Risorgimento e lingua
Poiché il Risorgimento ebbe come esito l’Unità nazionale, la connessione con i fatti linguistici risulta immediata, in quanto gli eventi politici, conclusi con la formazione del Regno nel 1861 e con lo spostamento della capitale da Torino a Firenze e poi a Roma, segnarono il passaggio da una considerazione retorica e letteraria dell’italiano alla sua funzione burocratica e amministrativa, come lingua di uno Stato di dimensione territoriale ampia e con una popolazione consistente, con le implicazioni sociali, scolastiche ed educative che ne conseguono (➔ Ottocento, lingua dell’; ➔ Novecento, lingua del). Esse emergono chiare nel dibattito suscitato dalla Relazione di ➔ Alessandro Manzoni del 1868, intervento pubblico, richiesto dal ministro dell’istruzione Broglio: per la prima volta, in quell’occasione, la ➔ questione della lingua veniva affrontata come problema totalmente politico-sociale.
Negli stessi anni, tra l’Unità e la presa di Roma, il dibattito linguistico fu attraversato dalla questione della capitale: la città predestinata, Roma, appariva diversa dalla storica capitale linguistica, Firenze, culla dell’idioma nazionale. La possibile contrapposizione fra le due città preoccupò Manzoni, che vi fa riferimento nel poscritto di una lettera a Giorgini (cfr. Scherillo 1923: 197). La questione emerge anche in un cenno di ➔ Graziadio Isaia Ascoli (1873: XVI), e fu vivacemente dibattuta da trattatisti minori, tra i quali in maniera specifica Gelmetti (1864). Prima ancora, però, il tema era stato svolto con una certa ampiezza da uno dei protagonisti della prima fase del Risorgimento, Gioberti (1920: III, 171-172), il quale aveva parlato di Firenze e Roma come dei «due fuochi dell’ellisse italiana», due città destinate ad avere entrambe una funzione specifica, coerente con la «naturalità del reggimento federativo» in cui aveva fiducia.
Vari furono gli interventi su questo tema. Pasquini (1869) riteneva che l’elemento cattolico avesse soffocato a Roma l’elemento nazionale. Valussi (1868), autore riscoperto da Dionisotti (1991), auspicava un rinnovamento civile, negando espressamente che la lingua potesse essere monopolio di una sola città, perché una «città non è una Nazione; e per questo non può formare una lingua nazionale»; riteneva che la nuova lingua si sarebbe sviluppata nelle rinnovate istituzioni civili e nell’esercito della nazione appena formatasi. La ➔ questione della lingua, insomma, si adeguava all’attualità politica, aggiornando temi da secoli oggetto di dibattito.
Se tuttavia si retrocede cronologicamente e si guarda in maniera specifica alla fase risorgimentale ‘eroica’, al periodo delle battaglie per la conquista dell’unità territoriale e della libertà, si constata come la lingua fosse sempre collocata tra gli elementi costitutivi di un patriottismo fortemente nutrito di memorie classiche e di letteratura, un sogno che poi miracolosamente si tradusse in effettiva realtà politica (Dionisotti 1971: 118, ha parlato del «miracolo di una Italia unita e bene o male europea»).
Nei celebri versi del Marzo 1821 di Manzoni, l’Italia è detta «una di arme, di lingua, d’altare / di memorie, di sangue e di cor»: la lingua è dunque menzionata tra i primi elementi su cui si fonda l’unità, assieme alla religione, alle tradizioni e a un non meglio specificato vincolo di sangue. Questo richiamo alla lingua può essere accostato (senza provocazione) alla celebre e spesso mal citata frase del principe di Metternich, solitamente interpretata solo come offesa verso l’Italia. Metternich aveva scritto (ampliando un concetto più volte già utilizzato in maniera sintetica; cfr. Fumagalli 1968: 361):
Le mot Italie est une dénomination géographique, une qualification, qui convient à la langue, mais que n’a pas la valeur politique que les efforts des idéologues révolutionnaires tendent à lui imprimer («La parola Italia è una espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono a imprimerle, Metternich 1883: 393).
