Risorse naturali
Risorse biologiche, di Valerio Giacomini
Risorse minerarie, di Luciano Caglioti
Risorse del fondo marino: aspetti giuridici, di Benedetto Conforti
Risorse biologiche
SOMMARIO: 1. Concetti introduttivi: a) il concetto di patrimonio naturale; b) risorse abiologiche e biologiche; c) risorse non rinnovabili e rinnovabili; d) principi ecologici. □ 2. Le risorse fisiche: a) la terra e il suolo; b) l'acqua; c) l'aria; d) le materie prime; e) l'energia; f) l'energia della biomassa. □ 3. Le risorse biologiche: a) la flora; b) la fauna; c) la caccia; d) la pesca; e) il germoplasma. □ 4. Le risorse degli ecosistemi naturali: a) il livello ecosistemico;b) ambiente e territorio; c) le risorse forestali; d) la foresta come ecosistema; e) le quattro funzionalità della foresta; f) i problemi della produzione; g) il problema dell'uso ricreativo; h) le zone umide. □ 5. Le risorse degli ecosistemi artificiali: a) l'agrosistema; b) la ‛rivoluzione verde'; c) agricoltura biologica e agricoltura ecologica; d) i valori dell'ambiente rurale; e) l'agricoltura come strumento di conservazione; f) il paesaggio; g) la città; h) la montagna; i) risorse autoctone e sfruttamento turistico; l) l'alpicoltura. □ 6. Le risorse umane: a) la priorità dell'uomo; b) la conservazione dell'uomo. □ 7. I parchi e le riserve: a) la concezione sistemica dei parchi e delle riserve; b) i parchi e le riserve; c) i parchi naturali regionali; d) le riserve della biosfera. □ 8. Le istituzioni: a) i musei; ) gli orti botanici e gli arboreti. □ 9. Il patrimonio mondiale. □ Bibliografia.
1. Concetti introduttivi.
a) Il concetto di patrimonio naturale.
L'idea di ‛patrimonio' si associa immediatamente con quella di un bene di cui qualcuno ha il possesso e la facoltà di utilizzazione. Ma se si tien conto anche dell'etimologia (da pater), emerge pure il significato di eredità ricevuta e da trasmettere ai discendenti. Questo concetto riguarda ovviamente le dottrine giuridiche e costituisce un punto di vista essenziale, ma che esula da questa trattazione (v. natura, protezione della: Protezione dell'ambiente naturale). Non mancano affinità col concetto di ‛patrimonio monumentale e artistico', se non ci si limita a considerare i valori di una ‛prima natura', ma anche quelli di una ‛seconda natura' creata dall'uomo con criteri utilitaristici e sensibilità estetica, come nel caso di non pochi ‛paesaggi umanizzati' (v. patrimonio monumentale e artistico). È d'altronde d'uso corrente il termine ‛monumenti naturali' per indicare aspetti notevoli ma strettamente localizzati, come è il caso, in special modo, di eccezionali fenomeni storico-geologici, ai quali non di rado sono accomunate anche memorabili tradizioni umane: tali, ad esempio, le famose grotte di Fingal e di Altamira, o alcuni giganteschi massi erratici testimoni di vicende glaciali quaternarie.
b) Risorse abiologiche e biologiche.
Abbiamo creduto utile fare una distinzione, in questo testo, tra risorse abiologiche e biologiche, soprattutto perché sono implicati diversi ordini di competenze e diversi criteri di valutazione, e anche per certe corrispondenze con la successiva e molto diffusa distinzione tra risorse non rinnovabili e rinnovabili.
Le risorse abiotiche - ad esempio l'aria, l'acqua, i minerali - vengono ritenute in genere non rinnovabili, ma una valutazione in tal senso non si può affrontare prescindendo dai grandi cicli biogeochimici nei quali si effettua una circolazione che può risultare chiusa o aperta. Si può dire tuttavia che se questo tipo di risorse deve essere disponibile all'utilizzazione, il criterio che subentra è quello del tempo, e più precisamente della durata dei cicli, che in molti casi va ben oltre il breve ciclo delle generazioni umane e perfino delle epoche storiche. Tale, ad esempio, è il caso del fosforo, la cui disponibilità costituisce, e ancora più costituirà in avvenire, una preoccupazione, perché dopo essere stato estratto dai giacimenti, ovviamente esauribili, viene portato al mare, ove costituisce sedimenti che solo in tempi geologici potranno riaffiorare.
Le risorse biotiche sono invece tipicamente capaci di riprodursi e anche di moltiplicarsi e di sostituirsi l'una all'altra; ma il grosso problema dell'efficienza di questi loro processi è rappresentato dalle complesse interrelazioni che si stabiliscono fra loro e con le risorse fisiche nel quadro degli ecosistemi. Solo una gestione molto attentamente controllata potrà permettere la loro effettiva conservazione e il loro incremento.
c) Risorse non rinnovabili e rinnovabili.
La distinzione tra risorse non rinnovabili e rinnovabili è tutt'altro che rigorosa; fa parte di quelle approssimazioni empiriche che la prassi ecologica deve accettare per semplificare l'enorme complessità che impongono apprezzamenti e criteri rigorosamente scientifici, e per essere quindi agilmente operativa. Da tempo vengono lanciati giustificati allarmi circa la disponibilità di fondamentali risorse, in special modo quelle che forniscono le energie convenzionali. Tecnici e studiosi si dedicano quindi alle previsioni sui ‛limiti' delle loro disponibilità. Il giudizio sui limiti non è tuttavia così semplice come può apparire. È ben noto che lo sfruttamento dei giacimenti dipende dalla convenienza economica e dall'impiego di energia richiesto per l'estrazione, per il trasporto, per l'utilizzazione (v. energia). Ma si deve tener conto che l'evoluzione delle tecniche estrattive ha permesso di rendere redditizi giacimenti che erano stati considerati antieconomici. Vengono così notevolmente differiti i tempi-limite di molte risorse. E divenuto pertanto usuale considerare con T. B. Nolan la tecnologia per se stessa una ‟inesauribile risorsa". Tuttavia l'esauribilità prossima o lontana costituisce un rischio da considerare e da controllare; basterebbe citare anche soltanto il caso del petrolio, che però - è interessante tenerlo presente - è risorsa di origine biologica. Non solo il petrolio è consumato con un ritmo che fa prevedere un esaurimento non lontanissimo, ma è pure una risorsa molto localizzata, almeno per ciò che riguarda i più importanti giacimenti.
Ma i limiti delle risorse cosiddette non rinnovabili dipendono anche da altri fattori che richiamano a gravi responsabilità coloro che le gestiscono. Un limite dovrebbe essere costituito dalla preziosità ditali risorse, cioè dalla molteplicità di usi molto specializzati che esse possono consentire. Ancora il petrolio costituisce un caso tipico: stiamo consumandone quantità enormi per utilizzazioni piuttosto grossolane, senza tener conto dei molti e insostituibili impieghi possibili (v. petrolchimica). Un altro limite dovrebbe essere imposto dalle sostanze secondarie, spesso tremendamente inquinanti e tossiche, prodotte dall'uso di tali risorse; è il caso del cromo, del piombo, del mercurio, e di non pochi altri metalli pesanti.
Le risorse rinnovabili sono costituite tipicamente dalle risorse biologiche, sia vegetali sia animali, e anche appartenenti al mondo dei microrganismi. Pongono, come si è detto, problemi molto complessi, che spesso vengono disattesi causando un progressivo impoverimento che non incide solo sulle utilità immediate, valutabili in termini economici, ma anche sulle diversità degli ecosistemi e della ecosfera in generale.
L'ingiusta ripartizione delle risorse, per quanto riguarda soprattutto le terre fertili e quanto esse producono, lo sfruttamento di rapina, un vero e proprio ‛nomadismo' che viene esercitato in misura ben più preoccupante di quello che facevano le popolazioni primitive o quelle che ancor oggi vi sono costrette dalle situazioni ambientali, stanno conducendo a un depauperamento delle risorse vegetali e animali assai più grave di quello di cui è responsabile il sovrappopolamento umano.
Tuttavia, lo stesso processo di degradazione di tutte le risorse planetarie stimola la ricerca di nuove risorse, soprattutto energetiche. Non si tratta solo dell'utilizzazione diretta dell'energia solare, ma anche di una più vasta utilizzazione della biomassa vegetale.
d) Principî ecologici.
Una prassi di conservazione deve trovare necessariamente sostegno nei principî scientifici che provengono da una ‛ecologia fondamentale'. Il principio di ‛conservazione' è valido quando diventa scientificamente attendibile e supera atteggiamenti dogmatici e ideologici, che rifiutano di tener conto di una prudente verifica e previsione entro quadri metodologici non improvvisati o semplicistici. In altri termini, la conservazione deve assumere carattere scientifico, ma con una vastità di impegni che richiede anzitutto una interdisciplinarità capace di spaziare a tutti i livelli, da quello naturalistico a quello socioeconomico, da quello psicologico a quello culturale nel senso più ampio e unitario.
I principi ecologici essenziali sono pochi, ma importanti ed estremamente impegnativi. La loro applicazione non deve essere astratta per non incorrere in generalizzazioni di interesse solo teorico; deve invece aderire alla realtà di casi concreti, in determinate condizioni di spazio e di tempo. L'urgenza degli eventi, che si fa sentire spesso pesantemente, costringe ad approssimazioni rischiose, perché empiriche, il cui grado di validità non deve mai essere perso di vista e soprattutto non deve esser proposto come una metodologia permanente al modo di certi standard in uso presso alcune agenzie tecniche, che dell'attività di conservazione fanno oggetto di lucro e di commercio.
Un primo principio è costituito dall'esistenza di limiti nella disponibilità delle risorse, come si è già prospettato trattando di risorse rinnovabili e non rinnovabili, tenendo conto però non solo della quantità, ma anche della qualità. I criteri qualitativi devono fare riferimento costante all'uomo come principale destinatario dei beni naturali, devono cioè considerare la qualità dell'ambiente e della vita dell'uomo.
Un secondo principio ci induce a tener conto di una concatenazione di cause-effetti, che entra nella logica delle interrelazioni degli ecosistemi. Nessuna modificazione può essere considerata a priori di minimo o trascurabile interesse, perché da minime cause possono scaturire grandi effetti. La conservazione va pertanto considerata non come un intervento occasionale, magari tempestivo, ma che si appaga di aver arrestato un processo nocivo o di aver promulgato un divieto o una legislazione, bensì come un'attività continuata di controllo e di verifica delle conseguenze stesse dell'attività conservazionale.
Un ulteriore concetto che va tenuto presente è quello di equilibrio, perché si parla molto di equilibri naturali, di armonizzazioni fra attività umane e fenomeni biologici, ma non si tiene sufficientemente conto della grande delicatezza e complessità di questo problema. Infatti gli equilibri naturali, per essere intimamente compenetrati e condizionati - anzi regolati - dalla vita, sono equilibri biologici del tutto confrontabili con quelli di un organismo vivente. Subentrano quindi processi, cicli, aspetti metabolici, energetici e d'informazione di cui è necessario tener conto nel modo più rigoroso per quanto è consentito dall'urgenza degli interventi, ma in ogni caso nell'ambito di una conservazione permanente. Abbiamo a che fare con equilibri che sono dinamici, oscillanti, in continuo divenire, caratterizzati da autoregolazione (mediante retroazioni), la cui efficienza diventa una misura dell'efficienza dei sistemi. Emerge in particolare l'interesse dei criteri di diversità e di stabilità degli ecosistemi, criteri non trascurabili se si vuol mantenere un confronto permanente con i processi naturali, dai quali soltanto possiamo ricavare suggerimenti affidabili per un'autentica conservazione. La conservazione deve divenire un impegno severamente metodico, e deve fare ricorso, non per comodi riduttivismi ma per potenziare e accelerare i propri interventi, ai più sofisticati strumenti concettuali che sono offerti oggi dalle teorie generali dei sistemi e dell'informazione, e ai mezzi concreti resi disponibili dall'informatica, dalla modellistica matematica, dalla cibernetica.
La conservazione infine deve tener conto dei criteri economici, ma non di un'economia di mercato che appare oggi così gravemente fallimentare, bensì di una più generale economia della natura; non va, pertanto, trascurata l'esigenza della conservazione della produttività degli ecosistemi - siano essi naturali, seminaturali o artificiali - che rappresentano un capitale il cui reddito va utilizzato con oculatezza.
2. Le risorse fisiche.
a) La terra e il suolo.
Sembra necessario, per evitare imprecisioni, distinguere due aspetti fondamentali di una grande risorsa, che si può anche considerare unitaria, che è il substrato più generale della vita in special modo nelle terre emerse. Non è esattamente lo stesso parlare di terra (land) o di suolo (soil); ambedue i termini esprimono un concetto di risorsa a un tempo biologica ed economica, ma mentre il primo viene usato in riferimento a caratteristiche quantitative, geografiche, spaziali, e se si vuole anche giuridiche e politiche, al secondo attribuiamo un significato che più puntualmente concerne la qualità, e quindi le caratteristiche ecologiche, produttivistiche, genetiche.
Ambedue i significati del termine assumono importanza nell'ottica di una conservazione armonizzata con lo sviluppo. La terra pone problemi di limite di superficie abitabile e utilizzabile, sia in senso attuale sia in senso potenziale. E largamente diffusa una valutazione del cosiddetto ‛uso della terra' (land use) che consiste in prospezioni più o meno approssimate delle destinazioni d'uso, reali o possibili, che caratterizzano un determinato territorio. Quando queste valutazioni sono più esaurienti e rigorose fanno inevitabilmente riferimento anche a peculiarità che concernono il suolo; ma in generale, per motivi di ordine pratico e immediato - ad esempio per predisporre pianificazioni, per dare base obiettiva a interventi fiscali - si fa ricorso a riduzioni empiriche il più possibile significative anche se unilaterali. Frequente è la riduzione a criteri pedologici che valutano caratteri chimici connessi al clima, alla genesi dalle rocce madri, alle strutture fisiche che condizionano la coltivabilità. Un metodo più generale consiste nell'adozione di indicatori, cioè di parametri che diano informazioni, dirette o indirette, di condizioni favorevoli o sfavorevoli all'utilizzazione. Gli indicatori possono essere di carattere chimico, ma spesso i più ricchi di significato sono di carattere biologico, perché in tal caso è la vita stessa che rivela, sia pure complessivamente, le situazioni di interesse biologico ed ecologico. Particolare efficacia assumono gruppi di organismi terrestri e acquatici, i cosiddetti ‛gruppi ecologici', e anche certe comunità o associazioni di piante macroscopiche e microscopiche.
Esiste un altro significato di ‛terra' che va ben oltre gli interessi di un territorio, di una regione o di una nazione: è quello di ‛Terra' (Earth) nel senso di una grande risorsa unitaria che impone l'adesione a interessi di carattere universale.
Il suolo propone problemi assai più delicati di carattere scientifico e tecnico; costituisce un sottosistema di interesse fondamentale perché è sede di un intrecciarsi oltremodo complesso, e potremmo quasi dire miniaturizzato, di fenomeni fisici e biologici, di cicli geodinamici, di flussi di materia inorganica e organica, talora appena percettibili ma non per questo meno determinanti per l'equilibrio dinamico complessivo. Si suol dire che il suolo che calpestiamo con noncuranza, che rimaneggiamo con grossolane pratiche colturali o di sfruttamento di rapina, è un organismo vivo; si parla infatti di respirazione del suolo, fenomeno di intensità assai più grande di quel che comunemente si creda, e che è indicatore di una somma di attività vitali di una enorme quantità di microrganismi diversi, autotrofi ed eterotrofi, di minuscoli vegetali e animali, il tutto connesso con le forme di vita macroscopiche che si sviluppano entro il suolo e sopra di esso.
Per ‛conservazione del suolo' (soil conservation) si intende per lo più la conservazione dei suoi caratteri fisici, della sua resistenza all'erosione, in modo da scongiurare le catastrofi di cui si ha periodica notizia e che hanno divorato enormi quantità di risorse reali e potenziali, talora su sconfinati territori. Il vigoroso movimento di conservazione della natura, che è sorto sia dal secolo scorso negli Stati Uniti, è nato dal crescente allarme sollevato dalle conseguenze di un imprudente e illimitato sfruttamento di questa risorsa fondamentale. Ma i problemi di ordine fisico, idrogeologico, diventano immediatamente biologici ed ecologici perché si associano all'esigenza di ricorrere alla vegetazione protettiva, consolidatrice, resistente all'azione del vento e alle avversità del clima che spesso sono state scatenate dalla demolizione delle cotiche erbose e delle strutture forestali.
Ma il suolo pone problemi particolarmente difficili quando si considera la sua fertilità, concetto che è diventato molto complesso e mal si adatta a semplificazioni. Il suolo nasce dalla disgregazione della roccia madre, ma anche dalla vegetazione che vi si insedia, la quale produce l'humus che a sua volta è il pabulum di quella componente microbica (in senso lato) che chiude il grande ciclo fondamentale di produzione (piante verdi) - consumazione (alimentazione animale e prelievo di prodotti utili) - decomposizione o restituzione (che è appunto attività dei microrganismi). Il depauperamento di certe sostanze del suolo, in special modo composti azotati assimilati, costituisce un formidabile problema dell'attuale agricoltura mondiale, di cui si occupano molti organismi internazionali e in special modo la FAO.
b) L'acqua.
Altra risorsa fondamentale per la vita sul nostro pianeta è l'acqua, già considerata come una risorsa illimitata. Ma tale non è che in una concezione globale dell'ecosfera, mentre pone gravissimi problemi in determinati territori, soprattutto in condizioni climatiche di aridità, e nei grandi agglomerati metropolitani dove il consumo si accresce di anno in anno in modo preoccupante. Nella gran parte dei casi non si può separare l'acqua dal suolo, perché le interrelazioni tra queste due risorse condizionano la valutazione delle terre utilizzabili del pianeta in termini economici e di produzione. Soprattutto, poi, il suolo e l'acqua condizionano la vita in tutte le sue espressioni e in particolare la qualità della vita umana. Proprio perché consideriamo il suolo come un organismo, l'acqua assume una funzione così importante.
