RISORGIMENTO
. La parola e il concetto. - La parola Risorgimento per designare un periodo della storia italiana fu usata la prima volta dal padre Saverio Bettinelli nell'opera Il Risorgimento d'Italia dopo il Mille (1775), ma nell'accezione di ciò che oggi siamo soliti chiamare Rinascimento, e in tale accezione continuarono a servirsi del vocabolo alcuni scrittori italiani dell'Ottocento, principalmente F. Fiorentino nel suo notissimo manuale di Storia della filosofia e in altre sue opere.
Più vicino al nostro significato di Risorgimento è, senza dubbio, l'"imminente risorgimento" di cui parla il conte Benvenuto Robbio di San Raffaele nella prefazione al suo Secolo d'Augusto (Milano 1769), ma egli intendeva presagire soltanto un imminente risorgimento letterario d'Italia, che era stata due volte "maestra di tutte le nazioni ringentilite d'Europa" e che lo sarebbe stato una terza, mercé l'iniziativa delle accademie subalpine della Filopatria e della Sampaolina. Non si può trovare, però, in tutti quegli studiosi, che costituivano le due accademie, in nuce il concetto del Risorgimento piemontese e italiano, come altri ha pensato, perché solo estrinsecamente i Santarosa, i Balbo, i Vidua, i Gioberti possono essere loro allacciati; nella sostanza, invece, essi si sentirono figli non di Galeani Napione o di Denina, né tanto meno del buon conte di San Raffaele, ma di un altro piemontese, di un piemontese non conformista, di Vittorio Alfieri. Per il Galeani Napione, per il Denina, per il San Raffaele l'Italia era un fatto; per l'Alfieri una profezia.
Vittorio Alfieri, dunque, diede per il primo forma vigorosa al Risorgimento, che è nella sua essenza un mito etico-politico-nazionale, consistente nell'attesa fiduciosa in un giorno in cui l'Italia "inerme, divisa, avvilita, non libera, impotente" sarebbe risorta "virtuosa, magnanima, libera e una". Nella storia d'Italia e nell'energia naturale dell'uomo singolo italiano, l'Alfieri trovò le basi della speranza: "Ma tra quante schiave contrade nell'Europa rimiro, nessuna al nuovo cospetto delle lettere potrebbe più facilmente, a parer mio, assumere un nuovo aspetto politico, che la nostra Italia. Non so se l'esservi io nato di ciò mi lusinga; ma ragionando coi fatti, codesta penisoletta è pur quella che da prima conquistava quasi tutto il rimanente del mondo ancora conosciuto, e che, conquistando, libera nondimeno ad un tempo rimanea, esempio unico nelle storie. Ed era pure la stessa Italia, quella che, più secoli dopo, tutto il rimanente d'Europa illuminava colle lettere e scienze, ricovrate, a dir vero, di Grecia, ma ben altrimenti oltre i monti trasmesse da quelle che d'oltremare ricevute si fossero. Ed è pur dessa, che il rimanente d'Europa reingentiliva dappoi con tutte le divine belle arti, più assai riprocreate da lei, che imitate. Ed è, pur quella in fine, che stanca, vecchia, battuta, avvilita, e di tutta l'altre superiorità dispogliata, tante altre nazioni ancor governava, e atterriva per tanti anni, colla sola astuzia ed ingegno tributarie rendendole. Questi quattro modi con cui l'Italia signoreggiava tutte le altre regioni, abbracciano tutte le umane facoltà e virtù; e fanno indubitabile vivissima prova, che fra i suoi abitatori vi è stata in ogni tempo una assai maggior copia di quei bollenti animi, che, spinti da impulsi naturali, la gloria cercavano nelle altissime imprese; e che diversa, secondo i diversi tempi, ma sempre pur somma riuscivano a procacciarsela. Che più? la moderna Italia, nell'apice della sua viltà e nullità, mi manifesta e dimostra ancora (e il deggio pur dire?) agli enormi e sublimi delitti che tutto dì vi si van commettendo, ch'ella, anche adesso, più che ogni altra contrada d'Europa, abbonda di caldi e ferocissimi spiriti, a cui nulla manca per fare alte cose, che il campo e i mezzi". Risorgeva così e diveniva dottrina morale il concetto machiavelliano della virtù: "La virtù è quella tal cosa più ch'altra cui il molto laudarla, lo insegnarla, amarla, sperarla, e volerla, la fanno pur essere: e che null'altra la rende impossibile, quanto l'obbrobriosamente reputarla impossibile". Il primo effetto dell'insegnamento dell'Alfieri fu la trasformazione del vecchio letterato italiano e dello scrittore riformatore del Settecento a servizio del principe nell'intellettuale uomo libero del Risorgimento. Non solo, infatti, egli bollava il Metastasio, ma anche coloro che fiancheggiavano il principe nella lotta contro la Chiesa, non perché la Chiesa era la Chiesa, ma perché era indifesa: "Viltà è questa - tonava - viltà inescusabile". Con l'Alfieri, insomma, siamo condotti di colpo nell'anima stessa del Risorgimento. "Ciascuna volta - scriveva nel 1858 il De Sanctis - che l'Italia sorge a libertà, saluta con riverente entusiasmo Alfieri, e si riconosce in lui. Nel 99 il primo fatto dei repubblicani di Napoli fu di batter le mani ad Alfieri in teatro. Nella prima ebbrezza del 1848 ciascuno diceva tra sé: Ecco l'Italia futura d'Alfieri". Dai Napoletani ai Lombardi, da Mazzini a Guerrazzi, da Santarosa a Gioberti e a D'Azeglio, tutti riconoscono in Alfieri il padre della nuova Italia.
Con l'Alfieri si afferma il primo presupposto d'una nazionalità: la volontà di essere uno stato-nazione. Col Foscolo tale volontà subisce la prova dei fatti nel modo più drammatico: l'atto egoisticamente volpino del dominatore straniero, in cui si era avuto tanta fiducia, a Campoformio, e la rivolta delle plebi italiane contro i patrioti. Seguace del Machiavelli, il Foscolo sente l'ineluttabilità della legge della forza, ma continua a lottare senza speranza, per l'onore. Il Risorgimento resta per lui un cibo destinato agli eletti. "Quanto alla plebe, non accade parlarne; e in qualunque governo le basta un aratro o il modo d'aver del pane, un sacerdote, e un carnefice; e si dee lasciare in pace; perché, per quanto santa sia la ragione che la sommove, ogni suo moto finisce in rapine, in sangue, in delitti; e com'ella si è avveduta della sua forza, è difficile renderla debole". Ma i patrioti lombardi e napoletani, che venivano dalla politica pura e non dalla letteratura, non lo seguirono in tale dottrina e cominciarono a versare alle moltitudini, scrive assai bene il Cattaneo, "ciò che Foscolo riputava gelosamente serbato agli eletti del gregge umano". Il Cuoco accolse tutto l'insegnamento che si poteva cogliere dalla rivolta delle plebi italiane e predicò come dovere morale l'opera di colmare l'abisso tra popolo e minoranze intellettuali. E un altro grande contributo portò il Cuoco al concetto di Risorgimento: il culto del Vico. Se Alfieri insegnò agl'Italiani ad agire in grande, Vico insegnò loro a pensare in grande; se con l'Alfieri l'Italia s'individuò come volontà di essere stato tra gli stati europei, col Vico acquistò coscienza di avere una propria personalità nella cultura europea. Dalla fusione delle dottrine di questi due grandi nacque la nuova Italia, pensante e operante con una sua particolare fisionomia nel seno dell'Europa.
Tanto nell'Alfieri quanto nel Cuoco, l'elemento nazionalistico predominò su ogni velleità universalistica: era il momento in cui l'Italia, come già l'Inghilterra col Burke e come poi la Germania col Fichte, sentiva la necessità di serrare tutte le sue forze per resistere alla dominazione francese, tanto più pericolosa in quanto che non era solo di natura politica ma di natura spirituale. Verso il tramonto dell'era napoleonica, l'Italia si accorse di non essere più sola, abbandonata a sé stessa: due svizzeri, Madame de Staël e il Sismondi, le svelarono un nuovo mondo, il mondo delle nazioni, tutto in rivolta contro il dominatore, mentre le società segrete, come la Carboneria in contatto con Bentinck, cominciavano a operare di conserva con forze internazionali. L'Italia sperò allora nell'Europa ufficiale e fu delusa al Congresso di Vienna, ma, poiché Metternich, creando una solidarietà fra i troni, postulava per antitesi una solidarietà tra i popoli, lungi dallo spezzarsi, l'internazionalismo italiano si consolidò e diede alla causa rivoluzionaria europea uomini come il toscano Filippo Buonarroti, che serviva d'intermediario tra settarî italiani e francesi, e Gioacchino a Prato, trentino, che manteneva i contatti tra settarî italiani e tedeschi. La fiaccola dell'apostolato del Risorgimento passò addirittura nelle mani d'un generoso straniero, Sismondo dei Sismondi, che credeva discendere dai vecchi Sismondi di Pisa. Era il riconoscimento implicito, tanto più significativo quanto più spontaneo, da parte della nuova Europa dell'Italia. L'Europa aveva abbandonato l'astratto cosmopolitismo settecentesco, che persisteva solo in alcune correnti estreme della democrazia francese, e, per opera del Guizot e del Ranke, aveva acquistato coscienza di sé come d'una società storica in continuo divenire, che si articolava nelle varie individualità nazionali, ognuna delle quali dveva la sua missione e poteva, perfino, dare il tono alle altre, se avesse preso l'iniziativa, a suo rischio e pericolo, del grande movimento ideale d'un'epoca.
Deluse ancora nelle rivoluzioni del 1820-21 e del 1831 le speranze d'Italia nelle potenze liberali (Francia, Inghilterra) e nell'iniziativa rivoluzionaria francese del 1830, sfuggita alla Francia borghese di Luigi Filippo ogni missione europea rivoluzionaria o cattolica, Mazzini sognò che l'Italia potesse prenderne il posto e dare il suo nome alla nuova vita etico ptilitica europea. Nella dottrina del Mazzini dell'iniziativa si fondono armonicamente le idee dell'Alfieri, del Foscolo e del Cuoco con l'esperienza europea della Restaurazione. Il Risorgimento italiano sarà l'inizio del risorgimento delle nazioni europee. Più generoso del popolo francese, il popolo italiano darà agli altri popoli la libertà e si contenterà d'un semplice primato d'onore, che meriterà col sangue versato per la causa degli altri. Mentre Mazzini strappava alla Francia l'iniziativa rivoluzionaria, Gioberti le strappava l'iniziativa cattolica. Non la Francia ma l'Italia doveva essere la figlia primogenita della Chiesa, la promotrice di ogni rinnovamento nel suo seno. Tanto Mazzini quanto Gioberti collocarono, quindi, il Risorgimento tra i grandi miti ottocenteschi di rigenerazione morale dell'umanità, in quel clima generale di attesa palingenesiaca d'una nuova era, d'una nuova mistica unità, che De Maistre aveva iniziato e che Marx doveva chiudere.
Intanto Balbo scioglieva il concetto alfieriano del nuovo letterato, dell'uomo libero, nel concetto generale di civiltà, intesa come circolo di cultura e vita morale, e perveniva a dare al Risorgimento la sua peculiare fisionomia morale nella storia d'Italia con la critica al Rinascimento, fondata appunto sulla contrapposizione della civiltà alla cultura. Il Rinascimento fu un'epoca di cultura, curò solo gli aspetti teoretici dello spirito, l'arte, la filosofia, la scienza, e gli agi, i comodi, gl'interessi particolari dell'individuo, ma non creò quei valori morali, che presuppongono il sacrificio dell'individuo a un'idea, a una fede, non fu un'epoca di grande civiltà. E così il Balbo si ricongiungeva per altra via alla nuova etica europea, che col Guizot aveva trasformato il concetto individualistico e intellettualistico della civilisation settecentesca anglo-francese nel concetto del circolo di cultura e vita morale. Questo insegnamento trovò negli esuli i suoi più convinti assertori, negli esuli che qualunque cosa facessero o dicessero avevano sempre "la patria in cor", come cantava il Berchet. Dante, l'"alma sdegnosa", divenne un modello di vita. Il culto del proprio particulare dei vecchi italiani del Rinascimento venne bollato come peccaminoso. Guicciardini e Botero nel passato, Vincenzo Monti nel presente, furono i principali capri espiatorî della nuova etica.
Col Cattaneo, col Cavour, col Petitti, col Balbo stesso d'un elemento nuovo si arricchì il Risorgimento. Fin dal Settecento il Genovesi e altri avevano augurato l'unità economica della penisola come fonte d'infinito benessere materiale. Con gli economisti lombardi e piemontesi l'attesa d'una unità economica della penisola s'inserisce in vasti piani d'economia europea. Nel Cavour alcuni motivi vigorosi del concetto individualistico anglo-francese di civilisation appaiono assai netti, ma sono temperati dall'ethos particolare del Risorgimento. Il Risorgimento cessa di essere l'aurora dell'emancipazione di tutte le nazionalità. Dinnanzi alle illusioni della democrazia subalpina, il Cavour proclama che le diverse nazioni sono già troppo formate, perché una sola potesse dare il tono alle altre; in fasi di sviluppo troppo diverse perché potessero consociarsi. Pur servendosi del principio di nazionalità e dei moti nazionali dell'Ungheria e della Romania, Cavour abbandona a Garibaldi il programma rivoluzionario nazionalitario di Mazzini, ma conserva la speranza che la nuova Italia agendo indirettamente sul papato possa contribuire al rinnovamento religioso europeo. L'ultimo discorso del Cavour, quello sulla questione romana, è un atto di fede nella missione incivilitrice italiana. Con le gesta garibaldine per il trionfo del principio di nazionalità, l'età eroica del Risorgimento si compie, l'entusiasmo morale si spegne, i grandi ideali si esauriscono.
Il Risorgimento si trasformò allora da idea-forza, da mito eticopolitico, in mito retorico. S'iniziò l'età delle morti celebri, dei necrologi, delle commemorazioni, dei discorsi, dei monumenti, dei musei, mentre gli epigoni della scuola storica piemontese e moderata fissavano la storia dei vincitori, e gli agitatori romagnoli, i repubblicani, i vecchi cattolici liberali, i clericali, i borbonici, affidavano alla storia la vendetta dei vinti.
Tra la storia retorica e la storia passionale due belle figure di studiosi, Vittorio Fiorini e Alessandro Luzio, affermarono la storia pura e il Risorgimento si andò configurando in un corpo letterario, in un concetto scientifico. Nel 1888 Vittorio Fiorini pubblicò il Catalogo illustrato dei libri, documenti e oggetti esposti dalle provincie d'Emilia e Romagna nel tempo del Risorgimento italiano. Proprio tra i Romagnoli, che avevano vissuto nel modo più passionale il Risorgimento, il Fiorini, con sereno coraggio scientifico, osava porre, come base solida d'una storia di quel periodo, non sentimenti e risentimenti, ma un repertorio utile e compiuto di nomi, date, fatti, immagini. Nel 1897 al Catalogo seguì l'iniziativa d'una Biblioteca storica del Risorgimento, con l'intento di pubblicare documenti e monografie critiche originali. Intanto A. Luzio compiva a Vienna le sue ricerche critiche sull'Austria in Lombardia.
La storia pura finì col lasciarsi troppo dominare dal documento, che è emanazione dell'individuo, e, quindi, in un certo senso passionalità; la storia pura si fermava troppo agli uomini singoli e trascurava le idee, le classi politiche e sociali, gli stati regionali italiani e l'Europa. Sorsero altre tendenze. Era l'epoca in cui Benedetto Croce criticava i concetti delle scienze naturali e i generi letterarî, Gaetano Salvemini insorgeva contro i nomi collettivi astratti di comune, rinascimento, rivoluzione francese, e Gioacchino Volpe, dietro quei nomi, quegli schemi, sentiva la storia nel suo infinito, sconfinato mareggiare. Il Risorgimento fu ridotto allora a un puro nome e dissolto prima nella storia politica del secolo XIX, poi nella più vasta storia iniziata dal tramonto del secolo XVII, mentre gli elementi più avanzati risalivano fino al Cinquecento nella ricerca in Italia degl'ideali d'indipendenza, e, quindi, di Risorgimento, o fino alla Riforma per la lontana genesi degli ideali di libertà. Il concetto di Risorgimento si scioglieva senza residui nel concetto di storia dell'età moderna e contemporanea.
Il dopoguerra, lungi dal provocare una dissoluzione completa del mito di Risorgimento, come il nominalismo storiografico prevedeva (Croce, 1916), segnò una seconda vita di quel mito. Si era ad una svolta decisiva della storia d'Italia e la polemica sul Risorgimento divenne uno degli aspetti dell'esame di coscienza degl'Italiani contemporanei. Da alcuni si eresse il Risorgimento alla dignità d'un tabu, che non si poteva toccare neanche per andare avanti, da altri si gridò al fallimento del Risorgimento; alcuni non videro del Risorgimento, in un senso o in un altro, che i limiti, altri ne accentuarono con energia passionale solo un aspetto. Il Risorgimento operava non più come storiografia, ma, a pezzi o a bocconi, come storia. Il culto dell'Oriani, cui si rifacevano gli uomini delle più diverse tendenze politiche, segnò il punto culminante di questa fase della fortuna del Risorgimento.
Ne è derivato che il concetto tradizionale del Risorgimento ha subito modificazioni profonde: poiché o si considera la storia del Risorgimento come storia di potenza (Staatsgeschichte) e s'incentra nella storia sabauda moderna, che ha origine da Vittorio Amedeo II (e si potrebbe risalire anche a Emanuele Filiberto), o come storia di libertà e si parte dalla Riforma o dal movimento sociniano. Nell'uno e nell'altro caso i confini tradizionali iniziali del Risorgimento sono spezzati: si ripresenta quindi il problema, già da noi accennato come risultato della storiografia idealista ed economico-giuridica, se si debba o no sciogliere senza esitare la storia del Risorgimento nella storia dell'età moderna e contemporanea d' Italia.
E ciò mentre il vocabolo Risorgimento come concetto storico trionfa nel linguaggio storiografico internazionale. La curiosità straniera di conoscere le origini prossime dell'Italia, il Risorgimento, l'età in cui l'Italia ha assunto una netta fisionomia nella società europea, è cresciuta. Le principali riviste storiche straniere (Revue Historique; The Journal of Modern History) contengono magnifiche rassegne sul Risorgimento; la produzione straniera sull'argomento va aumentando. Il nome Risorgimento gode ormai nella parola italiana d'una fama internazionale e alcuni fatti o uomini di esso sono divenuti tipici: Serbia, Piemonte della Iugoslavia; Pašić, Cavour serbo, Beneš, Cavour cèco. A questa diffusione, crediamo, ha contribuito grandemente la storiografia francese, che ha seguito passo passo il movimento italiano, non sempre con intelligente comprensione, sempre con molto interesse. Noi siamo del parere che occorra restaurare il concetto tradizionale del Risorgimento come concetto storico. I concetti storici non sono puri nomi, mere convenzioni, ma miti, realtà spirituali, di cui ciascuna età ha avuto una coscienza, che è la vera oggettività della storia. Di fronte ai fraintendimenti della dottrina della con temporaneità della storia, necessario rinnovare il rispetto religioso per le idee storiche, che avevano il Vico e il Ranke: è lì il fuoco vivo della nostra disciplina. Si tratta di riconvertire al concetto tradizionale di Risorgimento non la coscienza storica volgare e straniera, per le quali il Risorgimento è ancora quello dell'Alfieri e del Cavour, ma gli storici di mestiere.
Questa tesi potrebbe essere tacciata di soverchio ideologismo, se non si tenessero presenti le seguenti considerazioni. L'esperienza storiografica contemporanea ha dimostrato che il Risorgimento non si può spiegare che con criterî d'indole essenzialmente morale. I più combattivi rappresentanti del cosiddetto indirizzo di storia economico-giuridica dinnanzi ad esso hanno dovuto dichiarare il fallimento dei loro metodi e ricorrere a concetti direttivi di diversa natura. Ricchi di una più scaltrita esperienza, dobbiamo tornare al Risorgimento per intendere il Risorgimento e porre come canone d'interpretazione di quel periodo la dottrina italiana della nazionalità. "Moltiplicate quanto volete i punti di contatto materiale ed esteriore in mezzo ad un'aggregazione di uomini: questi non formeranno mai una nazione senza la unità morale di un pensiero comune, di un'idea predominante che fa una società quel ch'essa è, perché in essa vien realizzata. L'invisibile possanza di siffatto principio di azione è come la face di Prometeo, che sveglia a vita propria ed indipendente l'argilla, onde creasi un popolo; essa è il Penso dunque esisto dei filosofi, applicato alle nazionalità". Così scriveva nel 1851 il Mencini e così potremmo ripetere noi: per chi non avrà compreso Alfieri e Foscolo, i patriotti lombardi e i patriotti napoletani, Santarosa e Guglielmo Pepe, Mazzini e Gioberti, Cavour e Garibaldi, il Risorgimento sarà sempre un palinsesto che non si sa decifrare. Ma quando si afferma che la storia del Risorgimento nasce col sorgere e finisce col dissolversi del mito del Risorgimento, non si vuol ridurre naturalmente la storia di quel periodo alla storia di quel mito, ma si vuol fissare la spina dorsale di un'epoca storica. S'intende che in tanto il messaggio di Alfieri venne accolto dagl'Italiani in quanto esso venne lanciato nell'atto stesso in cui lo stato regionale italiano attraversava una profonda crisi morale, economica, politica, militare, diplomatica. Crisi morale, poiché la coscienza politica regionale, dopo avere realizzato in pieno accordo col principe le sue esigenze di libertà civile, incontrava un'insormontabile difficoltà, salvo che in Toscana, a fissare con costituzioni nuovi limiti al potere esecutivo da sostituire a quelli invecchiati che si mandavano in frantumi. Crisi economica, poiché l'economia regionale tendeva sempre più a spezzare le barriere che la racchiudevano. Crisi sociale, poiché si faceva sempre più netto lo stacco tra medio ceto o avanguardie intellettuali del medio ceto e le masse. Crisi politica, poiché la monarchia assoluta non si decideva ad autolimitarsi. Crisi militare connessa a crisi diplomatica, poiché a coloro che si proponevano i problemi della difesa militare appariva chiaro che lo stato regionale non sarebbe bastato a reggere alle prove d'una grande guerra europea e, quindi, la necessità di leghe italiane, che congiungessero i vantaggi dei piccoli stati con quelli dei grossi corpi politici, come pensavano il Galeani Napione e il Filangieri. In questo clima il messaggio di Alfieri fermentò.
Un altro dubbio è da dissipare: quello che un Risorgimento così inteso possa turbare la continuità della storia d'Italia: preoccupazione insussistente perché la parola stessa postula la credenza in un organismo morale, la nazione, che ha un'infinita possibilità di rinnovarsi. La storia d'Italia è, come assai bene ha scritto G. Bourgin, la storia d'un peuple qui se réalise, celle d'une création phisique et morale continue. Senza spezzare la continuità storica, occorre dare ad ogni età il suo peculiare rilievo, il suo sapore. Nel caso contrario tutto si perderebbe nell'unità indifferenziata d'una storia nazionale.
