nella quale gli individui erano tutti collegati da una complessa serie di relazioni, che si riflettevano nell'organizzazione stessa della loro vita quotidiana: l'isolamento era privilegio di pochissimi eletti o di coloro i quali, per necessità o scelta, vivevano lontani dalle comunità: mistici o monaci, pastori o banditi. Questa possibilità, poi, si estende a quanti dispongono dei mezzi materiali che consentono loro di riprodurre, anche nell'ambiente urbano, condizioni tali da appagare il nuovo bisogno d'intimità: ed è ben noto che questo è un processo in cui intervengono molteplici fattori, dalle nuove tecniche di costruzione delle abitazioni alla separazione tra luogo in cui si vive e luogo di lavoro (la casa 'privata' contrapposta all'ufficio). La privacy si configura così come una possibilità della classe borghese, che riesce a realizzarsi soprattutto grazie alle trasformazioni socio-economiche connesse alla rivoluzione industriale.
Non è necessario insistere ulteriormente sul molteplice complesso di condizioni che fecero evolvere la privacy come diritto tipico della classe borghese in particolari contesti ambientali e sociali (la 'età dell'oro' della privacy, per es., è stata identificata con la seconda metà dell'Ottocento negli Stati Uniti: Shils 1966, p. 289). Qui è opportuno ricordare che quello fu l'effetto non di uno sviluppo lineare, ma di una rottura intervenuta all'interno dell'organizzazione sociale. La realizzazione delle condizioni materiali per la soddisfazione del bisogno di intimità appare come un momento di una più complessa operazione attraverso la quale la borghesia riconosce la propria identità all'interno del corpo sociale. La possibilità di godere pienamente della propria intimità è un connotato differenziale della borghesia rispetto ad altre classi: e la forte componente individualistica fa sì che quella operazione si traduca, poi, in uno strumento di isolamento del singolo borghese all'interno della sua stessa classe. Il borghese, in altri termini, si appropria di un suo 'spazio', con una tecnica che ricorda quella compiuta per l'identificazione di un diritto alla proprietà 'solitaria' (Rodotà 1974).
Al livello sociale e istituzionale, quindi, la nascita della privacy si presenta non come la realizzazione di un'esigenza 'naturale' di ogni individuo, ma come l'acquisizione di un privilegio da parte di un gruppo. Non è un caso che gli strumenti giuridici di tutela siano prevalentemente modellati su quelli caratteristici del diritto borghese per eccellenza, la proprietà; e che esigenze analoghe a quelle fatte valere dalla borghesia sotto l'etichetta della privacy o non siano affatto riconosciute alla classe operaia o vengano più tardi realizzate attraverso strumenti giuridici completamente diversi (si pensi, per es., alla tutela della personalità nella fabbrica). Sono le condizioni materiali di vita a escludere la privacy dall'orizzonte della classe operaia. Basta ricordare i dati raccolti da F. Engels sulla situazione abitativa degli operai inglesi a Londra, Edimburgo, Bradford, Leeds, Manchester, per rendersi conto, per contrasto, delle connotazioni elitarie del concetto di privacy. È stato giustamente detto che "poverty and privacy are simply contradictoires" (Bendich 1966, pp. 4,7): anzi, il 'diritto di essere lasciato solo' può assumere un significato pesantemente negativo, quando ciò implica disinteresse per le condizioni dei meno abbienti, abbandono dei più deboli alla violenza sociale.
Valutata in questo suo contesto storico d'origine, la privacy, quindi, non può essere considerata come una nozione unificante, come un concetto che esprime esigenze uniformemente diffuse nella collettività. Naturalmente, sarebbe anche sbagliato considerare la privacy monoliticamente rispetto alla stessa classe borghese: essa, per es., è destinata a scomparire dove si degradano le condizioni di vita di tale classe, come accade alla piccola borghesia europea confinata negli 'alveari' alla periferia delle grandi città. Né, peraltro, può essere trascurato il fatto che quel modello culturale tende a essere ricevuto dagli strati più alti della classe operaia. Ma, per comprendere la reale dinamica a cui il concetto di privacy è legato, bisogna soprattutto considerare le diverse funzioni a esso attribuite a seconda della cultura complessiva di ciascun gruppo interno alla borghesia. Sono state opportunamente messe in luce le diverse ispirazioni che muovevano gli stessi 'padri fondatori' della privacy sul terreno giuridico, S.D. Warren e L.D. Brandeis, autori dello scritto (1890) che, pur non rappresentando storicamente la prima affermazione del right to privacy, certamente ha costituito il punto d'avvio della sua espansione, anche perché prendeva spunto dai nuovi problemi posti dall'informazione di massa. Il primo, un conservatore di stampo tradizionale, si mostrava interessato soltanto ai privilegi dell'alta borghesia, considerando con risentimento l'azione di una stampa a caccia di scandali politici e mondani; l'altro, liberal-progressista, pur preoccupandosi della privacy delle persone più in vista, metteva l'accento sul danno che alle minoranze intellettuali e artistiche poteva derivare da indiscrezioni giornalistiche indiscriminate, che avrebbero potuto accrescerne l'impopolarità. Questa duplicità di punti di vista può essere ritrovata, al di là della specifica cultura americana e con caratteristiche progressivamente più marcate, nella gran parte dei dibattiti sulla privacy, fino ai nostri giorni.