L'acqua è una risorsa rinnovabile nella misura in cui l'uomo è in grado di controllarne il consumo, la circolazione, il recupero sia dal punto di vista della quantità che da quello della qualità. Il problema della qualità dell'acqua si fa sentire oggi drammaticamente in tutti i paesi del mondo a causa del crescente inquinamento industriale e della eutrofizzazione. Si impone quindi un serio impegno di conservazione delle acque, siano esse quelle del mare o quelle dei laghi, dei fiumi, dei canali, degli acquedotti, che stanno oltre tutto diventando un veicolo di veleni per tutta la vita del mondo. Chi favorisce insensatamente questo processo di diffusione di inquinanti da ecosistema a ecosistema non si rende conto, o con cieco egoismo si disinteressa delle conseguenze che ricadranno sui suoi figli in un vicino avvenire; e talora le conseguenze sono anche più immediate e incombenti (v. inquinamento ambientale).
Ma anche in senso quantitativo, per quanto sembri paradossale, l'acqua pone gravi problemi. L'aumento della popolazione umana e l'intensificato emungimento dal suolo, dalle falde freatiche e da tutte le altre sorgenti accessibili - perfino dai depositi più profondi della litosfera - dovuto ai consumi agricoli, industriali, urbani, fanno prevedere che nel 2000 saranno compromesse le disponibilità più essenziali. Basterebbe un lieve inaridimento del clima per creare catastrofi più vaste di quella che negli scorsi anni si è verificata nel Sahel. Le Danois prospetta la possibilità di un processo di riscaldamento e un disseccamento generalizzato dal 1957 al 2380, con un massimo ritiro dei ghiacci polari. Negli ultimi 4-5.000 anni il deserto sahariano sarebbe avanzato da S a N di oltre 2.000 km. Comunque, sia che si tratti di qualità che di quantità, le misure per la conservazione dell'acqua si stanno rivelando molto impegnative e onerose (problemi di depurazione, di regolazione) e altrettanto complessi i trattamenti per l'utilizzazione (dissalazione per l'utilizzazione delle acque marine, decarbonatazione, demineralizzazione). L'acqua dolce resa disponibile per i crescenti bisogni umani del ciclo naturale ammonta a 9×1015 t ma i consumi vanno crescendo con il crescere delle popolazioni umane: nei paesi industrializzati raggiungono 7.000 l pro capite al giorno, di cui 6.400 per gli usi agricoli, e si prevede un raddoppiamento intorno al 2000. I processi naturali di riciclaggio e soprattutto di autodepurazione stanno dimostrandosi insufficienti in molte regioni della Terra.
I fenomeni che intervengono sono complessi e non esclusivamente di carattere fisico, come potrebbe far credere la distinzione qui adottata fra risorse fisiche e biologiche. La distruzione di risorse biologiche come le foreste si riflette sull'economia dell'acqua, accelerando l'erosione del suolo per ruscellamento e il convogliarsi delle precipitazioni direttamente verso il mare; in tal modo vengono abbassandosi le falde freatiche e si impoveriscono le sorgenti. Dalla qualità dell'acqua dipende inoltre la sua produttività biologica; esistono corsi d'acqua e conche lacustri ‛morte', che non forniscono più le preziose risorse della pesca.
c) L'aria.
Forse l'aria è la risorsa naturale che più di ogni altra è stata considerata inesauribile, e tale potrebbe essere se non attingessimo dall'aria, in quantità sempre crescente, l'ossigeno per tutte le attività di combustione industriale oltre che per la respirazione di tutta la biosfera. Anche per l'aria si potrebbe dire qualche cosa di simile a ciò che si è detto per l'acqua; pur essendo disponibile in enormi quantità, può essere così alterata qualitativamente da diventare asfittica e anche tossica in situazioni locali, come avviene ad esempio in non poche grandi metropoli per l'eccessiva presenza di automezzi, o in centri industriali molto addensati. Le immissioni nell'aria di monossido di carbonio, di diossido di zolfo e di altri gas tossici, l'aumento eccessivo dello stesso di ossido di carbonio, di pulviscoli e di fumi producono una degradazione della qualità dell'ambiente danneggiando direttamente o indirettamente la salute umana. Si discute molto infatti anche sugli effetti climatici che può produrre un aumento progressivo di CO2 al ritmo di questi ultimi decenni; si paventa un surriscaldamento da ‛effetto serra' che potrebbe condurre oltretutto a eventi catastrofici come lo scioglimento della calotta glaciale antartica. Ma senza giungere a così fosche e, del resto, ancora dubbie previsioni, si sta denunciando il pericolo rappresentato dall'aumento dei voli aerei ad alta quota, a danno della fascia di ozono che protegge la vita terrestre dai deleteri effetti delle radiazioni ultraviolette.
Si può parlare allora di un problema della conservazione dell'aria che assume massima importanza soprattutto negli ambienti urbani e industriali, i cui effetti perniciosi si propagano non solo negli ambienti agrari circostanti, ma anche su aree molto più vaste per l'apporto di piogge fortemente acide, capaci di corrompere, come è ben noto, anche strutture monumentali e artistiche.
d) Le materie prime.
Il conflitto fra le esigenze della qualità dell'ambiente e la crescente richiesta di materie prime estraibili da cave e da miniere sta divenendo ogni giorno più aspro. D'altra parte, l'estrazione di materie prime, la produzione e la diffusione di scorie, l'aumento degli effluenti industriali concorrono parimenti alla degradazione dell'ambiente, del paesaggio, della vita in generale; si registra anche una notevole crescita delle malattie professionali. Ormai la superficie terrestre è sfruttata in ogni sua parte per ricavare sia materiali da costruzione, sia minerali tanto più preziosi quanto più vanno esaurendosi. Oggi si comincia a esplorare la disponibilità delle risorse sottomarine che si sono rivelate spesso notevolmente ricche e varie: ad esempio i fanghi metalliferi del Mar Rosso o i noduli di manganese ricchi anche di rame, di nichel e di cobalto dell'Oceano Pacifico.
Essendo tramontata l'illusione che le risorse minerali siano inesauribili, dobbiamo fronteggiare il deterioramento della qualità della vita che la loro mancanza potrebbe determinare. L'incremento demografico fa aumentare la richiesta di materie prime. Si fa affidamento su metodi sempre più raffinati ed efficienti di riciclaggio, ma anche un perfetto riciclaggio non farebbe altro che mantenere costante la quota attuale. L'affannosa ricerca di fonti nuove, per compensare il sovraconsumo dei paesi industriali, non fa altro che compromettere le future disponibilità per lo sviluppo a cui hanno diritto anche i paesi emergenti.
Una delle modalità di conservazione consiste nell'evitare gli sprechi gravissimi che si attuano con l'abuso di contenitori da gettare poi nei rifiuti, col consumismo favorito dall'industria automobilistica, con la produzione di rilucenti finiture. Non si tien conto che metalli preziosi come il rame, lo zinco, il piombo, lo stagno potranno esaurirsi in pochi decenni, almeno al ritmo dei processi attuali. Un'altra modalità di conservazione è costituita, secondo alcuni, dall'impiego di sostituti. H. E. Goeller e A. M. Weinberg (v., 1976) sostengono il principio di una ‛infinita' sostituibilità o quasi-sostituibilità dei minerali con relativamente piccola perdita di qualità della vita. Vien fatta eccezione per il fosforo, anche se le sue sorgenti sono ancora notevolmente ricche, e per i microelementi presenti in traccia nel suolo. Vi è invece chi ritiene che l'unica via per realizzare una efficace conservazione delle risorse minerali sarebbe quella del controllo delle nascite (v. Odum, 19713). Più ovvia, anche se difficile, appare la valutazione dello sforzo di ricerca necessario per promuovere un cambiamento tecnologico fondato su basi scientifiche (v. Radcliffe, 1976).
e) L'energia.
Il problema dell'energia è diventato in questi ultimi anni il problema più assillante per tutti i paesi del mondo. Si potrebbe dire che fra tutti i problemi delle risorse planetarie è quello più generale, perché coinvolge tutti i fondamentali processi che interessano l'efficienza dei sistemi sui quali è fondata oggi la sopravvivenza di miliardi di esseri umani: l'agricoltura, l'industria, le comunicazioni, le città. Purtroppo tutte le fonti di energia più comuni sono limitate - di alcune, anzi, come il petrolio, si prevede un non lontano esaurimento - e costituiscono risorse non rinnovabili. Nuove energie, indubbiamente molto cospicue, come quella nucleare, suscitano ovunque timori non infondati e devono essere impiegate con molta prudenza e con adeguati dispositivi di sicurezza. Una fonte illimitata è il Sole, verso cui si rivolgono le speranze per il futuro, perché nell'ora presente, e allo stato attuale delle tecnologie, non costituisce una risorsa risolutiva nei confronti della crescente, smisurata fame di energia che accompagna lo sviluppo, l'industrializzazione, la meccanizzazione.
Anche l'utilizzazione di altre risorse fondamentali, come l'acqua, le materie prime, la terra stessa, richiede sempre più alti tributi di energia. Si attua nella realtà più immediata e concreta e diventa per tutti evidente quella identità materia-energia che è affermata dalla fisica moderna. Il discorso energetico si fonde oggi col discorso ecologico, perché l'ordine e l'efficienza di tutti i sistemi, e in particolare degli ecosistemi, sono determinati da flussi di energia. Tutta l'ecologia teorica e applicata, compresa quindi la prassi conservazionale, si fonda su questi processi. Si legano quindi strettamente l'energia, l'economia, l'ambiente, ma con l'insorgere di antagonismi fra ecologi e tecnologi: i primi sostengono la necessità di ridurre i consumi energetici, i secondi difendono il diritto allo sviluppo delle popolazioni umane, che hanno crescenti esigenze di nutrimento, di prodotti industriali e anche di lavoro. Si contrappongono quindi una civiltà fondata piuttosto sulla qualità e una sulla quantità dei consumi. Tuttavia, i limiti di questa distinzione, troppo abusata e schematica, sono spesso difficilmente decifrabili. In realtà, a proposito delle risorse energetiche si impone un permanente, severo confronto fra conservazione e sviluppo, come oggi vien sostenuto concordemente dalle organizzazioni internazionali che si occupano dei problemi dell'ambiente e dell'uomo. Soprattutto emerge la necessità di controllare, e per quanto possibile prevedere, le conseguenze dello sfruttamento e dell'impiego delle energie da parte dell'uomo. Dovrebbero costituire uno strumento di crescente efficacia a tal fine i modelli matematici, cioè la cosiddetta modellizzazione dell'energia.
Un esempio particolarmente significativo è fornito dall'impiego dell'energia nell'agricoltura. C. Marchetti (v., 1979) calcola che il rapporto fra l'energia fornita al terreno e quella prodotta era, per l'agricoltura primitiva, dell'ordine di 50, che permetteva solo al 20% della popolazione di vivere senza partecipare all'attività agricola. Nell'età moderna l'intensificato uso delle macchine e l'impiego di sostanze chimiche, la cui produzione richiede quantità di energia, hanno innalzato il rapporto di cui sopra da 50 a 100, il che significa un dispendio di 100 cal di combustibile fossile per produrne 1 di lattuga, e una liberazione dal lavoro agricolo dell'80% circa della popolazione. Ovviamente un effetto deleterio concomitante è rappresentato dall'urbanizzazione, che nel nostro secolo ha assunto un'allarmante accelerazione: città, strade, centri industriali, aree di ricreazione si estendono a danno dell'area disponibile per l'agricoltura.
f) L'energia della biomassa.
L'uomo è costretto oggi a riconsiderare una risorsa energetica che ha troppo sottovalutata, ritenendola di troppo scarso rendimento nei confronti delle energie convenzionali: si tratta dell'energia primaria accumulata e resa disponibile dal processo della fotosintesi. Questa energia ‛numero uno' - l'unica che utilizzi direttamente in modo grandioso la fornace solare - è la sorgente di tutta la vita del mondo. Tale risorsa comincia a essere riscoperta anzitutto in agricoltura: vi sono pressanti richiami, peraltro molto lontani dall'essere ascoltati in un clima di tecnicismo esasperato, a un'agricoltura ‛biologica', pulita, non disseminatrice di contaminazioni. Ma assai più concordemente si invoca oggi una produzione di materiale energetico in forma di combustibili o carburanti dalla biomassa di vegetali che, da ricerche recenti di studiosi della fotosintesi (ad esempio M. Calvin), risultano efficienti a tale scopo; tali ad esempio le piante a fotosintesi del tipo C4, fra le quali primeggia nei paesi tropicali la canna da zucchero. In Brasile la bioenergia così ottenuta sta raggiungendo quantità ragguardevoli e copre già il 10% del fabbisogno nazionale di carburante. Una diretta produzione di idrocarburi è stata proposta anche a partire da specie laticifere del tipo Euphorbia (Calvin). Ultimativamente ci si propone di ricavare energia elettrica dalla biomassa. I cento miliardi di tonnellate di biomassa, in peso secco, prodotti annualmente dalle terre emerse (v. ecologia) costituiscono un equivalente energetico sei volte superiore all'energia usata oggi dalle popolazioni umane; è il prodotto di quel 3% dell'energia solare che in condizioni favorevoli medie viene sfruttato mediante la fotosintesi. Ciò senza tener conto della produzione agricola e forestale. Ma le difficoltà pratiche da superare sono enormi. L'utilizzazione del legno è il modo più comune di sfruttare la potenziale energia fornita dalle piante; anzi, c'è chi profetizza una futura ‛età del legno'. Si prevedono però processi di trasformazione della cellulosa e della lignina in ossido di carbonio e idrogeno e quindi in metanolo e in metano. L'idrogenazione del legno potrebbe fornire anche combustibili liquidi. Più lontana, ma decisamente risolutiva, appare la produzione di idrogeno mediante la fotolisi dell'acqua. Si tratterebbe di riprodurre un processo che avviene normalmente nel decorso della fotosintesi.
Nonostante queste prospettive, il problema energetico viene comunemente ritenuto il ‛tallone d'Achille dell'umanità' (v. energia).
3. Le risorse biologiche.
a) La flora.
Molte legislazioni locali o regionali si occupano della difesa del patrimonio vegetale, in special modo quello montano, minacciato da vandaliche depredazioni. L'importanza della flora è però troppo spesso valutata sulla base di motivazioni estetiche e sentimentali, di cui non si vuole minimizzare il valore, ma che non sono persuasive dal punto di vista ecologico. L'argomento fondamentale è invece quello del turbamento dell'integrità funzionale degli ecosistemi naturali, tenendo conto di una legge ecologica di cui deve esser resa nota la tremenda incidenza: piccole cause possono dilatarsi nello spazio e nel tempo a produrre gravi ed estesissimi effetti.
Una motivazione di grande interesse scientifico riguarda l'importanza che anche una sola specie può assumere nel patrimonio di vita della biosfera. È stato detto giustamente che anche una minima e trivialissima specie vegetale, che oggi parrebbe del tutto trascurabile, potrebbe risultare di enorme utilità per l'uomo. Né va sottovalutato che alcune specie relitte, apparentemente destinate a distruzione, potranno essere di grandissimo interesse per le indagini di futuri studiosi, soprattutto per la ricostruzione delle vicende evolutive, e quindi della storia stessa della vita planetaria.
Il discorso si amplia se dalla flora si passa a considerare la vegetazione - che costituisce ragione di vita per tutta la biosfera - e il rivestimento che tutela l'integrità del suolo.
b) La fauna.
Il tessuto vivo della biosfera e la struttura funzionale degli ecosistemi naturali richiedono presenze animali. Si potrebbe dire che esistono autentici rapporti di simbiosi fra il mondo vegetale, quello animale e l'uomo. Anche gli antagonismi, anche le predazioni convergono alla costruzione di vasti equilibri biologici; del resto basta ricordare l'importanza della funzione degli insetti impollinatori e quella degli animali disseminatori. La distruzione di particolari categorie di animali, o la diffusione abnorme di alcuni di essi in territori dove mancavano, hanno causato e causano enormi squilibri, talora danni disastrosi a carico degli stessi ecosistemi artificiali. Sono classici esempi l'introduzione del coniglio in Australia e gli squilibri arrecati dalla distruzione degli uccelli rapaci o degli animali ritenuti in genere ‛nocivi'. Nell'economia della natura non esistono specie nocive, ma esiste un contenimento dello sviluppo di una specie da parte di un'altra specie (esempi: i rapporti erbivori-carnivori, insetti-uccelli). La ‛primavera silenziosa' non è dunque un motivo sentimentale, come molti hanno voluto a suo tempo asserire, ma una realtà durissima che dimostra quali conseguenze esiziali colpiscano interessi vitali per le popolazioni umane.
Come le risorse floristiche, le risorse faunistiche hanno, oltre che un interesse biologico-scientifico, anche un interesse fondamentale per l'alimentazione proteica dell'uomo, data la loro posizione essenziale nelle catene trofiche e nelle piramidi dell'energia. Sorgono tuttavia complessi antagonismi fra fauna selvatica (wildlife) e allevamento del bestiame, e si pone il serio problema dell'assenza di norme che regolino la caccia e la pesca, e anche del grave depauperamento faunistico a scopo industriale e alimentare. Tipico il caso della progressiva distruzione delle balene e degli animali da pelliccia. La fauna è molto più esposta della flora alla definitiva estinzione di grandi specie; richiede quindi non soltanto la creazione di riserve, ma vasti impegni di controllo nazionale e internazionale, che tengano conto dell'interdipendenza di vegetazione e fauna e quindi degli ambienti globali, i soli che possano assicurare un sicuro rifugio per le specie in pericolo di estinzione. Emerge in particolare l'importanza di preservare un sistema planetario di zone umide per la conservazione dell'avifauna migratoria e stanziale.
c) La caccia.
L'uomo è stato sin dalle sue origini un predatore degli ecosistemi. Ma originariamente la sua opera di predazione era molto simile a quella dei predatori animali; costituiva quindi una componente dell'equilibrio sistemico. Gradualmente l'opera predatrice è diventata distruttrice e devastatrice, in modo diretto e in modo indiretto (distruzione dei boschi, estensione dei coltivi, avvelenamento delle catene alimentari). Un particolare peso esercita, specialmente nel nostro paese, la caccia, degenerata sovente in distruzione indiscriminata (nei tempi e nella qualità). Anche se ragioni contingenti possono favorire una regolata attività venatoria, il deterioramento del patrimonio faunistico del paese è giunto a un punto tale che si impongono seri provvedimenti.
