Abstract
La risoluzione del contatto rappresenta il rimedio ad un vizio funzionale del contratto valido che inibisce la realizzazione del programma negoziale concordato tra le parti ed è esperibile, nei modi e nei tempi e con i presupposti previsti dal codice civile, nei casi di inadempimento, impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile alla parte a ciò tenuta ed eccessiva onerosità sopravvenuta. Determina lo scioglimento del vincolo con effetti normalmente retroattivi, liberatori e restitutori.
La risoluzione è lo scioglimento del contratto, valido, per un difetto funzionale sopraggiunto rispetto alla sua stipulazione; il vizio, infatti, riguarda il rapporto e non l’atto e non è dunque genetico, come nelle ipotesi di invalidità. Esso rappresenta un rimedio ai casi in cui è la stessa funzione, o causa, concreta del contratto a non realizzarsi (sul punto v., per tutti, Cataudella, A., I contratti. Parte generale, IV ed., Torino, 2014, 237 ss.) in quanto il programma negoziale, pur validamente concordato tra le parti, non si attua. Ciò può accadere per tre possibili cause: l’inadempimento di una parte; l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore; l’eccessiva onerosità sopravvenuta di una prestazione. La legge, peraltro, prevede discipline di settore ove la risoluzione è specificamente prevista non per difetti sopravvenuti ma coevi alla conclusione, come nel caso di vendita di cosa viziata, ex art. 1492 c.c. (sul punto v. Roppo, V., Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, II ed., Milano, 2011, 881 ss.).
L’effetto risolutivo può altrimenti sortire anche dal cd. mutuo dissenso, che ricorre quando le parti stesse con un successivo accordo (art. 1321 c.c.) estinguono il precedente (v. per tutti Luminoso, A., Il mutuo dissenso, Milano, 1980, che analizza i diversi profili della figura, ascritta alla categoria del contrarius actus; Bianca C.M., Diritto civile, 3, Il contratto, Milano, 2000, 735 ss.).
Quanto ai modi di scioglimento essi possono avere natura giudiziale, allorché a seguito di un giudizio venga pronunciata una sentenza costitutiva che elimina il vincolo, ovvero natura stragiudiziale, in cui l’effetto risolutivo si produce in assenza di una sentenza, in via automatica, in dati casi (vedi infra § 2.2).
A norma dell’art. 1453 c.c., la risoluzione per inadempimento riguarda solo i contratti a prestazioni corrispettive, o sinallagmatici, – ove ciascuna parte è gravata da una prestazione e questa trova la sua ragion d’essere nell’altra, gravante sulla controparte – sebbene vi siano ipotesi isolate altrove nel codice civile che regolano previsioni particolari di risoluzione ove non è dato ravvisare corrispettività (ad. es. in tema di donazione modale, ex art. 793 c.c.: sul punto v. del Prato E., Le basi del diritto civile, I, Torino, 2014, 211 ss. e, più diffusamente sugli «orizzonti della risoluzione per inadempimento», Id., Ai confini della risoluzione per inadempimento, in Contratti, 2013, 653 ss.; Tamponi, M., La risoluzione per inadempimento, in Gabrielli, E., a cura di, I contratti in generale, II, Torino, 1999, 1481 ss.; ritiene che trattasi di eccezioni che non consentono di generalizzare il rimedio Cataudella, A., I contratti. Parte generale, cit., 238, nota 293; sul campo di applicazione, in chiave problematica, di questa specie di risoluzione, si rinvia per un’estesa trattazione a Belfiore, A., Risoluzione del contratto per inadempimento, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 1312 ss.; Dalmartello, A., Risoluzione del contratto, in Nss.D.I., XVI, Torino, 1969, 127 ss.; una compiuta ricostruzione delle posizioni della dottrina sul fondamento del rimedio in Sicchiero, G., La risoluzione per inadempimento, Comm. c.c. Schelsinger-Busnelli, Milano, 2007, 36 ss.; Amadio, G., Inattuazione e risoluzione: la fattispecie, in Tratt. Roppo, V, Milano, 2006, 1 ss.).