Una riprova della nostra tesi è data dalla critica a quelle, alle quali si contrappone. La teorica dominante sulle origini del nostro Risorgimento, quella che lo riallaccia al dispotismo illuminato, non ne serra in effetti il problema. Se nel dispotismo illuminato s'insiste sull'opera d'accentramento del principe per la creazione dello stato moderno si deve risalire all'epoca delle signorie e dei principati per comprenderne tutto il processo, ma per il Risorgimento in senso stretto conta conoscere non tanto questo processo quanto il momento in cui lo stato regionale non soddisfa più completamente la coscienza politica italiana. Così pure se nel dispotismo illuminato si bada al risorgere d'una coscienza politica, d'un interesse per la cosa pubblica in strati sempre più larghi di cittadini, occorre risalire al Seicento, ma anche in tal campo il fenomeno di questo risorgimento è ristretto nei limiti dello stato regionale e, infatti, spuntano allora le nazioni napoletana, toscana, lombarda, piemontese. Per la genesi del Risorgimento bisogna isolare e porre in rilievo l'istante in cui il regionalismo comincia ad apparire una forma inadeguata al nuovo sentimento politico. Concludendo, occorre, senza dubbio, che lo studioso del Risorgimento conosca bene la storia del dispotismo illuminato, ma se egli vuole spiegare, come deve spiegare, il Risorgimento, deve badare alla crisi della coscienza politica dei nostri stati regionali, non distrarsi nell'indagine del loro sviluppo.
Se la storia si considera come storia di stati-potenze, se lo stato regionale italiano più seriamente dotato degli attributi dello statopotenza era il regno di Sardegna, se dal regno di Sardegna è sorto, senza soluzione di continuità, il regno d' Italia, la storia del Risorgimento deve cominciare il giorno in cui la monarchia sabauda, resistendo eroicamente al colosso francese, ha affermato la sua piena efficienza militare e quindi diplomatica (battaglia di Torino). Questa tesi, peraltro assai suggestiva, urta contro due difficoltà. Vittorio Amedeo II, che insieme col principe Eugenio vinse la battaglia di Torino, si può intendere completamente solo immerso nella storia moderna degli stati sabaudi, di cui Emanuele Filiberto pose le basi. Fu Emanuele Filiberto che trasformò la funzione di stato cuscinetto, data allo stato sabaudo dal trattato di Cateau-Cambrésis, nella volontà di crescere d'una potenza militare di secondo ordine tipica, che vuol giovarsi delle gelosie dei grandi per vivere ed espandersi. Ad Emanuele Filiberto si deve militarmente la creazione dell'esercito sabaudo e la meravigliosa concezione di quella cintura fortificata, al centro della quale era come ridotto Torino, concezione che, perfezionata da Vittorio Amedeo II e da Carlo Emanuele III, permise al piccolo Piemonte di fiaccare i gagliardi sforzi d'un Luigi XIV e d'un Luigi XV. Se dopo il trattato di Cherasco lo stato sabaudo divenne un satellite della Francia, non bisogna dimenticare che il desiderio di scuotere il suo duro giogo fu vivo nello stato sabaudo, ebbe i suoi martiri nel padre Monod e in Filippo San Martino d'Agliè e costituì le secret, direbbe uno storico francese, di Carlo Emanuele II. Una seconda difficoltà è che una caratteristica essenziale del Risorgimento fu quella dell'armonica compenetrazione tra le forze regolari della monarchia sabauda e le forze irregolari della rivoluzione nazionale italiana, grazie all'efficace e intelligente mediazione della classe politica piemontese. Secondo noi il Risorgimento comincia appunto quando la classe politica piemontese crea il mito del Risorgimento nazionale, forte della sua lunga esperienza delle lotte internazionali e della sua interna morale gagliardia. Si aggiunga ancora che proprio all'epoca dell'Alfieri. Napoleone rovesciò con la sua strategia la concezione difensiva d'Emanuele Filiberto, il gioco diplomatico che poggiava su di essa e la possibilità che uno stato militare di secondo ordine potesse prosperare a poco a poco. Da allora i Piemontesi, che, da unico stato militare che sapesse farsi rispettare, si videro abbassati alle condizioni di provincia francese, i Piemontesi, che da conquistatori videro addensarsi su loro le cupide brame della repubblica francese, cisalpina, ligure, i Piemontesi compresero che i tempi del lento sicuro sviluppo erano finiti, che ad un'altra crisi europea non avrebbero potuto resistere, che bisognava farsi grandi o perire.
Così pure è da criticare la tesi diplomatico-europea, che fissa al trattato di Utrecht l'inizio del Risorgimento. Senza dubbio nel Settecento la diplomazia europea, che aveva risolto il problema germanico coi trattati di Westfalia e il problema baltico col trattato di Oliva, si concentra sul problema italiano. Ma i modi di risolvere il problema italiano sono vecchi. La funzione data ai Savoia di mantenere l'equilibrio in Italia tra le due grandi potenze continentali, serbando indipendente la regione strategicamente allora più importante della penisola, era un cavallo di ritorno, perché non faceva altro che rendere efficiente un sistema inaugurato a Cateau-Cambrésis. La creazione d'un regno indipendente del Mezzogiorno corona una serie di sforzi francesi del Seicento. L'espansione austriaca, sotto veste imperiale, ripiglia i disegni di Carlo V. Il modo di risolvere il problema italiano in modo totalitario con una lega o una federazione di principi è molto più vicino ai progetti del Cinque-Seicento, che a quelli dell'Ottocento: tra gli uni e gli altri non è passata invano l'opera tendenzialmente uniformatrice degli istituti regionali compiuta dai principi riformatori e dai francesi. Per intendere alcuni concetti diplomatici del Settecento - libertà d'Italia, neutralità d'Italia - dobbiamo risalire ad epoche anteriori. Ma, allora, avrebbero ragione gli storici francesi, che fanno ancora risalire alla rivoluzione francese il nostro Risorgimento? Ciò che distingue la nostra tesi da quella francese, rappresentata ancora dal Bourgin, è il valore che noi diamo all'epoca del dispotismo illuminato e al principio della lotta delle nazioni come necessario indispensabile generatore delle nazioni. Senza le riforme del Settecento, senza l'insoddisfazione dei nostri elementi regionali più intelligenti verso lo stato regionale, senza lo stacco che l'opera riformatrice aveva posto in Italia tra minoranze sovvertitrici di vecchi ordini statali e masse meccanicamente attaccȧte a quegli istituti, la rivoluzione francese non si sarebbe potuta inserire tra le lotte politiche e sociali italiane e non avrebbe trovato il germe fertile, il terreno fecondo. D'altro canto le grandi lotte settecentesche tra Francia e Inghilterra avevano insegnato agl'Italiani la fecondità delle lotte nazionali. L'opera politica dell'occupazione francese, non solo secondatrice degli sforzi locali come erano state l'occupazione spagnola e austriaca, ma violentemente sovvertitrice, presentò l'occasione agognata dall'Alfieri perché l'Italia si rivelasse a sé stessa. Tutto ci riconduce insomma all'antitesi logico-scientifica: o sciogliere il Risorgimento nel concetto di storia moderna e contemporanea o concepirlo nei suoi limiti tradizionali da Alfieri a Cavour e a Garibaldi.
Studî e aspetti di storia del Risorgimento. - Base sicura d'una storia del Risorgimento debbono essere i testi e i documenti sincroni. L'indirizzo scientifico nella storia del Risorgimento si è iniziato, come si è visto, con il culto del documento, e il documento deve essere sempre il fondamento di ogni seria ricerca storica, ma il documento non deve essere amato in sé e per sé, deve essere subordinato alla critica. È principalmente merito di N. Rodolico l'avere sempre insistito su questa necessità nella sua un tempo assai frequente attività recensionale.
Fondato essenzialmente su valori morali, il Risorgimento è innanzi tutto storia d'individui, e, quindi, la biografia è il genere storiografico dominante nei suoi studî, e la biografia in cui possano armonicamente conciliarsi etica e biografia. Ciò costituisce il fascino dei profili e dei bozzetti sul nostro Risorgimento di A. Luzio, B. Croce, F. Ruffini, ma ne segna anche il limite. Finché si tratta di patrioti italiani tutto va benissimo, ma quando si tratta di diplomatici o di reazionari, se essi non siano dei retti caratteri morali o dei combattenti d'un ideale, bensì puri maestri dell'arte diplomatica, quali Metternich, Talleyrand, Castlereagh, Bismarck, la storiografia italiana (Croce, L. Salvatorelli) non mostra quella larga comprensione umana, che costituisce il pregio singolare della scuola storica diplomatica francese (A. Sorel, A. Vandal). L'aver tolto l'individuo dall'empiricità, in cui lo considerava la storiografia pura, e l'averlo immesso nel pieno della cultura regionale, nazionale, europea, è stato il merito principale della scuola idealista, che ha saputo dare il suo pieno valore alle indagini degli storici di mestiere. La formazione della classe dirigente napoletana (M. Schipa, Croce, F. Nicolini, N. Cortese, A. Simioni), toscana (G. Gentile, A. Anzilotti), piemontese (Gentile, P. Gobetti, Anzilotti), lombarda (Rota, Morandi, Valsecchi), siciliana (Gentile, R. De Mattei, E. Pontieri) è stata intimamente collegata con la storia degli stati regionali italiani ed è stato colto assai bene il processo di scioglimento della cultura regionale nella cultura nazionale. Il circolo tra cultura europea e cultura nazionale ha trovato interpreti intelligenti in B. Croce, A. Omodeo, G. Prato. Manca ancora, però, un bel lavoro sulla vita etico-politica degli esuli, sul tipo di quello che F. Baldensperger ha dedicato agli emigrati francesi del tempo della Rivoluzione: la storia dell'Italia fuori dell'Italia.
All'idealismo ancora, e più all'esperienza etico-religiosa prodotta in Italia dallo studio sul cristianesimo primitivo, si deve se dal Gentile, dall'Omodeo e dal Salvatorelli è stato posto in rilievo l'aspetto escatologico del Risorgimento, che ne costituisce, come si è visto, l'intima essenza. Manca ancora un buon lavoro su Roma nella memoria e nell'immaginazione del Risorgimento. Il mito di Roma è indissolubilmente legato in Mazzini, in Gioberti, in Cavour con l'attesa dell'imminente risorgimento non solo nazionale ma etico-religioso dell'umanità. Riguardo al Gioberti il Gentile si stacca dall'Omodeo e dal Salvatorelli; egli valorizza storicamente il mito neoguelfo, che l'Omodeo e il Salvatorelli ripudiano come insincerità morale, rifiutandosi persino di ammetterne l'importanza storica. I rapporti tra il neoguelfismo o cattolicismo liberale italiano e il giansenismo francese sono stati indagati (Ruffini) e quelli tra esso e il cattolicismo europeo si vanno indagando (Omodeo) con squisita sensibilità etico-religiosa, ma un lavoro complessivo sul movimento religioso italiano nel sec. XIX manca, né è facile farlo. La religiosità italiana non è una religiosità brillante alla luce del sole e delle stelle come quella francese; è una religiosità tutta intima, timida, celata nei privati conversari, negli epistolarî privati (Manzoni, Lambruschini, Ricasoli), onde le benemerenze di coloro che, come A. Gambaro, curano la ricerca e la pubblicazione degli epistolarî religiosi. Più felice del neoguelfismo ê stato il giansenismo, scoperto dal Rota, studiato nelle sue profonde scaturigini teologicomorali (Ruffini, A.C. Jemolo), indagato nella sua varia diffusione regionale - in Lombardia (Rota), in Piemonte (Rumni, Gorino), in Liguria (Nurra), in Toscana (Rodolico), a Napoli (Croce) -, colto nelle sue analogie suggestive col movimento riformatore politico-sociale (Anzilotti). Dalla religiosità degli uomini d'eccezione, si è tentato scendere alla religiosità popolare e il Croce ha scritto alcune gustose pagine sulla vita religiosa a Napoli nel Settecento. Particolare rilievo si è dato allo studio dei rapporti Stato-Chiesa, posti in relazione tanto col pensiero politico-giuridico (F. Scaduto, Ruffini) e con la coscienza etico-religiosa (Gentile), quanto con le esigenze politiche contingenti del nuovo stato italiano (M. Falco). Il Falco ha reso assai bene i contrasti tra la scuola liberale cavourriana e il giurisdizionalismo liberale, erede del vecchio giurisdizionalismo regionale italiano. Attraverso una polemica vigorosa si è giunti, con Francesco Ruffini, a fissare quale fosse la caratteristica giurisdizionale del nuovo stato italiano prima dei patti lateranensi. L'affermazione dello stato etico fatta da B. Spaventa in polemica con i gesuiti e posta in rilievo dal Gentile, provocò la serrata requisitoria contro il fallimento etico-religioso del Risorgimento di M. Missiroli, che aprì in Italia quel culto dell'Oriani come base d'una polemica sul Risorgimento, di cui abbiamo fatto cenno. Fallimento del Risorgimento? Se si volesse misurare alla stregua rigorosa dell'ideale il risultato dei grandi movimenti spirituali europei, il Risorgimento è fallito non meno che il Medioevo, che non riuscì a realizzare il suo sogno teocratico o sacro imperiale; non meno che il Rinascimento, che si lasciò assorbire dalla Controriforma, ecc. Queste affermazioni di fallimento non hanno valore storiografico, ma pratico, in quanto sulle deficienze del passato costruiscono i sogni dell'avvenire. A parte tale naturale contingente deviazione, gli studî sui rapporti Stato-Chiesa sono assai bene avviati in Italia.
La forte accentuazione dell'aspetto etico-politico si riflette anche negli studî di storia strettamente politica del Risorgimento. Il De Sanctis caratterizzò in modo vigoroso le due opposte mentalità del liberalismo e della democrazia; E. Solmi ha tentato di ridurre il conflitto tra le due mentalità a un conflitto tra due metodi, ma col Croce si è ritornati, approfondendola, all'interpretazione del De Sanctis. Il Salvemini tentò dare un'autonomia alla storia politica, introducendovi i concetti, elaborati dal Pareto, di classe politica e di circolazione delle élites, ma il suo esperimento non ebbe seguaci. La storiografia politica italiana è restata una storiografia essenzialmente di tendenza politica, nella quale peraltro ciò che v'è di vitale non è tanto l'esperienza delle cose presenti, come nella vecchia storiografia di partito franco-inglese, quanto ciò che le deriva dalla filosofia e dalle scienze sociali. La storia tecnica dei partiti, come organizzazione, genesi e sviluppo d'ideali, evoluzione dell'esperienza politica, in Italia manca. Uomini, classi politiche, partiti rivelano la varia composizione delle classi sociali. La formazione della borghesia professionista, agraria, commerciale italiana risale al Seicento, alla politica antifeudale spagnola, medicea, sabauda: il Croce, il Cortese, lo Schipa per Napoli, il Rota e il Morandi per la Lombardia, il Prato per il Piemonte hanno gettato sulla questione sprazzi suggestivi di luce. E anche al Seicento risalgono quelle lotte giurisdizionali, che hanno tanto contribuito dal punto di vista economico e morale alla formazione della borghesia italiana. L'abisso che separò tale borghesia dalle plebi e che permette d'individuarla in pieno è la crisi prodotta dalla rivoluzinne francese in Italia, che ha avuto due interpreti intelligenti e accorati nel Prato per il Piemonte e nel Rodolico per Napoli. Ma il Prato e il Rodolico si sono troppo fermati al disfattismo della borghesia e al presunto patriottismo delle plebi e non hanno visto come quel disfattismo fosse ben tosto rinnegato e che l'anelito a colmare il fossato tra borghesia e popolo divenne una delle speranze del Risorgimento e costituisce il segreto della storia dell'Italia contemporanea. G. Fortunato e la sua scuola hanno studiato il successivo progredire della borghesia nel Mezzogiorno attraverso l'acquisto dei beni ecclesiastici, feudali e demaniali e i nuovi turbamenti sociali, che ne derivarono. Come nella Sicilia ottocentesca si formasse una borghesia, ci permette di vedere un lavoro di S. Nicastro su una città sicula, Mazara, ma fatto in modo da poter studiare la storia effettuale di tutta l'isola.
Quando si dice che la storia del Risorgimento è una storia essenzialmente etico-politica non s'intende affatto negare l'utilità dello studio degli altri aspetti di quella storia. "Gli ideali del Mazzini", scrive uno storico americano, "erano una luce nel cielo", e sarebbero rimasti tali se non fossero stati materiati di realtà economica. Lasciando stare che perché trionfi anche una determinata forma di economia politica occorre che si trasformi in ideale e che diventi passione, sta di fatto che se si esamina la grande polemica tra gli economisti lumbardi (Cattaneo) e gli economisti piemontesi (Cavour, Petitti) sull'inserzione dell'economia nazionale nell'economia europea, si vede che la vittoria nel Risorgimento non toccò alla regione che sentiva nella sua purezza l'economia, ma a quella che subordinava l'economia alla politica. In ogni modo nessuna prevenzione hanno gli storici di mestiere per gli studî di storia non politica del Risorgimento. Il Prato è stato levato a cielo, saccheggiato, additato a modello, stimato, amato dagli storici, perché aveva un concetto esatto della storia economica come circolo tra vita economica e pensiero degli economisti, in cui il rapporto tra idea e fatto era posto come rapporto sostanzialmente di realtà e di coscienza della realtà, dal quale esulava ogni determinismo. Per la dottrina deterministica, che non gli perveniva dal marxismo dialettico, ma dal naturalismo storico di G. Fortunato, l'opera fondamentale di R. Ciasca sull'Origine del programma per l'opinione pubblica nazionale italiana, ha incontrato forti opposizioni e il Rodolico si spinse fino a proclamare il fallimento dell'indirizzo economico-giuridico dinnanzi al Risorgimento. Ma se noi risalissimo al maestro del Ciasca, al Fortunato, ritroveremmo la riabilitazione dell'ideale postulata dall'eccesso stesso del naturalismo pessimistico. Posto che il Mezzogiorno è per sua natura misero e che, quindi, ha avuto una storia di miserie e d'avvilimenti, gli uomini che per il Mezzogiorno agirono e sognarono apparivano al Fortunato come dei sublimi folli, ribelli alla storia, alla natura, al destino. Lo spietato agronomo, geologo ed economista si trasformava nel poeta dei martiri del 1799.
Classi politiche, classi sociali, struttura economica italiana si erano formati nel quadro dei vecchi stati regionali. Gli studî sul Risorgimento, cogliendo lo stato regionale al suo culmine, hanno permesso di comprendere la sua opera per il trionfo dello stato moderno, e ne sta derivando la riabilitazione del principato territoriale in Italia, che i polemisti del Risorgimento avevano denigrato, sia per il suo municipalismo, sia perché aveva posto fine alla libera età dei comuni. I lavori del Rota, del Morandi e del Sandonà sull'amministrazione austriaca in Lombardia, del Prato e dell'Einaudi sul Piemonte settecentesco, dell'Anzilotti sulla Toscana, del Croce su Napoli hanno mostrato come si sia maturata la tendenza all'unità entro i quadri dei vecchi ordinamenti politico-economici. Occorre, però, che gli storici italiani superino due idiosincrasie cronologiche: la repulsione verso l'età napoleonica e verso la Restaurazione. Sull'età napoleonica i migliori lavori sono quelli stranieri, sia che pongano in piena luce l'opera d'organizzazione statale che essa compì (A. Pingaud, J. Rambaud, Madelin), sia che lancino contro tale opera la più serrata requisitoria (E. Tarlé). Per la Restaurazione, salvo che per l'Austria in Lombardia, si prova ancora della ripugnanza a studiare l'opera dei Luigi Medici, dei Ferdinando II, dei Prospero Balbo, dei Carlo Alberto, dei Fossombroni, dei Neipperg, dei Consalvi, come la prosecuzione dell'opera dei riformatori del Settecento e di Napoleone nella costruzione dello stato moderno. Ciò è dovuto alla trista fama che la Restaurazione come persecutrice dei patrioti ha lasciato nella coscienza italiana, ma occorre velare questi ricordi. Particolarmente notevoli per lo studio del processo di disintegrazione dei vecchi stati italiani furono le secessioni provocate nel loro seno dalla politica d'accentramento, come i problemi della Savoia e di Genova negli stati sabaudi e quello siciliano nelle Due Sicilie. Il problema della Savoia è stato trattato dagli studiosi di quella regione, ma non è stato ancora approfondito dagli storici italiani. Il problema di Genova, invece, e la sua funzione propulsiva e disintegrativa insieme negli stati sabaudi ha trovato valenti illustratori in C. Bornate, A. Codignola e V. Vitale. La questione siciliana, infine, è stata oggetto di accurate indagini da parte del Pontieri, che l'ha colta alle origini, del Cortese e del Paladino. Nessun lavoro notevole possediamo, invece, sul tramonto del dominio temporale dei papi. La trasformazione dello stato pontificio, operata dal Consalvi, le aspirazioni ideali dei sudditi di quello stato, il carattere dell'intervento delle potenze nei tentativi di rimodernarlo, attendono ancora il loro storico e occorre ancora far capo al vecchio ma sempre penetrante saggio del Ranke sul Consalvi e alla pubblicistica del Risorgimento, che vanta sull'argomento opere di polso come quella del Galeotti.
Lo sfaldamento degli stati regionali italiani si compie dal di dentro con la crisi di crescenza delle forze militari e dal di fuori con gli attacchi delle forze rivoluzionarie. Come e perché l'ufficialità piemontese fosse avviata verso una soluzione nazionale del problema militare, come e perché l'ufficialità napoletana prendesse così viva parte ai moti del 1820 e defezionasse dalla causa borbonica nel 1860 non hanno ancora formato oggetto d'indagini sistematiche. Sul Foscolo, sul Balbo, sul Pisacane mancano dei buoni saggi storici tra politici e militari, come hanno i Tedeschi per lo Scharnhorst, il Gneisenau, il Clausewitz. Così pure dal punto di vista storico sarebbe assai interessante lo studio delle istituzioni militari napoletane e piemontesi, delle quali ultime il Brancaccio ha raccolto gli elementi. Insomma una storia etico-militare è ancora da fondare in Italia. G. Volpe cerca diffonderne il gusto e l'interesse con la sua collana La guerra e la milizia negli scrittori militari italiani d'ogni tempo. La storia delle guerre del Risorgimento, invece, è stata trattata in modo esauriente nelle pubblicazioni del Corpo di stato maggiore e conta per alcuni momenti opere classiche come quelle del Pollio su Custoza e del Guerrini su Lissa.
I vecchi storici rivoluzionarî italiani contrapponevano il loro mondo al mondo moderato diplomatico e militare, come la morale che si contrapponeva alla forza. Ma, in realtà, nei moderati vi sono elementi di civiltà che temperano e subordinano gli elementi di forza, e nei rivoluzionarî in quanto non intendevano essere profeti disarmati, era implicita la postulazione d'una particolare forza. Occorrerebbe studiare le organizzazioni rivoluzionarie italiane, come sono state studiate quelle della rivoluzione francese.