Il discorso più serio e accettabile è quello del problema globale delle risorse faunistiche, sia quelle proprie del nostro paese sia quelle intercontinentali, di cui dobbiamo rispondere di fronte a tutto il mondo (ad esempio in materia di uccelli migratori indebitamente intercettati, specialmente sui nostri litorali). Un tentativo degno di attenzione è il progetto di legge per la fauna proposto dalla Commissione per la conservazione della natura del CNR. Degna di vivissima attenzione e appoggio è l'opera del WWF (World Wildlife Fund) per la creazione di oasi di rifugio lungo i litorali italiani. Sul piano intercontinentale il CIPO (Conseil International pour la Protection des Oiseaux) propugna l'abolizione della distinzione fra uccelli utili e nocivi, idea condivisa dallo stesso Consiglio Internazionale della Caccia.
d) La pesca.
Anche la situazione della pesca è critica e richiede interventi regolatori. La fauna delle acque interne è danneggiata non soltanto da un'eccessiva pesca selettiva che altera l'ecosistema fluviale e lacustre, ma anche dall'inquinamento delle acque e da impianti idroelettrici. Anche il ripopolamento e l'introduzione di specie alloctone richiedono un controllo. Sul litorale adriatico va affrontato il problema del potenziamento e della razionalizzazione della vallicoltura, che si presta a una moderna piscicoltura intensiva e tuttavia contenuta e localizzata in modo da non recare eccessive alterazioni a importanti biotopi, minacciati, oltretutto, da disegni di bonifica. Nelle acque marine litoranee si pone il problema di reprimere sistemi illeciti di pesca con esplosivi e sostanze ittiotossiche; ancor più grave è la minaccia di devastazione dell'ambiente coralligeno da parte di avidi pescatori subacquei. Si impone la costituzione di zone marine protette (parchi e riserve) anche in ambienti di mare costiero.
La pesca pone problemi importanti che riguardano la conservazione della produttività delle acque dolci e marine e si collegano, quindi, strettamente coi problemi della qualità delle acque. Si valuta che gli oceani possano fornire oggi quasi 120 milioni di t all'anno di pesce commerciabile; le acque dolci, pare, ne potrebbero fornire circa 20 milioni. La domanda globale per l'alimentazione sarebbe di 107 milioni di t all'anno di fronte a una produzione potenziale di 140 milioni di t e a una produzione effettiva di 55 milioni per le grandi aree oceaniche. Ciò dimostra l'importanza della conservazione e del potenziamento delle risorse alimentari della pesca, e anche di un'attività di piscicoltura basata come in Giappone su catene alimentari corte, utilizzando notevoli quantità di fertilizzanti, comprese le acque di scolo dopo adeguato trattamento.
e) Il germoplasma.
Una ricognizione e un inventario delle risorse biologiche non possono limitarsi a quelle effettivamente in uso, oggetto di coltivazioni più o meno estese (piante di attuale interesse alimentare e comunque economico) o di allevamento (animali domestici), ma deve tener conto di risorse il cui uso è stato abbandonato o le cui potenzialità possono essere di enorme valore per il futuro. La ricerca di un'alta produttività, a detrimento spesso della qualità, ha indotto a utilizzare solo una piccola parte del ricchissimo patrimonio genetico che si è accumulato in diversi e numerosi paesi del mondo, nei quali si sono raggiunti adattamenti straordinariamente efficaci anche a estreme situazioni ambientali. Una selezione di linee più produttive e la produzione di ibridi, talora sorprendenti per sviluppo e rendimento, partendo da un piccolo numero di ascendenti o addirittura, come nel caso del caffè in Brasile, da un unico ceppo, impoveriscono una potenzialità che va considerata anche nei confronti di altri fattori: ad esempio la resistenza alle malattie (anche a quelle endemiche che possono esplodere improvvisamente, come la nostra secolare esperienza insegna), il contenuto di determinate componenti proteiche o di principi attivi (nel caso di piante medicinali), e via dicendo.
Si è soliti distinguere alcune importanti categorie di germoplasma per ciò che riguarda le piante coltivate: 1) piante selvatiche originarie, o affini alle specie originarie, da cui è partita una plurimillenaria produzione di piante coltivate; queste piante possono essere portatrici di geni preziosi che potrebbero rinvigorire e rendere più efficienti quelle attualmente utilizzate; ciò induce fra l'altro a proseguire le ricerche sui centri d'origine delle piante coltivate iniziate nel secolo scorso da A. De Candolle (v., 1882) e portate a notevole livello nel secolo attuale da N. I. Vavilov; 2) piante coltivate primitive, che risalgono ai primi tempi dell'agricoltura, per lo più mirabilmente adattate agli ambienti non di rado difficili (ad esempio semiaridi o freddi) in cui sono state conservate; 3) piante coltivate moderne, cioè quelle oggi largamente coltivate su vasti territori del mondo; 4) piante ottenute mediante mutazione nel corso di sperimentazioni genetiche spesso molto laboriose, che rischiano di andare perdute perché non hanno trovato immediata immissione nelle colture; 5) piante selvatiche avventizie, associate alle colture (specie ‛messicole', ‛malerbe', e simili); va tenuto conto che non poche piante coltivate hanno tratto origine da questo pool di specie che è in continua evoluzione adattativa nelle diverse regioni in cui si va espandendo.
Si impone allora un vasto programma di conservazione di piante che appartengono al pool genetico mondiale per evitare la dispersione di un patrimonio inestimabile. Già funzionano centri di raccolta - fra cui particolarmente ricco quello dell'USDA (United States Department of Agriculture), che custodisce 3.000 esemplari di grano - ma è necessario creare una rete mondiale mediante la collaborazione di centri sperimentali, di orti botanici e di arboreti, che includano numerosi altri generi di piante, anche arboree. Sta infatti crescendo anche l'interesse per un pool forestale. Una collaborazione internazionale viene stimolata in speciai modo dalla FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations).
La conservazione può essere realizzata in due modi: con riserve genetiche in situ, cioè negli ambienti naturali in cui crescono le piante selvatiche o si sono adattati i ceppi coltivati, oppure ex situ, trasferendo la conservazione in adeguate aree sperimentali con opportune condizioni climatiche. Ambedue le soluzioni dovrebbero essere accolte. Si può aggiungere che, per ciò che riguarda la conservazione del pool genetico di specie e razze animali, i problemi sono analoghi; infatti, i legami che collegano dal punto di vista ecologico e alimentare le risorse animali e vegetali sono molto stretti.
4. Le risorse degli ecosistemi naturali.
a) Il livello ecosistemico.
Come si è già detto, la conoscenza integrata delle risorse naturali si realizza nel modo più conseguente se queste vengono considerate entro le strutture e funzionalità degli ecosistemi. A questo livello è possibile infatti cogliere quell'aspetto produttivo ed energetico che si connette con la concezione più rigorosamente scientifica di ‛equilibrio naturale', fondata a sua volta sul dinamismo costruttivo e distruttivo degli ecosistemi.
Non è possibile gestire le risorse naturali prescindendo dai processi che garantiscono in natura la conservazione della produttività, il rapporto fra entrate e uscite di materiaenergia, il turnover e il tempo di turnover. L'ecosistema compendia in modo così espressivo l'oggetto e il fine anche applicativo dell'ecologia da giustificare quella definizione estremamente sintetica e incisiva che di questa scienza ha dato R. Margalef: ‟l'ecologia è la biologia degli ecosistemi".
b) Ambiente e territorio.
Due ottiche si confrontano quando si tratta di regolare e di gestire le risorse naturali, seminaturali e anche artificiali. Gli ecologi si riferiscono all'‛ambiente', gli architetti e i pianificatori preferiscono occuparsi del ‛territorio'. L'ambiente assume un significato fondamentalmente biologico, il territorio accentua invece l'attenzione verso più immediati interessi umani di ordine economico, sociale, politico. Se si contrappongono con posizioni estreme, le due visuali incorrono in gravi rischi: il concetto di ambiente rischia di dissolversi in astrazioni scientifiche che interessano i tempi lunghi trascurando una onnipresente incidenza dell'uomo; il concetto di territorio rischia di ignorare fondamentali principi ecologici e soprattutto la logica ormai irrinunciabile dell'ecosistema. Appare allora necessaria un'integrazione fra le due concezioni, il che del resto è implicito nella Carta di Machu Picchu redatta da una corrente di architetti innovatori. Una stretta collaborazione fra ecologi e pianificatori è già in atto in molti paesi, ma richiede ancora molta sperimentazione in comune.
c) Le risorse forestali.
Un'importanza fondamentale, riconosciuta da tempo, assumono le risorse offerte dalla vegetazione forestale. La conservazione del patrimonio forestale è considerata un aspetto essenziale della politica ambientale, per i molteplici riflessi che può avere nello spazio e nel tempo. Si tratta anzi di un'attività di conservazione che nella sua migliore espressione si propone effetti di cui godranno altre generazioni, dato il lento accrescimento degli alberi di più solida costituzione. Contiene quindi anche un'efficacia educativa e quasi un significato simbolico.
d) La foresta come ecosistema.
La foresta non è un insieme di alberi, ma è una comunità vivente; costituisce anzi l'esempio più classico di ecosistema terrestre. Proprio perché nel passato si è considerata la foresta come una struttura arborea da poter regolare secondo criteri produttivistici, legati esclusivamente alla quantità o qualità del legno fornito da questa o quella specie, si è incorsi in errori spesso rovinosi per la stessa continuità della produzione utile. Oggi si è acquisita la convinzione che la foresta è un tutto inscindibile di piante, di animali, di microrganismi, di suolo, di clima, e si sa molto bene che basta distruggere gli insetti della foresta per avviarla alla distruzione. Accade così che questo ecosistema costituisca uno degli esempi più grandiosi della potenza fissatrice di energia da parte delle piante verdi; che l'accumulo di humus nel suolo rappresenti uno dei più importanti capitali per ciò che riguarda la fertilità; che le chiome frondose espanse nell'aria e le poderose radici affondate nel suolo siano da considerare fra i più imponenti mezzi con cui biosfera, atmosfera e litosfera sono messe in comunicazione.
e) Le quattro funzionalità della foresta.
Il culto di cui da tempi antichissimi sono stati oggetto alberi e foreste non è legato solo a motivi estetici o mistici, ma al riconoscimento di una loro provvidenziale presenza. E infatti, man mano che progredivano le conoscenze scientifiche sulle strutture e funzionalità delle foreste, abbiamo compreso sempre meglio quale fosse la loro utilità. Alla luce dei più recenti progressi di un'ecologia globale possiamo riconoscere quattro aspetti fondamentali della funzionalità delle foreste.
La funzione economica, individuata fin dai tempi remoti, ha spesso portato a una vastissima distruzione delle foreste, specialmente nelle regioni di più antica civiltà, come quella mediterranea. Questa funzione non è cessata: ‟Non ci sono ancora sostituti per il legno" è stato dichiarato al Seminario del Materia Science Club a Great Malvern nel 1970, anzi la richiesta di materiale legnoso per le industrie è aumentata anche se gli usi si sono notevolmente modificati. La produzione italiana unitaria è però la più bassa fra quelle dei paesi della CEE, al punto che determina il ‛terzo grande deficit' della nostra bilancia commerciale; si pongono dunque seri problemi di rivalorizzazione delle foreste ma, come vedremo, partendo da un'ottica globale.
Ormai tradizionale è il riconoscimento della funzione protettrice della foresta nei confronti di un ordinato assetto delle acque e del suolo. La sua importanza indiretta anche di ordine economico è tale che non si è esitato a chiamarla funzione ‛idrogeoeconomica'. È diventato addirittura un luogo comune semplicistico e retorico proclamare la necessità di difendere i boschi per tutelare le pendici dei monti dalle frane, frequenti soprattutto nel nostro sistema montano appenninico. Questa funzione fondamentale diviene praticamente efficiente solo se inserita nel discorso totale della funzionalità della foresta.
La funzione ricreativa-sociale è di più recente riconoscimento e risponde a esigenze di pubblica utilità che si stanno esaltando anche nel nostro paese. Le richieste del turismo di massa diventano così forti, per giusti motivi di ‛ricreazione' (nel senso più completo e attuale di questo termine), da costituire, come è ben noto, una grave minaccia per la già tanto menomata efficienza del nostro patrimonio forestale. Si deve riconoscere che non è stata fino a oggi attuata una coraggiosa politica per guidare e razionalizzare questo movimento irresistibile, che andrà aumentando rapidamente nei prossimi anni con l'accrescersi della disponibilità di tempo libero. Non serve assumere solo posizioni difensive, dichiarando che il turismo deve star fuori dalle foreste: si tratta di sterili propositi che verranno travolti dalle crescenti, e legittime, esigenze umane. È necessario invece un discorso di pianificazione globale e costruttiva nel quadro totale - insistiamo - della funzionalità delle foreste.
La funzione ecologica si presenta oggi perentoriamente, con vivida chiarezza, a seguito dei progressi delle conoscenze sulla funzionalità della biosfera e, in particolare, degli ecosistemi. Se si pensa al ruolo essenziale delle piante verdi per la vitalità dell'ambiente e al fatto che la foresta costituisce, in gran parte del mondo, l'espressione culminante della vita vegetale, risulta chiaro che ogni processo di distruzione o di degradazione del manto forestale avvia processi rovinosi a carico dei valori essenziali dell'ambiente. Non è ingiustificato affermare che la funzione ecologica della foresta è un fattore atto a promuovere la qualità della vita. L'alta complessità dell'ecosistema foresta è ricchezza quantitativa e qualitativa di esseri viventi, è funzionalità esaltatrice dei processi energetici che attraversano un territorio come flussi regolatori e ordinatori. In un certo senso si potrebbe dire che la funzione ecologica, sintesi di interessi naturali e umani, tende a costituire, più che un quarto uso della foresta, l'armonizzato convergere della sua totale funzionalità.
f) I problemi della produzione.
Emerge chiaramente, dalle considerazioni che precedono, l'eccezionale importanza delle foreste, che aumenta enormemente le responsabilità di coloro che sono addetti alla loro gestione e pianificazione; e si comprende anche come sia opportuno affrontare i problemi della produttività non tanto in senso economico-statistico, quanto piuttosto sulla base di alcuni principi che appaiono essenziali per promuovere il miglioramento e la continuità della produttività, senza compromettere la più integrale funzionalità delle risorse forestali.
Un forte impegno dovrebbe essere dedicato al riordinamento dei boschi esistenti secondo i dettami di una moderna selvicoltura ecologica, ripristinando la loro efficienza ecologica e quindi la loro normale produttività. Ma anche il rimboschimento come tale impone requisiti di qualità; deve essere superato quell'empirismo che ha generalizzato l'uso e l'abuso di specie preparatorie di facile attecchimento, che hanno finito col costituire l'assetto definitivo delle nostre montagne, deprimendo o cancellando le diversità biologiche e paesistiche. La ‛coniferazione' a oltranza, in particolare, è un processo che si pone in contraddizione con le più avanzate concezioni di ecologia forestale che asseriscono la maggiore efficienza di compagini miste di conifere e latifoglie: si è parlato anzi recentemente dell'opportunità di attuare una ‛latifoliazione' correttiva e miglioratrice. Anche l'introduzione di ‛specie esotiche', alla quale sono state affidate tante speranze, non deve costituire una contaminazione dei nostri paesaggi di alto valore biologico ed estetico; possono essere impiegate in situazioni di emergenza al di fuori di ben definiti ecosistemi.
Gli alberi esotici (conifere, eucalipti, pioppi ibridi, ecc.) possono e devono invece costituire un'arboricoltura da legno, destinata a compensare la troppo lenta produttività delle foreste naturali o seminaturali. Devono infatti continuare la sperimentazione e l'introduzione su vasta scala di specie a rapido accrescimento in opportune condizioni climatiche. Nel colloquio mondiale sull'importanza industriale dei popolamenti artificiali, organizzato dalla FAO a Canberra nel 1967 (cfr. ‟Unasylva", 1967, XXII), sono stati riconosciuti i vantaggi di questa prassi colturale a favore della produzione legnosa e dell'efficienza delle foreste naturali che possono essere più opportunamente destinate alle loro molteplici finalità. Oltre alla FAO si sono interessati recentemente al problema la IUFRO (International Union of Forestry Research Organizations) e l'UNDP (United Nations Development Programme).
Allarmanti statistiche richiamano l'attenzione sul flagello degli incendi, che minaccia di vanificare gli sforzi di restaurazione del patrimonio forestale italiano. Giustamente si è deplorata la grande discordanza di giudizi sulle cause che possono provocare gli incendi, sulle loro conseguenze e perfino sulle valutazioni dei danni che producono. È assolutamente necessario studiare più attentamente gli effetti degli incendi sulle strutture e sulla funzionalità degli ecosistemi, anzi sulla loro stessa evoluzione, tenendo presente che se è vero che i danni sono spesso più gravi di quel che appare a un esame superficiale, è anche vero che, specialmente nei boschi naturali di pini, possono perfino garantirne la conservazione. Si sono moltiplicate le osservazioni in tal senso nelle vastissime pinete canadesi e statunitensi e nei boschi di sequoie. Questo fatto, che pure va tenuto presente, deve però sospingere a indagini di carattere ecologico-conservazionale in materia di incendi delle foreste, e quindi a provvedimenti per realizzare le difese più efficaci. Ma la constatazione abbastanza concorde che sono rari gli incendi per autocombustione e prevalgono invece quelli causati da gesti incauti o da azioni dolose, induce a ritenere necessarie una più ampia campagna di informazione ed educazione e la predisposizione di strumenti più efficaci di prevenzione, di difesa e anche di sorveglianza.
Sono degne di incoraggiamento le iniziative del WWF che ha mobilitato giovani forze volontarie.
g) Il problema dell'uso ricreativo.
Gravi preoccupazioni desta l'afflusso disordinato di gitanti e turisti nelle zone forestali delle nostre montagne. Le foreste esercitano un comprensibile richiamo per la loro amenità e salubrità, ne' è pensabile che si possa limitare la loro funzione ricreativa. Ma, come si è già detto, si deve pensare a regolare e orientare questa funzione per impedire un uso troppo generalizzato, equivalente a un pericolo di diffusa degradazione. Purtroppo si dà spazio a iniziative di apertura di strade turistiche e di lottizzazioni per centri residenziali e turistici, non coordinate con le opere di difesa e miglioramento delle foreste. Si tratta di un modo di procedere settoriale che è la negazione di ogni pianificazione, di un processo rovinoso a carico delle più vitali risorse delle nostre montagne. Dev'essere richiamata l'attenzione delle autorità regionali sulla necessità di una cooperazione costruttiva, che promuova l'uso ricreativo, ma in direzioni preordinate entro sistemi razionalmente predisposti.
h) Le zone umide.