Il nesso tra la lingua e l’identità italiana era dunque di assoluta evidenza, ma i patrioti vi aggiungevano una potente valenza politica, anche se l’italiano non era ancora parlato dalla gran massa della popolazione, prigioniera della dialettofonia integrale, problema allora non da tutti avvertito. Mazzini, per es., ebbe cieca fiducia in un legame presupposto astrattamente come patrimonio comune degli italiani. In realtà non solo il popolo era estraneo alla lingua, ma persino i grandi protagonisti del processo risorgimentale non erano completamente a loro agio con l’italiano, a cominciare dal re Vittorio Emanuele II e da Cavour, che pure era buon conoscitore di lingue estere, il francese e anche l’inglese. De Mauro (19723: 287-288) riporta la testimonianza di Costanza Arconati, secondo la quale Cavour, benché naturalmente buon oratore, in italiano era «impacciato», come chi traducesse il proprio pensiero in una lingua artificiale.
La lingua italiana, per quanto non naturale, aveva agli occhi degli uomini della prima metà dell’Ottocento un impareggiabile valore affettivo e simbolico da connettere anche a un afflato di spirito nazionale che si era già fatto strada con il ➔ purismo, alla fine del XVIII secolo, in età napoleonica e durante la Restaurazione. Si può dire che gli italiani non avessero null’altro fuor della lingua e della letteratura a cui aggrapparsi per sentirsi tali e per dare concretezza al sentimento di unità nazionale. Lingua e letteratura furono il primo cemento degli ideali unitari, e non sempre l’antipatia per la contaminazione dei ➔ forestierismi va classificata riduttivamente come forma mentale caratteristica di reazionari e ‘austriacanti’. Lo dimostrano gli esempi di Basilio Puoti, Carlo Botta, Luigi Angeloni, Giovanni Antonio Ranza. L’antifrancesismo compare in Rinaldo Carli, nell’intervento Della patria degli Italiani, così come lo si legge nella versione più ampia (Carli 1785), non in quella uscita sul «Caffè», in cui la polemica esterofoba è soppressa (Verri era stato infastidito dal tono di Carli, che gli sembrava contrastare con il cosmopolitismo del giornale). Antifrancese è Gian Francesco Galeani Napione, autore del trattato Dell’uso e dei pregi della lingua italiana (1792), in cui esortava ad adottare senza esitazioni l’italiano in Piemonte: il libro fu stimolo per le generazioni di patrioti piemontesi che guardavano appunto a Napione e a ➔ Vittorio Alfieri. Napione, inoltre, auspicava una coalizione di stati italiani sotto la guida del Piemonte sabaudo, prefigurando la funzione che lo Stato sabaudo ebbe effettivamente nel Risorgimento, e celebrava i momenti di italianità rintracciabili nella storia del ducato subalpino, mettendo in grande evidenza la scelta compiuta da Emanuele Filiberto, l’introduzione dell’italiano al posto del latino nei documenti notarili e nelle procedure giudiziarie. E ancora, un purista come Angeloni, patriota della Repubblica Romana del 1799, nel suo appello «agli Italiani» non solo esaltava la comunanza di religione, di storia e di lingua, secondo il topos di cui già abbiamo rilevato l’efficacia, ma lo accompagnava all’idea di un’Italia-isola, «paese il quale è così ben segregato da tutti gli altri, e pe’ mari che l’accerchiano e per gli altissimi monti che fascianlo, che sole le isole son meglio di quello dalla terra ferma dipartite» (Angeloni 1818: I-II).
Tutti questi elementi, generati in parte dal contrasto con ciò che era ‘straniero’, suggerivano la necessità dell’unione nazionale, e tra essi la lingua era costantemente in primo piano. Anche la ricostruzione storica delle vicende della lingua poteva essere condizionata da una visione politica basata sull’avversione per l’ingerenza straniera: si veda la Storia della lingua italiana del lessicografo piemontese Giuseppe Grassi (2010), incompiuta ma recentemente restituita alla luce, che risale al 1820 circa, la quale esprime antipatia non più per il francese, ma, riesumando un topos umanistico arricchito di storiografia recente, per i «barbari» germanici che prefigurano ogni servitù italiana agli stranieri: il passaggio al sentimento prerisorgimentale è così compiuto.