È ben noto, infatti, che l'enorme aumento della quantità di informazioni personali raccolte da istituzioni pubbliche e private risponde soprattutto a due obiettivi: l'acquisizione degli elementi necessari alla preparazione e alla gestione di programmi di intervento sociale, da parte dei poteri pubblici, e allo sviluppo delle strategie imprenditoriali private; e il controllo della conformità dei cittadini all'indirizzo politico dominante o ai comportamenti prevalenti. Invocare la difesa della privacy, allora, assume significati diversi, a seconda di quale sia l'obiettivo perseguito attraverso la raccolta delle informazioni. Quando si rifiutano le informazioni necessarie ai programmi d'intervento sociale, la privacy si presenta come lo strumento per il consolidamento dei privilegi di un gruppo; nell'altro caso, serve a reagire contro l'autoritarismo e contro una politica di discriminazioni basate sulle opinioni politiche (o sindacali o religiose, oppure sulla razza, e così via). La privacy diventa così un modo per promuovere la parità di trattamento tra i cittadini, per realizzare l'eguaglianza e non per custodire il privilegio, spezzando il suo nesso di identificazione con la classe borghese. La sensibilità per i rischi politici connessi alle schedature di massa, infatti, va ben oltre la classe borghese, poiché le possibilità di discriminazione toccano soprattutto le diverse minoranze e gli appartenenti alla classe operaia. Tendono così a mutare i soggetti da cui proviene la domanda di difesa della privacy e cambia la qualità stessa di tale domanda: venendo in primo piano le modalità di esercizio del potere da parte dei detentori pubblici e privati delle informazioni, l'invocazione della privacy supera il tradizionale quadro individualistico e si dilata in una dimensione collettiva, dal momento che viene preso in considerazione l'interesse del singolo non in quanto tale, ma in quanto appartenente a un determinato gruppo sociale.
Verso una ridefinizione del concetto di privacy
Le discussioni teoriche e le complesse esperienze di questi anni mostrano che la privacy si presenta ormai come nozione fortemente dinamica e che si è stabilita una stretta e costante interrelazione tra mutamenti determinati dalle tecnologie dell'informazione (ma anche dalle tecnologie della riproduzione, dall'ingegneria genetica) e mutamenti del concetto. Una definizione della privacy come 'diritto di esser lasciato solo' ha da tempo perduto un valore generale, anche se continua a cogliere un aspetto essenziale del problema e può (deve) essere applicata a specifiche situazioni. Nella società dell'informazione tendono a prevalere definizioni funzionali della privacy che, in diversi modi, fanno riferimento alla possibilità di un soggetto di conoscere, controllare, indirizzare, interrompere il flusso delle informazioni che lo riguardano. La privacy, quindi, può essere più precisamente definita, in una prima approssimazione, come il diritto di mantenere il controllo sulle proprie informazioni.
Parallelamente si è avuto un progressivo ampliamento della nozione di sfera privata che, quantitativamente, comprende ormai situazioni e interessi prima esclusi dall'area della specifica protezione giuridica; e, qualitativamente, si proietta ben al di là della pura identificazione di un soggetto e dei suoi comportamenti 'riservati'. Si può così definire la sfera privata come quell'insieme di azioni, comportamenti, opinioni, preferenze, informazioni personali su cui l'interessato intende mantenere un controllo esclusivo. Di conseguenza, la privacy può essere identificata con "la tutela delle scelte di vita contro ogni forma di controllo pubblico e di stigmatizzazione sociale", in un quadro caratterizzato appunto dalla "libertà delle scelte esistenziali" (Rigaux 1990, p. 167).
Di fronte a noi si delineano con nettezza due tendenze. Assistiamo, da una parte, a una ridefinizione del concetto di privacy che, accanto al tradizionale potere di esclusione, attribuisce rilevanza sempre più larga e netta al potere di controllo. D'altra parte, si amplia l'oggetto del diritto alla r., per effetto dell'arricchirsi della nozione tecnica di sfera privata, che comprende un numero sempre crescente di situazioni giuridicamente rilevanti. In questa prospettiva, quando si parla di 'privato', non si identificano necessariamente aree alle quali viene attribuita una particolare protezione per ragioni di riservatezza. Quella nozione tende a coprire ormai l'insieme delle attività e delle situazioni di una persona che hanno un potenziale di 'comunicazione', verbale e non verbale, e che si possono quindi tradurre in informazioni. "'Privato' qui significa personale, e non necessariamente segreto" (Friedmann 1990, p. 181). Partendo da questa constatazione, si può dire che oggi la sequenza quantitativamente più rilevante è 'persona-informazione-circolazione-controllo', e non più soltanto 'persona-informazione-segretezza', intorno alla quale è stata costruita la nozione classica di privacy. Il titolare del diritto alla privacy può esigere forme di 'circolazione controllata', e non solo interrompere il flusso delle informazioni che lo riguardano. Proprio l'estendersi dell'area coperta dalla tutela della privacy ha fatto sì che crescessero in parallelo il numero dei soggetti interessati a tale protezione e la sua rilevanza sociale.
Bisogna aggiungere che questo non è solo l'effetto delle preoccupazioni determinate dalle molteplici applicazioni delle tecnologie dell'informazione. È pure il risultato del modo in cui l'intera tecnologia delle comunicazioni contribuisce a 'costruire' la sfera privata, facendo diminuire la necessità di molti consolidati e quotidiani contratti sociali (grazie al telelavoro, alle videoconferenze, agli acquisti a distanza, allo svolgimento di operazioni bancarie direttamente dalla propria abitazione e, soprattutto, al rilievo assunto dalla televisione come sostitutivo di tutta una serie di attività 'conviviali'): il singolo individuo viene così sottratto alle diverse forme di controllo sociale rese possibili proprio dall'agire 'in pubblico', in una comunità. "Queste tecnologie servono anche a mettere l'individuo al riparo da quelle forme di controllo sociale che in passato erano servite a vigilare sui suoi comportamenti e a esercitare pressioni per l'adozione di atteggiamenti di tipo conformista" (Katz 1988, p. 173).