Di recente è stato posto in dottrina anche l’interrogativo, speculare, circa l’idoneità del rimedio risolutorio a «valere per tutte le lesioni della corrispettività, a prescindere dal titolo del rapporto da cui derivano» (del Prato, E., Corrispettività senza contratto e rimedio risolutorio, in Obbligazioni e contratti, 2012, 407). Superando gli «schemi formalistici», tale ipotesi sollecita una «interpretazione funzionale dell’istituto» che consenta di esperire il rimedio – con l’applicazione di ogni altra disposizione attigua che non presupponga un contratto, come, appunto, la diffida ex art. 1454 c.c. – ogni qualvolta ricorra la sua ragion d’essere, ossia la violazione del nesso di corrispettività tra le prestazioni, anche quando non scaturenti da contratto ma da fonte legale (come nel caso, esaminato come emblematico, del rapporto tra retraente e retrattato ove sia inadempiuto dal primo l’obbligo di pagare il prezzo; o in quello dell’inadempimento di specifiche obbligazioni precontrattuali ex lege se non sia previsto rimedio ad hoc e non vi sia spazio per il recesso (del Prato, E., Ai confini della risoluzione per inadempimento, cit., 653 ss.; Id., Le basi del diritto civile, cit., 211 ss.).
L’inadempimento è la mancata o inesatta esecuzione della prestazione a fronte della quale la parte non inadempiente, se non ha modo o interesse ad eccepire l’inadempimento, rifiutandosi di adempiere a sua volta alla propria –come ammesso dall’art. 1460 c.c. nel caso in cui non siano previsti termini diversi per adempiere o non sia comunque contrario a buona fede – (in tema v., per tutti, Bigliazzi Geri, L., Della risoluzione per inadempimento, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, t. 2, Bologna-Roma, 1988, 1 ss.) ha due possibili strade da percorrere: chiedere l’esecuzione attraverso l’azione di adempimento ovvero provocare lo scioglimento del vincolo. Quest’ultimo può avvenire in due modi, in via giudiziale o stragiudiziale, ovverosia attraverso o senza una sentenza che produca tale effetto.
Posto che la risoluzione è un rimedio rispetto ad un assetto di interessi che non si è attuato, per potersi dar luogo ad essa occorre, a norma dell’art. 1455 c.c., che l’inadempimento sia di «non scarsa importanza», idoneo quindi a far venir meno nell’altra parte l’interesse all’adempimento e, di contro, a non giustificare la sua prestazione (per un’analitica ricostruzione del requisito della gravità attraverso il collegamento con gli effetti della risoluzione regolati dall’art. 1458 c.c., v. Belfiore, A., Risoluzione del contratto per inadempimento, cit., 1319 ss.; ).
Il criterio, centrale nell’ottica di un rimedio sinallagmatico, della gravità dell’inadempimento è dettato onde orientare il giudice nell’individuazione tanto della natura della prestazione – principale ovvero accessoria – quanto della misura dell’eventuale adempimento parziale. Tali dati vanno apprezzati alla stregua di parametri oggettivi per valutare se il grado di sacrificio all’interesse della parte non inadempiente (che è doveroso considerare ex art. 1455 c.c.) sia tale da compromettere l’assetto di interessi, complessivamente considerato, al punto da non farlo sopravvivere ovvero se, al contrario, non incida in modo così intenso e consenta al vincolo di essere mantenuto.
Il parametro assume anche una valenza soggettiva se riferito al contegno delle parti ed al concreto interesse del contraente fedele all’esatto e tempestivo adempimento (sui criteri soggettivi ed oggettivi di valutazione v. Nanni, L., La risoluzione del contratto per inadempimento, Sez. I, Disciplina generale, Visintini, G., diretto da, Trattato della responsabilità contrattuale, I, Padova, 2009, 440 ss.; Id., Sub art. 1455, in Nanni, L.-Costanza, M.- Carnevali, U., Risoluzione per inadempimento, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, I, t. 2, Bologna-Roma, 2007, 8 ss.); le articolate posizioni sono riportate anche da Carnevali, U., La risoluzione del contratto per inadempimento. Premesse generali, in Carnevali, U.-Gabrielli, E.-Tamponi, M., La risoluzione, in Tratt. Bessone, XIII, t.8.2, Torino, 2011, 22.
La valutazione sull’importanza dell’inadempimento e sulla sua idoneità a fondare la risoluzione involge un giudizio di merito, rimesso alla discrezionale valutazione dei giudici di merito e non è suscettibile, quindi, di revisione in sede di legittimità, ove risulti correttamente e logicamente motivato (Cass., 20.11.2012, n. 20305; Cass., 16.5.2012, n. 7630).