Le basi della storia diplomatica del Risorgimento furono poste dalla scuola storica piemontese (F. Sclopis, D. Carutti, N. Bianchi), ma gl'iniziatori dell'odierno risveglio in tale campo sono stati G. Volpe, P. Silva e A. Solmi. Il Volpe e il Silva hanno approfondito specialmente il problema del Mediterraneo nella diplomazia contemporanea; il Solmi ha trovato le origini diplomatiche del Risorgimento nella guerra di successione spagnola. Il Volpe eccelle nel ricostruire a grandi tratti le tradizioni diplomatiche dei popoli europei; il Silva predilige l'analisi del giuoco diplomatico nei singoli drammatici momenti della storia; il Solmi pone i problemi diplomatici con l'ordine e la limpida chiarezza del giurista. Ma due deficienze ha ancora la storiografia diplomatica italiana. Manca di psicologia e manca del senso profondo dei grandi problemi di politica internazionale. È ciò che appare dal volume del Capasso sulla Grande Alleanza del 1814-15, che pure ha il merito di avere portatD in Italia al fuoco delle discussioni le grandi opere dello Srbik e del Waliszewski, del Webster e del Temperley, del Gooch e del granduca Nicola Michailovič. Più che un bilancio da compiere, v'è un programma da stendere di studî di storia diplomiatica. Ciò che ha contribuito a far sorgere le grandi scuole di storia diplomatica piemontese, inglese e francese è stato il circolo di cultura e diplomazia. Stretti furono i legami tra il Cavour e gli storici della diplomazia piemontese, stretti quelli tra il Quai d'Orsay e A. Sorel, stretti sono, infine, anche quelli tra il Foreign Office e il Webster e il Temperley. I documenti di storia diplomatica del Risorgimento non sono presso il Ministero degli affari esteri italiano, ma la pubblicazione o lo studio di documenti diplomatici di epoche a noi più vicine potrebbe affinare nei nostri storici il senso dell'attualità di certi problemi. Così pure mancano in Italia studî sistematici comparati in archivî italiani ed esteri, il che è uno dei pregi singolari delle storiografie straniere. Invano si cercherebbe, salvo per il problema del Mediterraneo, qualche studio italiano sul problema della neutralità d'Italia, della libertà d'Italia, dell'Europa, dell'organizzazione internazionale nel passato, della formazione del sistema delle grandi potenze, del principio dell'equilibrio, di quello di legittimità, di quello perfino di nazionalità. Lo stesso problema delle origini diplomatiche del Risorgimento posto nel Settecento, va sottoposto come si è visto, a cauzione e a riserve. Quanto alla crisi risolutiva del Risorgimento o s'insiste troppo sull'aspetto diplomatico o troppo sull'iniziativa rivoluzionaria: in realtà v'è tra i due aspetti completa reciprocità. In quanto che postulava un nuovo assetto territoriale dell'Europa, il movimento delle nazionalità non poteva prescindere dalla diplomazia, ma il grado d'urgenza del compimento di ciascuna nazionalità era nell'agitazione rivoluzionaria continua, oltre che nelle felici combinazioni diplomatiche. E così se i Cavour, i Bismarck, i Pašić, i Beneš sono stati i costruttori degli stati nazionali, i Mazzini e gli altri agitatori vi hanno avuta anche la loro parte.
Tutti questi sparsi motivi non sono stati ancora fusi in una grande opera complessiva. Il volume dell'Omodeo è certo assai più d'un manuale, ma è ancora meno d'una storia organicamente pensata e condotta in tutte le sue parti. Le opere del Rosi, del Raulich e dello Spellanzon sono una buona sistemazione dei migliori risultati delle ricerche erudite. L'opera di E. Masi ha pregi non comuni di giudizio equilibrato. Delle opere straniere la migliore resta quella di A. Bolton King, ma un buon ristretto è quello recente di G. Bourgin.
Organizzazione degli studî. - Nel 1906, sotto la presidenza del senatore A. Manno, venne creata una Società nazionale del Risorgimento con lo scopo scientifico di studiare il Risorgimento e con quello patriottico dell'educazione nazionale. Organo scientifico della società fu Il Risorgimento italiano (1908), affidato a B. Manzone, che già nel 1895 aveva fondato la Rivista storica del Risorgimento italiano, cessata quattro anni dopo. I comitati regionali del Risorgimento, seguendo l'esempio, pubblicarono anche delle riviste, l'Archivio emiliano del Risorgimento nazionale, l'Archivio storico del Risorgimento umbro, ma queste riviste ebbero in genere poca vita. Nel 1935 il ministro dell'Educazione nazionale, C. M. De Vecchi di Val Cismon, trasformò la Società nazionale del Risorgimento nell'Istituto storico del Risorgimento italiano. Il duplice scopo scientifico e patriottico della società venne mantenuto. Il primo scopo si realizza nella Rassegna storica del Risorgimento, soppresse le riviste regionali del Risorgimento organi dei comitati locali, e nelle due collane di fonti e di memorie, che l'istituto pubblica. Il secondo viene attuato con conferenze, promosse dai comitati regionali. Congressi annuali mantengono i contatti tra gli studiosi del Risorgimento e frequenti riunioni di presidenti dei comitati regionali permettono al presidente dell'istituto di regolarne e controllarne l'opera.
Oltre l'Istituto storico del Risorgimento, esiste un Istituto storico per l'età moderna e contemporanea, che ha un fine puramente scientifico, quello di raccogliere e pubblicare fonti dalla storia d' Italia dal Cinquecento in poi e, quindi, anche del Risorgimento. Con l'Istituto storico del Risorgimento collaborano, mediante partecipazione ai congressi, gli uffici storici dei ministeri della Guerra e della Marina, che rispettivamente pubblicano anche opere originali e fonti sulle campagne del Risorgimento. Lo stato, con le edizioni nazionali di Mazzini, di Cavour, di Garibaldi, non lesina incoraggiamenti agli studî storici. La Camera dei deputati si fece nel 1911 promotrice della raccolta degli Atti delle assemblee del Risorgimento. Esistono ben tre collane di storia del Risorgimento: una diretta dal Gentile e dal Menghini presso il Lemonnier di Firenze; una seconda prosegue quella del Fiorini sotto la guida del Barbagallo e del Rota presso Albrighi e Segati; una terza, fondata dal Canevazzi, è ora diretta dal Solmi. I grandi giornali quotidiani contengono spesso articoli di storia del Risorgimento. Insomma alla storia del Risorgimento non mancano ormai più quei mezzi e quel clima favorevole, che le permetteranno di affrontare la compilazione d'una serie indispensabile di strumenti di lavoro. G. Bourgin nel 1911 lamentava la mancanza, e oggi mancano ancora una bibliografia del Risorgimento, una bibliografia del giornalismo del Risorgimento, un dizionario biografico del Risorgimento, poiché quello del Rosi ha molte deficienze, una serie di guide del materiale del Risorgimento contenuto presso gli archivî di stato, le biblioteche e i musei del regno.
Bibl.: Uno studio sul concetto del Risorgimento, come quello di L. Febvre, La civilisatin: Le mot et l'idée, Parigi 1930, pp. 1-55, manca in Italia: cfr. intanto un saggio di G. Natali sul primato prima del Gioberti, in Idee, costumi, uomini del Settecento, Torino 1926. Per la tesi dell'"imminente Risorgimento", C. Calcaterra, L'imminente Risorgimento, Torino 1935. Per l'aspetto escatologico del Risorgimento, G. Gentile, L'eredità di Vittorio Alfieri, Venezia 1926; M. Fubini, Patria e nazione nel pensiero dell'Alfieri, Bollettino storico-bibliografico subalpino, aprile-dicembre 1935, pp. 339-354; C. Cattaneo, U. Foscolo e l'Italia, in Politecnico, ottobre-novembre 1860; M. Romano, Ricerche su V. Cuoco politico, storiografo, romanziere e giornalista, Isernia 1904 (rifuso in parte nel volume V. Cuoco nella storia del pensiero e dell'unità d'Italia, Firenze 1933); F. Battaglia, l'Opera di V. Cuoco e la formazione dello spirito nazionale in Italia, Firenze 1925; G. Gentile, V. Cuoco, Venezia 1927; A. Omodeo, Figure e passioni del Risorgimento, Palermo 1932; G. Prato, Il programma economico e politico della Mitteleuropa negli scrittori italiani prima del 1848, in Atti R. Accademia delle scienze di Torino, LII (1916-17); L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Torino 1935. Per il nominalismo storiografico, B. Croce, pagine sparse, Napoli 1920, s. 3ª, pp. 228-30. Per le nuove correnti storiografiche, A. Anzilotti, Di alcune pubblicazioni di storia del Risorgimento, in Movimenti e contrasti per l'unità italiana, Bari 1930, pp. 223-252.
Per i rapporti tra Risorgimento e dispotismo illuminato, cfr. per tutti, Società nazionale per la storia del Risorgimento italiano (Pubblicazione del Comitato Romano), XX Congresso sociale. Roma 29, 30, 31 maggio 1932, Roma 1933, la comunicazione di C. Morandi, Il problema delle riforme nei risultati della recente storiografia, pp. 105-114; per la tesi sabauda, C. M. De Vecchi di Val Cismon, Il senso dello stato nel Risorgimento, in Rssegna storica del Risorgimento, aprile-giugno 1933, pp. 221-233; id., Il senso della storia, ibid., luglio-settembre 1933, pp. 439-50; id., Esame di coscienza, ibid., gennaio 1936, pp. 3-14; per la tesi diplomatico-europea, A. Solmi, Le prime origini del Risorgimento, in Politica, marzo-aprile 1925; G. Volpe, Momenti di storia italiana, Firenze 1925; C. Morandi, Assetto europeo e fattori internazionali nelle origini del Risorgimento, Pavia 1926.
Per l'attività recensionale del Rodolico, cfr. i suoi scritti, Dalla vita e dalla storia contemporanea, Città di Castello 1913. Per i profili: A. Luzio, Profili biografici e bozzetti storici, Milano 1906; id., Studi e bozzetti di storia letteraria e politica, voll. 2, Milano 1910; F. Ruffini, La giovinezza del conte di Cavour, voll. 2, Torino 1912; B. Croce, Uomini e cose della vecchia Italia, Bari 1927; per i diplomatici e i reazionarî: F. Lemmi, La politica estera di Carlo Alberto nei suoi primi anni di regno, Firenze 1928, e i saggi del Croce sul Caracciolo, sul De Maistre e il Serracapriola, in Uomini e cose della vecchia Italia, Bari 1927, II, pp. 83-112 e 193-24; per i limiti, i giudizî sul Talleyrand di L. Salvatorelli, La crisi europea di cento anni fa, in Rassegna nazionale, 1 e 16 novembre 1919, e sul Metternich di B. Croce, Storia d'Europa nel secolo decimonono, Bari 1932. Per le classi politiche e le culture regionali: per il Piemonte: l'op. cit. del Gentile sull'Alfieri; A. Anzilotti, Gioberti, Firenze 1922; P. Gobetti, Risorgimento senza eroi, Torino 1926; per la Lombardia: E. Rota, L'Austria in Lombardia, Milano-Roma-Napoli 1911; C. Morandi, Idee e formazioni politiche in Lombardia dal 1748 al 1814, Torino 1927; F. Valsecchi, L'assolutismo illuminato in Austria e in Lombardia, voll. 2, Bologna 1931 e 1934; per la Toscana: A. Anzilotti, Movimenti e contrasti per l'unità italiana, Bari 1930, pp. 33-166; G. Gentile, G. Capponi e la cultura toscana nel sec. XIX, Firenze 1922; per Napoli: B. Croce, Storia del Regno di Napoli, 2ª ediz., Bari 1931; N. Cortese, I ricordi di un avvocato napoletano del Seicento: F. D'Andrea, Napoli 1923; F. Nicolini, Aspetti della vita italo-spagnola nel Cinque e Seicento, Napoli 1934, pp. 243-340; M. Schipa, Il regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, nuova ediz., voll. 2, Milano-Roma-Napoli 1923 (la prima ed. era del 1904); A. Simioni, Le origini del Risorgimento politico nell'Italia meridionale, voll. 2, Messina 1925-1929; G. De Ruggiero, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari 1922: per la Sicilia, G. Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, Bologna 1919; R. De Mattei, Il pensiero politico siciliano fra il Sette e l'Ottocento, Catania 1927; E. Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano, Palermo 1933. Per il circolo tra cultura italiana ed europea, alcuni saggi del Croce nel vol. II di Uomini e cose della vecchia Italia; il citato volume dell'Omodeo, Figure e passioni del Risorgimento; e il citato saggio del Prato sul concetto del Mitteleuropa negli economisti italiani. Il lavoro di F. Baldensperger, cit. a p. 437, è Le mouvement des idées dans l'émigration française (1789-1815], voll. 2, Parigi 1924. Per l'aspetto escatologico del Risorgimento i volumi del Gentile sull'Alfieri, dell'Omodeo su Figure e passioni del Risorgimento e del Salvatorelli sul pensiero politico del Risorgimento. Per il Gioberti, G. Gentile, I profeti del Risorgimento; 2ª ed., Firenze 1928, e le opere dell'Omodeo e del Salvatorelli. Per i rapporti tra giansenismo e cattolicismo francese della Restaurazione col cattolicismo liberale italiano: F. Ruffini, La vita religiosa di Alessandro Manzoni, voll. 2, Bari 1931; A. Gambaro, Riforma religiosa nel carteggio inedito di Raffaello Lambruschini, voll. 2, Torino 1924. Per il giansenismo: E. Rota, Il giansenismo in Lombardia e i prodromi del risorgimento secondo la dottrina giansenistica, in Atti della R. Accademia delle scienze di Torino, LXI (1926), pp. 349-424; id., La morale dei giansenisti, ibid., LXII (1927), pp. 465-554; A.C. Jemolo, Il giansenismo in Italia prima della rivoluzione, Bari 1928; N. Rodolico, Gli amici e i tempi di S. de' Ricci, Firenze 1920; B. Croce, Uomini e cose della vecchia Italia, cit., pp. 113-181; P. Nurra, Il giansenismo ligure alla fine del secolo XVIII, in Giornale storico e letterario della Liguria, n. s., 1926; M. Gorino, G. V. Spanzotti. Contributo alla storia del giansenismo piemontese, Torino 1931. Per i rapporti Stato-Chiesa: F. Scaduto, Guarentigie pontificie e relazioni fra Stato e Chiesa, 2ª ed., Torino 1889; F. Ruffini, Corso di diritto ecclesiastico italiano, ivi 1924; M. Falco, La politica ecclesiastica della Destra, ivi 1914; B. Spaventa, La politica dei gesuiti, a cura di G. Gentile, Milano-Roma-Napoli 1911; M. Missiroli, La monarchia socialista, Bari 1914. Per la contrapposizione della mentalità liberale alla mentalità democratica: F. De Sanctis, La letteratura italiana nel secolo XIX. Scuola liberale. Scuola democratica, a cura di B. Croce, Napoli 1897; E. Solmi, Mazzini e Gioberti, Milano-Roma-Napoli 1913; B. Croce, Storia d'Europa nel sec. XIX, cit. Per l'introduzione del concetto sociologico di classe politica: G. Salvemini, L'Italia politica nel secolo XIX, in L'Europa nel sec. XIX, Padova 1925, pp. 323-401. Per la crisi sociale in Italia durante la rivoluzione francese: G. Prato, L'evoluzione agricola del sec. XVIII in Piemonte, in Memorie R. Accademia di scienze di Torino, s. 2ª, LX (1909); R. Rodolico, Il popolo agli inizi del Risorgimento, Firenze 1925. Per la storia sociale del Mezzogiorno: G. Fortunato, Il Mezzogiorno e lo stato italiano, Bari 1911; S. Nicastro, Dal Quarantotto al Sessanta, Mazara, Milano-Roma-Napoli 1913. Per la storia economica: K. R. Greenfield, Economics and Liberalism in the Risorgimento. A Study of Nationalism im Lombardy: 1814-1848, Baltimora 1934; G. Prato, Fatti e dottrine economiche alla vigilia del 1848. L'associazione agraria subalpina e C. Cavour, Torino 1920; R. Ciasca, L'origine del programma per l'opinione nazionale italiana del 1847-48, Milano-Roma-Napoli 1918. Per la storia degli ordinamenti politici, amministrativi ed economici dei singoli tati italiani, oltre ai volumi citati per lo studio delle classi politiche, aggiungere: A. Sandonà, Il Regno Lombardo-Veneto, Milano 1912. Per le opere straniere sul periodo napoleonico, ricordate a pag. 438, v.: A. Pingaud, Bonaparte Président de la République Italienne, voll. 2, Parigi 1914; J. Rambaud, Naples sous Joseph Bonaparte, Parigi 1911; E. Tarlé, Le blocus continental et le Royaume d'Italie, ivi 1928. Per la disintegrazione dello stato regionale per Genova, C. Bornate, L'insurrezione di Genova nel 1821, Torino 1923; A. Codignola, G. Mameli. La vita e gli scritti, voll. 2, Venezia 1927; id., Dagli albori della libertà al proclama di Moncalieri (Lettere del conte I. Petitti di Roreto a M. Erede), Torino 1931; per la Sicilia: il volume del Pontieri già citato; N. Cortese, Il governo napoletano e la rivoluzione siciliana del 1820-21, Messina 1932; G. Libertini e G. Paladino, Storia della Sicilia, Catania 1933. Per gli ordinamenti militari: N. Brancaccio, L'esercito del vecchio Piemonte. Gli ordinamenti, I (1560-1814), Roma 1923. Per la storia delle guerre: A. Pollio, Custoza, Torino 1903; D. Guerrini, Come ci avviammo a Lissa. Come arrivammo a Lissa, voll. 2, Torino 1907-1908. Per la storia diplomatica: G. Volpe, Momenti di storia italiana, Firenze 1925; P. Silva, Il Mediterraneo, 2ª ed., Milano 1933; A. Solmi, Le origini diplomatiche del Risorgimento, in Politica, 1925, art. cit.; C. Capasso, L'unione europea e la grande alleanza del 1814-15, Perugia 1932. Per le storie generali del Risorgimento: A. Omodeo, L'età del Risorgimento, nuova ediz., Messina 1931; I. Raulich, Storia del Risorgiemnto politico d'Italia, Bologna 1921 segg.; M. Rosi, L'Italia odierna, voll. 2, Torino 1916 segg.; C. Spellanzon, Storia del risorgimento e dell'unità d'Italia, Milano 1933; il gruppo di volumetti: A. M. Ghisalberti, Gli albori del Risorgimento italiano, Roma 1931; A. Ferrari, La restaurazione in Italia, ivi 1931; M. Rosi, L'unità d'Italia, ivi 1931; E. Masi, Il Risorgimento italiano, voll. 2, Firenze 1917; A. Bolton King, Histoire de l'unité italienne, tard. franc., Parigi 1901 (la trad. franc., per la bibl., è preferibile all'originale inglese e alla trad. italiana, Milano 1909-10); G. Bourgin, La formation de l'unité italienne, Parigi 1929. Per il problema dell'organizzazoine degli studî e le opere di consultazione desiderabili, è ancora utile G. Bourgin, Les études relatives à la periode du Risorgimento en Italie, Parigi 1911; cfr. anche F. Lemmi, Il Risorgimento (Guide bibliografiche della fondazione Leonardo), Roma 1926.
Le guerre del Risorgimento.
Con questa denominazione si comprendono, in ordine cronologico: 1. la prima guerra per l'indipendenza (campagne del 1848 e del 1849), combattuta contro l'Austria dapprima da una coalizione dei piccoli stati italiani capeggiati dal regno di Sardegna e poi da quest'ultimo rimasto solo; 2. la seconda guerra per l'indipendenza (campagna del 1859), combattuta pure contro l'Austria dal regno di Sardegna e dall'impero di Francia, alleati; 3. la campagna garibaldina del 1860-61 per la liberazione del Mezzogiorno e la spedizione militare del re di Sardegna nelle Marche, Umbria e Napoletano; 4. la terza guerra per l'indipendenza (campagna del 1866) combattuta contro l'Austria dal regno d'Italia, alleato del regno di Prussia, che contemporaneamente attaccava l'Austria da nord; 5. l'occupazione di Roma nel 1870.
Campagna del 1848. - Come scoppiò la guerra. - Le spietate reazioni poliziesche dell'Austria contro le manifestazioni nazionali nel Lombardo-Veneto, avevano aggravata negli ultimi mesi del 1847 e nei primi del 1848 la tensione dei rapporti fra Torino e Vienna; e all'ostilità non era estraneo il fatto che il Piemonte era divenuto rifugio dei patrioti perseguitati nelle provincie italiane soggette agli Asburgo. Nei primi giorni del 1848 le dure sanzioni del governo di Milano - ispirate dal maresciallo Radetzky, comandante supremo delle forze austriache di occupazione - avevano eccitati gli animi dei Piemontesi a tal segno che si doveva prevedere, alla prima occasione, lo scoppio di una guerra sul confine del Ticino. E il re Carlo Alberto aveva, fin d'allora, adottato alcuni provvedimenti precauzionali d'ordine militare. Fu, cioè, sospeso il congedamento dalle armi della classe che aveva ultimata la ferma e fu richiamata alle armi la classe più giovane fra quelle in congedo, mentre procedevasi, naturalmente, alla consueta chiamata delle reclute. Così l'esercito sardo aveva alle bandiere, fin dal gennaio del 1848, una forza notevolmente superiore alla normale.
Gli eventi precipitarono durante i mesi di febbraio e di marzo. Accesasi la miccia a Parigi e caduta nelle sanguinose giornate di febbraio la monarchia di luglio, i liberali ungheresi ne trassero motivo per sollevarsi contro Vienna. Il Kossuth si levò il 3 marzo alla dieta di Budapest a chiedere riforme costituzionali, imitato due giorni dopo dagli autonomisti cèchi e dagli "intellettuali" di Vienna. Fuggito il Metternich, concessa dall'imperatore la costituzione il 15 marzo, scoppiata a Milano la rivolta delle Cinque Giornate, il Piemonte si trovò improvvisamente a dover prendere gravi e urgenti decisioni.
La mobilitazione e la radunata delle forze piemontesi. - Ai precauzionali provvedimenti militari sopra accennati, che avevano avuto esecuzione fin dal gennaio, il governo di Torino ne aveva aggiunto un altro di maggior portata, per rispondere alla proclamazione dello stato d'assedio in tutto il Lombardo-Veneto, avvenuta da parte del generalissimo Radetzky il 2 marzo; cioè furono richiamate alle armi altre tre classi in congedo della fanteria di linea, dei bersaglieri e dell'artiglieria. Gli uomini di queste classi giunsero alle armi durante lo stesso marzo, ma non furono tutti pronti a entrare in campagna quando alla fine del mese si iniziarono le operazioni di guerra.
Avvenuti questi richiami coraggiosi (si era ancora in piena pace, e l'Austria non poteva non considerarli una provocazione e non farsene un'arma nelle trattative diplomatiche), rimanevano ancora in congedo - dell'esercito di prima linea - due classi di fanteria e una di bersaglieri; queste classi furono richiamate alle armi il 23 marzo, lo stesso giorno in cui la guerra fu decisa, ma giunsero ai corpi soltanto durante l'aprile e il maggio.
Gravi difficoltà si riscontrarono nella costituzione dei servizî di rifornimento, per la deficienza di carri, di cavalli, di personale adatto. In effetto non si riuscì a mettere insieme un organismo logistico veramente valido e disciplinato.
Forze e formazione di guerra dell'esercito piemontese. - Sotto il comando del re Carlo Alberto (suo capo di Stato maggiore il generale Canera di Salasco) l'esercito piemontese fu costituito su due corpi d'armata, più una divisione di riserva. Il corpo agli ordini del generale Bava (1ª divisione, generale D'Arvillars; 2ª divisione, generale Di Ferrere); il Il corpo agli ordini del generale De Sonnaz (3ª divisione, generale Broglia; 4ª divisione, generale Federici, poi sostituito dal duca di Genova); la divisione di riserva, agli ordini del principe ereditario, Vittorio Emanuele, duca di Savoia. Le divisioni furono costituite su due brigate di fanteria di due reggimenti ciascuna, oltre a reparti di fanterie leggiere (bersaglieri e fanti di marina), alcune batterie e un reggimento di cavalleria (due reggimenti per la divisione di riserva). Un totale di 35 battaglioni, 36 squadroni, 120 cannoni.