In una scala ascendente della produttività primaria degli ecosistemi gli estuari, le lagune e gli stagni assumono una posizione predominante. Superano le stesse foreste tropicali ed eguagliano le colture più redditizie (come, ad es., quella della canna da zucchero). Le cosiddette ‛zone umide' costituiscono ambienti di eccezionale fertilità che importa conservare se non altro per tramandare ai futuri studiosi la possibilità di trarne quegli insegnamenti che possono servire alla realizzazione di ecosistemi artificiali di alto rendimento. Poiché solo una parte della produzione delle zone umide è utilizzabile, deve valere anche un altro motivo di conservazione: garantire la sopravvivenza delle ricchissime e stupende biocenosi che vi hanno sede permanentemente o periodicamente. La distruzione metodica e a oltranza delle zone umide, dovuta a progetti di bonifica non di rado fallimentari sul piano socioeconomico, costituisce lo sperpero di un patrimonio insigne di diversità biologiche e interrompe flussi planetari mirabilmente congegnati di vita animale (tipico il caso delle migrazioni degli uccelli).
Si deve riconoscere che una sensibilità nuova si sta manifestando nei paesi che hanno una grande tradizione nel campo delle imprese di bonifica. La bonifica si avvia a riconoscersi compiti ben diversi, che non consistono più nel solo processo di separazione della terra dalle acque, ma piuttosto in una regolazione ed equilibrata utilizzazione delle acque in una visione più ampia - tendenzialmente sistemica - che tenga conto della difesa del suolo, del controllo della qualità delle acque e della tutela dei biotopi di interesse scientifico. Questa nuova politica, che ci auguriamo sia consequenziale e superi i superstiti irrigidimenti locali, viene incontro agli appelli del Consiglio d'Europa e dell'IUCN (International Union for Conservation of Nature and Natural Resources), che hanno costituito la materia del progetto MAR dell'IUCN, del progetto AQUA dell'IBP (International Biological Programme), di programmi del CCMS (Committee on the Challenges of Modem Society della NATO), della Conferenza di Ramsar e più recentemente del documento World conservation strategy redatto dall'IUCN, dall'UNEP (United Nations Environment Programme) e dal WWF.
5. Le risorse degli ecosistemi artificiali.
a) L'agrosistema.
L'agricoltura, in quanto fonte di risorse essenziali per la vita umana, di fronte all'aumento dei bisogni si trova a dover realizzare una produzione continua e di efficienza crescente, il che è tutt'altro che facile. D'altronde non si può pensare seriamente a sostituire l'agricoltura propriamente detta con le cosiddette coltivazioni ‛senza suolo', anche se i tentativi in tal senso non vanno trascurati. L'agricoltura crea, inoltre, un ambiente, una cultura, e conserva gli ultimi resti di rapporti vitali fra l'uomo e la natura. Ma ci si deve chiedere se l'agricoltura oggi si proponga veramente delle finalità a totale servizio dell'uomo; ciò significa verificare fino a qual punto l'agricoltura sia ancora vicina ai processi fondamentali della natura vivente, cioè a quei processi che soli possono dare garanzie di una produttività che non sia attuata a prezzo di rovinose conseguenze ambientali.
L'orientamento sistemico che attinge insegnamenti dalle strutture e funzionalità degli ecosistemi naturali potrebbe, allo stato attuale delle conoscenze, rassicurarci al riguardo.
Le coltivazioni più razionali, che non esauriscono le fondamentali risorse ambientali, hanno già carattere sistemico; differiscono dagli ecosistemi naturali perché sono incapaci di autoregolazione e quindi richiedono un costante intervento dell'uomo. Nei migliori esempi si attua un ricongiungimento dell'uomo col suolo, come se l'uomo diventasse un fattore naturale di equilibrio e, in un certo senso, un componente del sistema. Permane il carattere artificiale derivante dall'esigenza di imporre all'ambiente strutture semplificate. Questa artificialità è carica di rischiosi impegni di difesa nei confronti della concorrenza delle specie naturali e dell'aggressione di parassiti vegetali e animali. Ma le conseguenze sono tanto più gravi, quanto più vengono forzate le situazioni nel senso di un allontanamento dai processi naturali. Il concetto di ‛agrosistema' costituisce dunque un orientamento verso il quale dovrebbero rivolgere maggior attenzione i nostri ecologi agrari, troppo esclusivamente protesi verso gli aspetti settoriali di un vasto problema di ecologia applicata.
b) La ‛rivoluzione verde'.
È stato detto che l'agricoltura è una rivoluzione permanente operata dall'uomo. Importa molto esaminare questo carattere rivoluzionario in quanto si attua a carico delle risorse naturali fondamentali e della stessa produttività dei sistemi agricolturali.
Si vorrebbe a questo riguardo considerare la vasta rivoluzione verde che si sta attuando sotto i nostri occhi anche nel nostro paese, e che opera mediante un complesso di interventi che non sono certo innocui nei confronti dell'ambiente su cui deve reggersi anche in futuro la continuità della produttività; anzitutto la meccanizzazione, che sostituisce vecchi mezzi animali, richiedendo perciò un imponente impiego di energie non inesauribili, e opera spesso ‛sovradissodamenti' capaci di alterare profondamente il suolo. In secondo luogo l'irrigazione, che conduce spesso a vasti rimaneggiamenti del ciclo idrologico locale o regionale e provoca mutamenti nelle falde freatiche. Quindi l'impiego di fertilizzanti chimici che, se supera certi valori, può causare una rottura degli equilibri produttivi come hanno dimostrato recenti ricerche - e contribuire così alla polluzione chimica delle acque. E finalmente il controllo chimico dei parassiti e delle erbe infestanti, particolarmente rischioso se si tratta di prodotti persistenti a lungo nel suolo.
Fra ragioni della produzione e ragioni dell'ambiente si apre un drammatico conflitto che non giova certo ignorare, e che richiede invece una crescente sorveglianza ecologica e la consapevolezza che ogni forzatura sotto l'esclusivo impulso di interessi immediati può scatenare processi rovinosi a lungo e talora anche a breve termine.
c) Agricoltura biologica e agricoltura ecologica.
In vari paesi si è fatta da tempo strada la tendenza, non accettata in tutti gli ambienti agronomici, verso una maggiore sensibilità biologica in agricoltura. Le correnti più attendibili assumono un sempre più spiccato carattere ecologico e fisioecologico, e una delle espressioni più importanti di tali correnti è costituita dalla nuova e già fondamentale scienza denominata ‛biologia del suolo' o ‛pedobiologia', che si occupa di problemi da cui dipenderà forse il progresso della produttività vegetale (basterebbe citare il troppo trascurato processo della fissazione batterica dell'azoto nei tubercoli delle Leguminose).
È assolutamente necessario che anche nel nostro paese ci si orienti, nella ricerca e nella prassi, verso un' agricoltura biologica quale strumento di controllo più razionale nei confronti di tecniche violentatrici che traggono giustificazione soltanto da interessi contingenti.
d) I valori dell'ambiente rurale.
Da tempo l'ambiente rurale attira l'attenzione dei pianificatori non solo per la sua funzione produttiva, ma anche come spazio residenziale, ricreativo e che comunque può rendere servizi sociali in un sistema territoriale convenientemente integrato. In particolare emerge l'interesse di un collegamento città-campagna che esula, tuttavia, dall'ambito di questo articolo.
Il principale nucleo di valori ambientali accessori si compendia nel paesaggio agrario, che nel nostro paese annovera ancora tanta ricchezza di espressioni e di significati. Purtroppo i cedimenti alla rivoluzione verde e all'industrializzazione dell'agricoltura tendono a far scomparire molti paesaggi altamente caratteristici: l'eliminazione dei boschi e delle siepi (che favorisce la meccanizzazione) e l'estensione delle monoculture, con la costruzione di strutture che obbediscono solo alla più arida funzionalità tecnica, ne sono alcuni esempi. Ne risulta un impoverimento biologico, perché scompaiono le sedi di nidificazione dell'avifauna e anche le minime reminiscenze di un ambiente originario cui giovava collegare ecologicamente l'ambiente agrario attuale per una caratterizzazione anche di ordine pratico. Ne risulta, in definitiva, un generale depauperamento delle diversità biologiche che vengono spietatamente e irrazionalmente livellate, come si trattasse di oggetti trascurabili.
Le diversità paesistiche e biologiche dell'ambiente agrario trovano una loro realtà tipizzabile in distinzioni regionali (regioni naturali). Una spontanea, plurisecolare aderenza a situazioni ambientali fisiche e biologiche (ecologiche ante litteram) ha diversificato i paesaggi agrari regionali, così come fattori naturali hanno diversificato i paesaggi vegetali della natura selvatica. Tenere conto di queste diversità, nelle pianificazioni del territorio di dominante interesse agrario, non è un assunto irrazionale o avulso da interessi concreti: costituisce invece il più realistico atteggiamento di una pianificazione che si compia con moderni criteri integrati.
L'assetto del paesaggio rurale costituisce da tempo oggetto di studi e di attenzioni vastissime in molti paesi, specialmente dove i criteri di una razionale utilizzazione del suolo non sono rimasti, come da noi, confinati in astratti saggi di cartografia geografica. Si sono dedicati a promuovere questo ordine di iniziative, per citare solo esempi recenti, i Progetti ECA (European Confederation of Agriculture, dal 1963), la FAO (1966 e seguenti), la CEE (Comunità Economica Europea), e via dicendo. Accade paradossalmente che in questo discorso siano più progrediti i paesi in via di sviluppo, che hanno impiegato metodi di prospezione cartografica integrata con metodi ecologici molto aggiornati. Un esempio degno di attenzione è costituito dal complesso organico di rilevamenti compiuti in Tunisia per opera di cartografi francesi con criteri severamente naturalistici. Con strumenti cartografici si attua anche il cosiddetto ‛rimembramento' del paesaggio rurale. Si tratta dei metodi più redditizi per inserire nelle pianificazioni criteri biologici e di regionalità naturale, affinché la stessa agronomia divenga, a un tempo, scienza delle località e scienza degli ambienti biologici.
e) L'agricoltura come strumento di conservazione.
Può sembrare strano che l'agricoltura, grande accusata, ritenuta la responsabile tradizionale di millenari guasti ambientali, possa assumersi compiti di conservazione costruttiva. Eppure questa possibilità dipende dall'accettazione da parte degli agronomi dei criteri biologici ed ecologici che sono stati ricordati; dipende dall'accettazione altrettanto necessaria, da parte dei conservatori della natura, del valore altissimo di equilibri ambientali umanizzati, come attuazioni di rapporti sistemici, antagonistici ma costruttivi, fra uomo e natura. Disegnatori del paesaggio ispirati a seri criteri naturalistici, come gli architetti dell'IFLA (International Federation of Landscape Architects), da tempo propongono soluzioni che non concordano con certi aspetti del Piano Mansholt e che forse lo stesso Mansholt potrebbe condividere in armonia con le più recenti posizioni da lui assunte, a Stoccolma e altrove, in difesa della natura (cfr. il documento IFLA presentato a Strasburgo il 12 febbraio 1970). Un esempio significativo è offerto dal Ministero dell' Agricoltura francese (Remembrement rural et conservation de la nature, Anno Europeo della Conservazione della Natura, 1970), che si propone la restaurazione di microclimi, la ricostituzione di catene alimentari e la vivificazione dei suoli. Un aspetto particolarmente importante, che trova sostenitori anche in Italia, è la conservazione del patrimonio genetico di piante coltivate e di animali da allevamento, per evitare che vada perduto un prezioso patrimonio che deve essere tramandato per utilizzazioni future (ad esempio, alcune cultivar di cereali). Si propone a tal fine la creazione di ‛riserve genetiche zonali'.
f) Il paesaggio.
Una chiara distinzione fra ciò che è naturale e ciò che è artificiale, fra ciò che è originario e ciò che è introdotto o modificato dall'uomo, è assolutamente necessaria: si differenziano, infatti, nei due casi, i metodi di indagine conoscitiva e divergono anche gli interessi e le sensibilità: ma accade troppo spesso che per ciò che riguarda il territorio i due aspetti vengano separati in due categorie nettamente distinte, di cui assumono la responsabilità gruppi di competenti che hanno ben scarsa comunicazione fra loro. Si incorre allora nello stesso grave errore - purtroppo universalmente diffuso - della separazione delle cosiddette ‛due culture'.
Cresce tuttavia la sensibilità per le componenti autoctone dei paesaggi, siano esse rappresentate dagli alberi della flora originaria o di remota introduzione e naturalizzazione o siano esse costituite dai prodotti della storia e dell'arte locale. Ma crescono nel medesimo tempo i processi di standardizzazione, che provocano una progressiva cancellazione delle diversità naturali e culturali che caratterizzano e distinguono i diversi paesi del mondo.
Si tratta di un problema che viene misconosciuto da coloro che danno esclusiva attenzione ai ‛beni culturali', considerandoli gli unici degni di tutela. Una lunga, tradizionale scissione fra cultura umanistica e cultura naturalistica sta producendo nel nostro paese effetti nefasti a danno di ambedue i campi di interessi, che sono egualmente importanti per la qualità dell'ambiente e della vita.
Accanto alla crescente percezione dei residui valori naturali deve acuirsi anche - in stretta connessione - una conoscenza e valutazione critica della presenza dell'uomo come costruttore e modificatore incessante del paesaggio. Ormai l'uomo - giova ripeterlo - è diventato un fattore dominante del divenire dell'ecosfera; è quindi giustificato il sorgere di una ‛antropologia del paesaggio' (E. Turri, 1974). Si sente soprattutto la necessità di approfondire i problemi della percezione ambientale nel senso ecologico globale, cioè tenendo conto di tutti, senza eccezione, i valori del territorio e del paesaggio. Si tratta anche di un problema educativo, imposto dalla constatazione che un'ondata di meccanicismo e di arido economicismo sta ottundendo la sensibilità nei confronti di preziose diversità naturali e culturali. Indagini sulla percezione ambientale compiute nell'area periurbana di Roma dimostrano che le popolazioni dei densi agglomerati urbani periferici stanno perdendo la consapevolezza dell'importanza psicologica, igienica e ricreativa degli spazi aperti e in particolare delle aree verdi e addirittura degli alberi nelle strade.
Anche in argomento di paesaggio è necessario, dunque, riproporre la centralità di interessi fondamentali. Si rende sempre più essenziale una dottrina ecologica e umana del paesaggio che tenga conto di criteri spaziali, temporali e dinamici. Tutto il travolgente divenire attuale, tutto il divenire storico che ha avuto per teatro la regione mediterranea - ma anche tante altre regioni ‛mediterranee' del mondo - devono essere oggetto di riesame sistemico e di controllo permanente. I tempi nuovi devono produrre paesaggi nuovi, ma non devono cancellare le diversità diffondendo una monotonia deprimente, motivata soltanto da immediati interessi economici.
Si apre dunque un vastissimo campo all'informazione, all'educazione, all'azione. Si tratta di eliminare molte idee arretrate, di far conoscere i problemi nuovi, di superare la vecchia concezione di tutela con più ardite e intelligenti iniziative di costruzione e ricostruzione. Enormi energie latenti nei paesaggi naturali degradati attendono di essere potenziate e orientate dall'intervento dell'uomo: la resurrezione di alcuni meravigliosi paesaggi mediterranei arricchirebbe impensatamente di bellezza e di prosperità i nostri litorali e le nostre montagne denudate. Paesaggi culturali estremamente vari, disseminati ovunque, attendono di essere riscoperti e reinseriti nel tessuto delle realtà vive e attuali del territorio, non come nostalgici ricordi, ma piuttosto come un'eredità che ci viene consegnata per il futuro.
In questo senso il paesaggio, come scrive Bruckner, più che sintesi è ‛programma', e diventa quindi oggetto non solo di un'indagine scientifica multidisciplinare, ma di una pianificazione.
g) La città.
La proposta di considerare anche sistemi umanizzati di grande complessità e decisamente artificiali come le città con gli stessi criteri fondamentali con cui si considerano gli ecosistemi naturali, non è idea nuova. Ecologi umani e urbanisti da tempo sostengono la necessità di trattare i sistemi urbani come complessi strutturali e funzionali, da un punto di vista organicistico, per controllare i processi e l'efficienza della circolazione dei flussi di energia utilizzando indicatori biologici, seguendo il dinamismo espansivo ed evolutivo, sorvegliando le modificazioni quantitative e qualitative.
Ma un nuovo impulso è stato apportato a questa estensione di interessi ecologici dal Progetto li del Programma UNESCO Man and biosphere (MAB) sugli ecosistemi di piccole e grandi città di tutto il mondo. Particolarmente impegnativi sono i progetti dedicati alle più grandi metropoli, come Hong Kong e Roma.
Sulla base dell'esperienza del Progetto di Roma (v. Giacomini, 1978) la presa di conoscenza di un ecosistema metropolitano e la valutazione e riorganizzazione delle sue risorse dovrebbero fondarsi sui seguenti principi: 1) integrazione globale di tutti gli interessi, dal livello naturalistico al livello socioeconomico e psicologico; 2) adozione di valutazioni quantitative (modelli matematici) e qualitative; 3) analisi dei flussi di energia e di informazione per promuovere il potenziamento; 4) speciale attenzione alle interfacce nel senso ecologico globale (in particolare l'interfaccia periurbana) e anche culturale; 5) promozione della partecipazione di tutti i cittadini a tutti i momenti della prospezione e del controllo del sistema; 6) stretto collegamento con gli amministratori della cosa pubblica; 7) coinvolgimento degli enti culturali, scientifici e tecnici della città; 8) indagine sulla percezione ambientale di tutte le categorie di cittadini; 9) particolare attenzione ai legami con la scuola a tutti i livelli; 10) massima utilizzazione di indicatori biologici, fisici e anche sociali.
h) La montagna.
I paesi che sono costituiti da territori montani più o meno estesi si pongono da tempo ardui problemi di decadenza fisica, biologica e umana della montagna. Si tratta di problemi le cui conseguenze economiche e sociali si riflettono gravemente su tutto il resto del territorio nazionale. Per alcuni si tratta di un flusso ineluttabile di eventi; altri si affaticano a cercare mezzi di contenimento che tuttavia, fino a oggi, si sono dimostrati di scarsa efficacia. Certamente neppure il più oltranzista conservatore della natura puo' illudersi che l'allontanamento dell'uomo dalla montagna contribuisca a rivitalizzarla; si tratterebbe nel migliore dei casi di un ritorno alla natura estraneo ai più sostanziali interessi umani.