Deperiscono le tradizionali forme di controllo sociale, il cui posto, però, viene preso da controlli più penetranti e globali, resi possibili dal trattamento elettronico delle informazioni. La tecnologia contribuisce a far nascere una sfera privata più ricca, ma più fragile, sempre più esposta a insidie: da questo deriva la necessità di un continuo rafforzamento della protezione giuridica, di un allargamento delle frontiere del diritto alla privacy. Si può chiamare questo 'il primo paradosso della privacy': e il termine paradosso è adoperato per indicare una situazione nella quale la tensione verso la privacy entra (apparentemente) in contraddizione con se stessa o produce conseguenze (apparentemente) inattese.
L'accento posto sul momento della circolazione e del controllo non può certo far trascurare gli aspetti classici della segretezza e dell'esclusione di informazioni personali da forme di conoscenza generalizzata o selettiva, come caratteristiche permanenti del diritto alla privacy. Anche qui, tuttavia, bisogna sottolineare una significativa evoluzione. Il bisogno di r. si è dilatato ben al di là delle informazioni riguardanti la sfera intima della persona, costituita appunto da quei dati che l'interessato vuole esclusi da ogni tipo di circolazione. Dall'esame di testi rilevanti in questa materia ci si avvede agevolmente che il nucleo duro della privacy è ancor oggi costituito da informazioni che riflettono il tradizionale bisogno di segretezza (per es., quelle riguardanti la salute o le abitudini sessuali): al suo interno, però, hanno assunto rilevanza sempre più marcata altre categorie di informazioni, protette soprattutto per evitare che attraverso la loro circolazione possano nascere situazioni di discriminazione a danno degli interessati. Si tratta, in particolare, delle informazioni riguardanti le opinioni politiche e sindacali, insieme a quelle relative all'origine razziale o etnica, alle convinzioni filosofiche, all'appartenenza ad associazioni, al credo religioso (art. 22 l. nr. 675 del 1996). Ora, la particolarità di questa situazione nasce dal fatto che le opinioni politiche e sindacali non possono essere chiuse unicamente nella sfera 'privata': almeno negli stati democratici sono destinate a caratterizzare la sfera 'pubblica', fanno parte delle convinzioni che l'individuo deve poter manifestare 'in pubblico', contribuiscono a determinare la sua identità 'pubblica'.
L'attribuzione di questi dati alla categoria dei dati 'sensibili', particolarmente protetti contro i rischi della circolazione, deriva dalla potenziale loro attitudine a essere adoperati a fini discriminatori. Proprio per garantire pienezza alla sfera pubblica, allora, si determinano rigorose condizioni di circolazione controllata di quelle informazioni e si attribuisce a esse un fortissimo statuto 'privato', che si manifesta soprattutto nel divieto di raccolta da parte di determinati soggetti (per es. datori di lavoro) e nell'esclusione della legittimità di talune forme di raccolta o di circolazione. Si può chiamare questo 'il secondo paradosso della privacy'.
Proprio la considerazione dei rischi connessi agli usi delle informazioni raccolte, e non di una naturale vocazione alla segretezza di taluni dati personali, ha portato al riconoscimento di un 'diritto all'autodeterminazione informativa' come diritto fondamentale del cittadino, che, per es., ha trovato formale riconoscimento nella sentenza del Tribunale costituzionale tedesco del 15 dicembre 1983. Questo riconoscimento si inquadra in una tendenza all'attribuzione del rango di diritti fondamentali a una serie di posizioni individuali e collettive rilevanti nell'ambito dell'informazione. Si potrebbe addirittura cominciare a parlare di un primo abbozzo di una 'costituzione informativa' o di un information bill of rights, che comprende il diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni (art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite, 1948), il diritto all'autodeterminazione informativa, il diritto alla privacy informativa. Il riconoscimento alla privacy del rango di diritto fondamentale, in una prospettiva caratterizzata dal potere di 'seguire' le informazioni personali anche quando siano entrate a far parte della disponibilità di un altro soggetto, ha fatto assumere un rilievo particolare al diritto di accesso, divenuto la regola di base per regolare i rapporti tra soggetti potenzialmente in conflitto, scavalcando il criterio formale del possesso delle informazioni (art. 13 l. nr. 675 del 1996). Sul criterio proprietario, fondato sulla legittimità della raccolta e del trattamento di informazioni riguardanti altre persone, prevale il diritto fondamentale della persona alla quale le informazioni si riferiscono. Il rafforzamento del diritto individuale alla privacy si converte così in uno strumento per rendere più trasparenti e controllabili le sfere di altri soggetti. Non a caso lo sviluppo della legislazione sulla tutela dei dati personali è stato accompagnato dal diffondersi delle leggi sull'accesso alle informazioni (ordinariamente pubbliche, ma in alcuni casi anche private).
La privacy in una 'società aperta': diritti e interessi in conflitto
Dall'analisi finora condotta risulta evidente la tendenza a collocare il diritto alla privacy tra gli strumenti di tutela della personalità, sganciandolo da un'impostazione che lo leghi piuttosto al diritto di proprietà. La possibilità di mantenere un controllo integrale sulle proprie informazioni, infatti, contribuisce in maniera determinante a definire la posizione dell'individuo nella società. Non a caso il rafforzarsi della tutela della privacy si accompagna al riconoscimento o al consolidamento di altri diritti della personalità, come il right of publicity e il diritto all'identità personale (art. 1 l. nr. 675 del 1996), che riguardano appunto il modo in cui un soggetto viene presentato 'agli occhi del pubblico' attraverso l'insieme delle informazioni che lo riguardano.