Le forze austriache nel Lombardo-Veneto. - Quando scoppiò in Milano la rivolta delle Cinque Giornate, il Radetzky aveva di guarnigione nella capitale lombarda circa 12.000 uomini (9 battaglioni, 4 squadroni e 4 batterie), quasi tutti concentrati nel Castello. Il resto dell'esercito austriaco di occupazione era ripartito nelle ordinarie sedi di guarnigione. Il territorio lombardo-veneto era diviso in due corpi d'armata territoriali, i cui effettivi erano stati rinforzati dopo gli avvenimenti degli ultimi mesi. Il comando del I corpo d'armata, con sede in Milano, era tenuto dal feldmaresciallo conte Vratislav Netolický; quello del II corpo, con sede in Padova, dal feldmaresciallo conte D'Aspre. I due corpi d'armata contavano rispettivamente 40 e 30 mila uomini, compresi cinque battaglioni inviati oltre il Po a presidiare Piacenza e Ferrara. La cavalleria era ordinata su tre brigate, con i comandi a Milano, Lodi e Verona. In tutto il Radetzky, nel momento in cui risolvette di abbandonare Milano per ritirarsi nel quadrilatero (Verona-Peschiera-Mantova-Legnago) e quivi attendere rinforzi, aveva ai suoi ordini 61 battaglioni, 36 squadroni, 18 batterie. Caratteristiche principali della formazione di guerra erano: le brigate, non costituite di soli fanti, ma miste delle tre armi (fanteria, artiglieria, cavalleria); tutte le grandi unità costituite senza preconcetti di simmetria e perciò di forza variabile secondo le circostanze. Notevole anche il fatto che circa un terzo delle forze del Radetzky era di nazionalità italiana e che tali elementi non erano ripartiti fra le unità austriache, ma costituivano organismi a sé. Ciò favorì le diserzioni, che avvennero in larga misura principalmente all'inizio della guerra.
I contingenti militari degli altri stati italiani. - Al principio della guerra sembrò al Piemonte di poter contare sull'efficace intervento di forze militari degli altri stati italiani.
Il re di Napoli, sotto la pressione dell'opinione pubblica, decise ai primi di aprile l'invio nell'Italia settentrionale di due divisioni agli ordini del generale Guglielmo Pepe reduce dall'esilio politico. Ma il Borbone, a ciò indottosi di mala voglia, ritardò dapprima i movimenti delle truppe verso il Po e infine ordinò al Pepe (che aveva già le forze concentrate fra Bologna e Ferrara) di retrocedere. In questo momento (metà maggio) l'esercito piemontese era già in piene operazioni nel mezzo del quadrilatero. Il Pepe rifiutò obbedienza e proseguì per Venezia con le poche centinaia di animosi che vollero seguirlo; ma il concorso di forze napoletane venne praticamente a mancare.
Pio IX, quando scoppiò nel marzo la rivoluzione in Austria, stabilì di inviare un corpo di truppe nelle Legazioni, pronto a ogni evento. Il primo scaglione partì il 24 marzo da Roma. Si costituirono due divisioni: l'una regolare (mista di reparti svizzeri e italiani) e l'altra di volontarî; esse furono poste rispettivamente agli ordini dei generali Giovanni Durando e Ferrari. Alla fine di marzo, dichiaratasi dal Piemonte la guerra all'Austria, fu stabilito che le unità mobilitate avrebbero partecipato alla lotta comune per l'indipendenza. Operarono infatti nel Veneto, alle spalle del quadrilatero (v. appresso); ma furono presto messe fuori causa.
Il granduca di Toscana mise in armi a fine marzo piccoli contingenti del suo esercito e battaglioni volontarî studenteschi. Nuclei armati furono anche inviati da Modena e Parma, ammirevoli per il fervore patriottico, ma di quasi nessun peso per una guerra regolare contro l'impero austriaco.
In sostanza il Piemonte si trovò impegnato in una dura guerra con scarsi aiuti militari da parte degli altri stati italiani; aiuti che svanirono completamente durante la prima fase della campagna
La rapida avanzata piemontese dal Ticino al Mincio. - Quando il 20 marzo Carlo Alberto assicurò i messi milanesi che sarebbe entrato in Lombardia alla prima occasione favorevole (assicurazione che fu seguita due giorni dopo dall'ordine di radunata dell'esercito al confine del Ticino), i corpi di truppa si trovavano sparsi nelle ordinarie guarnigioni del Piemonte, della Liguria e della Savoia. Non ancora esisteva un piano di radunata e tanto meno un piano di campagna. I reggimenti più lontani distavano dal confine 14 giornate di marcia. Il ministro della Guerra, Franzini, formulò lo stesso giorno 22 marzo un piano di raccolta dell'esercito in ampia zona a cavallo del Po, limitata a occidente dalla linea Vercelli-Casale-Alessandria e a oriente dalla linea Mortara-Voghera. Ciò poteva significare l'intenzione (non però dichiarata esplicitamente) di operare offensivamente per le due rive del Po. In tal caso le forze procedenti a nord del fiume avrebbero agito frontalmente per la Lombardia, e quelle procedenti a sud avrebbero manovrato contro la sinistra della massa austriaca; piano di troppo ampio raggio, data l'esiguità delle forze. Comunque, si sarebbe dovuto aver sottomano la maggior parte delle forze prima di iniziare l'invasione della Lombardia. Ma esigenze d'ordine politico (e soprattutto il desiderio di mostrare che il Piemonte anelava a non lasciar disperdere il frutto della trionfante rivolta delle Cinque Giornate) indussero Carlo Alberto a cominciare le operazioni quando ancora la radunata dell'esercito era lungi dall'essere compiuta. Infatti, secondo il piano del Franzini, solo il 30 marzo si sarebbero potuti contare 25 mila uomini sul Ticino e cioè il numero minimo ritenuto necessario per una prima azione offensiva; e invece lo sconfinamento e la marcia attraverso la Lombardia furono decisi per il 25 marzo sicché la campagna si iniziò, in sostanza, con l'azione aggressiva di distaccamenti avanzati. Fu così che una colonna di 4000 uomini, agli ordini del generale Bes, fu inviata a Milano, dove il 26 marzo si mise a disposizione di quel governo provvisorio, che la fece avanzare, prima fino a Treviglio e poi fino a Brescia, dove si raccoglievano anche i volontarî che il governo provvisorio medesimo andava organizzando. Contemporaneamente, un'altra colonna - all'incirca della stessa forza - agli ordini del generale Trotti, sconfinava per Pavia, e di là avanzava in direzione di Lodi. Le altre forze piemontesi, a mano a mano che giunsero al Ticino, furono avviate sulle piste della colonna Trotti. Il grosso dell'invasione avvenne, così, per la bassa Lombardia, abbandonandosi la direttrice di avanzata a sud del Po.
Intanto si andava imbastendo un piano di campagna. Dapprima si pensò che convenisse puntare col grosso da Lodi su Brescia, per attaccare la destra della difesa del Mincio e staccare le truppe del quadrilatero dal Trentino; poi si pensò di puntare per Cremona verso il basso Oglio per attaccare la sinistra, reputandosi quivi il terreno più favorevole; e infine, in un consiglio di guerra convocato a Cremona (4 aprile), prevalse il concetto di attaccare la piazza di Mantova, caposaldo della difesa del Mincio. Ma due giorni dopo, saputosi che Mantova era stata rinforzata, si abbandonò anche questo progetto e fu deciso l'attacco frontale della linea del Mincio fuori della portata delle due piazze di Peschiera e di Mantova. L'8 e il 9 aprile furono attaccati e respinti gli avamposti a Goito e Monzambano e i Piemontesi occuparono i più importanti passi sul Mincio, compreso quello di Valeggio, ossia le porte per entrare nel quadrilatero.
Le operazioni nel quadrilatero. -Avendo percorso 150 km. oltre il confine, in soli 15 giorni dopo l'avvenuta dichiarazione di guerra, il grosso dell'esercito piemontese non era stato in grado di riparare ai difetti di organizzazione già accennati. Non poté, per conseguenza, iniziare subito nell'interno del quadrilatero le operazioni. Respinte nel frattempo dal governo di Torino offerte inglesi di mediazione, fu deciso il 24 aprile di entrare nel Veronese, mentre una divisione sarda (4ª) avrebbe posto l'assedio a Peschiera. Il 28 aprile l'esercito piemontese occupava, senza colpo ferire, le alture fra Mincio e Adige nel tratto fra S. Giustina e Custoza, con la destra protratta nel piano a Villafranca. Gli Austriaci erano raccolti in massa attorno a Verona con un distaccamento d'ala a Pastrengo, per coprire le comunicazioni fra Verona e il Trentino. Poiché tale distaccamento sul fianco sinistro piemontese poteva riuscire molesto, il comando supremo sardo decise di respingerlo oltre l'Adige. Ne avvenne il 30 aprile il combattimento di Pastrengo.
Per non lasciar disperdere gli effetti morali di questo successo, il comando supremo sardo ordinò per il 6 maggio un'avanzata fin sotto Verona, da effettuare con l'intero esercito, meno la divisione impegnata nell'assedio di Peschiera. La mossa mirava a provocare il Radetzky, così da indurlo a uscire dalla piazza; del qual fatto avrebbero profittato i patrioti veronesi (che un comitato d'azione assicurava pronti a insorgere) per sollevare la città e così prendere gli Austriaci fra due fuochi. L'avanzata (cui si diede nome di "ricognizione offensiva") doveva compiersi con più colonne che, dalle colline, dovevano convergere sul tratto Chievo.S. Lucia, quasi alle porte di Verona.
L'antico ciglione dell'Adige - detto il rideau - che si svolge da Chievo a Tombetta, a occidente della città, era occupato da circa 16.000 Austriaci, mentre altri 10.000 erano dentro le mura per tenere a bada i cittadini. La battaglia, impegnatasi su tutta la fronte, finì per concentrarsi intorno a Santa Lucia, di cui i Piemontesi rimasero padroni. Ma poiché la promessa sollevazione dei cittadini non avveniva, al comando supremo sardo non rimase che ordinare il ripiegamento sulle posizioni di partenza.
Dopo questa battaglia le operazioni fra Mincio e Adige sostarono per una ventina di giorni. I Piemontesi, in forte posizione sulle alture, attendevano che Peschiera cadesse per avere disponibile la divisione colà impegnata e riprendere con maggiori forze l'offensiva. Il Radetzky attendeva dal suo canto che gli giungessero i rinforzi inviati da Vienna e condotti dal generale Nugent, il quale, durante l'avanzata attraverso il Veneto, aveva dovuto superare la resistenza opposta dall'esercito pontificio, come si dirà più oltre.
Quando questi rinforzi furono giunti, il maresciallo austriaco decise di prendere l'offensiva, non però attaccando frontalmente le posizioni piemontesi, ma aggirandole per Mantova così da capitare alle spalle del nemico e tagliargli la via di ritirata attraverso la Lombardia. Il Radetzky iniziò la notte sul 28 maggio il movimento, che riuscì a compiere, con marce forzate, nella successiva giornata senza che i Piemontesi ne avessero sentore. Il Radetzky aveva formato tre colonne, le quali, movendo tutte da Verona, raggiungevano Mantova rispettivamente per le strade di Trevenzuolo, di Isola della Scala-Castel d'Ario e di Bovolone-Cerea.
Da Mantova il Radetzky ordinò che il movimento aggirante oltre il Mincio fosse proseguito il mattino seguente (29 maggio). A sbarrare l'uscita occidentale di Mantova erano i battaglioni studenteschi toscani, in posizione sulla linea Curtatone-Montanara. Combattendo valorosamente, e in gran parte sacrificandosi sul posto, quei battaglioni ritardarono l'avanzata austriaca e diedero tempo al comando supremo sardo di riaversi dalla sorpresa e di effettuare il passaggio dalla sinistra alla destra del Mincio per parare alle gravi conseguenze della mossa austriaca. Fu fortuna per le armi italiane che il Radeztky, oltrepassata la linea Curtatone-Montanara, sostasse il mattino del 30 maggio, rinviando al pomeriggio la prosecuzione della manovra aggirante. Il maggior tempo fu messo a profitto dai Piemontesi per la raccolta di maggiori forze attorno a Volta (raccolta iniziata il giorno 29), di dove quelle forze furono poi spostate innanzi fino a Goito. Il Radeztky nella sua avanzata verso nord fu a sua volta sopreso di trovare i Piemontesi con uno schieramento concentrato, mentre egli aveva formato più colonne con obiettivi divergenti. Avvenne, così, nel pomeriggio del 30 maggio, la battaglia di Goito con la quale i Piemontesi costrinsero il Radetzky a desistere dall'offensiva a occidente del Mincio e a ridursi nuovamente a Mantova. Lo stesso giorno 30 si arrendeva alla 4ª divisione piemontese la piazza di Peschiera.
I Piemontesi non inseguirono prontamente gli Austriaci dopo la vittoria e a questa sosta non furono certamente estranei i dibattiti politici sulle sorti della Lombardia. Fu così perduta la possibilità di ostacolare ai nemici il ripassaggio del Mincio attraverso lo strettoio di Mantova. Alcuni giorni dopo, anche i Piemontesi ripassarono a oriente del Mincio e rioccuparono le stesse alture che avevano lasciate pochi giorni innanzi, mentre il Radetzky operava una puntata verso oriente per mettere fuori causa l'esercito pontificio, raccolto attorno a Vicenza.
Gli Austriaci contro i pontifici: Cornuda-Vicenza. - L'esercito pontificio, agli ordini del generale Durando, si trovava nel Veneto a mantenervi desta la sollevazione e a intralciare le comunicazioni fra il grosso dell'esercito austriaco (Verona) e le vie d'accesso dal Cadore e dal Friuli. Per liberarsene il Radetzky progettò l'offensiva condotta nella prima decade di giugno.
Lasciato in Verona un conveniente presidio per resistere a eventuali attacchi piemontesi, il maresciallo - in ritirata dal campo di battaglia di Goito - condusse il grosso dell'esercito da Mantova, per Legnago, Montagnana e Barbarano, fino a sud di Vicenza, contro le posizioni occupate dai pontifici.
Costoro avevano già tentato, come si è detto, di sbarrare ai rinforzi austriaci condotti dal Nugent la via verso Verona, come da ordini impartiti al Durando dal governo provvisorio di Venezia, a disposizione del quale il comando sardo aveva posto il piccolo esercito romano. Il Nugent procedendo dal Friuli verso occidente, giunto alla riva sinistra del Piave in piena, aveva dovuto prendere la via più lunga di Fadalto e di Belluno. Saputa la mossa e nell'incertezza se gli Austriaci intendessero sboccare per il Brenta (Bassano) o per il Piave (Montebelluna), il generale pontificio aveva divise le forze fra quei due sbocchi, calcolando di aver tempo di riunirle là dove si fosse poi effettivamente manifestata la minaccia. Una ritardi e contrattempi avevano reso praticamente inattuabile quel piano, e la divisione pontificia del Ferrari, rimasta sola allo sbocco del Piave, dopo una virile resistenza alla Cornuda, aveva ceduto al Nugent il passo per Montebelluna. Dopo di che l'esercito pontificio, rinforzato da nuclei di "crociati veneti" si era riunito a Vicenza, dove ora il Radetzky muoveva ad attaccarlo.
L'avanzata del Radetzky alle posizioni di attacco di Vicenza si compì in sei giorni (4-9 giugno) e lo schieramento si attuò sulla linea Arcugnano-Quartesolo, con forze almeno doppie di quelle dei difensori. Il Durando aveva disposto 4500 dei suoi - in gran parte volontarî, col Cialdini e il D'Azeglio - a difesa sulle alture a sud di Vicenza, da Madonna del Monte alla Rotonda; e altri 6000 uomini circa a difesa dei margini della città dalla parte di mezzogiorno e di levante. Il 10 giugno fu combattuta la battaglia di Vicenza. La virile difesa non riuscì a contenere il soverchiante numero degli assalitori e nella notte successiva il Durando trattò la capitolazione. Si convenne che l'esercito pontificio avrebbe avuto l'onore delle armi, col patto che ripassasse sulla destra del Po e non riprendesse parte a operazioni di guerra per un periodo di tre mesi.
Le ultime operazioni: Custoza, Milano. - Nel frattempo il morale dell'esercito piemontese veniva messo a dura prova dalle escandescenze, ingiuste e inopportune, della demagogia. Sulle gazzette lombarde cominciarono ad apparire insinuazioni offensive circa il poco coraggio e la scarsa buona fede dei Piemontesi. È probabile che contribuissero a questa eccitazione agenti al soldo dell'Austria. Di più, alcuni malintesi sorti fra i capi dei volontarî e il comando supremo sardo, in relazione sia col difettoso collegamento nella giornata di Curtatone-Montanara, sia con le operazioni nella regione del Garda, avevano creato diffidenze reciproche, che l'opera dei volonterosi non bastava a disperdere. Infine, contribuì alla perplessità degli animi la notizia di trattative di pace in corso, per iniziativa di lord Palmerston.
Rispecchiandosi tale situazione sulla strategia, l'esercito piemontese, ormai rimasto solo in lizza, fu disteso su larga zona, da Rivoli a Mantova, in attitudine di attesa. Sola operazione attiva l'investimento della piazza di Mantova.
Nel campo avversario, invece, il successo ottenuto dal Radetzky sul Bacchiglione aveva notevolmente migliorata la situazione complessiva. Veniva agevolata la sottomissione del Veneto ed erano state riaperte le comunicazioni per la Vallarsa. L'esercito imperiale era ormai libero di gettarsi sui Piemontesi.
Il maresciallo austriaco disegnò di puntare con forza contro le alture per spezzare in due la sottile linea della difesa e aver poi ragione dei due tronconi separati. Preceduta da un attacco dimostrativo all'estremo nord (Rivoli) nei giorni 21 e 22 luglio, l'offensiva del grosso si pronunciò il 23 e durò il 24 e il 25, dando luogo alla battaglia decisiva, denominata di Custoza.
Gli Austriaci riuscirono a sfondare la linea piemontese e a passare il Mincio fra Salionze e Valeggio. Nonostante la tenacia dei capi e il valore delle truppe, la battaglia fu perduta e l'esercito piemontese devette affrettarsi sulla via della ritirata, passando il Mincio più a sud, per avere maggiori probabilità di sfuggire all'accerchiamento. Il 27 luglio un consiglio di guerra convocato da Carlo Alberto, decise che la ritirata dovesse compiersi nella direzione del basso Oglio, con l'intento di passare il Po a Piacenza e rientrare in Piemonte per la destra del Po. Ma il re, con magnanima decisione, volle che la ritirata si effettuasse nella direzione più pericolosa di Milano per "soccorrere i bravi Milanesi".
Il 4 agosto i superstiti dell'esercito piemontese si disposero a semicerchio dinnanzi a Milano presso le mura. Quivi furono attaccati dagli Austriaci, con azione principale a cavallo della via di Lodi (porte Vigentina, Romana e Vittoria). Dopo circa 5 ore di lotta i difensori cominciarono a cedere. Anche la battaglia di Milano era finita.
Fu pattuito col Radetzky un armistizio provvisorio di tre giorni, durante i quali l'esercito piemontese doveva ripassare il confine del Ticino. Il 9 agosto fu concluso altro armistizio, che prese il nome dal generale di Salasco, firmatario per ragione di carica.
Le imprese dei volomarî. - Il '48 fu l'anno tipico del volontarismo in Italia. Oltre alla partecipazione dei volontarî toscani e romani, cui si è accennato, va ricordata l'organizzazione, tentata dal governo provvisorio di Milano, di schiere volontarie con elementi già profughi nel Piemonte e nella Svizzera, con disertori dell'esercito austriaco di nazionalità italiana e altri animosi di provenienza varia. Questi volontarî furono inviati in un primo tempo nel Bresciano, dove furono raggiunti - come si è visto - dalla colonna piemontese del generale Bes. I militi difettavano di molte cose necessarie, a cominciare dalle armi. L'organizzazione procedette tra difficoltà non lievi, cui si aggiunse, per molti dei militi, un'insufficiente valutazione delle esigenze disciplinari in guerra. Il governo di Milano ne affidò il comando a un italiano emigrato in Svizzera, l'Allemandi, che nell'esercito federale elvetico era giunto al grado di colonnello; e d'accordo col comando supremo piemontese, assegnò a queste truppe improvvisate il compito di molestare le comunicazioni del Radetzky col Trentino. Prima ancora che l'Allemandi giungesse, una colonna di volontarî agli ordini del Manara aveva scacciato da Salò il debole presidio austriaco e aveva catturato i due vapori del servizio lacuale, colà ancorati. Si pensò allora di tentare la traversata del lago per sbarcare sulla sponda veronese e compiere un attacco dimostrativo contro Peschiera da oriente. Con i due vapori e con grossi barconi a rimorchio, il Manara fece compiere la traversata il 10 aprile a una propria compagnia (Noaro) che giunse fino sulla strada Verona-Peschiera, respingendo un piccolo distaccamento nemico. Non sostenuta da rinforzi e mal collegata con le operazioni dell'esercito regolare, la compagnia Noaro non poté resistere al contrattacco in forza ordinato dal Radetzky e l'impresa fallì. Mentre ciò accadeva, il governo provvisorio di Milano decretava la leva nelle provincie lombarde; la coscrizione ebbe effetto circa due mesi dopo e i nuovi soldati furono in parte impiegati a ingrossare la 2ª divisione piemontese di riserva, in parte a costituire un'altra divisione, detta appunto lombarda, della quale ebbe il comando il generale Perrone di San Martino, ufficiale piemontese a riposo.
I volontarî di Garibaldi entrarono in azione soltanto negli ultimissimi giorni della campagna. Il duce delle camicie rosse era sbarcato, a campagna inoltrata, a Nizza, reduce da Montevideo (22 giugno). Cinto dell'aureola di capo animoso di guerriglia, Garibaldi e le poche decine di legionarî che lo avevano seguito nella traversata, erano stati accolti dai patrioti di Nizza e di Genova con entusiastiche acclamazioni, alle quali Garibaldi aveva risposto predicando l'unione a Carlo Alberto. Si era poi recato al comando supremo sardo per offrire la sua spada, ottenendone risposta che occorreva si rivolgesse al competente ministero in Torino, dove infatti Garibaldi si recò. Ma le frasi temporeggiatrici della burocrazia non potevano non irritare un uomo d'azione come Garibaldi, il quale rispose alle difficoltà rappresentategli dal ministro, generale Ricci, con la nota frase: "Signore, io sono uccel di bosco e non di gabbia", e se ne andò a offrire i proprî servigi al governo di Milano, nel momento in cui le sorti della guerra stavano per precipitare sul Mincio. Poiché c'erano ancora, fra Milano e Bergamo, circa tremila volontarî non inquadrati, il governo di Milano li affidò a Garibaldi; il quale subito si adoperò a costituirli in battaglioni e compagnie. Era Garibaldi a ciò intento, quando giunse la notizia del disastro di Custoza. Con marcia forzata i volontarî furono portati dal Bergamasco a Monza, dove giunsero il 5 agosto, cioè il giorno dopo la battaglia di Milano. Di qui, Garibaldi si proponeva di molestare il fianco destro e le retrovie degli Austriaci di nuovo avanzanti nella Lombardia. Appreso che un armistizio era stato stipulato, non volle arrendersi senza prima avere adoperate le poche armi di cui disponeva. Da Monza, malsicura, perché mancante nelle vicinanze di buoni appigli tattici, si trasferì a Como, dove gli potevano altresì giungere più facilmenti aiuti svizzeri. Ma la sfiducia cominciava a pervadere tutti, capi e gregarî, sicché per frenare le diserzioni, Garibaldi pensò di ritrarsi per breve tempo oltre il Ticino in territorio piemontese. Qui giunto, però, essendogli stato intimato di sciogliere i suoi volontarî in ossequio alle clausole dell'armistizio di Salasco, Garibaldi infiammò alla ripresa della lotta i millecinquecento uomini che ancora gli rimanevano; e, impadronitosi ad Arona di due piroscafi, fece rotta per Luino dove giunse il 14 agosto e dove fu attaccato il giorno dopo da forte colonna austriaca proveniente da Varese. Messi in fuga gli assalitori con attacco alla baionetta, i volontarî avanzarono alla loro volta fino a Varese (18 agosto) e vi si disposero a difesa. Attaccato con azione convergente da tutto il corpo d'armata austriaco del D'Aspre, Garibaldi sfuggì alla stretta spostandosi rapidamente a Morazzone. Ma uno spione indicò al nemico la mossa garibaldina e il D'Aspre attaccò Morazzone, dove i garibaldini si sostennero a lungo, aprendosi poi un varco fra le schiere nemiche, all'arma bianca. Era ormai impossibile continuare una qualsiasi azione di guerra. Conscio di ciò, Garibaldi, giunto in campo libero, sciolse le sue schiere, consigliando i volontarî a passare alla spicciolata in territorio elvetico. Quivi egli stesso si rifugiò, dopo avere esaudito il suo voto, di non piegare senza avere prima incrociato le armi.