Talvolta i caratteri che deve assumere l’inadempimento sono dettati dallo stesso legislatore, come in alcuni contratti tipici (ad es. art. 1584 c.c. per la locazione) o in quelli dei consumatori (art. 130, co. 7, c. cons.).
In dottrina ci si è chiesti se sia prospettabile, e con quali conseguenze, l’inadempimento reciproco, ipotesi che viene prevalentemente esclusa in ragione del tenore dell’art. 1453 c.c. che contrappone una parte, fedele al programma negoziale, all’altra, inadempiente; qualora entrambe promuovano il giudizio, la questione della reciprocità si pone rispetto all’addebito ad una sola di esse dell’inadempimento, con le note conseguenze dell’accoglimento di una delle due domande sul piano risarcitorio (sulla questione v. Cataudella, A., I contratti. Parte generale, cit., 244 ss.; Sacco, R., Risoluzione per inadempimento, in Dig. civ., XVIII, Torino, 1998, 62; Carnevali, U., La risoluzione per inadempimento, in Luminoso, A.-Carnevali, U.-Costanza, M., Risoluzione per inadempimento, cit, I, Bologna-Roma, 1990, 76 ss.). Così come per la nullità ex art. 1420 c.c., e specchio della medesima ratio conservativa, l’art. 1459 c.c. prevede che nei contratti plurilaterali, caratterizzati dalla comunione di scopo, l’inadempimento di una sola di esse non può comportare la risoluzione del vincolo anche per le altre, salva l’eventuale essenzialità nell’assetto complessivo del negozio della prestazione venuta a mancare (individua la nota comune alle due categorie di contratti nella sinallagmaticità, che pur si presenta «in due atteggiamenti diversi», e quella differenziale nella ‘direzione’ delle prestazioni delle parti Dalmartello, A., Risoluzione del contratto, cit., 128).
Gli effetti della domanda giudiziale sono disciplinati dal secondo e terzo comma dell’art. 1453 c.c. che regolano il meccanismo della scelta, adottata dal contraente fedele, tra azione di adempimento e risoluzione: essa è reversibile, qualora sia richiesto l’adempimento, irreversibile nel caso in cui si chieda, invece, la risoluzione.
Mentre, nel primo caso, infatti, i tempi per la definizione del giudizio possono fare venire meno l’interesse a perseguire il contratto e indurre a mutare la scelta originaria, non penalizzando la controparte che, per evitarlo, potrebbe adempiere; nel secondo caso, prevale l’ottica di non gravare eccessivamente la parte inadempiente che, investita della domanda di risoluzione, confida di non essere più richiesta di adempiere e dunque non si terrà pronta indefinitamente a farlo (la varietà delle possibili posizioni delle parti e dei loro interessi è chiaramente illustrata da Roppo, V., Il contratto, cit., 893 ss., il quale mette in evidenza anche la diversità di presupposti e di onere della prova tra le due alternative).
Che dalla domanda il debitore non possa più adempiere (art. 1453, co. 3, c.c.) è stato interpretato come preclusione alla possibilità di sanare ex post un inadempimento idoneo allo scioglimento ma la ratio non è quella di «impedire, a fronte di una domanda di risoluzione infondata, l’esecuzione degli obblighi nascenti da contratto» (Cataudella, A., I contratti. Parte generale, cit., 249; nonché, per un’analitica disamina della fattispecie risolutoria e della rilevanza del momento della domanda giudiziale, Id., Effetti della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento, in Iuris vincula. Studi in onore di Mario Talamanca, Napoli, II, 2001, 24). Se per le prestazioni non eseguite si pone la questione del ritardo che non sarà causa di risoluzione se molto ridotto e quindi di «scarsa importanza», in caso di adempimento tardivo precedente la domanda del creditore occorrerà allora vagliare la tollerabilità del ritardo che sarà attestata dalla proposizione stessa della domanda. Stante, infatti, l’art. 1453, co. 3, la cui ratio è, nella sola ipotesi di domanda fondata, fissare un punto fermo ai fini del giudizio (Cataudella, A., Effetti della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento, cit., 24), non dovrebbe essere precluso al creditore che intende rifiutare l’adempimento tardivo di proporre la risoluzione e concesso comunque al debitore inadempiente il potere di paralizzare tale domanda: essa è «elemento sufficiente, ma non necessario, di quella tardività che conduce alla risoluzione» (Sacco, R., Risoluzione per inadempimento, cit., 61); pertanto «il diritto di rifiuto non può che sussistere nei limiti stessi in cui sussiste il diritto alla risoluzione» ovverosia «solo quando il ritardo del debitore presenta i requisiti richiesti dall’art. 1455» (Carnevali, U., La risoluzione per inadempimento, cit., 98; per una rassegna delle opinioni in merito, v. anche Tamponi, M., La risoluzione per inadempimento, cit., 1503 ss.; Scalfi, G., Risoluzione del contratto. I) Diritto civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1994, 5 ss.).