Qui, tuttavia, si pone un problema di non lieve difficoltà. Che cosa deve poter vedere il pubblico? L'immagine che ciascuno intende dare di sé o la ricostruzione che altri può fornire? L'attribuzione a un soggetto di una serie di forti poteri per la costruzione della sua sfera privata può tradursi in un diritto esclusivo di autorappresentazione? Vi sono molti, e ben noti, motivi per rispondere che nessuno può avere il monopolio della propria presentazione 'in pubblico', sì che sarebbero illegittime tutte le rappresentazioni diverse da quelle in cui l'interessato si riconosce pienamente. È vero che la forza dei sistemi informativi è tale da indurre a ritenere che proprio lì, nello spazio informativo, si operi la 'vera' costruzione della sfera privata di ciascuno. Ma ciò richiede la messa a punto di regole di comunicazione - differenziate a seconda dei mezzi, delle situazioni, della condizione dei soggetti (public figures o altro) - e non la nascita di una sorta di potere censorio in capo a ciascun interessato. Lo stesso diritto all'autodeterminazione informativa non può tradursi in un vincolo assoluto alle modalità di composizione e di presentazione delle informazioni legittimamente disponibili per i terzi.
Si coglie così il punto storicamente più significativo del bilanciamento tra valori in conflitto. All'origine della moderna nozione di privacy, come già si è ricordato, vi è la tensione tra diritto all'informazione e tutela della r. e, per trovare un ragionevole punto di equilibrio, è stata individuata una serie di criteri, sintetizzati per es. nel Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica (1998). Qui, da una parte, si individuano alcuni limiti all'esercizio del diritto di cronaca per quanto riguarda particolari soggetti (minori, malati) o particolari dati (come quelli relativi alla salute e alla vita sessuale); e, dall'altra, si mette in evidenza che esistono situazioni nelle quali è giustificata una riduzione della tutela della r., come accade per le 'figure pubbliche' (politici, attori, sportivi: categoricamente individuate dalla Corte Suprema degli Stati Uniti a partire dal caso New York Times versus Sullivan del 1964). Il quadro d'insieme è definito dal riferimento a criteri generali, quali il rispetto della dignità delle persone, la non discriminazione, l'essenzialità dell'informazione e l'interesse pubblico alla notizia. Proprio la necessità di assicurare una protezione integrale alla personalità rafforza la tendenza verso un'impostazione globale della tutela della privacy, che riguardi banche dati pubbliche e private, persone fisiche e giuridiche, archivi elettronici e manuali. E le eccezioni in questa materia vengono giustificate proprio sottolineando come vi siano impieghi delle informazioni personali che non possono incidere sulla personalità o l'identità altrui, come accade quando l'uso delle informazioni ha finalità strettamente private (art. 3 l. nr. 675 del 1996). Queste considerazioni, tuttavia, non escludono che alle informazioni personali si guardi anche (o addirittura soprattutto) come a un bene economico. È questa l'impostazione tipica di tutti coloro i quali raccolgono, trattano e diffondono informazioni personali con finalità commerciali, dando così vita a un fenomeno che, per dimensioni quantitative e rischi di penetrante controllo sociale, suscita problemi non meno importanti di quelli legati alle grandi banche dati pubbliche. A questo proposito è bene ricordare che tutte le legislazioni prevedono regole differenziate per le diverse categorie di dati, attribuendo per es. una più ridotta tutela ai dati relativi allo svolgimento di attività economiche (art. 20 l. nr. 675 del 1996) rispetto ai dati sensibili (art. 22 l. nr. 675 del 1996), per il cui trattamento non è sufficiente il consenso scritto dell'interessato, ma è indispensabile un'autorizzazione del Garante per la protezione dei dati personali (un'autorità indipendente istituita dagli artt. 30 segg. l. nr. 675 del 1996, modificata dal d. legisl. 3 maggio 1997 nr. 123).
La società dell'informazione si specifica ormai come 'società dei servizi', con elevata standardizzazione e crescenti collegamenti internazionali. Da ciò derivano due conseguenze: più i servizi sono tecnologicamente sofisticati, più il singolo lascia al fornitore del servizio una quota rilevante di informazioni personali; più la rete dei servizi si allarga, più crescono le possibilità di interconnessioni tra banche dati responsabili di disseminazione internazionale delle informazioni raccolte, con nuovi e crescenti rischi per la riservatezza.
L'alternativa, a questo punto, è quella ben nota tra accettazione incondizionata della logica di mercato e creazione di un quadro istituzionale caratterizzato anche dall'imposizione di forme di tutela delle informazioni personali; tra diritto alla privacy come vincolo al gioco spontaneo delle forze e diritto alla privacy come mera attribuzione di titoli di proprietà liberamente negoziabili sul mercato; tra situazioni di inalienabilità dei diritti individuali e possibilità di disporre di tali diritti attraverso il consenso informato.