Non tutti i trattatisti del Risorgimento, pur evocando il tema della lingua con frequenza e spesso con passione, seppero distinguere tra la funzione ideale e coesiva della lingua nazionale astrattamente intesa e la reale comunicazione popolare e sociale necessaria a una comunità che volesse diventare nazione. Tra le intuizioni più lucide, senz’altro si colloca quella di Gioberti (1920: I, 92-93): «V’ha bensì un’Italia e una stirpe italiana congiunta di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre; ma divisa di governi, di leggi, di istituti, di favella popolare, di costumi, di affetti, di consuetudini». Chiara è qui la distinzione tra il topos romantico consueto, a cui abbiamo fatto più volte riferimento, e la «favella popolare», ben diversa dalla «lingua scritta e illustre», l’unica che fungesse davvero da cemento culturale della «stirpe» italiana, mentre il legame della favella popolare era di là da venire, e solo l’unione avrebbe trasformato un popolo ‘in potenza’ in un popolo ‘effettivo’.
In un modo o nell’altro, la funzione della lingua scritta e illustre, seppure talora confusa con una lingua di comunicazione che in realtà mancava, era chiara a coloro che immaginavano o vagheggiavano l’unità nazionale. La letteratura tramandava il topos dell’Italia personificata nella donna battuta e ferita della canzone All’Italia di ➔ Francesco Petrarca (in cui ben attuale doveva apparire il riferimento alla «tedesca rabbia» a cui le Alpi avrebbero dovuto fare schermo, le «mal vietate Alpi» dei Sepolcri di ➔ Ugo Foscolo); anche nella canzone di ➔ Giacomo Leopardi All’Italia:
O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l’erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
I nostri padri antichi
come nel patriottismo di matrice purista, è forte il richiamo al passato proprio del ➔ classicismo.
Il passato emerge persino nella forma linguistica di testi letterari che ebbero vasta popolarità nel Risorgimento, a cominciare dal Canto degli italiani, meglio noto come Fratelli d’Italia, che piaceva a Garibaldi quasi quanto la Marsigliese. In quello che è poi divenuto l’inno della Repubblica italiana, la matrice classica apre la via a un linguaggio ipercolto, alla citazione storica, con l’«elmo di Scipio» (l’elmo di Scipione l’Africano, vincitore di Annibale a Zama, che l’Italia si pone in capo) e con lo stringersi «a coorte», cioè nella forma di un’unità combattente dell’esercito romano.
L’Eroe dei due mondi apprezzava anche l’inno, oggi assai meno noto, Minaccioso l’arcangel di guerra di Gabriele Rossetti (Vasto 1783 - Londra 1854), che i garibaldini cantavano nel 1849, e che del resto presenta analogie con i versi di Mameli: anche qui c’è il risveglio («la bellica tromba / l’Italia svegliò», «la Trinacria all’ire s’è desta», «o fratelli, sorgete, sorgete»), con alcune memorie classiche: Scilla che latra e Cariddi che ruggisce, l’Alcide con la clava. Nel celebre Inno di Garibaldi del poeta e patriota Luigi Mercantini, gli italiani sono le «stirpi di Roma» non domate dal «bastone tedesco».
Il peso delle memorie classiche attualizzate durò a lungo nel cerimoniale politico e civile italiano post-unitario, fino ai rituali del fascismo (➔ fascismo, lingua del). La retorica patriottica fece spesso sopravvivere moduli linguistici non troppo diversi da quelli che avevano avuto fortuna nel Risorgimento. Altri moduli vennero dal linguaggio della lirica, che suggeriva un ricco bagaglio di elementi ‘eroici’. Si tramanda che i fratelli Bandiera, udita la sentenza, intonassero «Chi per la patria (o la gloria) muor / vissuto è assai», dal melodramma Donna Caritea regina di Spagna di Saverio Mercadante, e che uno dei martiri di Belfiore, Angelo Scarsellini, in attesa della sentenza cantasse «Il palco è a noi trionfo» dal Marin Faliero di Donizetti (cfr. Fumagalli 1968: 344-345).