Campagna del 1849. - La preparazione militare. - Mentre le trattative per la pace si andavano orientando in senso sfavorevole alle aspirazioni piemontesi, e mentre si acuivano all'interno i contrasti fra il partito della pace e quello della guerra e all'estero l'appoggio dell'Inghilterra si riduceva ad affermazioni platoniche e più debole ancora si palesava quello della Francia, l'esercito piemontese era oggetto di riforme organiche.
Con i Lombardi, Parmensi, Modenesi e altri rifugiati desiderosi di combattere, furono costituiti 5 nuovi reggimenti di fanteria di linea, 4 battaglioni di bersaglieri e alcuni squadroni di cavalleria; si preferì che questi elementi non fossero mescolati con gli uomini dell'esercito regolare. Intanto si era proceduto alla chiamata alle armi - normale - della classe del 1828, e - per anticipazione - della classe del 1829; si erano inoltre trattenuti alle armi tutti i "provinciali" reduci dalla guerra. I reggimenti di fanteria di linea furono portati a 28, i battaglioni di bersaglieri furono portati a 5; fu creato un corpo di guide a cavallo, di 3 squadroni; le batterie da campo vennero portate da 15 a 19. Con queste forze l'esercito fu organizzato su 7 divisioni di fanteria, più due brigate indipendenti. In tutto 80.000 combattenti circa; ma all'accresciuto numero faceva da contrappeso una diminuzione di qualità, specialmente nei "quadri" i quali risentono sempre molto il danno dell'improvvisazione. In condizioni critiche era, soprattutto, l'alto comando. I più elevati capi erano tenuti in poco conto dopo l'insuccesso dell'ultima guerra e la demagogia li batteva in breccia. E il discredito si accrebbe quando alcuni generali cercarono, con accese polemiche assai inopportune, di alleggerire le responsabilità proprie e di aggravare le altrui. Discese spesso dall'alto l'esempio della scarsa disciplina degli animi. E in queste contingenze Carlo Alberto s'indusse a cercare un duce supremo straniero alle forze piemontesi. Dopo tentato invano di ottenere un capo francese (né il Bugeaud, né il Changarnier, né il Lamoricière vollero accettare) il re afffidò l'arduo compito allo Chrzanowski generale polacco, di precedenti rivoluzionarî, reputato buon organizzatore e buon comandante. Nelle settimane che precedettero la ripresa delle ostilità, lo Chrzanowski lasciò più volte intendere al governo di Torino lo scarso valore dell'esercito come organismo e le deficienti qualità dei quadri. Ma il governo passò oltre, e quando il generalissimo chiese al potere politico le direttive per l'imminente campagna, ebbe la risposta, forse più audace che ragionevole, di far guerra arditamente offensiva e di "giuocare il tutto per il tutto".
L'esercito piemontese fu così costituito per la nuova guerra: comandante in capo, il re Carlo Alberto; capo di Stato maggiore, il generale Alberto Chrzanowski; 1ª divisione (gen. Durando); 2ª divisione (generale Bes); 3ª divisione (gen. Perrone); 4ª divisione (duca di Genova); 5ª divisione (gen. La Marmora); divisione di riserva (principe ereditario, Vittorio Emanuele). In tutto 113 battaglioni di fanteria di linea; 10 battaglioni di bersaglieri; 13 batterie da battaglia, 3 da posizione, 3 a cavallo; 27 squadroni; 6 compagnie del genio.
Anche il Radetzky si era preparato, durante l'armistizio, a riprendere la lotta. Non potendo contare su rinforzi dall'interno dell'impero, dove la rivolta dell'Ungheria richiedeva largo impiego di truppe tal quale come si trattasse di una guerra esterna, il maresciallo aveva attuato provvedimenti varî per rinvigorire le forze disponibili in Lombardia. Lasciato il corpo del Haynau (circa 25.000 uomini) attorno a Venezia, che tuttora resisteva (v. oltre), aveva costituito con le altre forze 5 corpi d'armata (circa 70.000 combattenti!), dopo avere decretata l'amnistia per tutti i soldati di nazionalità italiana che avevano disertato durante gli avvenimenti dell'anno precedente.
La formazione di guerra dell'esercito austriaco risultò nel modo seguente: comandante in capo il maresciallo Radetzky; capo di Stato maggiore il generale Hess; I corpo d'armata (gen. Vratislav); II corpo d'armata (gen. D'Aspre); III corpo d'armata (gen. Appel); IV corpo d'armata (gen. Thurn); corpo d'armata di riserva (gen. Wocher). In tutto: 72 battaglioni, 24 squadroni, 180 pezzi d'artiglieria.
I disegni di guerra degli avversarî. - Era opinione del governo e del comando piemontese (ed era opinione diffusa nel pubblico) che il Radetzky si sarebbe ritirato, come l'anno precedente, nel quadrilatero; o, se si fosse volto verso il Ticino, vi avrebbe assunto atteggiamento difensivo. Tali supposizioni mancavano di base logica, perché nel '49 Radetzky non poteva attendere rinforzi, né - d'altra parte - aveva, come nel'48, le retrovie intercettate dalla rivoluzione. Comunque, l'accennato preconcetto fu la base del piano di campagna dello Chrzanowski, che si propose di irrompere in Lombardia con la maggior parte delle forze lungo la direttrice Novara-Milano e tamponare nel tempo stesso lo sbocco di Pavia con una divisione (Ramorino), per l'eventualità che gli Austriaci volessero invadere il Piemonte da quella parte; frattanto un distaccamento (tratto dalle truppe del Ramorino) avrebbe compiuto atti dimostrativi lungo la destra del Po in direzione di Piacenza e altro distaccamento avrebbe seguito a nord la marginale alpina per penetrare di là in Lombardia e promuovervi l'insurrezione. Alla dimostrazione in direzione di Piacenza avrebbe concorso anche la divisione La Marmora, che si trovava allora a Sarzana. È noto come il Ramorino, impressionato da voci che assicuravano essere passate forze austriache numerose a sud del Po, lasciasse solo poche centinaia di uomini col Manara allo sbocco dinnanzi a Pavia, e tenesse le rimanenti sulla destra del Po; iniziativa aggravata dal ripiegamento del ponte militare di Mezzana Corti, e più ancora dall'inconcepibile dimenticanza di avvertirne il comando supremo.
Il piano del Radetzky, contrariamente alle supposizioni piemontesi, era decisamente offensivo. Il maresciallo intendeva forzare il passo del Ticino a Pavia con la totalità delle forze, volgersi poi dalla Lomellina verso nord per manovrare sulle retrovie dell'avversario, il cui grosso sapeva raccolto attorno a Novara. A fine di ingannare i Piemontesi, la raccolta delle forze a Pavia doveva effettuarsi dopo avere seguita, in un primo tempo, la direzione verso sud-est, in modo da simulare una ritirata.
Le prime operazioni: Mortara, La Sforzesca. - Al mezzogiorno del 20 marzo scadeva l'armistizio. Senz'altro i Piemontesi, concentrati fra Novara e il ponte di Boffalora, facevano passare il confine alla divisione duca di Genova, che si inoltrava fino a Magenta. Ma il movimento veniva a subire subito un tempo d'arresto, causa le notizie apparentemente contraddittorie di una ritirata austriaca verso Lodi e di un'avanzata verso Pavia. Sappiamo che le notizie erano entrambe vere e si riferivano l'una alla prima parte, l'altra alla seconda del piano Radetzky. Il fatto reale era che gli Austriaci erano entrati in Piemonte da Pavia e avevano battuto il piccolo distaccamento difensivo del Manara (alla Cava), i cui resti si ritraevano in molteplici direzioni.
Quando a tarda sera dello stesso giorno 20 marzo la notizia di questi fatti giunse come un colpo di fulmine al comando supremo sardo in Trecate, lo Chrzanowski corse energicamente ai ripari. Destituito il Ramorino e sostituitolo col Fanti, fu ordinato al grosso piemontese un cambiamento di fronte verso sud e lo schieramento sulla linea Mortara-Vigevano. Mentre questi movimenti si compivano, gli Austriaci avanzavano in tre colonne per concentrarsi attorno a Mortara.
Il giorno 21 marzo alle ore 13 i bersaglieri della divisione piemontese diretta a Vigevano stavano per collocare gli avamposti alquanto a sud della città (a S. Siro), allorché furono fatti segno a cannonate da parte della colonna austriaca di destra; ripiegarono sul grosso della divisione Bes, avanzatosi anch'esso a sud di Vigevano, fino alla Sforzesca. Lo Chrzanowski, che si trovava presso Vigevano, prolungò con una brigata (Savoia) la destra della divisione Bes, e con questo provvedimento stroncò l'aggiramento tentato da una forte colonna austriaca, che i fanti di Savoia attesero appiattati, senza sparare e accolsero poi con furiose scariche a bruciapelo, il cui effetto fu completato da un assalto alla baionetta. Lo Chrzanowski avrebbe voluto operare, in questo momento, un contrattacco generale, ma non aveva alla mano altre truppe fresche e dovette accontentarsi di mantenere le posizioni contese.
Nello stesso giorno 21 marzo, la 1ª divisione (Durando) giungeva a Mortara e disponeva le sue due brigate a difesa del bordo sud della città. Seguiva la divisione di riserva (duca di Savoia). Sopraggiungendo la sera fu ordinato alle truppe di mettersi a campo; improvvisamente, al calar del sole, si abbatté sui campi piemontesi (non protetti da alcun servizio di sicurezza) l'attacco della colonna austriaca di sinistra. Cedendo agli effetti della sorpresa, le truppe ripiegarono dentro la città, dove le diverse unità si incrociarono e si frammischiarono nelle strette vie. Penetrati nell'abitato anche gli Austriaci, si iniziò un combattimento alla cieca; molti, da una parte e dall'altra, caddero colpiti dal piombo dei commilitoni, finché i Piemontesi uscirono alla campagna per diverse vie: quella di Vigevano, quella di Novara, quella di Vercelli.
La notizia dello sfortunato episodio di Mortara giunse a tarda notte a Carlo Alberto, che aveva voluto dormire all'aperto tra i fanti della brigata Savoia, nonostante la rigida temperatura. Il re conferì subito con lo Chrzanowski, il quale, animato ancora da spirito offensivo, pensò che l'estremo rimedio fosse di attaccare con tutte le truppe situate attorno a Vigevano (circa 30 mila uomini) in direzione di Mortara; ma i generali, consultati, dichiararono di ritenere quella mossa eccessivamente rischiosa. Allora fu ordinato il ripiegamento generale in direzione di Novara.
La battaglia di Novara. - Il movimento di raccolta dell'esercito piemontese attorno a Novara, fu compiuto nella giornata del 22 marzo, e il Radetzky, lo stesso giorno continuò il concentramento del grosso nella direzione di Mortara, di dove si poteva puntare o verso Novara o verso Vercelli-Torino, secondo la direzione presa dai Piemontesi. Le informazioni giunte il 22 marzo al maresciallo austriaco non rispondevano al vero, perché davano la direzione di Vercelli come quella seguita dal grosso e la direzione di Novara come quella seguita da un distaccamento in funzione dimostrativa. Sulla base di queste notizie, il Radetzky ordinò per il giorno 23 marzo un'avanzata a ventaglio, su larga fronte, con l'intento di far poi convergere le colonne che trovassero di fronte a loro poche forze, verso quelle che fossero impegnate in serio combattimento. Si sarebbe, così, effettuato un movimento avvolgente sullo stesso campo di battaglia.
La disposizione delle truppe piemontesi lungo il ciglione a sud di Novara e le disposizioni del Radetzky per l'avanzata, portarono il 23 marzo alla battaglia di Novara. Dopo eroica resistenza e innumeri fatti di valore, i Piemontesi ripiegarono dentro l'abitato, dove i reparti, anche qui, si incrociarono e si frammischiarono. La stessa sera Carlo Alberto si vide costretto a chiedere tregua; ma, trovando i patti imposti dal Radetzky per lui inaccettabili, piuttosto che piegare il capo preferì abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele.
Il nuovo re, in una cascina presso Vignale, fissò col Radetzky i patti dell'armistizio: occupazione del Novarese da parte delle truppe austriache e diritto di guarnigione austriaca nella cittadella di Alessandria fino alla conclusione della pace; abbandono da parte del Radetzky della pretesa abolizione dello statuto costituzionale in Piemonte.
La difesa di Venezia (1848-49). - Delle truppe che erano scese in Italia al principio della campagna del 1848 agli ordini del Nugent per rinforzare il Radetzky, una parte era stata avviata a Verona e l'altra parte (al comando del gen. Welden) aveva avuto incarico di sottomettere il Veneto e Venezia. Ciò avveniva mentre il Borbone di Napoli si ritraeva dalla lotta per l'indipendenza nazionale e ordinava all'esercito e alla flotta di fare ritorno in patria.
L'ordine alla flotta giunse quando gli ammiragli delle marine alleate - sarda, napoletana, e degl'insorti veneti - stavano per iniziare il blocco di Trieste; il quale ebbe ugualmente un principio di esecuzione da parte delle due flotte rimanenti (11 legni da guerra sardi e 5 di ribelli veneziani con complessivi 300 cannoni) che avevano di fronte 14 legni austriaci con 250 cannoni. L'intervento della dieta germanica e altre pressioni diplomatiche indussero, però, ben presto a desistere dall'impresa (primi di luglio del 1848).
In terraferma, avevano ripiegato dinnanzi al Welden, e si erano rifugiati in Venezia, volontarî veneti, truppe del battuto esercito pontificio, disertori austriaci, esuli politici. Questi elementi eterogenei ingrossarono le forze di Venezia, allora costituite da tre battaglioni di riserva piemontesi e dalle poche centinaia di Napoletani che - disobbedendo all'ordine del Borbone - avevano seguito in Venezia il generale Pepe. Questo, nominato dal governo di Venezia comandante in capo della piazza, diede subito opera per mettere ordine in quella massa caotica di uomini. Quanto a forze marittime rimanevano ai Veneziani 5 legni che tenevano il mare, 3 nell'arsenale in riparazione, e 80 piccoli legni armati che potevano operare nei canali della laguna. Gli equipaggi - oltre 4000 marinai - esuberanti.
Durante l'estate, ai ripetuti ordini di re Ferdinando, quasi tutti i Napoletani che avevano seguito il Pepe, abbandonarono Venezia; e per effetto dell'armistizio di Salasco furono ritirati i tre battaglioni piemontesi e la flotta sarda del viceammiraglio Albini.
Quantunque fosse svanita anche la speranza di aiuti militari francesi, governanti e popolo di Venezia giurarono virilmente di resistere a oltranza. E il Pepe diede inizio a sortite dalla piazza per molestare gli assedianti; il 22 ottobre occupò le opere del Cavallino e il 27 ottobre Mestre. Fierissima lotta in quest'ultima località e buon bottino di prigionieri, fucili e cannoni.
Nell'imminenza della nuova campagna in Piemonte (marzo 1849) il Pepe progettò una sortita dalla piazza, secondo accordi intervenuti col comando supremo sardo. L'uscita fu effettuata a sud, dal piccolo campo trincerato di Brondolo; i Veneziani occuparono il paese di Conche; contrattaccati, lo perdettero; poi lo ripresero. Ma, giunto poco dopo l'annuncio della disfatta di Novara, il proposito di aprirsi un varco nella linea di investimento per operare in terraferma, perdeva il suo scopo.
Divennero, dopo Novara, più aggressivi gli Austriaci. Il Haynau, succeduto al Welden, intimò a fine marzo la resa di Venezia. Il 2 aprile Daniele Manin lesse il messaggio del generale nemico dinnanzi all'assemblea legislativa, e ne chiese il parere. La resistenza a oltranza fu votata all'unanimità. E il popolo fece eco portando in trionfo il Manin. Al Haynau fu mandata, in risposta, copia del decreto che così suonava: "In nome di Dio e del Popolo, l'Assemblea dei rappresentanti decreta: 1. Venezìa resisterà all'Austriaco ad ogni costo; 2. il Presidente Manin è investito a questo effetto di poteri illimitati".
Gli Austriaci strinsero più fortemente la piazza: con 30.000 uomini verso terra e con 16 legni da mare. Lo sforzo principale, per impossessarsi di Venezia, fu compiuto contro le opere centrali, dette di Marghera. Il Haynau aveva creduto che il violento fuoco delle bocche d'assedio dovesse ridurre all'impotenza in pochi giorni i difensori di Marghera; la resa era prevista per il 4 maggio. I difensori resistettero invece 22 giorni. E, caduta Marghera, improvvisarono difese sugli isolotti della laguna e attraverso il ponte, sicché gli Austriaci, di fronte all'impreveduta resistenza frontale, pensarono a un tentativo dalla parte di Brondolo; ma non essendo neppur qui riusciti, ritornarono al primitivo concetto. Alla fine di luglio cominciò il bombardamento contro la parte occidentale dell'abitato di Venezia; durò 24 giorni, e furono dagli Austriaci lanciate 23.000 bombe. Ai danni del fuoco si aggiunsero per i Veneziani la penuria dei viveri e l'epidemia colerica.
Fu allora tentata una sortita dei pochi legni veneziani contro la flotta austriaca (6 agosto), ma le navi nemiche rifiutarono lo scontro e s'involarono profittando della loro maggior velocità. Da parte di terra fu attaccata nuovamente dai Veneziani l'opera del Cavallino, da cui gli Austriaci furono cacciati. Ma era successo puramente locale, senza effetto sulla situazione generale dell'assedio. Bisognò finalmente arrendersi. Il 22 agosto i patti della resa furono stipulati in Mestre.
Pochi giorni prima, arringando il popolo sulla piazza di S. Marco per prepararlo alla necessità di cedere, il Manin aveva detto: "Un popolo che ha fatto e sofferto ciò che il nostro popolo ha fatto e sofferto, non può perire. Deve venire un giorno in cui il. fulgore del suo destino corrisponderà a questi meriti".
La difesa dflla Repubblica romana (1849). - A completare il quadro guerriero del 1848-49 si deve accennare all'azione del volontarismo armato per la difesa della Repubblica romana.
Il principe-presidente della Repubblica francese, decisa l'ambigua spedizione contro Roma repubblicana, raccolse a Tolone, porto d' imbarco, 8000 uomini circa (una divisione su tre brigate di fanteria, un battaglione di cacciatori a piedi, 2 squadroni di cavalleria, 3 batterie da campo, 2 compagnie del genio) al comando del generale Oudinot. Quando il 25 aprile la spedizione giunse a Civitavecchia, il Mazzini, esponente del triumvirato esecutivo, per nulla rassicurato dalle dichiarazioni semipacifiche del generale in capo francese, ordinò l'affrettata organizzazione di forze armate e urgenti lavori di fortificazione lungo il margine sudoccidentale di Roma, da Porta Portese - per San Pancrazio, il Gianicolo e Porta Cavalleggeri - fino a Porta Angelica, col concetto di organizzare due linee difensive, la prima lungo le mura e la retrostante lungo il recinto aureliano. Furono chiamati alle armi tutti i cittadini dai 18 ai 55 anni e con quelli al disotto dei 30 anni furono costituite "unità mobili" della guardia nazionale. Esposta dal triumvirato la situazione all'assemblea dei rappresentanti, questa decise che si dovesse "respingere la forza con la forza". Tre giorni dopo lo sbarco, il corpo francese prese la via di Roma, per Palo. Allorché gl'invasori si presentarono sotto le mura della città (30 aprile), le forze della repubblica sommavano a circa 9000 uomini, ripartiti in tre brigate, rispettivamente agli ordini di Garibaldi, Masi, Galletti, più una piccola legione di cavalleria, comandata dal Savini.
L'Oudinot inviò baldanzosamente i suoi all'attacco delle porte Cavalleggeri e Angelica (una brigata per ciascun obiettivo), prescrivendo che, superate le prime difese, gli attaccanti dovessero convergere verso il Vaticano. Giunte, però, a un chilometro e mezzo dalle mura, le truppe francesi furono sconcertate dal vivo fuoco dei cannoni romani. I fanti della difesa si lanciarono allora a ripetuti contrattacchi (particolarmente memorabile la sortita di Caribaldi da Porta San Pancrazio) e dopo sette ore di combattimento l'Oudinot prescrisse la ritirata sulla base di Civitavecchia. Garibaldi, spalleggiato dal Galletti, sostenne la necessità di inseguirli colà per costringere il corpo di spedizione a riprendere il mare. Ma il triumvirato opinò che con questo contrattacco a fondo si sarebbero superati i limiti di una legittima difesa, e non si diede corso all'ardimentoso progetto.
Il principe Luigi Napoleone, per trarsi d'imbarazzo, avrebbe voluto che Pio IX s'inducesse a larghe promesse di amnistia e di istituzioni liberali, ciò che avrebbe giustificata un'azione francese per la sua restaurazione; ma, trovata a Gaeta la più ferma ripulsa, non ebbe altra via di uscita che quella di organizzare una nuova spedizione su più larghe basi per avere ragione a ogni costo della Repubblica romana, pena lo scadimento del prestigio militare, particolarmente necessario a chi meditava d'impugnare lo scettro di Napoleone.
Per guadagnare tempo all'invio dei rinforzi e assopire la bellicosità dei triumviri, fu immaginata la missione del Lesseps, con lo scopo di armonizzare due elementi allora inconciliabili: il papato e la rivoluzione nazionale scesa in lizza per l'abolizione del potere temporale della Chiesa. Dopo circa un mese di laboriose trattative, il Lesseps aveva concluso col triumvirato una convenzione secondo la quale il popolo romano sarebbe stato libero di scegliere fra il regime repubblicano e il ritorno della sovranità del potefice; ma, al momento della sanzione, il governo di Parigi troncò bruscamente la missione del Lesseps.
Durante il mese di maggio, mentre questi negoziati si erano svolti, altre minacce armate si erano appuntate contro Roma per rispondere all'appello di Pio IX.
Una spedizione austriaca, passando per Bologna e la Romagna aveva attaccato Ancona; difesa da 5000 uomini capeggiati dallo Zambeccari, con la baldanzosa speranza di prenderla in breve ora e di proseguire poi per il Lazio; ma gli Austriaci avevano patito sotto le mura di Ancona la stessa delusione dei Francesi sotto Roma. L'assalto era stato respinto e si dovette condurre assedio regolare che durò quasi un mese.
Da sud era mosso un corpo napoletano (maresciallo Casella) di 9000 fanti (generale Lanza) e 2000 cavalli (generale Carrabba). Aveva sconfinato nello stato romano accampando fra Velletri ed Albano.