Con la Direttiva nr. 46 del 1995, l'Unione Europea ha scelto di attribuire ai cittadini un "elevato grado di protezione" per le loro informazioni personali, dando valore di principio al consenso informato, al diretto potere di controllo degli interessati, al diritto all'oblio: principi ai quali devono uniformarsi le legislazioni nazionali. Al tempo stesso, però, si è messa in rilievo la necessità di particolari forme di tutela della r. per evitare condizionamenti e violazioni della dignità degli interessati. Si sanciscono così casi in cui neppure il consenso dell'interessato può rendere legittimo il trattamento dei suoi dati. Questo è indispensabile quando si è in presenza di forti dislivelli di potere nelle relazioni di mercato e nei rapporti con soggetti pubblici, e porta a escludere la rilevanza del consenso (art. 29 l. nr. 675 del 1996) e a definire standard minimi per la protezione effettiva di diritti fondamentali. Per realizzare questo risultato, il primo passo è rappresentato dall'individuazione di situazioni nelle quali è sempre illegittima la richiesta di informazioni da parte di determinati soggetti. È il caso, previsto da molte legislazioni, del datore di lavoro che non può raccogliere informazioni sulle opinioni politiche e sindacali del dipendente, che non può effettuare test riguardanti l'AIDS, che non può esigere informazioni genetiche (in questi ultimi casi il divieto è stato talvolta esteso anche alle società di assicurazioni). La rilevanza assunta dal rapporto tra servizi prestati e informazioni raccolte porta poi in primo piano il problema della disseminazione dei dati e degli strumenti che possono limitarla e controllarla. Questo vuol dire che assumono particolare rilevanza le tecniche 'di finalità' (che fa dipendere la legittimità della raccolta e della circolazione delle informazioni dall'uso primario a cui sono destinate: art. 9 l. nr. 675 del 1996). Il divieto di particolari modalità di raccolta delle informazioni può derivare direttamente dalla legge o essere affidato a un'iniziativa dell'interessato. E il principio di finalità assume una particolare intensità in una situazione in cui i dati personali dell'utente del servizio non sono ricercati o richiesti da chi dà il servizio, ma sono una conseguenza quasi 'naturale' della fornitura del servizio stesso. Di conseguenza, il riferimento a tale principio diventa essenziale per determinare l'uso legittimo dei dati raccolti, il tempo della loro conservazione, l'ammissibilità della loro interconnessione con informazioni contenute in altre banche dati. E proprio sul terreno delle interconnessioni s'incontra uno dei temi più difficili e inquietanti della fase attuale: quello della creazione di profili individuali e collettivi, che possono determinare forme pesanti di discriminazione e di stringente controllo. Non è sufficiente, infatti, vietare le decisioni amministrative e giudiziarie prese sulla base di soli profili automatizzati (art. 17 l. nr. 675 del 1996). La diffusione del ricorso ai profili può determinare forme di discriminazione di coloro i quali non corrispondono a modelli generali, accentuando la stigmatizzazione di ogni forma di devianza sociale e la penalizzazione delle minoranze. Si può determinare un ostacolo allo sviluppo stesso della personalità, bloccata intorno a profili storicamente determinati. Privilegiandosi i comportamenti 'conformi' ai profili prevalenti, si rende più difficile la produzione di nuove identità collettive, con rischi per la dinamica sociale e per la stessa organizzazione democratica. Di fronte a tutto questo, dev'essere fortemente affermato il 'diritto di lasciar tracce' senza ricevere perciò alcuna penalizzazione.
La costruzione della sfera privata
Il riconoscimento del diritto alla privacy come diritto fondamentale è accompagnato da un regime di eccezioni tendenti a determinarne l'accettabilità sociale e la compatibilità con interessi generali. Questa linea, oltre che implicita nella logica di molti sistemi giuridici, trova esplicita manifestazione negli stessi testi che proclamano appunto il carattere fondamentale di quel diritto. Così, la convenzione nr. 108 del Consiglio d'Europa sulla tutela dei dati personali (1981) prevede restrizioni alla tutela della r. per la salvaguardia di interessi particolarmente rilevanti, quali la sicurezza dello Stato, la sicurezza pubblica, gli interessi monetari dello Stato, la repressione dei reati (art. 9). Ci si trova così di fronte a un insieme di eccezioni che, per la loro quantità o per la vaghezza con cui sono espresse, possono divenire un serio ostacolo alla piena realizzazione della tutela delle informazioni. Proprio analizzando questo problema, tuttavia, si può cogliere l'importanza della tendenza che riporta il diritto alla privacy tra i diritti fondamentali, e non si limita a considerarlo un diritto tra gli altri o un semplice fascio di diritti. Se ci si muove nell'orbita dei diritti fondamentali, infatti, le limitazioni al diritto alla privacy possono essere ritenute legittime solo in caso di conflitto con altri diritti dello stesso rango.
Questo è un tema che può essere esaminato con riferimento ad alcuni specifici dati sensibili, quali sono certamente quelli riguardanti la salute. Si è ricordato prima che la particolare protezione attribuita a questi dati è giustificata non solo dal loro riferirsi a fatti particolarmente intimi, ma anche, e talvolta soprattutto, dal rischio che la loro conoscenza possa provocare discriminazioni. Se si parte da questa considerazione, possono essere correttamente affrontate alcune questioni nate intorno all'AIDS e ai dati riguardanti i caratteri genetici di una persona. Non v'è dubbio che la conoscenza, da parte del datore di lavoro o di una compagnia di assicurazioni, di informazioni su un soggetto affetto da infezione HIV o che presenti particolari caratteri genetici possa determinare discriminazioni. Queste possono assumere la forma del licenziamento, della mancata assunzione, del rifiuto di stipulare un contratto di assicurazione, della richiesta di un premio assicurativo elevato. Si spiega così la tendenza a vietare, salvo casi particolari, la comunicazione di tali informazioni a datori di lavoro e compagnie di assicurazione, rafforzando la tutela della privacy proprio per questa particolarissima categoria di dati sensibili.