Molte sono anche le frasi celebri del Risorgimento che sono passate nel sapere comune, e ancora oggi vengono ripetute in contesti diversi, citazioni adattate anche alla lingua ordinaria, come il laconico «Obbidisco» di Garibaldi o «Roma o morte» dei garibaldini in Aspromonte e a Mentana. Alcune di queste frasi esprimono ideali politici, come il celebre «libera Chiesa in libero Stato», o «Dio e popolo». Esse si collocano in un terreno che sconfina nell’agiografia patriottica, come è provato dal fatto che molte di queste frasi celebri non furono affatto pronunciate nelle circostanze che la tradizione vorrebbe, o sono dubbie: a cominciare da «Qui si fa l’Italia o si muore» attribuito a Garibaldi, ma che forse fu ricostruzione eroica di una battuta più prosaica («Ritirarsi, ma dove?»), come del resto il «Ci siamo e ci resteremo» di Vittorio Emanuele II all’ingresso in Roma, che forse all’origine fu una frase in dialetto piemontese: «Finalment i suma» («Finalmente ci siamo»). Allo stesso modo il racconto secondo il quale Cavour sul letto di morte avrebbe accolto il frate che gli impartiva l’estrema unzione con la frase «frate, libera Chiesa in libero Stato» è smentito da D’Azeglio con assoluta sicurezza, e la formulazione «Dio e popolo» è più del terrorista Felice Orsini che di Mazzini (cfr. Fumagalli 1968: ad indicem). Ideata a posteriori sembra essere la celebre frase in dialetto (il milanese fa dunque capolino nel pantheon), il «Tiremm innanz» («Andiamo avanti») di Amatore Sciesa, dunque in questo caso di un eroe di ceto popolare, ma entrata nell’uso comune, almeno in Italia settentrionale, tanto che non di rado ricorre nel linguaggio giornalistico (cfr. ad es. «Corriere della Sera» 4 luglio 2010: «Dal ghe pensi mi al tiremm innanz, dal ci penso io all’andiamo avanti. Silvio Berlusconi lo dice al direttore del Tg4, Emilio Fede»; ma è presente anche in un giornale romano come «La Repubblica»).
Tra le parole-chiave della prima metà del XIX secolo, il verbo risorgere del Marzo 1821 (la «gente risorta») ritorna nei martiri «tutti risorti» dell’Inno di Garibaldi. Il termine è passato a designare l’intero periodo storico, il Risorgimento. La parola, dalla sfera religiosa dove è equivalente di resurrezione, si spostò nel terreno della storia, della politica e della vita civile.
Del resto la suggestione dell’elemento mistico-religioso è sempre molto forte negli scritti ideologici del Risorgimento, specialmente mazziniani. Testimonianza di un significato diverso da quello tradizionale si ha nel 1775, con l’opera di Saverio Bettinelli Del Risorgimento dell’Italia negli studi, nelle Arti e ne’ costumi dopo il Mille. L’arco storico compreso in questo celebre libro e designato come «Risorgimento» equivale a un Rinascimento più ampio, perché comprende in aggiunta il pre-umanesimo e una parte del medioevo. Ancora prima, nel 1769, il «risorgimento» in senso politico aveva fatto la sua comparsa in uno scritto del conte piemontese Benvenuto Robbio di San Raffaele, nell’ambiente della torinese accademia di San Paolo, dove fu rintracciato da Calcaterra (1935), che lo utilizzò come titolo del proprio libro, dedicato alle anticipazioni risorgimentali nella cultura subalpina della seconda metà del XVIII secolo (cfr. anche Calcaterra 1946).
A partire dall’età napoleonica, il termine «risorgimento» ebbe corso frequente nella pubblicistica politica; negli scritti di Mazzini, il significato di «rinascita politico-culturale» della nazione è indicato tra i compiti della Giovine Italia. Dagli anni Trenta dell’Ottocento in avanti, diventò uno slogan di democratici, neo-guelfi e liberal-moderati, e «Il Risorgimento» fu il titolo del giornale fondato da Cavour nel 1847 (in riferimento non solo alla politica, ma anche al «risorgimento economico» d’Italia); con l’Italia unita la parola fece il suo ingresso nel lessico storiografico, con la fondamentale Storia critica del Risorgimento italiano di Carlo Tivaroni, storico, ma anche combattente garibaldino, uno degli ideatori del cosiddetto «pantheon risorgimentale», e con le Letture sul risorgimento italiano di ➔ Giosuè Carducci, fino alla costituzione della Società Nazionale per la storia del Risorgimento (1907) e, dal 1936, alle cattedre universitarie di identico nome (cfr. Banti 2011).
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