Il triumvirato aveva commesso a Garibaldi (3000 uomini della legione italiana più i bersaglieri del Manara) di molestare il fianco destro dei borbonici per la via dei monti (Tivoli-Palestrina). In questo corpo garibaldino era anche una compagnia di ragazzi, dai dodici ai sedici anni. Il 7 maggio, dopo una lunga marcia notturna sotto l'acqua, i garibaldini erano giunti a Palestrina. Avvistatili, i borbonici erano mossi ad assalirli, ma Garibaldi li aveva contrattaccati con fortuna sul fianco. La grande inferiorità numerica non aveva consentito ai Romani di trarre tutto il profitto da quel primo successo. Ma quando al triumvirato era parso di essere sicuro da parte francese (trattative in corso col Lesseps) la lotta contro i Napoletani era stata ripresa su più larghe basi. A questo punto era sorta una deleteria incertezza sull'uomo cui affidare il supremo comando delle operazioni. Si era concluso con un compromesso che aveva mirato a mantenere, alla pari, Garibaldi e il generale Roselli; questi, uomo di dottrina, e caro al Mazzini. Era prevalsa insomma la formula teorica del connubio fra l'uomo dalle azioni ardimentose e l'uomo che sapeva la scienza militare.
Il 16 maggio il corpo d'operazione, che contava 11.000 uomini con 12 cannoni, aveva presa la via di Valmontone, formato in avanguardia (Garibaldi con 2500 uomini), grosso (6000 uomini) e retroguardia (2500 uomini). I Napoletani, stesi da Valmontone al mare (Anzio), avevano un nucleo centrale più forte sui colli fra Albano e Frascati. Il corpo romano era venuto, così, a puntare contro l'ala destra nemica; ma Garibaldi aveva voluto attaccare per la via più breve, senza indugio; il Roselli si era proposto di attuare una sua sapiente manovra di aggiramento al largo sui monti, col rischio però di compromettere la sorpresa. Giunto presso Velletri, Garibaldì (19 maggio) aveva attaccato le colonne napoletane in marcia e conscio della propria inferiorità numerica aveva mandato al Roselli per rinforzi. Le schiere borboniche battono in ritirata. Si dovrebbe incalzare, ma i due capi non s'intendono, L'indomani quando il Roselli crederà giunto il momento opportuno, il nemico si sarà già messo in salvo. Alla fine di maggio, oscurandosi di nuovo l'orizzonte da parte dei Francesi, le truppe erano state richiamate a Roma.
L'esercito francese, accresciuto fino a 36.000 uomini (3 divisioni) con 36 cannoni da campo e 40 pezzi d'assedio, riprese, di fatto, le operazioni tentate invano alla fine di aprile. Anche i Romani si erano rinforzati durante la tregua. Erano giunti dall'Ascolano e dall'Umbria tre battaglioni di linea e dalla Romagna la divisione Mezzacapo (legioni del Medici, bolognese, polacca); e poi carabinieri, dragoni, guardie nazionali. Le forze romane potevano essere di 15.000 uomini in tutto, con un centinaio di cannoni, svariatissimi per tipo ed età. Le grosse artiglierie di Castel S. Angelo furono tolte a fatica per guarnire il probabile fronte di attacco.
L'Oudinot aveva lungamente discusso con i suoi generali se fosse convenuto rinnovare l'attacco sulla destra del Tevere, o portarlo sulla sinistra fra il Testaccio e San Giovanni dove la cinta aureliana era assai più debole. Ma si finì col preferire di evitare il rischio del passaggio del fiume in vicinanza dei difensori.
Il 3 giugno, anticipando sul preavviso dato, i Francesi irrompono con 10.000 uomini (2 brigate) sui 400 difensori di Villa Pamphili: i quali, dopo lunga resistenza, sono in parte ricacciati verso Porta San Pancrazio e in parte fatti prigionieri. Allora Garibaldi esce alle controffese con 4000 legionarî; questi attaccano ripetutamente alla baionetta; decimati dal fuoco, riescono a sorpassare la linea francese in direzione di Villa Corsini. Ma la grande superiorità del numero impedisce ai garibaldini di mantenere le posizioni. Il lungo fluttuare del combattimento finisce con l'occupazione francese dei caseggiati esterni alle porte, fatta eccezione del Vascello, tenuto dal Medici.
Ma le mura restano inaccessibili ai Francesi; il nuovo baldanzoso tentativo di occupare Roma di viva forza è considerato fallito dallo stato maggiore dell'Oudinot, che risolve di condurre contro Roma un assedio regolare con le sue lungaggini di lavori di approccio e di parallele. La stessa sera del 3 giugno i lavori alla zappa vengono iniziati, e il mattino del 5 comincia il fuoco delle artiglierie. I Romani si moltiplicano per disturbare l'azione dell'assediante con cannoni (particolarmente efficaci quelli collocati sull'Aventino, a Sant'Alessio, a San Saba) e con coraggiose sortite. Ma il fato dell'impari lotta è ormai segnato. Dopo 15 giorni l'artiglieria francese aveva già praticato sei brecce e i difensori furono obbligati a ritirarsi sulla seconda linea (Mura Aureliane). Garibaldi fece del Gianicolo il perno dell'estrema difesa, ponendo al triumvirato il dilemma (quando anche quella posizione fosse perduta) della lotta di barricate per le vie di Roma o del ripiegamento sui monti per molestare di là i Francesi.
Il 30 giugno, con un assalto generale i Francesi occuparono tutta la parte alta di Trastevere. Allora il governo della Repubblica romana iniziò le trattative per la resa. Ma poiché le condizioni furono dichiarate dall'assemblea inaccettabili, si preferì la resa a discrezione, protestando al tempo stesso dinnanzi al mondo per la subita violenza.
Garibaldi, determinato a non cedere, uscì da Roma, offrendo a chi volesse seguirlo "fame, sete e disagi". Partirono con lui tremila uomini. Serpeggiando sui monti, il piccolo corpo - assottigliandosi per via - passò, inafferrabile, fra Spagnoli in marcia verso Rieti, Francesi inseguenti e Austriaci occupanti la Toscana. A San Marino, la legione fu sciolta. E Garibaldi fece per raggiungere Venezia, che ancora resisteva eroicamente agli Austriaci; ma scoperto dai legni da guerra che incrociavano nell'Adriatico dovette cambiare itinerario e giunse per aspra via fino a Genova. Di qui a La Maddalena.
Campagna del 1859. - Mentre il Cavour preparava l'atmosfera della guerra nelle relazioni internazionali e nella politica interna, il generale La Marmora (che fu ministro della Guerra quasi senza interruzione nel decennio 1849-1859) attendeva a predisporre lo strumento primo della lotta, l'esercito.
Gli avvenimenti del 1848-49 avevano principalmente dimostrato: la scarsa solidità delle truppe "provinciali", uno schematismo poco razionale dei procedimenti tattici; una deficienza numerica e qualitativa dei quadri. Tutta l'opera del La Marmora mirò a sanare quei mali. Pur conservandosi le due categorie di soldati d'ordinanza e di provinciali, la ferma di questi ultimi fu portata a 5 anni, in modo che si ebbero permanentemente alle armi 8 classi d'ordinanza e 5 classi provinciali; fu rinnovata l'istruzione tattica con spirito di adattamento al terreno, migliore ricerca degli effetti del fuoco, abbandono di perniciosi formalismi; si curò maggiormente il reclutamento degli ufficiali di linea (fanteria e cavalleria), quello degli ufficiali di artiglieria e genio essendosi già dimostrato ottimo; la mole complessiva dell'esercito fu diminuita con lo scioglimento delle nuove unità formate durante la guerra del 1848-49; si utilizzarono al momento della guerra i volontarî provenienti dalle altre regioni d'Italia, in doppio modo, cioè incorporandone alcuni nell'esercito e costituendone corpi speciali (cacciatori delle Alpi, comandati da Garibaldi).
Allo scoppio della guerra (aprile 1859) l'esercito piemontese era costituito: di 10 brigate di fanteria di linea (ciascuna brigata a 2 reggimenti su 4 battaglioni) e 10 battaglioni di bersaglieri (la fanteria di linea armata con fucile a percussione liscio ad avancarica, i bersaglieri con carabina rigata); di 9 reggimenti di cavalleria (4 di dragoni e 5 di cavalleggieri) su 4 squadroni ciascuno; d. 18 batterie montate, 2 batterie a cavallo, 4 batterie di obici campali, 12 compagnie d'assedio, 1 compagnia pontieri; e di 10 compagnie di zappatori del genio.
Con queste forze furono costituite 5 divisioni miste e 1 divisione di cavalleria, oltre una riserva generale di artiglieria; in tutto circa 60.000 uomini. Nei presidî interni rimasero le guardie nazionali, organizzate per il servizio d'ordine pubblico.
Fin dal febbraio, circa tre quinti delle forze indicate furono raccolti sulla destra del Po, fra Casale e Alessandria.
Concentramento dei Franco-Sardi. - Il 26 aprile, giorno in cui, per il rifiuto opposto dal Piemonte all'ultimatum dell'Austria, la guerra fu dichiarata, i Sardi si trovavano raccolti in due masse: una maggiore lungo la linea Valenza-Alessandria-Novi, con la cavalleria (10 squadroni) spinta innanzi nella direzione di Voghera; una assai minore a diretta protezione di Torino. I Francesi iniziarono subito il movimento per scendere in Italia, parte per mare, con sbarco a Genova (I e II corpo e guardia imperiale), e parte attraverso le Alpi per i passi del Monginevra e del Moncenisio (III e IV corpo). La funzione dei corpi francesi scendenti per la Valle di Susa subì una modificazione. In un primo tempo si era, infatti, previsto l'impiego dei due corpi francesi III e IV sulla linea della Dora a sostegno del gruppo minore piemontese sopra accennato, posto a difesa di Torino; e in tale senso Napoleone III aveva dato istruzioni al maresciallo Canrobert, cui spettava, come più anziano, il comando superiore di quei due corpi. Ma, dopo ricognizioni sul posto, e d'accordo con il La Marmora, il Canrobert decise di inviare tutte le truppe francesi scendenti dalle Alpi a far massa con i Piemontesi attorno ad Alessandria, dove sarebbe avvenuta la riunione generale, anche con i corpi francesi sbarcati a Genova. Nonostante le calorose rimostranze del Cavour, preoccupato che si lasciasse indifesa la capitale, il progetto del Canrobert venne approvato dall'imperatore nella sua qualità di comandante in capo delle forze alleate; e il 10 maggio i movimenti erano compiuti, senza che gli Austriaci li avessero minimamente disturbati.
Frattanto, dal 26 al 30 aprile, era sbarcato a Genova quasi tutto il corpo francese, il quale si era avanzato fino a Novi per proteggere lo sbocco del 2° corpo e della guardia. Poi tutti avevano proceduto verso la piana di Marengo.
Le forze austriache. - Quantunque la tensione politica fosse tale, all'inizio del 1859, che la guerra dovesse prevedersi inevitabile, lo Stato maggiore di Vienna non aveva preso tutte le misure del caso.
Le truppe dell'impero erano raggruppate, fin dal tempo di pace, in divisioni, corpi d'armata e armate. I comandi d'armata avevano sede: 1° a Vienna, 2° a Milano, 3° a Ofen, 4° a Lemberg. La costituzione organica di queste grandi unità non era uniforme. L'armata di Milano (2ª) era costituita su 3 corpi d'armata, Pon sede a Milano, Verona e Padova. Nel gennaio del 1859, oscurandosi l'orizzonte, fu deciso l'invio in Italia di un altro corpo d'armata (il I) sottratto all'armata di Vienna; nel marzo si predispose la partenza per l'Italia del II corpo d'armata di stanza a Cracovia; e ai primi di aprile l'ordine di mobilitazione e di partenza per l'Italia si estese ad altri due corpi d'armata: il VI da Gratz e il IX da Bruna. Provvedimenti poco organici e in gran parte tardivi. Alla fine di aprile, dei sette corpi che dovranno costituire l'esercito di operazione contro gli alleati Franco-Sardi, ne saranno in Lombardia soltanto cinque, con una divisione di cavalleria. Un complesso di 160.000 uomini, di cui 120.000 combattenti. Comandante in capo il Feldzeugmeister Gyulai, uomo di fiducia dell'imperatore, ma qualificato dall'opinione pubblica come un teorico, tronfio di sé, inesperto del comando di truppa.
La formazione di guerra dei belligeranti. - Le forze contrapposte erano, all'inizio della guerra, così coordinate:
Esercito sardo: comandante in capo re Vittorio Emanuele II, capo di Stato maggiore Morozzo della Rocca; 1ª divisione (Castelborgo); 2ª divisione (Fanti); 3ª divisione (Durando); 4ª divisione (Cialdini); 5ª divisione (Cucchiari); divisione cavalleria (Sambuy), oltre i cacciatori delle Alpi (Garibaldi).
Esercito francese: comandante in capo imperatore Napoleone III, capo di Stato maggiore Vaillant; I corpo (Baraguay d'Hilliers); II corpo (Mac Mahon); III corpo (Canrobert); IV corpo (Niel); guardia imperiale (Regnault), oltre il V corpo (principe Napoleone Girolamo).
Esercito austriaco: comandante in capo Gyulai, capo di Stato maggiore Khun; II corpo (Liechtenstein); III corpo (Schwartzenberg); V corpo (Stadion); VII corpo (Zobel); VIII corpo (Benedek); IX corpo (Schaffgotsche); divisione cavalleria (Mensdorf).
Piani e prime azioni degli avversarî. - L'ultimatum dell'Austria al Piemonte essendo stato deciso a Vienna il 19 aprile, il Gyulai avrebbe dovuto a quella data addossare i corpi d'armata che aveva sottomano al confine del Ticino. La necessità di un'offensiva immediata era chiarissima, potendo all'Austria derivare un vantaggio decisivo se fosse riuscita a metter fuori causa i Piemontesi prima che giungessero in Italia i Francesi. Ma quando l'imperatore tempestò di telegrammi il Gyulai perché invadesse il Piemonte, il generale in capo dovette perdere alcuni giorni per avvicinare le truppe al confine. Soltanto il 29 aprile le avanguardie austriache cominciano a passare il Ticino; e nei tre giorni successivi il grosso dell'esercito austriaco avanza nella Lomellina. Ma intanto si è insinuato nell'animo del generalissimo austriaco il dubbio di trovarsi ormai di fronte a forze avversarie superiori; e il Gyulai già pensa di doversi limitare a funzioni difensive, e cioè "a coprire la Lombardia" come scrive all'imperatore. Tuttavia, spinto da Vienna, tenta l'offensiva, successivamente in tre diverse direzioni: il 3 maggio contro il tratto del Po tra la confluenza della Sesia e la confluenza del Tanaro (Valenza); il 4-5 maggio a valle della confluenza del Tanaro (Cornale); fra il 7 e il 10 maggio attraverso la Sesia. Con queste azioni timide e inconcludenti il Gyulai permette ai Piemontesi di superare la crisi dell'isolamento.
L'atteggiamento di Vittorio Emanuele II si era ispirato alla triplice necessità: di tenere fortemente il triangolo Alessandria-Valenza-Casalc con circa metà delle forze piemontesi; di coprire la strada proveniente da Genova con occupazioni intorno a Serravalle, per garantire lo sbocco in piano dei Francesi sbarcati in Liguria; di proteggere Torino, con occupazioni sulla linea della Dora Baltea, da offese per la sinistra del Po. Tale piano era stato concordato dal La Marmora fin dal gennaio col maresciallo Niel, quando questi si era recato in Piemonte per il matrimonio della principessa Clotilde di Savoia col principe Napoleone Girolamo.
Napoleone III assume il comando effettivo delle forze alleate. - L'imperatore, partito da Parigi il 10 maggio, giunse a Genova il 12 e il 14 ad Alessandria, dove pose il quartier generale. Napoleone III voleva che le operazioni avessero carattere offensivo, ma non aveva ancora fissato l'asse del movimento. Lo schieramento delle forze alleate il 16 maggio, lungo un linea con andamento parallelo al Po nel tratto in cui il corso del fiume è orientato all'incirca da nord a sud, si prestava ai tre casi possibili: forzamento frontale del Po per operare nella Lomellina; defilamento dietro la Sesia per passare questo fiume nei pressi di Vercelli e di lì puntare in Lombardia per Novara; defilamento a sud del Po per la stretta di Stradella e Piacenza, per entrare di lì in Lombardia.
L'imperatore aveva segretamente interpellato, in vista dell'imminente campagna, alcuni fidi consiglieri, fra i quali il vecchio generale E. Jomini, un superstite delle guerre del primo impero. Questi si era mostrato d'avviso (contro l'opinione di altri, fra cui il Thiers) che convenisse riprendere il piano di Carlo Alberto (1849) e cioè manovrare a nord per Vercelli e Novara, aggirare la massa austriaca ed entrare in Lombardia per Boffalora. Progetto criticabile in quanto prevedeva una successione di atti strategici indipendentemente da ciò che il nemico avrebbe nel frattempo compiuto. Ma fu questo il piano che - dopo alcune indecisioni - Napoleone III preferì. Perché il divisato aggiramento riuscisse, era necessario che il Gyulai rimanesse fermo nella regione fra bassa Sesia e basso Ticino, il che non poteva razionalmente prevedersi, anche se poi sia avvenuto.
Montebello. - Rinunciato all'offensiva su Torino e ridottosi di nuovo in Lomellina, il Gyulai aveva risoluto di mantenere un'attitudine di attesa per sorvegliare le mosse avversarie. Il comandante austriaco temeva una puntata su Piacenza e si era messo in grado di passare con molte forze il Po, per cogliere sul fianco le colonne in marcia nel caso che ciò si verificasse. Per constatarlo, ordinò che il 20 maggio il generale Stadion passasse con due brigate il Po e compisse una ricognizione offensiva in direzione di Voghera. Questa avanzata di forze austriache provocò il combattimento di Montebello, vittorioso per le forze franco-sarde.
Il risultato della ricognizione per parte austriaca fu - dal punto di vista informativo - non soltanto nullo, ma dannoso. Infatti, il combattimento avendo provato la presenza di forze numerose, il Gyulai credette di poter indurre, contrariamente al vero, che la manovra franco-sarda si sarebbe svolta a sud del Po.
Dal suo canto, Napoleone III attribuì in un primo tempo all'incursione austriaca dello Stadion una funzione di avanguardia; e in previsione che l'attacco avesse a rinnovarsi spostò forze francesi verso est, senza tuttavia sospendere il movimento dei Sardi verso nord. Incongruenze e ordini slegati di cui Vittorio Emanuele II si mostrò alquanto preoccupato nella sua corrispondenza col La Marmora.
Palestro. - Finalmente il 26 maggio le direttive imperiali sono fissate. Gli eserciti alleati sfileranno tutti per Casale-Vercelli-Novara, in modo da aggirare, con largo movimento per il nord, la massa nemica. L'esercito piemontese dovrà costituire l'avanguardia e proteggere il fianco destro della lunga colonna dei corpi d'armata francesi. Il movimento dovrà iniziarsi in maniera che il 31 maggio, delle cinque divisioni piemontesi, tre siano in marcia da Vercelli a Novara, una protegga il passaggio sulla Sesia ponendosi in traverso alla strada Vercelli-Palestro e un'altra occupi Casale. Il giorno seguente dovranno avere passata la Sesia anche i cinque corpi d'armata francesi. Vittorio Emanuele II, giudicamlo, a ragione, che la sola divisione in posizione a Palestro poteva essere facilmente sopraffatta, chiese a Napoleone III, e ottenne, che anche le 3 divisioni destinate a raggiungere Novara fossero tenute in sua mano a protezione del ponte sulla Sesia.
La segnalazione di un intenso movimento ferroviario e informazioni varie fecero conoscere al Gyulai il concentramento dei Sardi presso Vercelli. Per tutta contromisura, il Gyulai ordinò a un suo corpo d'armata un lieve spostamento verso nord, col compito di eseguire ricognizioni in direzione di Vercelli, ma "con circospezione, il nemico essendo forse più forte di quel che si creda".
Nella notte sul 30 maggio i Piemontesi iniziarono il passaggio della Sesia su un ponte militare, quello ordinario e quello ferroviario essendo stati distrutti dagli Austriaci. Il giorno 30, le truppe di Vittorio Emanuele guadagnarono spazio dinnanzi a Palestro in direzione di sud-est.
Le mosse ordinate, come s'è detto, dai comandanti in capo avversarî provocarono i combattimenti attorno a Palestro e villaggi limitrofi nei giorni 30 e 31 maggio. I corpi austriaci impegnati, costretti a ritirarsi, poterono constatare la presenza di grandi forze; ma il Gyulai rimase incerto se gli convenisse puntare energicamente verso nord per attaccare sul fianco, fra Sesia e Ticino, gli alleati franco-sardi, o se fosse preferibile ripiegare le proprie forze oltre il Ticino per dare battaglia al passaggio degli avversarî su questo fiume. Dopo alcune oscillazioni, che fecero perdere agli Austriaci un tempo prezioso, il Gyulai si decise per il ripiegamento.
Azione dei cacciatori delle Alpi: Varese. - Nel frattempo erano entrati in azione i cacciatori delle Alpi, la cui costituzione non era ancora com-. piuta, allorché Garibaldi aveva ricevuto ordine di occupare la linea del Po a monte di Casale (fino a Brusasco) per collegare elementi sardi troppo distanziati. Dileguatasi la minaccia austriaca in direzione di Torino, Garibaldi ricevette ordine di raggiungere con gli elementi pronti (3200 fanti, 50 guide a cavallo e nessun cannone) il Varesotto. Il movimento sfuggì all'esplorazione austriaca e il Gyulai ne ebbe notizia, a cose fatte, dal governatore di Milano; il quale, in attesa di disposizioni del generalissimo, aveva subito inviato alcune compagnie e 4 cannoni sottratti alla guarnigione della capitale lombarda. Gyulai mandò contro Garibaldi una divisione di tre brigate agli ordini del generale Urban. Avuto sentore di questa avanzata, Garibaldi richiamò Bixio (ch'egli aveva inviato in distaccamento alla volta di Laveno) e si preparò a difesa sulle posizioni intorno a Varese. Gli Austriaci attaccarono ripetutamente con accanimento; ma i garibaldini contrattaccarono alla baionetta, costrinsero i nemici a ritirarsi, li inseguirono per un buon tratto. Poi, per trarre ogni maggior vantaggio dal successo, Garibaldi commise la difesa di Varese a cittadini armati, e con i cacciatori avanzò verso Como, le cui posizioni attaccò per la rotabile di Olgiate e per S. Fermo. L'Urban ripiegò a Monza, per riprendere subito dopo l'offensiva con 10.000 fanti e 4 batterie. Garibaldi, che intanto si era portato da Como all'attacco di Laveno, saputo che l'Urban si avanzava per Tradate e Gallarate, si voltò verso i sopraggiungenti, ma calorosi appelli della popolazione di Como, gli fecero cambiar rotta. A Como, Garibaldi si apprestava a difesa, quando seppe che l'Urban era stato richiamato dal Gyulai per partecipare alle più grosse operazioni sul Ticino.
Magenta. - Il 1° giugno il largo movimento dei Franco-Sardi per Novara è in pieno svolgimento. La massa degli eserciti alleati si trova fra la Sesia e il Ticino, ripartita in due nuclei, l'uno a oriente dell'Agogna (attorno a Novara) e l'altro a occidente; fra i due nuclei un intervallo di circa 15 km. Nel pomeriggio dello stesso giorno Napoleone III convocò a Novara un consiglio di guerra di soli generali francesi. La maggioranza fu del parere che convenisse attendere a cavallo dell'Agogna un probabile attacco austriaco da sud; e l'imperatore condivise questo parere. Vittorio Emanuele II, saputo ciò e quantunque non interpellato, volle manifestare al sovrano alleato la propria opinione decisamente favorevole a una pronta offensiva verso sud, dato che gli Austriaci non si movevano. In sostanza: attaccare invece di attendere di essere attaccati. Ma questo concetto ispirato da sana audacia e dalla logica strategica, non trovò consenziente l'imperatore francese. Fu grande ventura che l'assoluta mancanza di aggressività del generalissimo avversario, rendesse possibile, dipoi, l'indisturbato avvicinamento al Ticino della massa franco-sarda.