La montagna è custode di valori e di risorse molto complesse a vantaggio di tutto il restante territorio. Come il disordinato consumismo delle città si espande a danno della qualità della vita di un intero paese, così l'abbandono o l'insensato sfruttamento delle risorse della montagna producono una generale decadenza dei sistemi naturali e umanizzati e anche, non di rado, paurose catastrofi.
i) Risorse autoctone e sfruttamento turistico.
Fortissimi interessi economici promuovono il flusso turistico verso la montagna; ma è legittimo chiedersi fino a qual punto ciò avvenga nell'interesse della più autentica e costruttiva vitalità delle montagne. Il ritmo discontinuo che alterna pesanti affollamenti umani a una solitudine ancor più stridente e lo scarso cointeressamento delle residue popolazioni locali, alle quali viene anzi presentato un nuovo allucinante modello di vita urbanizzata, non giovano a ricostruire una vivificante presenza umana; senza tener conto dei guasti già ricordati a carico degli equilibri naturali del paesaggio e dei valori più autentici della montagna, non considerati astrattamente ma nell'interesse umano. Sarebbe assurdo tuttavia pretendere di arrestare un' espansione turistica che è una fondamentale esigenza, anch'essa, delle popolazioni di tutto un paese. Ciò che si rende necessario è una regolazione che eviti conseguenze dannose alla presenza umana autoctona, la sola che offra garanzie di continuità vitale. Produttività agricole caratteristiche, artigianato, ospitalità privata e quanto altro può incoraggiare questa presenza deve essere promosso vigorosamente. Ma soprattutto devono essere migliorate le condizioni di abitabilità (servizi, strade, energie) nei centri abitati montani, perché non aumenti uno stridente, demoralizzante contrasto fra le nuove modernissime e sofisticate strutture turistiche e l'estrema povertà e l'abbandono dei vecchi insediamenti locali.
Un allarme si diffonde sempre più largamente a proposito degli impianti sportivi, in special modo scustici che, essendo diventati una delle più redditizie industrie dei nostri tempi, si oppongono spesso in modo intollerabile alla qualità più autentica delle risorse della montagna e ne ledono profondamente le strutture biologiche ed estetiche.
l) L'alpicoltura.
L'agricoltura, già in crisi in molte zone produttive della pianura, si trova in ancor più grande difficoltà sulle montagne, specie se attuata con i poveri mezzi tradizionali: è necessario pertanto che venga potenziata e razionalizzata l'attività zootecnica e quindi l'efficienza delle risorse vegetali su cui questa si regge. È inutile ricordare le nostre deficienze in questo settore fondamentale della produzione alimentare; la montagna può dare un contributo importante se si adottano opportuni provvedimenti. Un sano sistema di pascoli e di foreste, pianificato settore per settore con attenta considerazione dei fattori fisici, biologici, socioeconomici, è oggi l'utilizzazione più razionale della montagna. Vasti provvedimenti scarsamente differenziati e di una rischiosa genericità, come le ‛leggi della montagna', sono falliti anche per la frammentarietà e arbitrarietà delle attuazioni. Una regionalizzazione dei problemi dovrebbe giovare se condotta sulla base non soltanto di criteri amministrativi, ma di una pianificazione aderente a esigenze di origine naturale, che tenga conto delle profonde diversità fisiche, biologiche, umane.
6. Le risorse umane.
a) La priorità dell'uomo.
Non è inopportuno insistere anche in questa trattazione, che vuole avere un carattere globale, su una categoria di valori che assume necessariamente un'importanza dominante. Si tratta delle risorse umane, generalmente trattate in una categoria di discipline - le cosiddette scienze umane - che costituisce tradizionalmente un campo di interessi a sé stante, il cui isolamento è divenuto però anacronistico.
Le risorse umane sono costituite dall'uomo e dalle opere realizzate dall'uomo. Questo complesso sempre più imponente che ha pervaso e compenetrato tutta l'ecumene è oggi giustamente oggetto di acuta attenzione e anche di preoccupazione da diversi punti di vista.
Un punto di vista culturale, in senso umanistico, evidenzia l'arricchimento di valori - artistici, paesistici, storici, concettuali - che l'uomo ha introdotto nella natura. Un'estrema concezione illuministica esalta questo apporto come un'elevazione della natura (che allo stato nativo è orrida e selvaggia) a un superiore livello di significazione.
Da un punto di vista tecnologico e utilitaristico, l'uomo e le sue opere costituiscono valori più concreti di sussistenza, quindi di interesse socioeconomico. Emergono i concetti di produttività, di redditività, di utilità pubblica in numerosi sensi. Tutta l'agricoltura, tutta l'industria, tutto il progresso tecnologico rientrano in questa sfera di interessi. Oggi, però, il trionfalismo della tecnica, esploso in modo esaltante sin dall'avvento della rivoluzione industriale, è oggetto di serie critiche. Viene accusato, fra l'altro, di far progredire gli strumenti di guerra, e di imporre uno schiacciante dominio della forza sulla debolezza, della ricchezza sulla povertà.
Da un punto di vista naturalistico si rivendicano spesso i diritti della natura per se stessa, ma in una visuale più realistica ed equilibrata si richiama l'uomo al dovere di assumersi responsabilità di conservazione, di restaurazione e di razionale utilizzazione delle risorse naturali. Due visioni, quella che considera predominante l'interesse per la natura e quella che considera predominante l'interesse per l'uomo, ritenuto la principale risorsa del mondo vivente, sono, purtroppo, reputate ancor oggi contrastanti. Non si tiene presente che una priorità dell'uomo implica necessariamente una crescente sollecitudine per la natura, mentre non è altrettanto implicita una considerazione adeguata dei valori umani in una troppo esclusiva dedizione alla conservazione della vita vegetale e animale.
Sembra comunque ovvio che soltanto tenendo conto di tutti i punti di vista - culturale, tecnologico e naturalistico - si può convergere verso una concezione che riconosca la centralità di ‛legittimi' e ‛razionali' interessi umani entro il quadro di vaste interrelazioni imposto da un' ecologia globale. È necessario tener presenti queste considerazioni perché, come riconosceva G. Harold-Smith, noi trascuriamo troppo la maggior risorsa del mondo.
b) La conservazione dell'uomo.
Oggi molti si avvedono che l'uomo è diventato a un tempo la specie più minacciosa e più minacciata. Troppi però si soffermano solo sul primo aspetto prodigandosi in invettive e accuse e denunciando aspramente i moltissimi errori e le gravissime degradazioni di cui sono responsabili le attuali e le passate generazioni umane. Si tratta di giustissime imputazioni, ma ben poco si costruisce e ricostruisce su questa base. Il discorso più persuasivo consiste certamente nel risvegliare l'attenzione sui processi rovinosi che l'uomo ha scatenato non solo contro la natura, ma contro se stesso, come è comprovato da tragiche documentazioni. Ma anche questo argomento si presta a una propaganda controproducente quando assume toni catastrofici, apocalittici, che finiscono col destare soltanto effimere emozioni. Solo una seria informazione, fondata scientificamente (esiste anche un'attendibile futurologia scientifica), è accettabile.
Se si deve attuare però una conservazione dell'uomo, si presentano problemi ben più complessi e difficili che per la conservazione della natura. Potremmo dire che non solo si sommano i problemi dei due ordini di conservazione, ma il fattore uomo diventa un moltiplicatore. Dovremmo poi aggiungere che in questo caso si impone anche una integrazione di criteri quantitativi con criteri qualitativi. Si tratta anzitutto di riattivare nell'uomo le capacità di autodifesa e di autoregolazione, e di richiamarlo alle responsabilità tremende che incombono su di lui dal principio dei tempi e che si sono progressivamente aggravate dacché è divenuto amministratore e regolatore di tutte le risorse della ecosfera. Si deve restaurare l'unità dell'uomo nell'unità dell'ecosfera; ma il problema a cui spetta precedenza assoluta è quello della reintegrazione dell'uomo, drammaticamente scisso fra natura e cultura, campagna e città, valori naturali e artificiali, entro quella che Ardigò chiama l'‟irrazionalità della società razionalizzata".
Diventa enorme a tal fine il ruolo dell'informazione, che deve incaricarsi di proporre un modello di uomo totale in contrapposizione ai modelli incompleti di un uomo creatura politica, di un uomo oggetto di cure economiche, di un uomo destinato a servire la scienza, di un uomo strumento di lavoro meccanico e via dicendo.
In recenti convegni e programmi internazionali, e segnatamente nel già ricordato Programma dell'UNESCO che reca il titolo molto significativo Man and biosphere (MAB), la realtà umana emerge imperiosamente come argomento prioritario di ricerca scientifica in stretta correlazione con tutta la restante realtà fisica e biologica. Si rende quindi indispensabile un nuovo grande sforzo convergente di tutte le energie culturali, scientifiche, educative, verso la creazione di una rete universale di sperimentazioni non finalizzate solo all'invenzione di nuovi strumenti di sfruttamento delle risorse terrestri, ma all'innovazione dei rapporti fra uomo e natura. È necessario e urgente riunire tutte le forze disponibili non tanto per la salvezza di una natura considerata come valore astratto, ma per la salvezza dell'uomo che non può realizzarsi senza la salvezza di una sufficiente quantità e qualità di ambiente naturale. Questa quantità e questa qualità devono esser tenute sotto un permanente e rigoroso controllo. Non esiste altra scelta, perché si tratta di una condizione pregiudiziale per realizzare qualsiasi altra forma di conservazione.
7. I parchi e le riserve.
a) La concezione sistemica dei parchi e delle riserve.
È invalsa purtroppo l'opinione che lo sforzo compiuto da una nazione o da una regione per la conservazione del patrimonio naturale si possa commisurare col numero dei parchi e delle riserve realizzati e quindi con la percentuale di territorio dedicato a queste istituzioni. Accade pure che si dia il nome di ‛sistema' a una semplice somma di aree di conservazione. Ma un ordinato programma di conservazione è veramente valido solo se è congegnato e strutturato in sistemi organici che rispondano a esigenze di coordinamento, di potenziamento vicendevole, con una chiara visione delle finalità verso cui devono convergere. Il quadro nazionale o regionale dei parchi e delle riserve deve inoltre coordinarsi col più ampio sistema del territorio, tenendo conto delle legittime esigenze delle popolazioni, dei flussi del turismo, dei problemi della vitalità delle regioni montane, il che impone un attento studio globale delle conseguenze positive e negative determinate dall'inserimento di aree protette in un tessuto preesistente.
Dare esclusiva o prevalente importanza agli interessi di una conservazione tradizionale, ponendo in secondo ordine o ignorando gli interessi essenziali - non abusivi - delle popolazioni, significa incorrere nel rischio della precarietà e inefficienza delle istituzioni e scatenare malcontenti del tutto controproducenti. Se i parchi nazionali e i parchi ‛equivalenti' devono, per una originaria definizione mai successivamente smentita, essere disponibili per il ‛godimento' delle popolazioni, e non solo per la conservazione, si rende necessaria una più netta distinzione fra parchi, caratterizzati da molteplici finalità, e riserve, destinate a forme di conservazione generale o variamente specializzate.
I parchi e le riserve devono quindi far parte di una usuale, e non eccezionale, prassi di pianificazione. Ma un aspetto troppo trascurato, perfino nelle più avanzate pianificazioni che accolgono come ovvi strumenti anche questi istituti conservazionali, è la necessità di realizzare un continuum di strutture funzionali su tutta l'estensione del territorio con una gradualità di destinazioni. Dal cuore delle città fino ai recessi delle montagne, la pianificazione della conservazione deve costituire un discorso unitario; parchi urbani e suburbani, aree attrezzate per la ricreazione, parchi turistici, parchi naturali, parchi nazionali, e tutta la gamma delle riserve, devono costituire un sistema coerente, interrelato. In tal modo si andrebbe incontro ai bisogni delle popolazioni, alle esigenze diversissime della tutela del paesaggio naturale, quasi naturale e umanizzato, e si alleggerirebbe la pressione eccessiva che pesa sui parchi nazionali e naturali, specialmente quando sono inseriti in paesi a forte densità di popolazione umana e con interessi precostituiti.
b) I parchi e le riserve.
Bisogna purtroppo dire che le idee in materia di istituzioni fondamentali di altissimo interesse ecologico, quali sono i parchi e le riserve, mancano di chiarezza. Proprio l'ultimo Congresso internazionale sui parchi nazionali, convocato solennemente a Yellowstone nel centenario7 dell'istituzione del primo parco nazionale (1972), ha dimostrato come siano inconsistenti le tipologie sin qui accettate, quanto sia rischioso e inopportuno cercare definizioni valide per tutte le latitudini, per tutte le situazioni fisiche, biologiche e umane, e quanto sia invece necessario avviare discorsi regionali in aree ecologicamente omogenee. In Italia, ad esempio, non è possibile oocuparsi con gli stessi criteri dei parchi della regione alpina, di quella appenninica e di quella insulare, che appartengono a mondi profondamente diversi. Ciò non significa che non sia opportuno, anzi necessario, dare in una legge quadro alcuni criteri fondamentali perché queste istituzioni non abbiano a degenerare.
Innanzitutto va fatta una prima, netta distinzione che contribuisca a dissipare molti equivoci e malintesi: quella fra parchi e riserve. Purtroppo un'infelice classificazione dell'IUCN considera riserve anche i parchi, denominandoli ‟riserve generali". Non si tratta di un'oziosa questione nominalistica, ma di una radicale diversità di destinazioni e finalità. Le riserve sono istituzioni a finalità ben chiaramente delimitate: si tratta di biotopi, di geotopi, di fitocenosi, zoocenosi o di interi ecosistemi da conservare rigidamente o almeno con tutto il rigore possibile, compatibilmente con la maggiore o minore fragilità delle risorse naturali che contengono. Ed è facile impresa crearle: basta acquisire l'area, demanializzarla e porre una serie di adeguati vincoli e difese. I parchi, invece, sono istituzioni a uso multiplo per le quali, al di là dei criteri e dei vincoli adottati per le riserve, devono predominare criteri armonici e sistemici di destinazione. Le zonazioni previste per i parchi rispondono quindi a gradienti di utilizzazione più che a gradienti di difesa. Si comprende allora come sia ben più ardua impresa progettare e costruire un parco nazionale, in quanto richiede una totale considerazione delle esigenze ambientali e umane. I parchi nazionali possono contenere zone di protezione integrale, cioè delle riserve, nell'ambito delle quali le finalità sono prevalentemente difensive.
Questo modo di considerare i parchi nazionali, distinguendoli dalle riserve, dovrebbe dunque eliminare l'istintiva ostilità delle popolazioni nei loro confronti, che neppure la diffusione di informazioni sulle molteplici destinazioni zonali è servita a dissipare. Né vi è molto di nuovo da dire circa queste destinazioni: le zone di maggior interesse scientifico sono collocate in una o più aree interne (A) trattate con criteri tipicamente ‛riservistici'; in una zona più esterna (B) si tutela l'efficienza ecologica che ammette coesistenze umane regolatrici; un'altra zona (C) può essere destinata a un'utilizzazione umana più normale, ma pur sempre regolata, specialmente per ciò che riguarda il turismo o la ricreazione. Si viene così costituendo un ‛sistema' la cui struttura non può essere fissata definitivamente, ma deve essere continuamente controllata perché si deve tener conto della natura dinamica di tutti i sistemi biologici che qui sono posti a confronto col mondo umano. Le finalità scientifiche, educative, ricreative, economiche e sociali dei parchi convergono infatti a un'unica finalità più vasta: una sperimentazione continuata di rapporti razionali - di ‛nuovi' rapporti - fra uomo e natura.
Un'idea francese - il ‛preparco' - ci aiuta a realizzare più pienamente questa complessa finalità dei parchi nazionali. Proprio perché un parco nazionale non deve essere un'isola avulsa dal resto del territorio, ma deve appartenere vitalmente a esso, deve essere attuato un collegamento e un confronto di interessi fra il parco propriamente detto, comprendente le zone A, B e C, e un conveniente contorno di interessi umani. Costituiscono dunque il preparco i comuni circostanti, i cui terreni sono in parte compresi nell'area del parco, riuniti in consorzio per confrontare efficacemente i loro interessi con gli interessi istituzionali del parco; si riuniscono anche per ottenere, all'atto della creazione del parco, compensazioni concrete - in termini di sviluppo del loro territorio - per le inevitabili limitazioni d'uso imposte dal parco stesso. Proprio in questo modo vengono a contatto permanente gli interessi dello sviluppo e gli interessi dell'ambiente, rappresentati rispettivamente dal preparco e dal parco, e più concretamente da un ‛consorzio di comuni' e da un ‛ente parco' nei quali sono presenti rappresentanti delle due parti. In questa struttura è accettato l'antagonismo fra sviluppo e ambiente, ma vengono poste le premesse perché diventi un antagonismo sistemico, vitale e costruttivo.
In molti paesi i parchi nazionali conoscono una grave crisi dovuta ai contrasti esistenti in special modo fra interessi economici, turistici, energetici da una parte, e interessi fondamentali della qualità dell'ambiente e della vita dall'altra. Infatti si sono talvolta create situazioni di malcontento, che le leggi regionali o nazionali non servono a dissipare. L'esistenza e l'efficienza dei parchi è assicurata solo da una più ampia partecipazione delle comunità direttamente interessate, e da una pianificazione che deve dilatarsi a tutto il più vasto territorio circostante, entro il quale i parchi non devono costituire delle ‛isole beate' nè luoghi di esasperata conservazione difensiva, ma modelli di un'equilibrata ed esemplare valorizzazione di tutte le risorse fondamentali della biosfera.
c) I parchi naturali regionali.