Quanto all’onere della prova ed alla sua ripartizione, ricomponendo un conflitto di massime, presente anche in dottrina, le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che, si verta in azione di adempimento, di risoluzione o di risarcimento, il creditore è tenuto in ogni caso a provare solo la fonte del proprio diritto e può limitarsi alla mera allegazione dell’inadempimento o dell’inesatto adempimento; incombendo invece al debitore l’onere di dimostrare il fatto impeditivo o estintivo della pretesa di controparte (Cass., S.U., 30.10.2001, n. 13533; in dottrina, per le contrapposte opinioni v., tra tanti, Roppo, V., Il contratto, cit., 893, e Sacco, R., Il contratto, cit., 642 ss.; per una ricostruzione analitica del risalente dibattito, Carnevali, U., La risoluzione giudiziale, in Carnevali, U.-Gabrielli, E.-Tamponi, M., La risoluzione, cit., 107 ss.).
Discussa risulta anche la rilevanza dell’imputabilità dell’adempimento: se cioè sia necessario anche per la risoluzione -e non solo per l’azione risarcitoria- che la mancata esecuzione sia ascrivibile a colpa, o dolo, del debitore: a chi eleva l’imputabilità a «elemento della fattispecie» (Belfiore, A., Risoluzione del contratto per inadempimento, cit., 1316) si contrappone chi, muovendo dalla natura di rimedio al difetto del sinallagma, esclude, invece, tale rilievo ritenendo sufficiente il requisito oggettivo del mancato o difettoso adempimento (Costanza, M., La diffida ad adempiere, in Luminoso, A. - Carnevali, U. - Costanza, M., Risoluzione per inadempimento, cit., 437; ricostruisce doviziosamente il relativo dibattito Sicchiero, G., La risoluzione per inadempimento, cit., 160 ss.).
Per provocare unilateralmente lo scioglimento del contratto senza i tempi e i modi di un giudizio, le parti hanno lo strumento di autotutela della diffida ad adempiere previsto dall’art. 1454 c.c. che consiste in un invito ultimativo, o intimazione, scritto ad adempiere entro un termine definito, non inferiore a 15 giorni, ma il termine è –espressamente- derogabile.
Si configura quale negozio giuridico unilaterale, recettizio e formale (Tamponi, M., La risoluzione per inadempimento, cit., 1513): inequivoco deve essere tanto il termine quanto l’avvertenza delle conseguenza del mancato adempimento entro lo stesso; l’effetto risolutivo è automatico e si produce allo spirare infruttuoso del termine concesso; l’eventuale pronuncia circa la avvenuta risoluzione di diritto, per mancato adempimento nel termine concesso, sarebbe di mero accertamento ma il giudice, che ne fosse investito, dovrebbe tuttavia valutare la ricorrenza del presupposto della gravità dell’inadempimento (Cass., 29.11.2012, n. 21237).
Con la clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.), invece, sono le parti stesse che in sede di stipula prevedono quale eventuale inadempimento giustificherà la risoluzione e la «ragion d’essere dell’art. 1456 è proprio quella di sottrarre al giudice il potere di valutare la gravità o meno dell’inadempimento» (Belfiore, A., Risoluzione del contratto per inadempimento, cit., 1311). Tale valutazione, infatti, viene fatta ex ante nell’accordo.