Infatti, il Gyulai - lungi dal pensare ad attaccare i Franco-Sardi durante la crisi della marcia di fianco - aveva rivelato ancora una volta, come si è detto, la timidezza del suo comando, prescrivendo il ripiegamento di tutte le forze oltre il Ticino. Gli ordini del comando supremo austriaco, emanati a tarda sera del 2 giugno recavano che il passaggio dei varî corpi dovesse avvenire fra Vigevano e Pavia; passato il fiume, tutte le forze dovevano convergere verso nord per raggiungere la strada Novara-Milano; un corpo d'armata (il I), giunto a Milano il giorno innanzi dall'interno dell'impero, doveva trasferirsi a Magenta. Napoleone III ritornava intanto sulla decisione del 1° giugno; e, in luogo di attendere da fermo un attacco austriaco, risolveva di puntare nella direzione di Milano, passando il Ticino ai ponti di Turbigo e di Boffalora, col rischio di essere attaccato sul fianco e di fronte durante il passaggio.
In conseguenza degli ordini emanati dai comandanti avversarî, avvenne il 4 giugno la battaglia di Magenta. Gli alleati franco-sardi si presentarono alla battaglia divisi in due nuclei (di Turbigo e di Boffalora) ed eccessivamente dislocati in profondità (la coda della lunga colonna ancora presso Vercelli); gli Austriaci con le truppe ancora più largamente distanziate e per di più stanchissime per le lunghe marce a cui erano state sottoposte per il frettoloso ripiegamento.
Le operazioni fra Ticino e Mincio: Melegnano. - A Magenta gli alleati franco-sardi ottennero un successo tattico, ma non superarono la crisi strategica della loro manovra aggirante, perché rimase possibile un attacco contro il loro fianco destro da parte delle forze austriache non intervenute alla battaglia del 4 giugno. Il generalissimo austriaco aveva, infatti, ideato la sera stessa di Magenta di riaccendere la battaglia il mattino seguente. Ma, nella notte, il comandante del I corpo austriaco dichiarò che le sue truppe non erano in grado di sostenere una nuova azione, e si ritrasse alquanto dal terreno della battaglia. Il Gyulai ne rimase impressionato; e, senza considerare che aveva a portata di mano corpi d'armata non ancora impegnati, ordinò la ritirata generale dell'esercito per la bassa Lombardia verso il quadrilatero veneto, col conseguente abbandono di Milano. Ciò facendo il generalissimo di Francesco Giuseppe, non solo compiva un atto ispirato dal suo timido temperamento, ma si conformava altresì a una direttiva di Vienna, nell'ipotesi che si fosse dovuto abbandonare il Novarese. Lo Stato maggiore centrale si proponeva con ciò di assicurare, al riparo delle fortezze del quadrilatero, la costituzione di una massa di manovra più potente, con i rinforzi che sarebbero colà affluiti dall'interno dell'impero. Conseguita la prevalenza del numero sugli avversari, si sarebbe iniziata una seconda fase della campagna.
Nei giorni 5, 6 e 7 giugno il grosso dell'esercito austriaco in ritirata raggiunse la linea dell'Adda; il fianco settentrionale del movimento fu protetto da una brigata in posizione a Melegnano, quivi inviata il 6 giugno e rimasta nei due giorni successivi.
Il giorno 7 giugno giunse nella capitale lombarda, sgombrata dagli Austriaci, il II corpo francese; e il giorno seguente vi fecero il loro trionfale ingresso i sovrani di Piemonte e di Francia.
Lo stesso 8 giugno avveniva il combattimento di Melegnano, determinato dalla decisione dell'imperatore di snidare da quella località gli Austriaci (brigata fiancheggiante accennata) che riteneva intenzionati a riprendere l'offensiva.
Dopo avere sostato i giorni 9 e 10 giugno, Napoleone III, fatto certo che gli Austriaci proseguivano la ritirata nella direzione del basso Oglio, risolve di riprendere anch'egli il movimento verso est, senza neppur pensare all'opportunità di attaccare il nemico in ritirata. Infatti la direzione generale impressa ai corpi alleati fu quella di Brescia. Iniziato il movimento l'11 giugno, il giorno seguente le prime truppe oltrepassarono l'Adda. L'ulteriore avanzata fu alquanto lenta, essendosi voluto che le forze procedessero molto concentrate, e soltanto il 18 giugno gli alleati furono sulla sinistra del Mella, l'esercito sardo in prima linea a Calcinato e S. Marco.
Gli Austriaci segnarono un tempo d'arresto sulle colline a sud del Garda. Il giorno 18 giugno, esonerato il Gyulai, l'imperatore Francesco Giuseppe assumeva il comando in capo dell'esercito, che veniva costituito su due armate. L'imperatore ordinava dal quartier generale di Verona che tutte le forze ripiegassero a oriente del Mincio, il 20 giugno su otto ponti - fra stabili e provvisorî - nel tratto Peschiera-Goito.
I Franco-Sardi, oltrepassato il Mella, si arrestarono due giorni (19-20 giugno) a sud di Brescia; e, dopo un consiglio di guerra presieduto da Napoleone III, iniziarono il 21 il passaggio del Chiese.
Solferino-San Martino. - Gli alleati avevano avuto notizie certe del passaggio degli Austriaci al di là del Mincio; e quando, il 23 giugno, pattuglie esploranti riferirono che il nemico occupava posizioni al di qua, sulle alture (Cavriana, Solferino) e anche nel piano (Medole), si pensò trattarsi di retroguardie attardate. Dice giustamente la relazione francese: "La logica non permetteva di ammettere che - dopo aver lasciato l'imperatore Napoleone passare tranquillamente il Chiese e impadronirsi senza contrasto della riva sinistra di quel fiume e delle magnifiche posizioni che la dominavano - gli Austriaci ripassassero il Mincio per venire a dar battaglia con un fiume inguadabile alle spalle, in una situazione assai meno vantaggiosa di quella che essi avevano volontariamente lasciata alcuni giorni prima". Ma non sempre avviene in guerra ciò che è logico; e la realtà, con la quale occorreva fare i conti, era che gli Austriaci avevano ripassato il Mincio.
Appena avvenuto il movimento, l'imperatore Franeesco Giuseppe ordina che le due armate avanzino verso il Chiese. Sono 150.000 uomini che si dispogono all'offensiva su una fronte di appena 12 km.
Il comando supremo dei Franco-Sardi ordina per il 24 giugno una avanzata in senso inverso, ispirata ad analoghi concetti offensivi.
Il mattino del 24 giugno gli Austriaci furono sorpresi dall'offensiva alleata e gli alleati furono sorpresi di trovarsi di fronte l'intero esercito austriaco supposto, come s'è detto, oltre il Mincio. Si accese improvvisamente una doppia grande battaglia, a San Martino sulla fronte d'avanzata dell'esercito piemontese e a Solferino sulla fronte d'avanzata dell'esercito francese. La sera gli Austriaci, furono costretti a ripassare il Mincio.
Le ultime operazioni fino all'armistizio di Villafranca (26 giugno 8 luglio). - L'imperatore Francesco Giuseppe decide la costituzione di nuove grandi unità e la chiamata alle armi di una classe di reclute. Intanto concentra strettamente le forze intorno a Verona, fatta eccezione di un corpo d'armata che lascia a guardia del basso Adige (Legnago). Gli alleati non sono in grado di inseguire immediatamente, dopo la vittoria di Solferino-San Martino, sia perché le truppe necessitano di riposo sia perché occorre riattivare il funzionamento dei servizî logistici, rimasto in sofferenza. Nei sei giorni che seguirono la battaglia, i corpi alleati percorsero solo brevi tratti (dai 5 ai 15 km.) per allinearsi con le teste sul Mincio, che occuparono dalla sponda del Garda fino a Goito, eccezione fatta di Peschiera ancora in mano al nemico. Il 1° luglio fu ordinato il passaggio generale del Mincio e gli alleati occuparono le alture moreniche fra il Mincio e Verona, in attitudine difensiva-controffensiva. Infatti Napoleone III, mentre già meditava l'armistizio, prescriveva - in previsione di un attacco austriaco - che l'esercito si schierasse in battaglia sulla linea Castelnuovo-Oliosi-Valeggio, col V corpo in riserva a Salionze. Nello stesso tempo si dava ordine alla flotta di attaccare Venezia. Ma erano più che altro atti di intimidazione, intesi a preparare l'armistizio in condizioni favorevoli.
La missione del V corpo franco-toscano. - Fra le truppe alleate si trova ai primi di luglio il V corpo, al comando del principe Napoleone Girolamo, genero di Vittorio Emanuele lI. Di questo corpo si eta iniziata la costituzione al principio della campagna con scopi che non erano sembrati ben chiari, specialmente al Cavour, nell'animo del quale era sorto il dubbio che Napoleone III meditasse di dare al cugino lo scettro toscano già impugnato dalla zia Elisa Bonaparte. Infatti quel corpo d'armata - costituito da un nucleo di forze francesi, attorno al quale si sarebbero formate forze italiane - doveva costituirsi in Toscana, dove si recarono il principe Napoleone Girolamo e una brigata francese. Le ragioni militari addotte da Napoleone III per giustificare lo sbarco francese a Livorno erano in realtà poco plausibili. Si disse non doversi escludere che truppe austriache minacciassero dall'Emilia la Toscana, ma era facile osservare che, per impedire tale minaccia, assai meglio valeva conferire il massimo vigore alle operazioni nel Lombardo-Veneto; al quale intento non riusciva certo vantaggiosa la dispersione delle forze. Né poteva essere considerata valida la spiegazione che, separando le forze proprie, si poteva sperare di indurre il nemico a fare altrettanto. Infine, la giustificazione che quella destinazione eccentrica del V corpo servisse per reclutare combattenti in Toscana per la guerra in Lombardia, non è neppur essa convincente, dato che per reclutare forze toscane bastavano dei propagandisti e degli agenti di reclutamento. Comunque, le forze del V corpo mancarono sul campo della lotta il giorno della battaglia di Solferino-San Martino, mentre la loro presenza sarebbe stata estremamente utile, soprattutto perché avrebbe evitato che l'ala destra francese si trovasse in grave rischio, solo superato per cause fortuite.
Campagne del 1860-61. - L'invasione garibaldina del Regno delle Due Sicilie. - Scoppiata ai primi di aprile 1860 la rivoluzione a Palermo e risoltosi Garibaldi all'azione, fu in fretta organizzata, con l'aiuto del noto comitato diretto dal Bixio, una spedizione di circa mille volontarî (precisamente 1072), che salpò il 5 maggio da Quarto sui due piroscafi Piemonte e Lombardo (di cui si finse la cattura) alla volta della Sicilia (v. mille, spedizione dei). Durante il viaggio Garibaldi ordinòb i volontarî in 8 compagnie, al cui comando assegnò: Bixio, Orsini, Stocco, La Masa, Anfossi, Carini, Cairoli, Bassini. Eludendo la crociera delle navi borboniche, la spedizione sbarcò l'11 maggio a Marsala, e, senz'altro, il piccolo corpo prese la via di Palermo per Salemi, eccitando il concorso delle popolazioni. Garibaldi assunse in Salemi la dittatura in nome di Vittorio Emanuele, mentre le sue schiere s'ingrossavano di migliaia di volontarî siciliani ("picciotti"). Il governatore borbonico della Sicilia, chiesti ordini a Napoli, inviò un corpo di truppe, comandato dal generale Landi, a sbarrare la via a Garibaldi. Da Partinico, dove secondo tali ordini avrebbe dovuto fermarsi, il Landi avanzò fino a Calatafimi. Gli avversarî vennero quivi a contatto il 15 maggio e la foga garibaldina prevalse nella cruenta battaglia che ne seguì. Subito Garibaldi continuò la marcia su Palermo per la via di Monreale; ma saputo che quivi la difesa borbonica era fortissima, si limitò, in quella direzione, a un atto dimostrativo e con la maggior parte dei suoi volontarî sfilò sui monti verso oriente, raggiungendo le alture di Parco (22 maggio). Saputa la mossa, i borbonici attaccarono la posizione il 24 maggio con un forte distaccamento di oltre 5000 uomini al comando del generale Salzana. Allora Garibaldi, che voleva raggiungere Palermo per virtù, di manovra, finse una ritirata verso Corleone, poi - allargando il suo giro per l'oriente - ruppe il contatto col nemico, raccolse nuovi "picciotti" e improvvisamente apparve il mattino del 27 maggio da Misilmeri e Gibilrossa alle porte di Palermo. I garibaldini si aprirono, a forza, il passaggio e per due giorni continuò la lotta per le vie della capitale siciliana. I soldati di Francesco II occupavano saldamente i margini della città (salvo dal lato orientale) il porto e i forti. Cominciarono da quelle posizioni il fuoco di artiglieria contro la parte dell'abitato dove la sollevazione andava dilagando, e all'azione concorsero le artiglierie delle navi ancorate nel porto. Ma queste offese rinfocolarono la rivolta. A rinforzo, giunse il mattino del 30 il distaccamento del generale Salzana - reduce dalla vana spedizione su Corleone - che attaccò i garibaldini, dal di fuori, lungo il solo tratto marginale in loro possesso. Parve che la causa della rivoluzione fosse compromessa; ma, nel frattempo, il Landi - generale capo dei borbonici - accedendo a un invito dell'ammiraglio inglese Mundy, aveva iniziato trattative per lo sgombro dell'isola dalle truppe regie. La partenza avvenne dal 6 al 19 giugno. Rimasero in potere dei borbonici Messina, Milazzo, Augusta, Siracusa.
Si effettuarono frattanto altre spedizioni di garibaldini, capitanate, le due principali dal Medici e dal Cosenz. Mentre due colonne erano inviate da Garibaldi per le vie dell'interno, con obiettivi Caltanissetta e Catania, una terza guidata dal Medici fu impiegata in direzione di Messina e dovette combattere a Milazzo (20 luglio) un forte distaccamento borbonico, guidato dal colonnello Beneventano del Bosco, il quale, battuto in campo aperto, riuscì a tenere il forte di Milazzo e rifiutò la resa; ma quattro giorni dopo gli giunse da Napoli l'ordine di imbarcarsi per il continente. Il Medici occupò l'abitato di Messina (25 luglio) lasciando i forti al nemico (4000 uomini), col patto che vi si tenesse inattivo. Contemporaneamente furono ritirati tutti gli altri presidî borbonici dell'isola. Il dilemma che ora si presentava a Garibaldi era se le operazioni così felicemente condotte in Sicilia dovessero essere considerate fine a sé stesse, o soltanto come premessa di operazioni decisive sul continente per la conquista dell'intero regno borbonico. Ma il passaggio dello stretto era vigilato dalle flotte francese e inglese, affiancate a quella borbonica, e vi era anche la flotta sarda, che doveva destreggiarsi per mostrare di opporsi a ulteriori imprese garibaldine. Ma l'audacia di Garibaldi ruppe ancora una volta gl'indugi. Improvvisamente, fatto raccogliere in gran segreto gran numero di barche, salpò dal Faro con alcune migliaia di uomini e il 2o agosto prese terra sulla costa calabra a Melito; un distaccamento capitanato dal Bixio assaltò e occupò Reggio, mentre un altro capitanato dal Cosenz sbarcava a Favazzina. Entrambi i distaccamenti si riunivano poi a Villa San Giovanni. Il governo di Napoli riteneva di avere provveduto a sufficienza alla difesa delle Calabrie con l'invio di circa 18 mila uomini agli ordini del generale Vial; brigadieri i generali Briganti, Ghio, Melendes e Caldarelli. Ma i capi non fidavano più nelle truppe, né le truppe nei capi. I generali borbonici, dopo alcune deboli resistenze qua e là, patteggiarono la resa; e le truppe gridarono al tradimento.
Re Francesco, consigliato all'abbandono di Napoli, ebbe l'idea di resistere nei pressi di Salerno con un buon nerbo di truppe; ma una rivolta scoppiata ad Avellino lo fece desistere. Fu ordinato il concentramento delle superstiti forze borboniche a Sessa, per un'azione che, appoggiandosi al Volturno, perno Capua, avrebbe salvato Gaeta, base marittima, e avrebbe consentito la possibilità di una ripresa in condizioni favorevoli.
Il 7 settembre Garibaldi entrò acclamato in Napoli, dove assunse la dittatura e dove diede opera (aiutato dal Cosenz, nominato ministro della Guerra) per trarre dalla massa un po' caotica dei volontari, che il successo aveva fatto crescere di numero, un esercito organizzato. Egli intendeva di attaccare il più presto possibile la linea del Volturno. La flotta da guerra e quella da commercio furono aggregate alla marina piemontese. L'improvvisato esercito fu ordinato su 5 divisioni (le prime quattro già esistenti da due mesi, ma bisognevoli di rifacimento), alle quali si diede un numero progressivo in continuazione di quello delle divisioni dell'esercito regolare dell'Italia settentrionale. Si ebbero così: la 15ª divisione (Medici), la 16ª (Cosenz), la 17ª (Türr), la 18ª (Bixio), la 19ª (Avezzana). Battaglioni di forza varia, con differenze assai sensibili; reggimenti (o legioni) di 2 o 3 battaglioni; brigate di 2 o 3 reggimenti. Armamento, vestiario, distintivi, di tipi diversi. Esuberanti di numero gli ufficiali. Ma in pochi giorni era impossibile fare di meglio, nel senso dell'uniformità. Vi era anche qualche piccolo corpo straniero (francese, inglese, polacco, ungherese). Discreto numero di pezzi d'artiglieria leggiera, tratta dai magazzini napoletani. Poca cavalleria. Difficile l'organizzazione dei rifornimenti. Con questo esercito Garibaldi si avviò a fronteggiare i borbonici al Volturno. In precedenza il Türr aveva avuto l'idea di occupare la posizione di Caiazzo (19 settembre) quasi testa di ponte per assicurare il passaggio del fiume al grosso: ma, riuscito in un primo tempo a scacciare gli occupanti, aveva dovuto cedere la posizione due giorni dopo, per effetto di un forte contrattacco borbonico. Garibaldi ne fu scontento come di un inutile sacrificio.
Il 1° ottobre i borbonici attaccarono le linee di Garibaldi. Si iniziò così la battaglia del Volturno, prima favorevole agli attaccanti e risoltasi poi in un loro insuccesso, reso definitivo da azioni del giorno seguente.
Dopo il Volturno le vicende militari dei garibaldini si inseriscono nelle operazioni dell'esercito regolare del re Vittorio Emanuele.
La spedizione dell'esercito regolare nelle Marche, nell'Umbria e nel Napoletano. - Fino dai primi giorni, le fortunate operazioni di Garibaldi nel Regno delle Due Sicilie avevano posto al governo di Torino il problema dell'intervento nell'Italia centrale e meridionale, poiché l'astensione minacciava di risolversi in un grave danno morale, sia che le conseguenze dell'audacia fossero favorevoli, sia che fossero infauste.
Secondo il piano del ministro della Guerra, generale Fanti, il concorso alle operazioni in atto nell'Italia meridionale doveva essere in un primo tempo indiretto e attuarsi con l'invasione dello Stato Pontificio da nord (Marche e Umbria). Ai primi di settembre del 1860 fu, a tale scopo, raccolta un'armata (comandante in capo lo stesso generale Fanti) di due corpi d'armata: il IV, comandato dal Cialdini, dislocato nella regione costiera dell'Adriatico e il V, comandato dal Morozzo della Rocca, dislocato nella provincia di Arezzo presso il confine umbro. Costituivano il IV corpo tre divisioni: 4ª (brigate Regina e Savoia), 7ª (brigate Como e Bergamo) e 13ª (brigate Pistoia e Parma); e costituivano il V corpo due divisioni: 1ª (brigate granatieri di Sardegna e di Lombardia) e speciale di riserva (brigata Bologna e gruppo di 3 battaglioni di bersaglieri). La maggior parte dei reggimenti aveva formazione ridotta a due o tre battaglioni, in luogo dei quattro regolamentari; e i battaglioni avevano forza di pace, di circa 600 uomini. Così alla larga intelaiatura del corpo di operazione non corrispondeva che una forza di circa 30.000 uomini, pur sempre notevolmente superiore alla consistenza numerica dell'esercito avversario. Infatti le forze armate pontificie sommavano a circa 20.000 uomini, dei quali una metà vincolata alla difesa dei presidî. Con i rimanenti diecimila uomini circa disponibili per operazioni in campo aperto, il generale francese Lamoricière, che aveva accettato il supremo comando dei papalini, aveva costituito tre piccole colonne mobili, agli ordini dei generali Schmidt e De Courten e del Pimodan, francese. Esse erano tenute sulla larghissima fronte Macerata, Foligno, Terni.
Il 10 settembre il conte della Minerva, ministro sardo a Roma, rimetteva al cardinale Antonelli l'ultimatum, in cui il conte di Cavour chiedeva lo scioglimento delle forze mercenarie dello Stato Pontificio. Il giorno seguente, la risposta negativa del segretario di stato apriva le ostilità. Immediatamente le forze italiane varcavano il confine: il IV corpo appoggiando la sinistra alla costa adriatica (strada Cattolica-Pesaro) e distendendo le altre forze sulle colline (strada Saludecio-Urbino); il V corpo seguendo la direttrice da Arezzo a Città di Castello. Scopo: attaccare prontamente le forze pontificie per metterle fuori causa.
Non ritenendo prudente mantenersi in posizione centrale fra le due masse avversarie avanzanti, il Lamoricière progettò di raggiungere Ancona, tenuta da un presidio di 2000 uomini, dove si potevano attendere gli sperati soccorsi austriaci, per via di mare.
Nei giorni 11 e 12 settembre le truppe del Cialdini occupavano, dopo breve lotta, Pesaro e Fano e il giorno 13 attaccavano sulla collina presso Senigallia (a Sant'Angelo) alcuni reparti pontifici della colonna De Curten, avviata ad Ancona, dove infatti giunse. Il Ciaìdini mirò allora a tagliare la via d'Ancona alle rimanenti truppe del Lamoricière, mentre il corpo Della Rocca, entrato nell'Umbria, occupava Perugia (14 settembre), Foligno (15) e Spoleto (17). Il Lamoricière moveva verso Ancona per Colfiorito e Macerata; di qui, invece di prendere la via più breve per Osimo, scese al mare a Porto Recanati, di dove si diresse a Loreto per operare la giunzione con la colonna Pimodan. Premuto dai corpi italiani, il Lamoricière avrebbe avuto facile la via di ritirata sul Tronto; ma preferì insistere nel concetto di rinchiudersi in Ancona. Il Cialdini aveva intanto schierato le forze sulle alture di Castelfidardo. Qui ebbe luogo (18 settembre) una battaglia in cui l'esercito pontificio rimase distrutto. Solo il Lamoricière, con pochi uomini, riuscì a penetrare nella fortezza di Ancona, contro la quale cominciò il 20 settembre l'assedio da terra. Due giorni prima la flotta del Persano aveva iniziato il bombardamento dal mare.