Appare evidente che le informazioni genetiche assumono un valore costitutivo della sfera privata ben più forte di ogni altra categoria di informazioni personali. Ciò dipende dal fatto che esse riguardano la struttura stessa della persona, non sono modificabili per effetto della sola volontà dell'interessato (come accade per molti altri dati, dal nome alle opinioni), non possono essere rimosse o coperte dall'oblio (come accade per le informazioni riguardanti comportamenti del passato). Proprio per il loro carattere strutturale e permanente le informazioni genetiche costituiscono la parte più dura del nucleo duro della privacy, forniscono il profilo più definito della persona e possono, quindi, essere poste alla base di azioni discriminatorie, approdando a un gene based caste system, a una nuova organizzazione castale della società (Glover 1989, p. 49). Ci si trova vicini a un vero, possibile punto di rottura: più che in presenza di modalità di costruzione della sfera privata, siamo ormai di fronte a uno di quei casi di 'costruzione della vulnerabilità' indagati da E. Goffman (Goffman 1981, p. 184 e segg.). E il risultato finale può ben essere quello di aprire le porte a più insidiosi modelli di 'normalità' genetica, così legittimando forme drammatiche, e apparentemente sempre più oggettive, di discriminazione e di stigmatizzazione di singoli e di gruppi.
Vi sono, tuttavia, casi in cui non esiste alcun rischio di discriminazione, ed è presente, invece, il rischio di danni per altri soggetti, ai quali non siano state comunicate informazioni come quelle ricordate prima. Si pensi al partner che ignora l'infezione HIV della persona con la quale ha rapporti sessuali; o ai casi in cui la conoscenza dei dati genetici può essere determinante ai fini della decisione di concepire un figlio con una persona che abbia caratteri genetici tali da poter determinare un rischio per il nascituro. Il particolare intreccio tra due sfere private, e l'assenza dell'elemento della discriminazione, induce a ritenere che in questi casi l'interesse alla r. possa cedere di fronte all'interesse dell'altra persona, con la nascita di un dovere di comunicazione proprio in direzione di quest'ultima. Un caso particolarmente delicato è quello delle informazioni genetiche richieste ai parenti di chi intende sottoporsi a un test. La disponibilità delle informazioni o del materiale di un'altra persona, infatti, si rivelano indispensabili perché un determinato soggetto sia messo in grado di conoscere la propria situazione: la costruzione della propria sfera privata dipende così dalle determinazioni di un altro soggetto.
Il passaggio nell'area dei doveri di comunicazione consente di affrontare altri e più nuovi aspetti della 'costruzione' della sfera privata. Sono di fronte a noi casi, sempre più complessi, in cui non è solo in questione il potere dell'interessato di stabilire quali debbano essere le informazioni che egli stesso 'ammette' come elementi caratterizzanti la sua sfera privata. Emergono, spesso con evidenza drammatica, anche situazioni in cui determinati soggetti hanno la possibilità di prendere iniziative che, incidendo sul patrimonio informativo di una persona, possono determinarne in maniera persino definitiva la condizione esistenziale.
L'accento si sposta così sul 'diritto di non sapere', che non soltanto assume un rilievo particolare per ciò che riguarda le modalità di costruzione della sfera privata, ma può divenire un fattore essenziale per la libera costruzione della personalità. Proprio considerando quel che si può o si deve sapere, ci avvediamo che sono in questione modelli culturali tra loro assai diversi. La conoscenza dev'essere considerata come un valore assoluto? Quali sono gli effetti di un'integrale e precoce rivelazione del 'destino biologico'? Un 'eccesso' di conoscenze non può rivelarsi un limite all'autonomia, e dunque alla libera costruzione della personalità? Vale la pena di ricordare, almeno, che H. Jonas ci richiama alla 'necessità del caso', ci dice che il diritto di non sapere "appartiene inscindibilmente alla libertà esistenziale" (Jonas 1987, p. 623).
Se si riconosce il diritto di non sapere, risulta influenzato anche il modo di concepire la privacy. Il potere di controllare le informazioni che riguardano una data persona, che abbiamo visto caratterizzare una più aggiornata definizione del right of privacy, si manifesta anche come potere negativo: cioè come diritto di escludere dalla propria sfera privata una determinata categoria di informazioni. La privacy si specifica così come diritto di controllare il flusso di informazioni riguardanti una persona sia 'in uscita' sia 'in entrata': una tendenza, questa, confermata anche in Italia dall'art. 10 del d. legisl. 13 maggio 1998 nr. 171, che vieta l'invio di messaggi via fax senza il consenso del destinatario. Qui siamo in presenza di uno svolgimento, conforme alla tecnologia considerata, di un diritto già riconosciuto in molti casi, quello di veder eliminato il proprio indirizzo o numero telefonico da liste nominative, proprio per evitare di ricevere comunicazioni o materiali non graditi. Si può, a questo punto, articolare ulteriormente la definizione della privacy. Essa si presenta come diritto di mantenere il controllo sulle proprie informazioni e di determinare le modalità di costruzione della propria sfera privata. L'oggetto di questo diritto si specifica e può essere identificato nel 'patrimonio informativo attuale o potenziale' di un soggetto.
Sorveglianza e classificazione
Se si considerano le nuove tecnologie di raccolta delle informazioni, che caratterizzano i rapporti tra venditori e acquirenti, tra fornitori e utenti di servizi, tra gestori e frequentatori di siti su Internet, ci si avvede che, in un numero crescente di casi, si producono i cosiddetti transactional data, cioè informazioni generate dal fatto stesso che tra determinati soggetti si è prodotta una relazione contrattuale che consente al venditore o al fornitore di servizi di acquisire automaticamente una serie di informazioni sull'utente, e che riguardano la sua identificazione, i tempi e i luoghi di utilizzazione del servizio, le sue scelte (e quindi i suoi gusti), le modalità di pagamento preferite, e così via. Questi dati non solo possono essere richiamati tutte le volte che il gestore del sistema lo ritenga opportuno (per finalità statistiche, per impostare campagne pubblicitarie, per tracciare profili degli utilizzatori che possono anche essere ceduti a terzi), ma compaiono automaticamente tutte le volte che lo stesso soggetto si rimette in contatto con il gestore di una rete, con il fornitore di un bene o di un servizio. Ognuno è implacabilmente seguito dal suo passato. Diventa sempre più arduo non lasciar tracce, o cancellare quelle che indicano quali sentieri abbiamo percorso.