Appunto per questo, per giurisprudenza costante (ex multis, Cass., 27.1.2009, n. 1950), occorre che le obbligazioni, il cui inadempimento è contemplato nella clausola risolutiva, siano indicate in modo puntuale e non è ammesso un generico riferimento a tutte quelle complessivamente nascenti dal contratto: questa si configurerebbe clausola di stile e l’eventuale inadempimento, soggiacendo al normale vaglio di cui agli artt. 1453 e 1455 c.c., non produrrebbe di per sé l’effetto risolutivo declamato dalla clausola (Tamponi, M., La clausola risolutiva espressa, in Carnevali, U.-Gabrielli, E.-Tamponi, M., La risoluzione, cit., 148 ss.; Busnelli, F.D., Clausola c) Clausola risolutiva, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, 196 ss.). In ogni caso tale effetto, pur prescindendo da una sentenza, non è automaticamente connesso all’inadempimento, anche quando sia desumibile da un termine per l’esecuzione, ma dipende -ed è provocato- dalla dichiarazione della parte che lo ha subito di volersi avvalere della clausola, salvaguardandosi così l’apprezzamento della stessa, nel caso concreto, per un adempimento tardivo, qualora ne sussista il relativo interesse (trattasi di un diritto potestativo: cfr. Costanza, M., Sub art. 1456, in Nanni, L.-Costanza, M.- Carnevali, U., Risoluzione per inadempimento, cit., 46).
Il termine essenziale (art. 1457 c.c.), infine, incide sulla sopravvivenza o meno del vincolo in quanto esso manifesta il valore assunto dal suo spirare rispetto all’economia dell’affare; incide quindi sulla funzione economica individuale del contatto consentendo alla parte che non ha ricevuto la prestazione entro una certa data di lasciare che il contratto si risolva di diritto, se non dichiara entro tre giorni dalla scadenza, per inibire detto effetto, di volerla ricevere comunque.
Posto che la mera fissazione pattizia di un termine, ad es. con la formula «entro e non oltre» non è da sola ritenuta idonea (cfr. Sicchiero, G., La risoluzione per inadempimento, cit., 657 ss; pacifico in giurisprudenza: Cass., 25.10.2010, n. 21838), la essenzialità non si presume ma si desume da indici rivelatori della perdita di interesse in capo al creditore (Tamponi, M., Il termine essenziale, in Carnevali, U.-Gabrielli, E.-Tamponi, M., La risoluzione, cit., 173 ss.; Natoli, U., L’attuazione del rapporto obbligatorio. Appunti delle lezioni, 2^ ed. riv. e ampl., Milano, 1966, 101 ss.), legati alla volontà manifestata dalle parti ovvero alla natura dell’affare che suggerisca l’inutilità di una prestazione tardiva.
Quanto all’operatività, per alcuni la scadenza è di per sé già atta a sciogliere il contratto (Trimarchi, P., Il contratto: inadempimento e rimedi, Milano, 2010, 70; Costanza, M., Sub art. 1457, in Nanni, L.-Costanza, M.- Carnevali, U., Risoluzione per inadempimento, cit., 1133); per altri l’effetto si produce dopo i tre giorni, essendo impedito e non rimosso dall’eventuale comunicazione del creditore (Natoli, U., L’attuazione del rapporto obbligatorio. Appunti delle lezioni, cit., 101; su modalità ed effetti della comunicazione v. Sicchiero, G., La risoluzione per inadempimento, cit., 160 ss.).
L’imputabilità dell’inadempimento è la nota che consente di distinguere le due cause di risoluzione: si versa in quella per impossibilità sopravvenuta quando la prestazione non sia stata eseguita, e quindi il sinallagma si è spezzato, per fatti che non sono dipendenti dal debitore: quest’ultimo, impossibilitato alla sua –e quindi liberato-, non può, a norma dell’art. 1464 c.c., esigere la prestazione della controparte e deve rendere quella ricevuta.
La disciplina della fattispecie trova riscontro in quella delle obbligazioniin generale (artt. 1218, 1256 ss. c.c.), in tema di inadempimento ed estinzione, con la quale va dunque coordinata.
L’impossibilità deve necessariamente essere: sopraggiunta, se fosse coeva alla stipula il contratto sarebbe nullo (artt. 1346 e 1418 c.c.); anteriore all’eventuale inadempimento; definitiva, quella temporanea potrebbe essere compatibile con un persistente interesse del creditore. Infine essa può essere parziale o totale: nel primo caso l’art. 1464 c.c. consente alla parte non impossibilitata di ridurre la sua prestazione ovvero di recedere, in assenza di un interesse apprezzabile all’adempimento parziale; solo nel secondo caso si produce in modo automatico la risoluzione del contratto ed infatti la norma rappresenta il riflesso dell’estinzione dell’obbligazione per impossibilità sopravvenuta, con la conseguenza che l’eventuale sentenza, anche su rilievo d’ufficio, avrà natura di mero accertamento (in particolare sulla impossibilità di prestare e su quella di ricevere e sul “substrato” della prestazione si rinvia a Carnevali, U., L’impossibilità sopravvenuta, in Carnevali, U.-Gabrielli, E.-Tamponi, M., La risoluzione, cit., 327).