Ottenuta dopo una lotta di alcuni giorni la resa di Ancona, il re Vittorio Emanuele si recò il 3 ottobre nella città conquistata e quivi assunse il supremo comando dell'esercito tenendo a fianco il Fanti, che continuò a dirigere effettivamente le operazioni con la carica di capo di Stato maggiore. Da Ancona l'esercito mosse alla volta del Napoletano, rinviando nell'Emilia la 13ª divisione e sostituendola con altra (brigate Re e Aosta) inviata da Genova a Napoli per mare. Sollecitato a intervenire da una deputazione napoletana, il re decise di puntare per gli Abruzzi alle spalle e contro il fianco sinistro delle truppe borboniche nel caso si indugiassero, dopo la battaglia del Volturno, a lottare sullo stesso terreno. Un distaccamento fu inviato per mare a Manfredonia, per raggiungere Napoli, via Benevento. Le rimanenti unità dell'esercito, per Pescara, Chieti e Sulmona, furono avviate alla regione fra Volturno e Garigliano. Il 22 ottobre il grosso dell'esercito era attorno a Venafro.
A difendere la linea del Volturno dalle minacce da tergo, re Francesco II aveva inviato un grosso distaccamento al comando del generale Douglas-Scotti all'occupazione di Isernia, con incarico anche di sollevare i contadini contro l'invasione piemontese. Il Cialdini, informato di ciò, spedì un distaccamcnto celere (bersaglieri e cavalleria) a occupare il colle del Macerone, punto obbligato di passaggio del nemico; e quivi avvenne il 20 ottobre un combattimento manovrato, conclusosi con la vittoria dei soldati dell'unità italiana. I borbonici si ritrassero dietro il Garigliano, dopo avere lasciato un forte presidio in Capua, che fu circondata da truppe del generale Della Rocca e da garibaldini. Era appunto allora avvenuta la giunzione fra i volontarî (esercito meridionale) e i regolari (esercito settentrionale).
Dopo breve permanenza sul basso Garigliano, bersagliati all'ala occidentale dalle artiglierie della flotta, non fidandosi di accettare nuova battaglia campale, i Borbonici si rifugiarono in Gaeta. Un loro grosso corpo rimasto a Mola di Gaeta fu attaccato il 4 novembre da un forte distaccamento guidato dal generale De Sonnaz, e si disperse riuscendo in parte a raggiungere Gaeta, in parte sconfinando nel territorio pontificio.
Delle fortezze dove s'erano riparati gli avanzi dell'esercito di Francesco II, Capua si arrese in breve, Gaeta invece resistette a lungo. Circondata da terra dalle forze del Cialdini e da mare dalla flotta del Persano, essa subì un assedio regolare con lavori in terra, invano contrastati da due sortite della difesa. Sopportati con coraggio gl'intensi bombardamenti del principio di febbraio, sia dal mare sia da terra, avvenuto lo scoppio della grande polveriera, Gaeta si arrese il 12 febbraio 1861.
Campagna del 1866. - Dal punto di vista militare la terza guerra per l'indipendenza d'Italia s'iniziava sotto i migliori auspici.
Notevolissima la superiorità numerica italiana, tenuto conto dell'alleanza stipulata con la Prussia, che obbligano l'esercito imperiale austriaco a volgere verso il cuore della Germania la maggior parte delle sue forze, e riduceva perciò di molto le sue disponibilità in Italia.
Il governo di Firenze mise in campo circa il triplo delle forze raccolte nel Veneto dall'Austria. L'esercito italiano non era, però, ancora completamente amalgamato. I quattro anni trascorsi dalla proclanazione del regno non erano stati sufficienti a far sparire nei quadri diffidenze reciproche, dovute alla diversità di origine degli ufficiali; settentrionali, borbonici, garibaldini, e il cameratismo soffriva delle rivalità fra i capi e dello strascico delle polemiche che avevano turbato parlamento e opinione pubblica quando si trattò di parificare, o no, i gradi degli ufficiali delle varie provenienze, nell'atto di immetterli nell'esercito regolare.
Quanto alle forze di mare, era notevole la superiorità italiana per quantità di navi e di cannoni e per numero di unità corazzate (v. sotto).
Ordine di battaglia degli eserciti contrapposti in Italia. - L'esercito italiano (comandante supremo il re Vittorio Emanuele II, capo di Stato maggiore il generale Alfonso La Marmora) fu mobilitato su quattro grossi corpi d'armata, costituiti in modo non uniforme: I corpo, generale Durando, su 4 divisioni di fanteria e una brigata di cavalleria a 3 reggimenti; II corpo, generale Cucchiari, su 4 divisioni di fanteria e una brigata di cavalleria a 2 reggimenti; III corpo, generale Morozzo Della Rocca, su 4 divisioni di fanteria (una delle quali comandata dal principe ereditario Umberto) e una brigata di cavalleria a 3 reggimenti; IV corpo, generale Cialdini, su 8 divisioni di fanteria e una divisione di cavalleria, a due brigate di 3 reggimenti. In più, a disposizione del comando supremo, una divisione di cavalleria di riserva e riserve di artiglieria e del genio. Oltre l'esercito regolare fu costituito agli ordini di Garibaldi un grosso corpo di volontarî (10 reggimenti di linea a 4 battaglioni e 2 battaglioni bersaglieri a 4 compagnie, e truppe ausiliarie) al quale si aggregò una legione di guardie nazionali mobili, per la difesa della Valtellina. In complesso circa 250.000 combattenti.
L'esercito austriaco inviò la parte maggiore delle forze verso il centro della Germania per operare contro la Prussia (armata del nord) e la parte minore contro l'Italia (armata del sud). Le forze destinate a operare nel Veneto (comandante in capo l'arciduca Alberto, capo di Stato maggiore il generale John) furono costituite su tre corpi d'armata, composti ciascuno di 3 brigate miste (fanteria e artiglieria) e una riserva di artiglieria e precisamente: V corpo, gen. Liechtenstein; VII corpo, gen. Maroičić; IX corpo, gen. Hartung, più una riserva generale di cavalleria (gen. Pulz). A difesa del Trentino fu costituito un corpo speciale di montanari agli ordini del gen. Kuhn. In complesso circa 80.000 combattenti.
Disegni operativi degli avversarî per la guerra nel Veneto. - I capi dell'esercito italiano non erano d'accordo sul disegno operativo più conveniente per la lotta nel Veneto, che doveva essere necessariamente offensiva, l'obiettivo essendo la conquista dell'intera regione. Alcuni, che facevano capo al La Marmora, propendevano per l'invasione dalla Lombardia attraverso il Mincio come all'inizio della campagna del '48; altri, che facevano capo al Cialdini, ritenevano più conveniente l'invasione dall'Emilia attraverso il basso Po. Argomento principale dei primi era che si avevano minori ostacoli da superare; argomento principale dei secondi era la minore lunghezza della linea di operazione e la convenienza di aggirare, anziché urtare in pieno, le fortezze del quadrilatero. Fu adottata una soluzione di compromesso pericolosa, spiritualmente nefasta, costituendosi due masse separate dal Po; l'una di 12 divisioni (corpi I, II, III, v. sopra) agli ordini diretti del La Marmora, per l'invasione attraverso il Mincio; l'altra di 8 divisioni (IV corpo) agli ordini del Cialdini per l'invasione attraverso il basso Po. Il difetto della separazione iniziale fu poi aggravato in quanto fu stabilito che la massa del Cialdini dovesse agire in modo indipendente, forse volendosi dare soddisfazione al Cialdini desideroso di un comando in capo. Da questo vizio fondamentale ebbe origine la disgrazia delle armi italiane, alla quale concorsero altre deficienze funzionali dei comandanti e degli Stati maggiori. A Garibaldi fu affidata l'invasione del Trentino per le alte valli bresciane.
Il disegno operativo austriaco fu quale richiedevano le cireostanze (grande inferiorità numerica e atteggiamento difensivo prescritto per l'armata del Veneto dallo Stato maggiore di Vienna che intendeva fare lo sforzo più grande contro la Prussia). Su questa base l'arciduca Alberto (che si era proposto di condurre una difensiva manovrata) decise di tenere strettamente concentrate le forze attorno a Verona, e attendere quivi lo sconfinamento degl'Italiani per attaccarli sul fianco sinistro appena fossero entrati nel Veneto, diretti al Friuli.
L'invasione del Veneto dal Mincio: Custoza. - Il 23 giugno, il La Marmora iniziò con due dei tre corpi d'armata di Lombardia il passaggio del Mincio, fra Monzambano e Goito, inviando l'altro corpo nella regione della fortezza di Mantova. Le truppe austriache di osservazione lungo il fiume si ritirarono prontamente; ma l'arciduca Alberto ordinava al grosso retrostante movimenti verso occidente, che delineavano una manovra controffensiva. Questa doveva infatti compiersi con preventivo schieramento delle forze (da eseguire il successivo giorno 24) sulle alture a sud del Garda, fronte a sud, perché l'arciduca supponeva che gl'Italiani, passato il Mincio, puntassero diritti verso il basso Adige. Invece yli ordini del La Marmora per il 24 portarono a irradiare le forze con asse di direzione verso nord-est. E poiché l'insufficiente ricognizione dei reparti italiani avanzati lasciò ignorare ai comandanti le mosse dell'avversario (il La Marmora era convinto che l'arciduca rimanesse il 2 fermo attorno a Verona) ne conseguì che né l'uno né l'altro degli avversarî, si attese d'incontrare il nemico sulle alture fra il Garda e Villafranca. Il mattino del 24 giugno si accese inopinatamente la battaglia di Custoza, nella quale le forze austriache, concentrate nelle mani del capo, parteciparono tutte alla lotta, e quelle italiane disseminate nel campo strategico (corpo separato del Cialdini) e nel campo tattico (corpo inviato a Mantova, ordini difettosi e mancati collegamenti), vi presero parte soltanto con una piccola aliquota rispetto alle forze disponibili per la campagna. A queste malaugurate circostanze si aggiunse la paralisi funzionale del comando supremo, determinata dall'irreperibilità del La Marmora durante le ore più movimentate della giornata.
La seconda fase delle operazioni. - A sera del 24 giugno il La Marmora ordinava la ritirata dell'intera armata del Mincio sulla destra del fiume; provvedimento aggravato poi dall'ordine di ripiegamento a Cremona e Piacenza. In effetto la mossa retrograda fu arrestata al basso Oglio, quando fu chiaro l'intento dell'avversario di non inseguire.
Il Cialdini s'era avvicinato il 24 giugno al Po, e aveva posto lungo il fiume alcune sue avanguardie; ma alla notizia dell'esito infausto della battaglia di Custoza, ripiegò in direzione di Modena e Bologna.
Alla fine di giugno l'armata austriaca d'Italia s'accingeva a passare il Mincio per molestare gl'Italiani, quando per il disastroso andamento della guerra in Boemia, l'imperatore Francesco Giuseppe richiamò gran parte delle forze dal Veneto per avviarle al Danubio, e richiamò l'arciduca Alberto cui affidò il comando supremo delle operazioni contro la Prussia.
Al comando supremo italiano si studiava intanto un nuovo piano di invasione del Veneto per il basso Po; cioè, fallito il piano La Marmora, si passava al piano Cialdini. La formazione di guerra fu resa meno pesante e la nuova offensiva fu affidata a un'armata di operazione (Cialdini) comprendente la maggior parte delle forze, mentre la parte minore, costituita in armata di osservazione (La Marmora) avrebbe attaccato le fortezze del Quadrilatero e tenuta libera da minacce la linea di comunicazione dell'armata di operazione. Infine fu costituita una riserva generale con truppe complementari. Tutto ciò fu precisato in un consiglio di guerra tenuto in Ferrara (14 luglio) sotto la presidenza del re. Nello stesso consiglio di guerra fu deciso di dar ordine al Persano, rimasto fino allora inattivo, di provocare a battaglia la flotta avversaria. L'armata del Cialdini fu costituita con 5 corpi d'armata, di cui quattro a 3 divisioni e uno a 2 divisioni, più una brigata di cavalleria. Comandanti dei corpi d'armata, i generali Pianell, Petitti, R. Cadorna, Brignone, M. De Sonnaz.
Lasciata una divisione a Mestre per contenere le minacce che potevano venire dalla piazza di Venezia, e inviata una divisione (Medici) per la Valsugana a dar la mano a Garibaldi che tendeva, come si è detto, a Trento per le valli bresciane, il Cialdini col resto delle forze mosse per la pianura veneto-friulana nella direzione di Trieste, avendo in punta il V corpo (Cadorna). Fin presso all'Isonzo (24 luglio) l'avanzata fu compiuta senza incontrare il nemico. Solo il 25 luglio a Versa sul Torre l'avanguardia del Cadorna prese contatto con una retroguardia austriaca, che dopo breve combattimento si ritirò oltre lo Iudrio, inseguita dagl'Italiani. In questo momento un parlamentario austriaco si presentò ad annunciare il concluso armistizio fra Austria e Prussia. La guerra terminò.
Operazioni dei garibaldini e della divisione Medici. - Raccolti i volontarî fra Brescia e il Garda, Garibaldi inviò subito alcuni battaglioni in Val Camonica, la più direttamente minacciata dalle truppe avanzate del Kuhn. Giunta la notizia infausta di Custoza, egli decise di avanzare con la massa delle forze verso l'obiettivo di Trento, che gli era stato assegnato, facendosi precedere da una brigata che il 1° luglio si avviò per Vestone a Rocca d'Anfo. In quel momento il Kuhn, che si apprestava a prendere l'offensiva con le maggiori forze in Val Camonica, ebbe ordine dal supremo comando di rimanere sulla difensiva e di ritirare le truppe che si trovavano in posizione avanzata. Dopo combattimenti a Monte Suello (3 luglio) e a Vezza d'Oglio (4 luglio), nel primo dei quali lo stesso Garibaldi rimase ferito, ragioni logistiche costrinsero i volontarî a sostare alcuni giorni in Val Camonica, mentre in Valtellina i garibaldini, guidati dal colonnello Guicciardi, occupavano combattendo il piano di Bormio (11 luglio). Ripresa a metà luglio l'avanzata, Garibaldi respinge a Condino (16 luglio) un attacco austriaco, attacca e obbliga alla resa il forte Gligenti (19 luglio) e prende la via di Riva per Bezzecca. Quivi il 21 luglio ha luogo un vivacissimo combattimento con vicende alterne, conclusosi con la vittoria dei garibaldini che rimangono padroni della posizione e inseguono il nemico a cannonate. Intento di Garibaldi è, ora, di avanzare per Riva e Rovereto fino a Trento, allo scopo di dar la mano il più presto possibile alla divisione Medici che - come s'è detto - risaliva la Valsugana, anch'essa diretta a Trento. I volontarî stavano per toccare Riva (25 luglio) quando giunse l'avviso della sospensione d'armi. Lo stesso avviso giunse alla divisione Medici allorché questi, dopo avere disperso resistenze nemiche a Cismon, a Primolano, a Borgo, aveva con un attacco notturno cacciato da Levico gli Austriaci e aveva iniziato, per Pergine, la marcia su Trento.
Operazioni militari per l'occupazione di Roma (settembre 1870). - Dopo il tentativo di Garibaldi di risolvere nel 1867 con la campagna di Mentana la questione della sovranità temporale del papa per mezzo delle armi dei volontarî, la Francia aveva mantenuto nel territorio romano proprie forze militari a salvaguardia dello Stato Pontificio, contrariamente ai patti della convenzione di settembre del 1864 stipulata col governo italiano. Ma i disastri militari, con i quali si era iniziata nell'agosto del 1870 la guerra fra l'impero francese e le forze della confederazione germanica, avevano indotto Napoleone III a richiamare in patria nella prima metà d'agosto il corpo di occupazione; e il governo di Firenze aveva immediatamente deciso di raccogliere truppe dell'esercito nell'Umbria, costituendole in un "corpo di osservazione" di 3 divisioni più una riserva, pronto agli eventi, sotto il comando del generale Raffaele Cadorna. Le tre divisioni erano rispettivamente agli ordini dei generali Cosenz (11ª), Mazè de la Roche (12ª), Ferrero (13ª).
Avendo le ulteriori disfatte dell'esercito francese nell'Alsazia-Lorena provocato la caduta dell'impero (4 settembre), il governo italiano, liberato da ogni riguardo verso la persona dell'ex-sovrano francese, risolvette di occupare Roma, anche ricorrendo alla forza, se necessario.
Alle 3 divisioni iniziali ne furono aggiunte altre due: la 2ª (gen. Bixio), la 9ª (gen. Angioletti). Tutte queste forze (circa 60.000 uomini) dovevano convergere su Roma per la maggior parte da nord (punti di partenza Rieti, Terni, Narni, Orvieto) e in piccola parte da sud (Ceprano).
Mentre la divisione Bixio otteneva, senza colpo ferire, la resa di Civitavecchia (16 settembre), le altre unità si appressavano a Roma. I presidî pontifici, secondo gli ordini del generale Kanzler, ripiegarono e si ridussero in Roma, dove tutte le truppe disponibili per la difesa furono ripartite in quattro zone, ciascuna agli ordini di un colonnello. Il pontefice, la sera del 19 settembre, considerando, fra l'altro, l'imponenza delle forze che attorniavano la città (anche la divisione Bixio si era da Civitavecchia portata in vista di Roma) prescrisse che la difesa delle armi pontificie fosse continuata solo per il tempo necessario ad affermare la protesta della S. Sede.
Il Cadorna stabilì che l'attacco principale dovesse portarsi fra le porte Pia e Salaria (divisioni Cosenz e Mazè), mentre atti dimostrativi si sarebbero compiuti fra le porte S. Lorenzo e S. Giovanni (divisioni Ferrero e Angioletti) e anche nella direzione del Gianicolo, se il Bixio avesse potuto portarsi in tempo contro quel settore.
L'azione fu iniziata dall'Angioletti alle porte Latina e San Giovanni alle ore 4 del 20 settembre e un'ora dopo apriva il fuoco il Ferrero ai Tre Archi. Alle 8 si svolgeva l'attacco principale, che il Cadorna diresse personalmente da Villa Albani. In breve ora le artiglierie aprirono la breccia presso Porta Pia, che fu presa d'assalto da truppe frammischiate dei reparti più prossimi (39° fanteria, 12° e 34° battaglioni bersaglieri, ecc.). Nel frattempo il generale Bixio aveva anch'egli iniziato il fuoco contro Porta San Pancrazio. Alle 10 circa i difensori di Roma innalzarono bandiera bianca. La stessa giornata del 20 settembre le condizioni della resa vennero stipulate. Le truppe del Cadorna occuparono la città, salvo il quartiere di Trastevere, dove però entrarono il giorno dopo per invito dello stesso pontefice, essendosi colà manifestati disordini.
Le vicende guerresche del Risorgimento provarono che gl'Italiani in armi erano temprati alla disciplina e al sacrificio e che gl'insuccessi talvolta patiti derivavano da alcune deficienze funzionali proprie degli organismi improvvisati e delle situazioni intricate.
Le operazioni marittime nelle guerre del Risorgimento. - Una serie di difficoltà di diversa natura rese poco efficace il contributo delle marine regionali italiane nella prima guerra d'indipendenza. Venezia, ribellatasi all'Austria, trascinò nella ribellione una parte della flotta austriaca, composta dalle corvette Lombardia, Indipendenza e Civica, dai brigantini Crociato, S. Marco e Pilade e dalla goletta Fenice, sotto il comando del contrammiraglio G. Bua. In soccorso di Venezia vennero la flotta sarda, comandata dal contrammiraglio G. Albini e composta dalle fregate S. Michele, Des Geneys e Beroldo, dalle corvette Aquila e Aurora, dalle pirocorvette Tripoli e Malfatano, dal brigantino Duino e dalla goletta Staffetta; e la flotta napoletana, condotta dal retroammiraglio R. De Cosa e composta dalle fregate Regina e Isabella, dal brigantino Principe Carlo, dalle fregate a vapore Roberto, Ruggero, Guiscardo, Sannita, Carlo III. Di fronte alle flotte italiane l'Austria non aveva che una piccola squadra, sotto l'ammiraglio Kudriafsky (fregate Bellona e Guerriera, brigantini Oreste e Montecuccoli, corvetta a vapore Vulcano, e, più tardi, piroscafi del Lloyd trasformati in legni di guerra Maria Dorotea, Custoza, Curtatone e Trieste). Schiacciante era la superiorità delle flotte italiane, ma le diffidenze sardo-napoletane impedirono loro di cimentarsi e di vincere in battaglia il nemico. Richiamati in patria i Napoletani da Ferdinando II il 13 giugno, la flotta sardo-veneta intimò il blocco di Trieste (15 giugno). Le proteste della confederazione germanica, che considerava Trieste un suo porto naturale (20 giugno) e la netta opposizione inglese - un ammiraglio inglese propose al suo governo di considerare un casus belli l'attacco di Trieste - obbligarono il governo sardo a ordinare di levare il blocco. Quando Venezia dichiarò (4 luglio) di volersi unire al regno di Sardegna, la flotta sarda si accinse a partecipare alla sua difesa, ma l'armistizio Salasco le tolse anche questa gloria, che non poté neppure riacquistare nel 1849, poiché quella breve campagna non diede all'Albini l'agio di concertarsi col Manin per la difesa di Venezia.
Una piccola squadra sarda, al comando del capitano di vascello O. Di Negro, partecipò alla guerra di Crimea, e, con le flotte anglofrancesi, apparve il 19 giugno 1855 schierata in battaglia per sfidare la flotta russa sotto le mura di Sebastopoli, ma la flotta russa non raccolse la sfida.
Nella campagna del 1859 una grossa squadra francese, condotta dal viceammiraglio Romain Despossés, con una squadra sarda, agli ordini del capitano di vascello Tholosano, doveva attaccare Venezia, ma, prima che potesse farlo, l'armistizio di Villafranca pose fine alla guerra.
Più felice fu la marina sarda nel 1860-61, e il Persano col tatto più di diplomatico che di marinaio, ebbe la sua parte nella buona riuscita della spedizione dei Mille, partecipò all'espugnazione di Ancona, al blocco di Gaeta, alla cui caduta la marina contribuì vigorosamente, e alla presa della cittadella di Messina.
Nella campagna del 1866, la marina italiana. benché più potente di quella austriaca, nelle prime settimane di guerra rimase inoperosa ad Ancona. Il 27 giugno la flotta austriaca, comandata dal Tegetthoff, ritenendo che la flotta italiana fosse ancora a Taranto, si era avanzata su Ancona: scoperta invece la flotta italiana nella rada, le navi austriache si erano ritirate. Il comandante della flotta italiana, ammirȧglio Persano, aveva desistito dall'inseguimento, non sembrandogli ancora ben compiuta la preparazione della sua flotta. L'8 sera la squadra italiana usciva dal porto di Ancona, a cui faceva ritorno il 12. Questa inutile crociera fu seguita da nuovi pressanti ordini del governo al Persano di attaccare il nemico; e allora, il 15, il Persano decideva di occupare l'isola di Lissa. Il 16 la flotta salpava da Ancona. Lissa fu infatti bombardata il 18 e il 19 luglio; ma il mattino del 20 l'operazione dovette essere in tutta fretta interrotta per l'avvicinarsi della flotta austriaca che, al comando del Tegetthoff, era uscita dalla sua base per cogliere di sorpresa l'armata italiana.
La battaglia fu malamente ingaggiata dagl'Italiani con errate disposizioni tattiche (v. lissa); mancò, nei momenti risolutivi, l'energia di comando del Persano; e il risultato fu che gli Austriaci riuscirono ad affondare la Re d'Italia e la Palestro e a ritirarsi poi nel porto di S. Giorgio.
Bibl.: C. Randaccio, Storia delle marine militari italiane dal 1750 al 1860 e della marina militare italiana, Roma 1886; A. V. Vecchi (Jack La Bolina), Storia generale della marina militare, Firenze 1892.