Sono certo possibili strategie volte a contrastare queste logiche e queste forme organizzative. Poiché spesso è assai difficile, e in taluni casi del tutto incompatibile con la tecnologia prescelta, escludere ogni forma di registrazione dell'attività degli operatori, si ricorre, per es., a divieti di utilizzazione dei dati raccolti da parte di alcuni soggetti o a regole che vietano il loro uso per specifiche finalità. Più spesso si cerca di escludere la possibilità di risalire, grazie a quei dati, a una persona determinata. Le informazioni raccolte, infatti, possono essere rese anonime, riferendole non a un soggetto determinato, ma al gruppo di dipendenti all'interno del quale lavora. Viene così meno la possibilità di difesa collettiva. In tal modo, però, si riesce a ottenere una difesa della r. individuale, non a mettere in discussione la logica della sorveglianza, che è solo spostata dal singolo al gruppo. Non è arrestata l'erosione lenta ma sempre più diffusa dell'area della privacy. Le tecnologie della comunicazione e dell'informazione manifestano così una sorta di 'naturale' tendenza a entrare in conflitto con il diritto di costruire liberamente la propria sfera privata, inteso come autodeterminazione informativa, come potere di controllare la circolazione delle proprie informazioni. Tutto ciò viene presentato come un prezzo obbligato per godere delle crescenti opportunità offerte dalla società dell'informazione. In concreto, questo vuol dire che la contropartita necessaria per ottenere un bene o un servizio non si limita più alla somma di denaro richiesta, ma è necessariamente accompagnata da una cessione di informazioni. In questo scambio non è più solo il patrimonio di una persona a essere implicato. Si è obbligati a mettere in gioco il sé, la propria persona, con conseguenze che possono andare al di là della singola operazione economica, e fanno nascere una sorta di possesso permanente della persona da parte di chi detiene le informazioni sul suo conto.
La novità è radicale. I rischi della società della sorveglianza sono stati tradizionalmente riferiti all'uso in largo senso politico delle informazioni per controllare i cittadini, connotando così quelle società come autoritarie o dittatoriali. Nella prospettiva che si viene delineando, invece, l'idea di sorveglianza invade ogni momento della vita e si presenta come un connotato delle relazioni di mercato, la cui fluidità è posta direttamente in relazione con la possibilità di disporre liberamente di una massa crescente di informazioni. Si materializza così l'immagine dell'uomo 'di vetro', vero cittadino di questo nuovo mondo. Un'immagine che, non a caso, ci arriva dritta dal tempo del nazismo e che, comunque, ci propone una forma di organizzazione sociale profondamente mutata, con una sorta di inarrestabile trasformazione della 'società dell'informazione' in 'società della sorveglianza'. Ma non è questo soltanto il punto in cui le nuove forme di controllo si distaccano profondamente da quelle già conosciute e indagate. Nel mondo dei consumi e della logica di mercato, infatti, la sorveglianza non ha come obiettivo impedire o scoraggiare determinati comportamenti. Queste possono anche rivelarsi finalità del tutto estranee o indifferenti per chi raccoglie sistematicamente informazioni: anzi, l'interesse è abitualmente quello di far sì che i comportamenti di consumo vengano il più possibile ripetuti. L'obiettivo vero è quello della 'classificazione': la società della sorveglianza si connota progressivamente come società della classificazione.
In una dimensione che si fa sempre più differenziata e complessa, la richiesta di privacy non si manifesta solo nella sua forma tradizionale, come diritto di impedire ad altri la raccolta e la diffusione di informazioni sull'interessato. Nell'ambito della comunicazione elettronica essa può esprimersi anzitutto come bisogno di anonimato o, per meglio dire, come esigenza di assumere l'identità preferita, presentandosi con un nome, un sesso, un'età che possono essere diversi da quelli effettivamente corrispondenti ai dati del soggetto. Si chiede così la tutela di un'identità nuova, di un'intimità costruita, come condizione necessaria per svolgere la propria personalità, per attingere in pieno la libertà esistenziale, realizzando così il diritto al libero sviluppo della personalità solennemente riconosciuto dal par. 2 della Costituzione tedesca ("ognuno ha diritto al libero sviluppo della propria personalità, purché non violi i diritti altrui, l'ordinamento costituzionale o la legge morale"), e, in modo meno netto, dall'art. 2 della Costituzione italiana, dove si afferma che "la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità". Ma l'appello alla difesa della privacy non viene soltanto da chi pretende una garanzia totale della r., fino all'anonimato. Con altrettanta intensità è proposto da quanti vedono la loro privacy violata dai comportamenti di chi, rimanendo anonimo, rende impossibile, o difficile, l'adozione di contromisure. L'anonimato, infatti, può essere usato per violare la privacy altrui. Che cosa accade se un soggetto, che ha assunto un'identità diversa da quella reale, diffonde su una rete notizie riservate o diffamatorie sul conto di un altro soggetto? L'assunzione di un'identità diversa attribuisce anche il diritto di invadere impunemente l'altrui sfera privata? Come si risolve il conflitto tra queste contrapposte invocazioni della privacy, entrambe riconducibili all'esigenza di costruire liberamente la propria sfera privata? Si è di fronte a un classico problema di bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti, di misura dei diritti. Non è pensabile che qualcuno possa essere obbligato ad assistere passivamente alla divulgazione di informazioni che mettono a nudo aspetti intimi, disegnano un'immagine falsa, possono produrre danni. Fino a ieri questo insieme d'interessi, sinteticamente ricondotti nell'ambito della privacy, poteva trovarsi in conflitto con il diritto alla libera manifestazione del pensiero, con il diritto di cronaca: oggi si profila un altro tipo di conflitto, tutto collocato nell'area della privacy, tra interesse all'anonimato e interesse a conoscere l'identità di chi, presentandosi in forme anonime o con identità diverse da quella ufficiale, tiene comportamenti contrari alla r. altrui. Si gioca una partita più complessa tra una privacy attiva e una passiva.