Attualmente in vari paesi (specialmente in Francia e in Italia) si tende più a discutere di parchi regionali che di parchi nazionali. Un più recente tipo di parco che non è neppure compreso nella classificazione ufficiale - il parco naturale - ha assunto, da noi come in Francia e altrove, un carattere nettamente regionale. Ma non esiste una chiara idea del significato di questa istituzione. Secondo alcuni il parco naturale costituisce un istituto urbanistico, nel quale la natura viene considerata come un elemento indispensabile ai precipui fini dello svago. La legge francese sui parcs naturels régionaux si propone invece la tutela del paesaggio regionale rurale, quindi di un paesaggio profondamente umanizzato, in netta contrapposizione con i parcs nationaux da creare nelle zone sauvages. La legge tedesca, meno ‛riservista' di quella francese, accentua l'utilizzazione ricreativa. E si potrebbe continuare con gli esempi. Accade pure (ad esempio in Italia) che nei progetti regionali vengano proposti parchi naturali anche nelle zone che potrebbero costituire a buon diritto parchi nazionali (ad esempio sulle Alpi Marittime, sull'Etna, sulle Dolomiti alto-atesine, ecc.). Stabilito allora che non si possono moltiplicare eccessivamente i parchi nazionali (vi sono paesi come la Germania Occidentale che si sono limitati quasi esclusivamente ai parchi naturali), ma che esistono molti territori meritevoli di tutela e valorizzazione, nello stesso senso di uso multiplo attribuito ai parchi nazionali, è conveniente incoraggiare le diffuse tendenze a strutturare e finalizzare i parchi naturali con criteri simili a quelli dei parchi nazionali. In questa direzione si stanno orientando alcune regioni, che molto opportunamente distinguono anche parchi attrezzati con scopi prevalentemente ricreativi.
d) Le riserve della biosfera.
Non è adeguatamente conosciuta in tutti i paesi una nuova istituzione che fa parte del Programma MAB dell'UNESCO e che tuttavia sta incontrando molto favore in tutti i continenti. Non si tratta di sostituire il modello dei parchi e delle riserve tradizionali, ma di integrarlo con un nuovo tipo di istituzione conservazionale che corrisponde anche a un nuovo orientamento ecologico. Il nome di ‛riserva' dato a questa nuova istituzione è poco felice, perché richiama una concezione che essa accetta solo parzialmente. Il disegno delle ‛riserve della biosfera' è coerente col programma che mutua il titolo dall'abbinamento uomo-biosfera. L'attenzione deve essere centrata infatti sull'uomo, considerato come risorsa centrale e prioritaria, ma inseparabile dal restante mondo fisico e biologico al quale è legato da vincoli complessi e necessari.
I caratteri essenziali delle riserve della biosfera si possono sintetizzare nei punti seguenti: 1) sono sistemi aperti agli interessi globali del più ampio territorio circostante; 2) sono luoghi di ricerca scientifica permanente e globale sulle possibilità di equilibrare gli interessi antagonistici dello sviluppo e della conservazione, dell'uomo e della natura; 3) attuano un controllo sperimentale permanente sulle interfacce o ecotoni, cioè sulle aree più critiche delle strutture zonali di conservazione; 4) integrano le finalità più generali della conservazione sia come unità a sé stanti, sia nell'ambito di parchi nazionali e regionali, sia includendo esse stesse altri tipi di riserve integrali o diversamente finalizzate; 5) hanno carattere internazionale in quanto integrano una rete mondiale, ma devono adeguarsi per le loro stesse finalità alle esigenze nazionali, regionali e degli enti locali interessati.
8. Le istituzioni.
Scriveva R. Heim nel 1956, nell'introduzione al bel volume dell'IUCN Les derniers refuges, che le riserve della natura non basteranno. Intendeva con queste parole fare appello a una presa di coscienza degli uomini sulla necessità di mutare radicalmente i comportamenti irrazionali che stanno conducendo a una degradazione catastrofica delle risorse planetarie. Oggi questo appello appare drammaticamente giustificato: infatti, sta diventando sempre più rapido il processo di allontanamento dell'uomo dalla natura, per il richiamo, che par diventato irresistibile, esercitato dalle innumerevoli nuove risorse meccaniche che sembrano destinate a esaltare il suo desiderio di dominio. I parchi e le riserve sono pochi, lontani e praticamente inaccessibili ai più. L'integrazione di parchi e aree della città e del territorio in un sistema globale può contribuire alla sensibilizzazione, anche se l'interesse per l'uso ricreativo sembra essere predominante. È necessario quindi potenziare le funzioni informative e orientative di istituzioni quali i musei naturalistici e variamente specializzati in argomenti di storia naturale, gli orti botanici, gli arboreti e anche quei parchi pubblici urbani ed extraurbani che sono più ricchi di materiali di interesse biologico.
a) I musei.
Celebrando il centenario del Museo americano di Storia naturale di New York, fondato nel 1871, il suo presidente Th. D. Nicholson affermava che ‟il museo viene riscoperto come una grande fonte di insegnamento delle scienze, perché è stato all'avanguardia nell'acquisizione del sapere e noi vi insegnamo con l'autorità delle scienze fondamentali". Era stato buon profeta O. C. Marsh che sin dal 1877 aveva previsto che quelle vaste collezioni avrebbero diffuso gli elementi delle scienze naturali nella popolazione, mentre i ‛tranquilli ricercatori' avrebbero assicurato al Museo una reputazione scientifica mondiale. Emergono dunque per i musei, troppo spesso negletti e ritenuti istituzioni morte, alcune finalità insostituibili: la divulgazione delle scienze della natura, la conservazione e l'arricchimento di preziose collezioni, e la ricerca scientifica descrittiva e sistematica; quest'ultima è stata troppo trascurata nelle sedi universitarie: essa risponde invece a un'esigenza permanente di conoscenze fondamentali sulle risorse e le diversità fisiche e biologiche della Terra. In special modo i musei regionali e locali permettono di portare a conoscenza del più vasto pubblico i valori più rappresentativi del suolo, delle acque e anche delle creazioni dell'ingegno dell'uomo, contribuendo al loro apprezzamento e quindi alla loro conservazione. Non è solo questione di insegnamento, dunque, ma di un'educazione naturalistica e ambientale, perché i criteri dell'esposizione e l'ordine logico con cui sono disposti campioni ed esemplari contribuiscono a dare in poco spazio una visione globale della straordinaria varietà e ricchezza della natura. Molte passioni naturalistiche, che hanno determinato un insigne progresso scientifico, sono nate precocemente in queste sale o in questi laboratori. Per la conservazione delle risorse naturali è necessario partire da repertori sistematici il più possibile esatti e da classificazioni chiare, disponibili per una universale comprensione e distinzione degli oggetti da conservare, da utilizzare e da valorizzare. Gli inventari delle risorse di un territorio trovano la sede più adatta nei musei naturalistici, dove devono essere conservati ed esposti anche campioni di confronto, prospetti sistematici, schemi di localizzazione di giacimenti, di rocce, di materiali fisici e biologici.
Nessun museo, inoltre, può trascurare di concludere la sua narrazione espositiva con l'uomo, inteso come specie biologica ma anche come agente modificatore dell'ecosfera, per richiamare alle responsabilità gravissime che incombono sopra di lui. È necessario che ovunque si riscoprano e si riconoscano questi significati e queste funzioni: i musei devono servire non a rievocare vicende del passato, ma a sensibilizzare ai problemi del presente e dell'avvenire. La decadenza di molti musei di storia naturale priva un paese di uno strumento educativo e scientifico che non può essere Sostituito dai moderni mezzi di comunicazione di massa.
b) Gli orti botanici e gli arboreti.
Gli orti botanici e gli arboreti sono musei vivi del mondo vegetale ed esercitano da secoli un'attrattiva che deve essere sempre più orientata a fini educativi, senza peraltro trascurare i fini ricreativi.
Gli orti botanici permettono di aprire all'attenzione e alla comprensione dei giovani qualche pagina del libro così poco conosciuto della natura vivente; permettono di accostarli a qualche tangibile realtà naturale che nessun testo scolastico, per quanto ben fatto, potrebbe rappresentare in modo così impressionante e persuasivo. Costituiscono, dunque, anzitutto uno strumento di più per sfuggire al deteriore ‛manualismo' della nostra scuola, in quello spirito di rinnovamento che oggi rivendica come insostituibile la funzione educativa dell'osservazione diretta, della sperimentazione personale, della collaborazione personale alla conquista della cultura scientifica. Ma oggi vengono riconosciute agli orti botanici ben più numerose finalità che nel passato; in special modo vengono affidati loro compiti espliciti di conservazione delle risorse vegetali, quali l'acclimazione di specie esotiche di svariatissimo interesse e la conservazione di specie rare o minacciate di estinzione o di prodotti della selezione artificiale operata dall'uomo su piante di utilità agronomica, officinale, ornamentale, che non sempre possono essere trattate con eguali garanzie di attenzione naturalistica in altri ambienti.
Un orto botanico modernamente inteso non dovrebbe dedicarsi a un collezionismo fine a se stesso, accumulando specie rare, rincorrendo il possesso di ciò che altri orti non hanno, quasi in una gara di superamento; dovrebbe invece operare una scelta sperimentale di un corredo di specie dimostrative con lo scopo di sensibilizzare alla morfologia e alla biologia degli adattamenti, all'ecologia delle specie singole e delle comunità di specie, alla comprensione delle associazioni biologiche e dei problemi ancora affascinanti delle affinità naturali della filogenesi, dell'evoluzione dei viventi.
Entro queste finalità, ogni arricchimento degli orti botanici quanto a numero e varietà di forme vegetali non è più soltanto collezionismo, ma giusta sollecitudine educativa. Occorre però a questo scopo un notevole impiego di persone, di strumenti, di strutture, così come li vediamo in atto nei più efficienti orti botanici dell'Occidente e dell'Oriente europeo e anche in molti paesi extraeuropei che sono oggi all'avanguardia del progresso scientifico. Occorre mano d'opera specializzata non generica e in adeguata quantità; occorrono serre opportunamente condizionate, impianti di riscaldamento, di irrigazione, mezzi meccanici; necessita pure una conveniente attrezzatura scientifica che elevi gli orti botanici al rango di autentici istituti di ricerca e di insegnamento, in grado di collaborare alla pari con altri istituti naturalistici in una feconda cooperazione multidisciplinare.
Deve cessare l'isolamento degli orti botanici, troppo spesso gelosamente segregati come ‛orti conchiusi', troppo spesso appartati ai confini della vita scientifica e didattica. Nei paesi scientificamente avanzati gli orti botanici sono luoghi di iniziazione alla ricerca, anzi, non di rado, luoghi di attivissima ricerca sperimentale in campo sistematico, ecologico, fisioecologico, agrobiologico; sono inseriti, insomma, nella più fervida attività delle università e delle scuole di più alto livello. Come i musei zoologici più efficienti garantiscono l'essenziale continuità di ricerche sistematiche e tassonomiche sugli animali, così gli orti botanici devono assicurare la continuità di analoghe ricerche sulla materia vegetale. Inoltre, attraverso l'introduzione, fin nel cuore delle metropoli, di alberi e piante produttive che crescono altrimenti in luoghi remoti e spesso male accessibili, l'orto botanico divulga la conoscenza delle risorse vegetali ancor più efficacemente dei musei di storia naturale. Deve essere potenziata negli orti botanici non solo la raccolta di interessanti forme biologiche e di ‛curiosità naturali', ma anche di materiali viventi che possano essere oggetto di ricerche di botanica economica.
9. Il patrimonio mondiale.
Uomini di tutti i paesi del mondo concordano oggi nell'aspirazione alla solidarietà universale, perché ritengono che solo così si può sperare di affrontare problemi che sono diventati enormi e gravissimi. Soprattutto emerge la considerazione che i processi di degradazione delle risorse di un singolo paese si ripercuotono inevitabilmente su tutti gli altri paesi, incontenibilmente. Per qualsiasi categoria di beni naturali, artificiali, umani non vale più trincerarsi entro le barriere degli ‛interessi interni'. Chi legge i segni dei tempi si avvede che è in atto nelle coscienze e spesso nelle esperienze un vasto processo unitario che condizionerà il futuro del mondo.
Esistono indubbiamente patrimoni nazionali, ma si viene affermando sempre più l'esigenza di considerarli come patrimonio universale. Un significativo evento rappresenta a tale proposito la proposta di una Convenzione del patrimonio mondiale, lanciata dall'UNESCO nel 1972, che intende realizzare una presa di coscienza e un sistema mondiale di cooperazione al fine di: a) selezionare sulla base di liste fornite dagli Stati i beni giudicati di interesse universale; b) proteggere questi beni con mezzi da attingere da un fondo del patrimonio mondiale; c) informare gli Stati dei programmi educativi che contribuiscono a diffondere la consapevolezza dei valori da conservare.
Il patrimonio mondiale comprende sia le risorse naturali sia le risorse culturali; costituisce quindi quella visione globale che oggi si impone come un'esigenza fondamentale.
Molte forze sono mobilitate oggi, sia nell'ambito delle Nazioni Unite, sia entro iniziative di organizzazioni internazionali non governative, allo scopo di affrontare coordinatamente i grandi problemi implicati nell'impegno di una tutela e conservazione del patrimonio mondiale. La Conferenza di Stoccolma del 1972 ha creato l'United Nations Environment Programme (UNEP), destinato a sostenere iniziative programmatiche di conservazione e sviluppo, che ha contratto collaborazioni con l'UNESCO, la FAO, l'IUCN e il WWF. Queste organizzazioni costituiscono oggi i caposaldi di una vasta impresa che si confida venga sempre più efficacemente integrando quelli che sono gli aspetti fondamentali: la conservazione, concepita in senso costruttivo e in armonia con le esigenze di sviluppo razionale, l'elevazione culturale e quindi l'educazione e l'informazione.
Un documento redatto in cooperazione da IUCN, UNEP e WWF (v., 1980) raccoglie le voci che si sono levate altissime sin dal 1972 nella Conferenza di Stoccolma, converge verso l'ampia visione del Programma MAB (1970), diventato operativo dal 1972, e solidarizza con le esigenze espresse più volte dall'Organisation de Coopération et de Développement Économiques (OCDE) e dalla Comunità Economica Europea (CEE), introducendo una ventata nuova di realismo costruttivo in ambienti che si attardavano in un protezionismo di tipo tradizionale, quanto si voglia benemerito, ma non più rispondente alla gravità e vastità dei problemi umani.
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Risorse minerarie
SOMMARIO: 1. Introduzione. □ 2. Crosta terrestre e materie prime minerali. □ 3. Energia necessaria per la produzione e il riciclo dei metalli. □ 4. Tecniche di rilevamento dei giacimenti. □ 5. Tecniche di arricchimento ed estrazione dei metalli. □ 6. Alluminio. □ 7. Cobalto. □ 8. Cromo. □ 9. Ferro. □ 10. Fosfati. □ 11. Nichel. □ 12. Rame. □ 13. Stagno. □ 14. Uranio. □ 15. Zinco. □ Bibliografia.
1. Introduzione.
Analizzando la storia della Terra, è abbastanza immediato notare che le infinite modificazioni biologiche e geologiche si sono susseguite per milioni di anni con ritmi piuttosto lenti. Basti pensare a quanto tempo è stato necessario per accumulare le risorse petrolifere che ai nostri giorni vengono sfruttate in maniera massiccia. I vari cicli hanno avuto inizio e fine nei tempi dettati dalla Natura, specie animali hanno conquistato posizioni dominanti e sono scomparse in un lento processo di evoluzione del pianeta. L'uomo, apparso tutto sommato recentemente (da circa 2,5 milioni di anni), almeno se ci si riferisce all'esistenza della vita sul pianeta (la vita sulla Terra esiste da circa 3.000 milioni di anni), per lungo tempo ha seguito questi ritmi secolari: le distanze sono state calcolate su base umana o animale per secoli, i consumi, almeno a livello di massa, per lungo tempo sono rimasti collegati ai problemi della sopravvivenza, le tecniche utilizzate per raccogliere i cosiddetti frutti della terra sono rimaste pressoché inalterate anch'esse per secoli. Con l'andare del tempo, tuttavia, l'uomo si è rivelato un potentissimo agente in grado di modificare sensibilmente ogni aspetto di uno schema consolidatosi nei millenni.
Se è possibile indicare una data, probabilmente la rivoluzione industriale ha segnato l'inizio di una nuova era. Da quel momento ogni modifica, consumo, crescita si è proiettata in avanti seguendo curve esponenziali. Certamente anche l'aumento della popolazione mondiale ha contribuito e contribuisce a questo andamento, ma da una rapida analisi della fig. 1 si può facilmente vedere che, per esempio, l'aumento dei consumi di un certo numero di minerali segue una pendenza superiore a quella relativa all'aumento della popolazione mondiale. Al giorno d'oggi si producono quotidianamente più tonnellate di rame di quante ne siano state prodotte fino al XVIII secolo. Nel 1770, con una popolazione mondiale di 700 milioni di individui, il consumo di minerali e di carburante era circa il 10% di quello osservato nel 1900 con una popolazione mondiale appena raddoppiata. Nei successivi settant'anni la popolazione mondiale è salita a poco meno di 4,5 miliardi di individui, ma i consumi si sono moltiplicati per 12.
Questo fatto, come è facile intuire, pone seri problemi, se si pensa che la quasi totalità delle risorse che l'uomo utilizza sono risorse non rigenerabili o comunque non rigenerabili nei tempi che consumi sempre più massicci richiederebbero. Per es. il consumo di fosfati, vitali per la produzione mondiale di alimenti, sta crescendo a un ritmo del 7% all'anno, quello dello zinco a un ritmo del 6%, quello del platino tra il 4 e l'8%, quello del rame intorno al 3,5%.
Proiezioni effettuate sulla base di dati attuali e relative all'anno 2000, supponendo una popolazione mondiale di circa 6 miliardi di individui, prevedono la necessità di triplicare la produzione odierna di minerali per poter soddisfare il fabbisogno dell'umanità. Il problema riguarda quindi la possibilità o meno di mantenere ritmi di sviluppo che peraltro non riguardano uniformemente tutta la popolazione mondiale. Per rimanere nel campo dei minerali, i paesi industrializzati producono circa il 66% dei minerali, ma ne consumano circa il 90%. Questo squilibrio, che favorisce le società tecnologicamente più evolute, si estende a tutti i settori e aggiunge ai problemi strettamente tecnici, relativi alla disponibilità di materie prime, anche non trascurabili problemi di natura politica. La necessità di approvvigionamento di certi materiali potrà favorire l'insorgere di tensioni internazionali. Quanto è accaduto in questi nostri tempi nel campo petrolifero rappresenta certamente un campanello d'allarme significativo per ciò che riguarda i rapporti che possono instaurarsi tra paesi produttori e paesi consumatori. Nel campo dell'energia i paesi industrializzati stanno cercando di rompere questa dipendenza e c'è da dire che le vie alternative, anche se in diversi casi in corso di perfezionamento, non mancano. Purtroppo, nel caso dei minerali, non esistono vie alternative percorribili con altrettanta facilità (ammesso che siano facilmente percorribili le vie alternative al petrolio). Certamente anche in questo campo la tecnologia può ricoprire un ruolo importante, forse decisivo, attraverso la messa a punto di nuove leghe, nuovi materiali in sostituzione di quelli non facilmente reperibili. È il caso, per esempio, delle resine rinforzate con fibre di vetro, boro, carbonio e altre sostanze ancora, che trovano larga utilizzazione in diversi campi: nell'edilizia e nell'industria automobilistica e aeronautica, oltre che in settori meno impegnativi. La tendenza a utilizzare questi materiali come sostituti dell'acciaio e dell'alluminio è ormai molto spinta.