L’art. 1465 c.c. in particolare fissa una regola di allocazione del rischio (res perit domino) ponendo quello del perimento del bene (e quindi dell’impossibilità della sua consegna) a carico del titolare del diritto che sia stato trasferito per effetto del mero consenso ex art. 1376 c.c. (cfr. Carnevali, U., L’impossibilità sopravvenuta, cit., 305 ss.; più in generale, nell’ottica dell’allocazione del rischio nel rapporto obbligatorio, v. Cabella Pisu, L., Impossibilità sopravvenuta, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2002, passim; Delfini, F., Dell’impossibilità sopravvenuta, in Comm. c.c. Schlesinger-Busnelli, Milano, 2007, 110 ss.); essa tuttavia esprime un principio generale in tema di rischio contrattuale, in base al quale le sopravvenienze «sono subite dalla parte su cui incidono negativamente, senza che possa essere scalfita l’efficacia del contratto» (del Prato E., Le basi del diritto civile, cit., 219).
Anche per questa causa di risoluzione, e per le stesse ragioni, vale la regola, ribadita all’art. 1466 c.c., che il contratto plurilaterale non viene caducato dall’impossibilità della prestazione per una sola delle parti (sul punto v. Cabella Pisu, L., Impossibilità sopravvenuta, cit., 176).
In giurisprudenza la casistica di pronunce in tema attiene all’incidenza dei fatti più disparati: dagli eventi atmosferici, alla sopraggiunta inidoneità fisica del debitore, al c.d. factum principis, ossia il provvedimento di un’autorità pubblica che inibisca una delle prestazioni, come la concessione in godimento di un’immobile o l’esercizio di un’attività imprenditoriale o lavorativa (per una ricca rassegna si rinvia a Marchesini, C., L’impossibilità sopravvenuta nei recenti orientamenti giurisprudenziali, Milano, 2008, 293 ss.).
La risoluzione qui si configura quale rimedio a sopravvenienze che, pur non impedendo la prestazione, abbiano alterato eccessivamente la misura dello scambio. L’ambito è circoscritto ai contratti ad esecuzione continuata, periodica o differita, ovverosia quelli dove le parti «programmano un assetto di interessi destinato a realizzarsi col tempo e, quindi, sono tenute a fare delle previsioni ed a calcolare i rischi inerenti alle pattuizioni» (Cataudella, A., I contratti. Parte generale, cit., 262 s.; in argomento, Macario, F., Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, passim.). Ulteriore specificazione è, a mente dell’art. 1467 c.c., che i contratti siano a prestazioni corrispettive, mentre per i contratti c.d. unilaterali l’art. 1468 c.c. prevede, per la medesima evenienza, ossia la sopraggiunta eccessiva onerosità della (unica) prestazione, il solo rimedio della modifica.
Gli eventi che alternano il sinallagma, per giustificare il ricorso al rimedio, devono, dunque, essere straordinari e imprevedibili appunto in quanto esorbitanti dalla ragionevole prevedibilità ed eccedenti il rischio che le parti avrebbero potuto calcolare in via preventiva ed eventualmente ‘governare’ pattiziamente in caso di ricorrenza, ad es. con una clausola rebus sic stantibus.
Spesso è la svalutazione monetaria a determinare l’insorgere di uno squilibrio (per la ricostruzione del suo ruolo e del dibattito sulla sua ammissibilità, ai fini della risoluzione, in dottrina e giurisprudenza, v., fra tanti, Terranova, C.G., L’eccessiva onerosità nei contratti, in Comm. c.c. Schlesinger-Busnelli, Milano, 1995, 134 ss.). Proprio il fenomeno inflattivo, che pure può non presentarsi sempre come straordinario in certi periodi, è quello che orienta solitamente la giurisprudenza ad accogliere la domanda qualora lo stesso abbia determinato una notevole alterazione del rapporto originario tra le prestazioni (Cass., 13.2.1995, n. 1559; su questo specifico profilo applicativo, v. Macario, F., Le sopravvenienze, in Roppo, V., a cura di, Trattato del contratto, Rimedi, t. 2, cit., 630 ss.; Riccio, A., Eccessiva onerosità, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2010, 194 ss.; Gabrielli E., L'eccessiva onerosità sopravvenuta, in Carnevali, U.-Gabrielli, E.-Tamponi, M., La risoluzione, cit., 401 ss.). Infatti quanto all’entità della sproporzione tra le prestazioni, addebitabile a tali fatti, essa deve essere, per una di esse, che non sia stata integralmente eseguita, eccessiva ed è, peraltro, espressamente escluso (art. 1467, co. 2, c.c.) che rilevi il rischio legato alla cd. ‘alea normale’ ossia al margine di oscillazione che normalmente ogni contratto, specie se da eseguirsi nel tempo, presenta (sulle «molteplici sfumature» del concetto, v., per tutti, Nicolò, R., Alea, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 1024 ss.).