Le nuove dimensioni della privacy
La descrizione del nuovo paesaggio tecnologico, e delle trasformazioni che porta con sé, si presenta così non come un discorso concluso, ma come la via che dev'essere percorsa per giungere a una comprensione piena degli effetti sociali delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione. E questi effetti, con riferimento specifico alla privacy, possono essere sintetizzati nel modo seguente: siamo passati da un mondo in cui le informazioni personali erano sostanzialmente sotto il controllo esclusivo degli interessati a un mondo di informazioni condivise con una pluralità di soggetti; siamo passati da un mondo in cui la cessione delle informazioni era nella gran parte dei casi l'effetto di relazioni interpersonali, sì che la forma corrente di violazione della privacy era il pettegolezzo, a un mondo in cui la raccolta delle informazioni avviene attraverso transazioni astratte; siamo passati da un mondo in cui il solo problema era quello del controllo del flusso delle informazioni in uscita dall'interno della sfera privata verso l'esterno a un mondo nel quale diventa sempre più importante il controllo delle informazioni in entrata, come dimostra l'importanza crescente assunta dal diritto di non sapere, dall'attribuzione ai singoli del potere di rifiutare interferenze nella loro sfera privata come quelle derivanti dall'invio di materiale pubblicitario e dal marketing diretto; viviamo in un mondo nel quale cresce il valore aggiunto delle informazioni personali, con un cambiamento di paradigma, dove il riferimento al valore in sé della persona e alla sua dignità diviene secondario rispetto alla trasformazione dell'informazione in merce; viviamo in un mondo in cui si sta acquistando la consapevolezza di riflettere sul fatto che, finora, le tecnologie dell'informazione e della comunicazione hanno troppo spesso assunto i caratteri di tecnologie sporche, avvicinandosi piuttosto al modello delle tecnologie industriali inquinanti, sì che diventa centrale favorire o imporre l'introduzione nell'ambiente informativo di tecnologie pulite; viviamo in un mondo in cui proprio le tecnologie dell'informazione e della comunicazione hanno contribuito a rendere sempre più labile il confine tra sfera pubblica e sfera privata, e le possibilità di una libera costruzione della sfera privata e di uno sviluppo autonomo della personalità sono diventate condizioni per determinare l'effettività e l'ampiezza della libertà nella sfera pubblica.
Così cambia profondamente la funzione sociopolitica della privacy, che si proietta ben al di là della sfera privata, per divenire elemento costitutivo della cittadinanza. Ma questo significa pure che la misura sociale della privacy non può essere determinata con riferimento a criteri settoriali, come quelli tratti, per es., dall'universo del consumo. La privacy, allora, s'impone come diritto fondamentale; si specifica come diritto all'autodeterminazione informativa e, più precisamente, come diritto a determinare le modalità di costruzione della sfera privata nella loro totalità; si presenta, infine, come precondizione della cittadinanza dell'età elettronica e, in quanto tale, non può essere affidata unicamente alla logica dell'autoregolamentazione o ai rapporti contrattuali.
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Riservatezza e ricerca storica
Le problematiche relative alla r. sono state anche oggetto di disciplina con il d. legisl. nr. 281 del 30 luglio 1999 che ha dettato le modalità di trattamento dei dati personali per scopi di ricerca storica, statistica e scientifica, tenendo conto delle raccomandazioni del Consiglio d'Europa (23 sett. 1983 nr. 10, 30 sett. 1997 nr. 18). Ripercussioni della l. 31 dic. 1996 nr. 675 si erano infatti evidenziate nel campo della ricerca storica sull'età contemporanea condotta sui documenti d'archivio.
In base alle nuove norme, i documenti contenenti dati personali sono liberamente consultabili presso gli archivi di Stato, di enti pubblici e di privati, trascorsi 40 anni dalla loro data; il termine di 70 anni permane se i dati riguardano lo stato di salute o la vita sessuale o rapporti riservati di vita familiare. Prima del decorso di tali termini, l'accesso ai documenti amministrativi è regolato dalla l. 7 ag. 1990 nr. 241. Inoltre, la consultazione di documenti di carattere riservato può essere comunque autorizzata per finalità di ricerca storica dal ministro dell'Interno "previo parere del direttore dell'archivio di Stato competente e udita la commissione per le questioni inerenti alla consultabilità degli atti di archivio riservati, istituita presso il Ministero".
Non può assumere rilievo la circostanza che il Testo unico in materia di beni culturali, approvato con d. legisl. 29 ott. 1999 nr. 490, abbia riprodotto l'art. 21 del d.p.r. 30 sett. 1963 nr. 1409, concernente i limiti alla consultabilità dei documenti, nella sua vecchia formulazione, in quanto nel Testo unico sono inserite solo le disposizioni legislative in vigore al 31 ottobre 1998. *
bibliografia
Sul tema, v. in partic. la rivista Passato e presente, 2000, 50.