Alcuni metalli potranno perciò essere sostituiti da materie plastiche, ma è difficile immaginare la sostituzione di tutti i metalli utilizzati attualmente dall'uomo. Questi materiali plastici, inoltre, non sono riciclabili come i metalli e ciò, dati gli alti costi associati alla loro produzione, costituisce un aspetto non del tutto trascurabile. Infine non bisogna dimenticare che questi materiali sono essenzialmente derivati del carbonio, in particolare del petrolio, e che quindi il loro impiego risentirà dei limiti di disponibilità della materia prima da cui vengono preparati. La crisi del loro impiego seguirà direttamente una eventuale crisi nell'approvvigionamento di petrolio.
La scoperta e lo sfruttamento di nuovi giacimenti non possono essere esclusi, anzi a tale riguardo si può essere abbastanza ottimisti. Per esempio, nel 1991 scade il Trattato Antartico e 22 paesi sono pronti a lanciarsi in una grande corsa allo sfruttamento di questa immensa regione. A circa due secoli da quando il capitano James Cook affermò alla Corte inglese che ‟nessun beneficio poteva derivare da quel luogo", si e ormai pronti, per quanto riguarda la tecnologia necessaria e la convenienza economica, a estrarre dall'Antartide cobalto, cromo, ferro, manganese, molibdeno, nichel, oro, piombo, platino, rame, titanio, zinco, zolfo e uranio. Per quanto riguarda il ferro, per esempio, un giacimento contenente ferro con una percentuale del 38%, spesso circa 100 metri ed esteso per 120 chilometri, è stato individuato nelle Prince Charles Mountains. La lotta scatenatasi nella corsa verso questo nuovo Eldorado, non priva di difficoltà tecniche, economiche e politiche, è estremamente accesa e può trovare un riscontro in quanto avviene nel campo dei noduli polimetallici. I fondali marini potrebbero rappresentare, infatti, una nuova, cospicua fonte di approvvigionamento di diversi minerali. Secondo stime del Dipartimento degli Affari Economici e Sociali Internazionah dell'ONU, i noduli polimetallici, situati sul fondo degli oceani a una profondità di 4.000 + 6.000 metri, potrebbero fornire nichel (290 milioni di tonnellate), rame (240 milioni di tonnellate), cobalto (60 milioni di tonnellate) e manganese (6.000 milioni di tonnellate). Tuttavia i problemi tecnologici associati a un loro massiccio sfruttamento non sono trascurabili né, forse, pienamente risolvibili in tempi relativamente brevi. D'altronde, anche ammettendo la possibilità di estrarre tutto il minerale disponibile dal fondo del mare senza problemi tecnici, economici e, anche in questo caso, politici, non bisogna dimenticare che la velocità di ricostituzione di quei giacimenti è largamente inferiore ai consumi che dovrebbero essere realizzati. Dato che i noduli contengono mediamente meno del 40% di ferro, tra cinquantasettant'anni l'umanità potrebbe avere la necessità di estrarre oltre 3 miliardi di tonnellate di noduli, mentre, per esempio nell'Oceano Pacifico, la velocità media di ncostituzione dei noduli si aggira intorno a 1,4 milioni di tonnellate all'anno.
Alcune interessanti considerazioni possono essere fatte analizzando i dati riportati nella tab. I.
Una razionalizzazione dei consumi, ammesso che ci sia la volontà e la possibilità di realizzarla, potrebbe certamente portare a una certa diminuzione della richiesta di minerali, ma probabilmente questa diminuzione sarebbe più che bilanciata dall'aumento della popolazione mondiale o, più precisamente, dall'aumento della popolazione mondiale in grado di vivere secondo i modelli del ceto medio dei paesi industrializzati. In effetti, come scrive N. Keyfitz (v., 1976), ‟l'impatto futuro sulle risorse mondiali è condizionato dalla crescita del ceto medio i cui membri, come si è ipotizzato, consumano una quantità di beni cinque volte superiore a quella delle persone povere [...]. In realtà è in dubbio se i 250 milioni di persone che si prevede popoleranno gli Stati Uniti nell'anno 2000 saranno in grado di vivere come gli Americani d'oggi".
In sintesi, il problema delle scorte di materie prime minerali, in certi casi riferito al breve periodo, in altri casi proiettato in un futuro meno immediato, esiste e l'umanità dovrà imparare ad affrontarlo. La razionalizzazione dei consumi, il miglioramento delle tecniche di riciclaggio, la scoperta di nuovi giacimenti, la messa a punto di nuovi materiali e di nuove tecnologie in grado di rendere economico lo sfruttamento anche dei filoni più poveri possono certamente rendere meno gravi diversi aspetti del problema. Tuttavia è certo che, considerando il divario esistente tra il consumo di materie prime e la velocità di ricostituzione delle loro riserve, le società future non potranno trascurare molto facilmente il fatto che il pianeta è in pratica, per molti aspetti, un sistema chiuso (v. tab. II).
2. Crosta terrestre e materie prime minerali.
Chiaramente, il globo terrestre non può essere preso in considerazione nel suo insieme, ai fini dello sfruttamento delle sue ricchezze naturali. L'uomo vive su una sottile crosta che al di sotto dei continenti si estende per circa 30 chilometri (al di sotto degli oceani per circa 10 chilometri) e che ricopre il volume interno della Terra, il quale si trova per lo più a temperature superiori agli 800 °C. Fino a oggi sono rari gli scavi che abbiano superato i 3.000 metri di profondità, mentre la maggior parte ha raggiunto profondità che si aggirano intorno ai 1.000 metri. In molti casi, del resto, si procede all'estrazione di minerali attraverso coltivazioni a cielo aperto. È quindi evidente che, nel prendere in esame la possibilità di sfruttamento delle risorse minerali, si dovrà fare riferimento a un volume molto limitato rispetto al volume globale del pianeta. Inoltre, quasi l'86% della superficie terrestre è costituito da ossigeno (46,60%), silicio (27,72%), calcio (3,63%), sodio (2,83%), potassio (2,59%) e magnesio (2,09%), materiali la cui importanza industriale è relativamente limitata. Solamente l'alluminio e il ferro, come si può vedere nella tab. III, sono presenti in quantità piuttosto elevate. I rimanenti elementi, in molti casi di rilevante importanza industriale e strategica, rappresentano all'incirca l'1,5% della crosta terrestre.
Per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse minerali del pianeta, si possono considerare quattro principali zone geologiche: la superficie esterna dei continenti e delle isole, la parte solida della crosta terrestre, i sedimenti superficiali che ricoprono il fondo degli oceani e la crosta esistente al di sotto degli oceani.
La difficoltà di estrazione dei minerali varia notevolmente a seconda della natura dell'ambiente geologico da cui si intende effettuare l'estrazione. È evidente che l'estrazione di minerali dal fondo dei mari presenta difficoltà tecniche non trascurabili, ma non si deve automaticamente pensare che lo sfruttamento di queste risorse non possa essere convenientemente attuato anche su vasta scala. Si può ricordare, a questo proposito, che un quinto del petrolio consumato attualmente proviene da giacimenti sottomarini. E non solo petrolio. E piuttosto recente la notizia riguardante la scoperta, fatta dalla compagnia petrolifera Norske Shell, di un giacimento di metano di proporzioni sbalorditive (circa 2.000 miliardi di metri cubi) a 112 chilometri dalla costa norvegese. Tuttavia, la possibilità di realizzare effettivamente lo sfruttamento di certe zone non dipende soltanto dalle difficoltà tecniche del processo estrattivo, ma anche, per esempio, dalla percentuale di metallo presente nel giacimento, dai costi di trasporto del minerale grezzo alle sedi (generalmente situate in zone che possono disporre di energia elettrica a basso costo) in cui il metallo viene ottenuto allo stato commercialmente utile e, parametro non trascurabile, dalle scelte politiche che possono essere fatte dai paesi produttori e dai paesi consumatori. Tensioni internazionali o precise scelte economiche possono modificare il costo dei materiali provenienti da certe regioni fino a rendere conveniente o almeno non del tutto sconsigliabile lo sfruttamento di zone considerate economicamente svantaggiose in precedenza: il caso degli sci sti bituminosi negli Stati Uniti e quello del carbone, venuto alla ribalta a seguito della recente crisi petrolifera, ne sono esempi. Per quanto riguarda numerose materie prime di importanza strategica, tuttavia, c'è da tenere conto del fatto che non sempre i paesi ad alto grado di industrializzazione hanno a disposizione una più o meno facile via alternativa di approvvigionamento. Per esempio, da un'analisi dei dati della tab. IV, che riporta i principali paesi produttori di alcune delle più importanti sostanze di natura metallica e non metallica, si può facilmente vedere che, per quanto riguarda alcuni minerali, come il cromo, il manganese e il platino, la dipendenza dei paesi dell'OCSE dall'URSS, dal Sud Africa e dalla Rhodesia è praticamente totale. La situazione non migliora molto per i paesi dell'OCSE se si prendono in esame gli altri minerali, dato che diversi dei giacimenti più ricchi sono situati nei paesi in via di sviluppo e in Cina. ‟Chi controlla l'Africa controlla l'Europa", ebbe a dire Lenin. Un'affermazione valida in passato, oggi e, molto probabilmente, in futuro, il cui significato può essere esteso alla complessa situazione riguardante i paesi industrializzati e i paesi produttori. Per uno strano gioco delle parti, infatti, i paesi che attualmente detengono il primato tecnologico non sono pienamente autosufficienti. Addirittura, in certi casi non lo sono affatto. Il loro sviluppo tecnologico dipende sempre più pesantemente dalle risorse minerali, e non solo minerali, distribuite in Africa, in Sud America e in Asia. È evidente che il controllo di tutte queste zone è di vitale importanza e la partita che si sta giocando avrà i toni della lotta per la sopravvivenza.
Di questo avviso sono Nixon e Servan Schreiber, un ex presidente degli Stati Uniti e un noto commentatore politico. Nel suo libro La vera guerra Nixon mette in luce le ripercussioni che possono avere, sulla disponibilità di materie prime, i mutamenti politici che sono avvenuti nelle ricche zone dell'Africa. J. J. Servan Schreiber, nel saggio La sfida mondiale, scrive: ‟Due anni fa, nel 1978, il cancelliere Schmidt ha ordinato un'indagine sulle conseguenze che avrebbe, sull'economia tedesca, l'eventuale penuria di certe materie prime. Le conseguenze del rapporto sono tali, che il governo ne ha vietato la divulgazione. Da esso risulta che circa 12 milioni di posti di lavoro andrebbero perduti in campo siderurgico, aeronautico, automobilistico e cantieristico, se cinque minerali (cinque soltanto), che la Germania importa dall'Africa australe, venissero improvvisamente a mancare. I cinque minerali in questione sono: cromo, insostituibile per la produzione degli acciai speciali; molibdeno, indispensabile nella fabbricazione delle leghe refrattarie usate nella costruzione dei reattori per velivoli; vanadio, essenziale per il rivestimento delle barre di combustibile nucleare; asbesto, materiale isolante usato nei veicoli spaziali ma anche nei morsetti dei freni, negli involucri delle batterie, nelle tubazioni per il trasporto del petrolio; manganese, utilizzato in metallurgia per tutte le leghe di alluminio.
Lo stesso rapporto valuta dell'entità del 25% la caduta del PNL a seguito di una eventuale riduzione del 3o%, per una durata di un anno, delle importazioni di cromo, a causa della paralisi dei settori che lo consumano".
Nessuna meraviglia, allora, che i paesi più previdenti costituiscano delle ingenti scorte dei materiali strategici più importanti. È il caso della Germania Federale, che ha costituito stock sufficienti per un anno, con capitali pubblici e privati. E anche il caso della Francia. Si cerca, in vista dei costi, di poter disporre di stock sufficienti a coprire due mesi d'importazione. Faraonici sono invece i provvedimenti degli Stati Uniti: prevedono di immagazzinare riserve sufficienti per tre anni.
Un altro importante fenomeno merita una qualche attenzione. Quando si parla di materie prime che, per essere utilizzate, devono subire una trasformazione tecnologica di un certo rilievo, oltre che i paesi nei quali sono fisicamente situati i giacimenti, occorre considerare anche i gruppi che gestiscono il trinomio ‛materia prima, tecnologia, commercializzazione'. È da rilevare, in questo contesto, che i grossi gruppi che si occupano dell'estrazione e della produzione dei metalli hanno un ruolo non indifferente nel determinare la disponibilità sui mercati di un certo metallo, e anche nel determinare eventi politici non secondari nelle zone di loro interesse. Le multinazionali petrolifere mirano a entrare in possesso di giacimenti importanti. Così come, nel settore energetico, questi gruppi stanno acquistando giacimenti di uranio e di carbone, analogamente, nel settore dei minerali, si sta verificando una loro graduale penetrazione: Exxon, Gulf e Getty Oil sono interessate ai giacimenti di uranio, Exxon, Standard Oil e Superior Oil possiedono giacimenti di rame, la Royal Dutch Shell di stagno, la Texas Gulf di zinco, ecc.
3. Energia necessaria per la produzione e il riciclo dei metalli.
Dato il costo notevole dell'energia, un elemento che non può essere trascurato parlando dei minerali è proprio la quantità di energia elettrica e/o termica necessaria per l'estrazione dell'elemento utile dal minerale grezzo, quantità di energia che può variare enormemente a seconda dell'origine e delle tecniche adottate per la produzione. Per esempio, per estrarre il rame dal minerale sono necessari circa 13.500 kWh/t e per estrarre il magnesio dall'acqua del mare ne occorrono circa 91.000.
Il contenuto energetico dei materiali è così un fattore limitante una loro indiscriminata o comunque non ragionata utilizzazione. La scelta di un materiale è necessariamente basata su un'attenta valutazione di numerosi parametri tra cui quello energetico non è il meno significativo. Considerazioni energetiche, anzi, rendono estremamente convenienti i processi di riciclaggio dei vari materiali che hanno ormai esaurito il loro ciclo commerciale. È possibile cosi ottenere rame per riciclaggio dai rottami usando poco più di 600 kWh/t o 1.500 kWh/t, a seconda della purezza (si ricordi che, potenzialmente, è possibile riciclare il 75% del rame) e, sempre attraverso un processo di riciclaggio, il magnesio può essere ottenuto consumando circa 1.400 kWh/t (meno del 2% dell'energia necessaria per la sua estrazione dall'acqua del mare). Per l'alluminio il consumo energetico è di circa 1.300÷2.000 kWh/t, cioè all'incirca il 2,5÷4% della quantità di energia necessaria per estrarre l'alluminio dai minerali da cui viene attualmente estratto.
Si può accennare brevemente al fatto che questo approccio al problema delle materie prime ha un effetto positivo anche su un altro problema attualmente molto grave, quello dell'inquinamento. Purtroppo è necessario accennare anche al tatto che il riciclaggio non rappresenta una soluzione definitiva per il problema delle riserve delle materie prime minerali, sia perché, ovviamente, anche nel riciclaggio vi sono perdite di materiale, sia perché non sempre l'uso che si fa dei metalli lo rende possibile. Per esempio, l'attuale impiego del titanio è distruttivo al 90%.
4. Tecniche di rilevamento dei giacimenti.
Dai tempi più lontani fino ai primi anni di questo secolo, la scoperta dei giacimenti è avvenuta in genere casualmente o sulla base di qualche fortunata intuizione dei vari ricercatori. Al giorno d'oggi le cose sono cambiate sostanzialmente e la moderna tecnologia permette di assodare, a volte con notevole precisione, la presenza e la consistenza di un certo tipo di giacimento. D'altronde sarebbe abbastanza fantasioso immaginare di rispondere alla richiesta sempre maggiore di materie prime affidandosi a episodiche e fortunose scoperte di filoni più o meno ricchi. Anche la scoperta di giacimenti, dunque, ha abbandonato la fase pionieristica per affidarsi alla precisione e alla sicurezza che possono essere fornite solo dall'intervento massiccio di tecniche sofisticate. Riferendosi alle tecniche sofisticate, il pensiero corre subito ai rilevamenti effettuabili con metodi fotografici ad alta quota o, quando l'area da analizzare è molto estesa, addirittura con l'impiego di satelliti artificiali. Le informazioni che possono essere ottenute in questo modo, usando di volta in volta le pellicole più opportune, sono enormi e, com'è facile intuire, di grandissima importanza politico-economica.
Accanto a questi metodi di avanguardia e di notevole portata, esistono comunque altri metodi che, applicabili a zone più limitate e, a volte, a particolari tipi di minerali, possono dare risultati di grande precisione. È il caso dei metodi radiometrici, utilizzati in genere per la ricerca dell'uranio e del tono e anche dei metalli a cui l'uranio e il tono sono associati. Vengono poi utilizzati metodi elettromagnetici ed elettrici, che misurano i campi elettromagnetici naturali e indotti in materiali conduttori sotterranei.
I metodi magnetici sfruttano il fatto che la Terra è, in pratica, un enorme magnete: dallo studio delle variazioni nell'intensità del campo magnetico terrestre (la presenza o meno di materiali ferromagnetici fa variare sensibilmente il magnetismo delle rocce) si possono determinare mappe magnetiche e la profondità a cui si trovano minerali di diversa suscettività magnetica.
Con il metodo gravimetrico si studiano invece le variazioni nell'intensità del campo gravitazionale terrestre. In questo modo si possono ottenere informazioni sulla profondità di rocce di densità diversa. Dobbiamo infine ricordare il metodo sismico, che consiste nel misurare il tempo impiegato dalle onde sismiche, generate dallo scoppio di una carica esplosiva sulla superficie terrestre, per tornare in superficie dopo aver subito i vari processi di riflessione e/o rifrazione.