È esclusa, quindi, la risoluzione per i contratti aleatori (per loro natura o per volontà delle parti, art. 1469 c.c.), in quanto caratterizzati proprio dalla naturale, o concordata, incidenza del rischio nell’assetto di interessi che creano (ad es. sui contratti di borsa v. Riccio, A., Eccessiva onerosità, cit., 564 ss.).
Se è, allora, la funzione concreta del contratto ad essere compromessa dalla sopravvenienza, a tale specie di risoluzione è ormai frequentemente abbinata la discussa e nebulosa figura della presupposizione (la definisce «più una sindrome che un istituto» del Prato, E., Ai confini della risoluzione per inadempimento, cit., 653, «densa di ambiguità, intrinsecamente connessa alla sopravvenienza», Id., Le basi del diritto civile, cit., 224; critico sulla ricostruzione di una categoria autonoma Belfiore, A., La presupposizione, in Tratt. Bessone, XII, t. 4.1, Torino, 2003, passim); in tema v., tra tanti, Costanza, M., La teoria della presupposizione, in Visintini, G., diretto da, Trattato della responsabilità contrattuale, cit., 571 ss.). Con essa che, pur non essendo una figura legale, viene invocata come incidente in diversi ambiti del contratto (causa, condizione, caducazione, risoluzione), ci si intende riferire a circostanze -il cui permanere o accadere non è esplicitato ma dato per scontato dalle parti- che hanno «influito in maniera decisiva nella fissazione dei termini dello scambio» (Cataudella, A., I contratti. Parte generale, cit., 266; di recente Cass., 14.6.2013, n. 15025), come nell’ormai emblematica locazione del balcone in occasione -ed in previsione- di un evento che non si verificherà. Da una parte della giurisprudenza (tra tante Cass., 17.5.2005; Trib. Taranto, 11.2.2011, in Argomenti, 2011, 957) viene riconosciuta come idonea a fondare proprio la risoluzione per eccessiva onerosità in quanto elemento cui dare peso decisivo nella valutazione dell’alterazione sopraggiunta dell’equilibrio (per il rapporto tra la teoria in parola e l’ambito di applicazione dell’art. 1467 c.c. e per un riepilogo dettagliato delle diverse posizioni della dottrina v. ancora Cataudella, A., I contratti. Parte generale, cit., 266 ss.).
Con la proposta di reductio ad aequitatem, prevista dall’art. 1467, 3 co., c.c.,la parte contro cui la risoluzione è richiesta può evitarla offrendo di modificare il contratto, ad es. aumentando il prezzo: si tratta di una strumento di conservazione del vincolo ove il giudice ritenga riperequato il rapporto perlomeno nella misura di una ripartizione tra entrambe le parti degli effetti della sopravvenienza senza, tuttavia, che occorra che sia ristabilito l’equilibrio originario(Cass., 11.1.1992, n. 247; sulla configurazione in termini processuali dell’offerta v., tra tanti, Gabrielli E., L'eccessiva onerosità sopravvenuta, cit., 412 ss.; Riccio, A., Eccessiva onerosità, cit., 233 ss.).
Gli effetti per le parti, scaturenti dalla risoluzione, non sono regolati in via univoca e generale, indipendentemente dalla causa, ma si ricavano dagli artt. 1458, 1463 e 1467 c.c..
Essi, per entrambe le parti, sono liberatori rispetto alla prestazione comunque non eseguita e restitutori rispetto alla prestazione già eventualmente eseguita, essendo venuto meno il sostrato giustificativo del trasferimento (sulla configurabilità di un indebito ex art. 2033 c.c. quale fonte dell’obbligazione restitutoria si rinvia a Carnevali, U., Gli effetti della risoluzione, in Carnevali, U.-Gabrielli, E.-Tamponi, M., La risoluzione, cit., 192 ss.) ma la restituzione, non essendo implicita, deve essere specificamente richiesta in giudizio (Scalfi, G., Risoluzione del contratto. I) Diritto civile, cit., 8; Cass., 2.2.2009, n. 2562).
Gli effetti sono quindi normalmente retroattivi e l’efficacia ex tunc della risoluzione, che elimina il vincolo sin dalla sua stipulazione, segna una delle principali differenze rispetto al recesso, ove lo scioglimento opera sempre ex nunc.
Nei contratti ad esecuzione istantanea, dunque, la prestazione ricevuta deve essere restituita e nei contratti traslativi il diritto ceduto torna nella titolarità del cedente.
Quando si tratta di somma pecuniaria, il dilemma circa il carattere di debito di valuta o di valore (con il diverso trattamento in ordine a rivalutazione e interessi), protrattosi per anni, è stato risolto, in favore del primo, dall’intervento delle Sezioni Unite (Cass., S.U., 4.12.1992, n. 12942, ribadita da Cass., S.U., 17.5.1995, n. 5391) che, confermando il principio nominalistico, hanno escluso ogni ulteriore funzione risarcitoria della restituzione, attribuibile solo all’eventuale ristoro del maggior danno, ove allegato e provato (ma per gli orientamenti di merito di segno contrario v. ancora Carnevali, U., Gli effetti della risoluzione, cit., 202 ss.). Diversamente, nei contratti di durata, sono fatte salve le prestazioni già eseguite, che sono ritenute tali quando può dirsi soddisfatto pienamente l’interesse del creditore (Cass., 20.10.1998, n. 10383).
Quanto agli effetti nei confronti dei terzi subacquirenti, questi ultimi non possono essere pregiudicati a norma dell’art. 1458, co. 2, c.c.: regola che fa eccezione al principio resoluto iure dantis resolvitur et ius accipientis.
Non avendo la risoluzione «retroattività reale» (Roppo, V., Il contratto, cit., 884), essa non è opponibile ai terzi, indipendentemente dalla natura (onerosa o gratuita) dell’acquisto medio tempore realizzato.
La salvezza del loro acquisto è regolata, tuttavia, dal solo decisivo criterio-limite della trascrizione della domanda di risoluzione ove si tratti di bene immobile o mobile registrato, il cui acquisto da parte del terzo sia stato trascritto prima di quella; ove, invece, si tratti di bene mobile non registrato, l’acquisto del terzo dipende dall’eventuale perfezionamento della fattispecie di cui all’art. 1153 c.c. (possesso vale titolo; per una ricca disamina dei variegati casi e questioni legate alla posizione del terzo, v. ancora Carnevali, U., Gli effetti della risoluzione, cit., 217 ss.).
Legata solo all’inadempimento è la possibilità per la parte rimasta, per tale causa, insoddisfatta di proporre la domanda di risarcimento dei danni nel caso esso li abbia prodotti: essa è ultronea ed eventuale rispetto a quella di risoluzione e, come prevede l’art. 1453 c.c., può anche essere abbinata alla azione, uguale e contraria, di manutenzione. In ogni caso, tuttavia, presuppone l’inadempimento e comporta la prova del danno (perdita subita e mancato guadagno eziologicamente connessi all’inadempimento dedotto: art. 1223 c.c.), dando luogo alla responsabilità contrattuale, ove si ha riguardo all’interesse positivo della parte che l’inadempimento ha subito ossia alle utilità che il contratto avrebbe prodotto ove fosse stato esattamente eseguito.
Può quindi essere pronunciata la risoluzione e non la condanna al risarcimento ove il danno non risulti provato; può, viceversa, essere rigettata la domanda di risoluzione per la scarsa importanza dell’inadempimento che può, tuttavia, essere ritenuto, se sussistente ed imputabile, tale da giustificare una condanna sul solo fronte risarcitorio (rinviando alla voce e alla letteratura in tema, v., per tutti, Nanni, L., La risoluzione del contatto per inadempimento, cit., 439 ss.; una panoramica di singole questioni in del Prato, E., cura di, Violazioni del contratto. Danni e rimedi, Milano, 2003; in giurisprudenza, fra tante, Cass., 15.1.2001, n. 506).
Artt. 1453-1469 c.c.
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