È chiaro che questi metodi non vengono utilizzati solo per le ricerche minerarie: per esempio, i metodi sismici, gravimetrici e magnetici vengono largamente impiegati nella ricerca di giacimenti petroliferi e di gas naturali.
5. Tecniche di arricchimento ed estrazione dei metalli.
La prima fase nella lavorazione dei minerali, una volta che questi sono stati estratti, riguarda l'eliminazione delle impurezze, dette ‛ganga'. A questo fine, il materiale estratto viene preliminarmente sottoposto a processi di frantumazione e macinazione, processi costosi ma necessari per diminuire il volume del materiale estratto e per facilitare le successive operazioni di concentrazione. Queste operazioni di concentrazione possono essere effettuate con sistemi di levigazione, sistemi magnetici, sistemi elettrostatici e sistemi di flottazione.
Nel processo di levigazione si sfruttano le diverse dimensioni delle particelle e le differenze nel peso specifico. Trattando cioè il materiale già frantumato con un forte getto d'acqua o aria (in questo caso si parla di separazione per ventilazione), le particelle più leggere possono essere separate da quelle più pesanti, che vengono riciclate.
La flottazione, anche se ha un costo piuttosto elevato, è sicuramente il metodo più efficace e diffuso e consiste nell'aggiungere a una sospensione in acqua del materiale da trattare sali organici con catene idrocarburiche relativamente lunghe, detti agenti collettori. La superficie dei minerali ha generalmente caratteristiche idrofile, cosicché l'aggiunta di agenti collettori può alterare il grado di bagnabilità delle particelle sospese (v. fig. 2). L'aggiunta di uno schiumogeno e l'agitazione mediante una corrente d'aria fanno sì che si formi una schiuma in cui alle bollicine d'aria aderiscono, attraverso l'azione degli agenti collettori, le particelle di minerale. La schiuma viene periodicamente separata, mentre le particelle con caratteristiche idrofile si accumulano sul fondo.
Il processo di separazione per via magnetica può essere realizzato quando c'è una differenza di caratteristiche magnetiche tra la ganga e il minerale.
Il metodo elettrostatico, infine, può essere utilizzato quando tra la ganga e il minerale che si intende separare esiste una differenza di conducibilità.
Realizzato il processo di concentrazione del minerale, si passa all'estrazione del metallo. Questo processo può essere basato sulla pirometallurgia, cioè su processi che avvengono ad alta temperatura, sulla idrometallurgia, cioè su processi che utilizzano reazioni in soluzione, e sulla elettrometallurgia, cioè su processi che ottengono il metallo attraverso l'uso della corrente elettrica.
6. Alluminio.
Con una percentuale dell'8,05% l'alluminio occupa il terzo posto per diffusione sulla crosta terrestre, dopo l'ossigeno e il silicio. Data la grande affinità per l'ossigeno, lo si trova quasi sempre sotto forma di ossido, nel corindone (una sostanza durissima: 9 nella scala Mohs), e di ossido idrato, nella bauxite. È presente negli allumino-silicati come, per esempio, la nefelina, la caolinite e la montmorillonite, che non rappresentano, però, la principale via di approvvigionamento del metallo. La quasi totalità del metallo è infatti ottenuta a partire dalla bauxite (in ragione di circa un quarto di chilogrammo di alluminio ogni chilogrammo di bauxite), che mediamente è costituita da allumina, Al2O3 (48-64%), silice, SiO2 (4-7%), sesquiossido di ferro, Fe2O3 (5-25%), e ossido di titanio, TiO2 (0,3-3%).
Le tecniche necessarie per l'estrazione del metallo puro dai suoi minerali sono state messe a punto in tempi relativamente recenti. Solamente nel 1825 Oersted riuscì a ridurre l'allumina in alluminio. Nel 1854 Sainte-Claire Deville pose le prime basi per la produzione industriale dell'alluminio. Nel 1886 il francese Héroult e l'americano Hall, quasi contemporaneamente, misero a punto un metodo per la produzione di alluminio attraverso un processo di elettrolisi dell'allumina allo stato fuso. Solamente nel 1889, tuttavia, Bayer ideò il metodo di purificazione dell'allumina a partire dalla bauxite, aprendo la strada alla produzione industriale dell'alluminio secondo principi che sono rimasti essenzialmente inalterati.
In pratica, il processo di preparazione dell'alluminio dalla bauxite si compone di due stadi: a) preparazione dell'allumina pura, anidra, dalla bauxite; b) riduzione elettrolitica dell'ossido di alluminio.
Alcuni dati relativi alla produzione mondiale di bauxite negli anni che vanno dal 1960 al 1979 e al consumo di alluminio per gli anni che vanno dal 1976 al 1979 sono riportati nella fig. 3 e nelle tabb. V e VI.
L'alluminio fonde a 660 °C, è un metallo leggero, di peso specifico uguale a 2,70 g cm-3, di colore grigio-blu, duttile e malleabile. Queste ultime caratteristiche lo rendono particolarmente versatile. Appena esposto all'aria si ricopre di uno strato di ossido di alluminio, che lo protegge da ulteriori attacchi conferendogli una elevata resistenza alla corrosione. Con l'alluminio è possibile effettuare stampi profondi ed è possibile ridurlo in fogli dello spessore di circa 5 millesimi di millimetro. L'alluminio è un buon conduttore di calore e di elettricità. Grazie a quest'ultima proprietà (la sua conducibilità elettrica è circa il 60% di quella del rame), trova utilizzazione nelle linee di trasporto dell'energia elettrica in sostituzione del rame.
Oltre il 60% dell'alluminio prodotto viene utilizzato per la preparazione di leghe leggere essenzialmente con silicio, magnesio e rame, ma anche con manganese, nichel, ferro, cromo, zinco e titanio, che conferiscono alla lega particolari proprietà chimiche e meccaniche.
I campi di applicazione dell'alluminio come metallo puro o in lega sono estremamente vasti e vari. Lo si utilizza nell'edilizia, nei materiali da imballaggio, nelle costruzioni elettriche e meccaniche, nelle apparecchiature domestiche, sanitarie e chimiche. Ma il suo impiego principale, all'incirca il 43% del totale, è nei trasporti: in questi tempi, dopo che la crisi energetica ha infranto l'illusione che l'energia fosse eternamente disponibile a basso costo, rendendo prioritaria la soluzione del problema della riduzione dei consumi, sull'alluminio si è venuta a concentrare l'attenzione dell'industria dei trasporti. In pratica, data la leggerezza di questo metallo (come è già stato detto, il suo peso specifico è 2,70 g cm-3, 7,14 g cm-3 quello dello zinco, l'acciaio ha un peso specifico di 7,86 g cm-3 e il rame di 8,93 g cm-3), il suo impiego diviene sempre più massiccio in tutti quei settori in cui alla costruzione di strutture più pesanti fa riscontro un aumento dell'energia necessaria per il loro funzionamento. È abbastanza evidente che un alleggerimento dei veicoli può portare a una diminuzione dei consumi. Previsioni a breve termine indicano che nel 1985 si potrà arrivare a vetture medie contenenti fino a circa 100 chilogrammi di alluminio. Un impiego maggiore è sconsigliato per non aumentare troppo i costi (l'alluminio ha un contenuto energetico di circa 65.000 kWh/t).
7. Cobalto.
Il cobalto, presente nella crosta terrestre nella percentuale dello 0,0018%, fu isolato come metallo nel 1780 da Bergman, ma fu utilizzato come tale solamente al tempo della prima guerra mondiale.
I minerali più importanti del cobalto sono i solfuri come la linnerite, Co3S4, gli arseniuri come la smaltite, CoAs3, e la saffiorite, CoAs2, e gli ossidi, CoO grigio, Co2O3 instabile e Co3O4 nero. Importanti giacimenti sono presenti nello Zaire, in Zambia, in URSS, a Cuba e anche in Canada, in Marocco, in Finlandia, in Nuova Caledonia (v. fig. 4 e tab. VII).
Il titolo dei minerali di cobalto estratto si aggira assai spesso intorno allo 0,1-0,5%, cosicché sono necessari processi di concentrazione.
Il cobalto è un metallo ferromagnetico, fonde a 1.495 °C e ha un peso specifico di 8,9 g cm-3. A temperatura ambiente non viene alterato dall'acqua o dall'aria. Si scioglie facilmente in presenza di alcuni acidi inorganici come l'acido solforico, l'acido cloridrico e l'acido nitrico, formando composti stabili di valenza 2.
Utilizzato in passato quasi esclusivamente nell'industria del vetro, della ceramica e del vasellame (i Cinesi hanno largamente utilizzato i minerali di cobalto per colorare le porcellane), negli ultimi cinquant'anni il cobalto è divenuto un elemento di grande importanza industriale. A causa delle sue considerevoli proprietà catalitiche, diversi derivati del cobalto trovano larga utilizzazione nell'industria chimica. Il numero di processi industriali che vengono realizzati sfruttando l'effetto catalitico del cobalto diviene sempre più elevato.
Irradiato in un reattore nucleare, il cobalto metallico si trasforma in 6207Co, che viene utilizzato sia in medicina che in alcuni settori dell'industria (sterilizzazione di alimenti, polimerizzazione, ecc.). Alcuni sali organici del cobalto, data la loro proprietà di accelerare i processi ossidativi, vengono impiegati allo scopo di aumentare la velocità di essiccamento degli oli presenti nei colori e nelle vernici.
Il 70-80% del cobalto prodotto viene utilizzato come metallo, ma raramente lo si usa puro: lo si adopera principalmente nella formazione di leghe. Se ne conoscono di diversi tipi e di diversa composizione. Tra le tante possiamo ricordare le leghe impiegate nella costruzione di materiali resistenti alle alte temperature e di materiali magnetici, quelle resistenti all'usura e alla corrosione, quelle dotate di scarsa dilatazione termica, quelle impiegate nella costruzione di protesi dentarie.
8. Cromo.
Lo 0,09% della crosta terrestre è costituito da cromo. Fu isolato per la prima volta nel 1797 da Vauquelin dal cr0mato di piombo. Lo si trova nella cromite o ossido doppio di ferro e di cromo, Cr2O3•FeO, e nella crocoite, PbCrO4, ma solo il primo minerale può essere utilizzato vantaggiosamente per l'estrazione del cromo.
Giacimenti consistenti sono presenti in URSS, in Sud Africa, nelle Filippine, in Turchia e in Rhodesia. L'andamento della produzione mondiale di cromo dal 1960 al 1978 viene riportato nella fig. 5 e nella tab. VIII.
Il cromo è un metallo molto resistente all'usura e all'abrasione, fonde a 1.875 °C e ha un peso specifico di 7,2 g cm-3.
Il cromo viene utilizzato per la cromatura elettrolitica dei metalli. I suoi sali trovano largo impiego nell'industria della ceramica, nell'industria conciaria, nella fotografia a colori e nell'industria tessile. Data la facilità con cui forma delle leghe con il ferro, il manganese e il tungsteno, una notevole quantità del cromo prodotto è impiegata per la preparazione di leghe. Negli acciai il cromo è un costituente minore, ma il dosaggio opportuno della percentuale di cromo conferisce alla lega particolari proprietà: per esempio, negli acciai inossidabili, largamente impiegati nella costruzione di utensili da cucina, di strumenti chirurgici, ecc., la percentuale di cromo è superiore al 10%. Esistono anche leghe, utilizzate soprattutto nell'industria aerospaziale e nella costruzione di turbine a gas, di cui il cromo è il componente principale.
9. Ferro.
Il ferro è presente nella crosta terrestre nella misura del 4,65%: dei metalli, solo l'alluminio è presente in percentuale maggiore. L'utilizzazione del ferro ha antiche origini: sembra che nell'antico Egitto la lavorazione di questo metallo fosse già praticata fin dal 2000 a. C. La tecnica di estrazione del ferro dai suoi minerali ha subito diverse modifiche e miglioramenti nel corso dei secoli, tuttavia solo nel XIX secolo la tecnologia ha raggiunto i livelli necessari per permetterne l'attuale massiccio impiego in quasi tutti i settori industriali.
I metalli da cui si estrae il ferro sono abbastanza numerosi. Possiamo ricordare la magnetite, Fe3O4, o calamita naturale, l'ematite, Fe2O3, anch'essa dotata di proprietà magnetiche. Vi sono poi gli idrati dell'ematite, e cioè la limonite, Fe2O3•nH2O, la goethite, Fe2O3•H2O, e altri di natura più complessa; sono utilizzabili anche la siderite, Fe2CO3, e la pirite, FeS2, le cui ceneri, derivate dall'arrostimento del minerale per la produzione di acido solforico, possono essere utilizzate per la produzione del ferro.
I giacimenti più ricchi sono situati nell'URSS, in Brasile e nel Canada, ma sono presenti giacimenti consistenti anche in diverse zone dell'Africa e del Sudamerica, negli Stati Uniti e in Australia.
Il contenuto in ferro dei composti puri è ovviamente variabile a seconda del minerale considerato, ma si mantiene sempre su livelli abbastanza elevati: nella magnetite il 72,4% è costituito da ferro, mentre nella siderite la percentuale scende al 48,3%. In realtà, data la presenza di ganga, la percentuale di metallo presente nei materiali che vengono comunemente trattati è inferiore, ma sempre oscillante intorno al 40%. Così, nel caso del ferro, i processi di concentrazione, che hanno una loro incidenza sui costi di estrazione, sono generalmente di modeste proporzioni. Nei concentrati utilizzati per la preparazione del ferro, il tenore medio si aggira intorno al 55%.
Per quanto riguarda l'utilizzazione di questo metallo, si può dire che è presente praticamente in quasi tutte le strutture dell'attuale civiltà. Dalle macchine alle costruzioni, dagli apparecchi di precisione agli utensili più comuni, la presenza del ferro è diffusissima.
Leghe del ferro che hanno un'importanza decisiva nel mantenimento e probabilmente nello sviluppo dell'attuale livello tecnologico sono la ghisa e l'acciaio. La ghisa è una lega ferro-carbonio con un tenore di carbonio che mediamente oscilla intorno al 4,3%. Possono essere presenti altri componenti, come silicio, fosforo, zolfo, manganese e anche piccole quantità di nichel, cromo, arsenico e di gas (per esempio, azoto, ossigeno, idrogeno). La natura dei componenti può variare a seconda del minerale da cui la ghisa è ottenuta. A seconda degli usi, si possono avere le ghise da fonderia, utilizzate come materiale strutturale, e le ghise da acciaieria, che sono intermedi per la produzione dell'acciaio.
Con il termine acciaio si intende una lega ferro-carbonio con un tenore di carbonio inferiore all'1,98%, mediamente compreso tra lo 0,05% e l'1,5%. Gli acciai possono essere suddivisi in acciai al carbonio e acciai legati. Gli acciai al carbonio contengono quasi esclusivamente ferro e carbonio. L'eventuale presenza, in quantità molto piccole, di elementi diversi è dovuta o alla necessità di ottenere speciali caratteristiche o, quando si tratta di elementi indesiderabili, all'impossibilità di eliminarli.
Gli acciai legati possono essere suddivisi in acciai basso legati e in acciai ad alto tenore di lega. I primi contengono alcuni elementi come nichel, cromo, molibdeno e vanadio in percentuali variabili, in genere intorno all'1%. I secondi contengono elementi diversi dal ferro e dal carbonio in percentuale anche piuttosto elevata: l'acciaio 18-8, la cui sigla è AISI 304, contiene lo 0,1% di carbonio, il 18% di cromo e l'8% di nichel.
Dal 1959 al 1974 il consumo mondiale di acciaio è passato da 306 a 710 milioni di tonnellate. Nella fig. 6 viene riportato l'andamento della produzione mineraria mondiale negli anni che vanno dal 1960 al 1979. Nella tab. IX vengono riportati alcuni dati riferiti ai principali paesi produttori negli ultimi vent'anni.
10. Fosfati.
Lo 0,1-0,2% della crosta terrestre è costituito da fosforo sotto forma di fosfati, per esempio fosforiti e apatiti. La grande importanza del fosforo risiede nel fatto che viene impiegato nella preparazione di fertilizzanti: la produzione di fertilizzanti assorbe un'altissima percentuale del fosforo estratto. Del resto, il fosfato, essenzialmente attraverso la formazione dell'ATP (adenosintrifosfato), ma anche attraverso la formazione di altri coenzimi, partecipa a tutti i processi di ‛trasferimento di energia' della cellula. Un livello insufficiente di fosfato può causare grossi squilibri a livello metabolico, squilibri che si riflettono generalmente in un mancato e/o ritardato sviluppo, e in una insufficiente fioritura e fruttificazione. Una certa quantità di fosforo, comunque, viene impiegata anche nella preparazione di detersivi sintetici, di insetticidi e di mangimi animali. L'andamento della produzione mondiale di fosfati viene riportato nella fig. 7. Come si può vedere dalla tab. X, tra i maggiori paesi produttori di fosfati possiamo ricordare gli Stati Uniti, l'URSS, il Marocco e la Cina.
Per la preparazione di fertilizzanti, i minerali che contengono fosfati insolubili vengono trattati con acidi, per ottenerne composti solubili o comunque in grado di essere solubilizzati al contatto con le radici delle piante. I concimi fosfatici possono essere suddivisi in semplici (quando cioè contengono solamente fosforo, come nel caso del superfosfato, Ca(H2PO4)2), binari (quando oltre al fosforo è presente anche azoto o potassio, come nel fosfato monoammonico, NH4H2PO4, o nei polifosfati, sali di ammonio degli acidi superfosforici ottenuti per neutralizzazione con ammoniaca) e ternari (quando il fosforo, l'azoto e il potassio sono presenti contemporaneamente). Un esempio di quest'ultimo tipo di fertilizzanti sono le miscele di fosfato monoammonico con nitrato di potassio.
11. Nichel.
Il nichel costituisce circa lo 0,006% della litosfera e il numero di giacimenti è piuttosto basso. La sua utilizzazione sotto forma di leghe naturali di ferro e nichel è nota all'uomo fin dalla preistoria. Tuttavia, l'elemento fu riconosciuto come tale solamente nel 1751 da A. Cronstedt. Nel 1824 una lega di nichel-rame-zinco venne utilizzata per la produzione di vasellame.
In genere il nichel si trova sotto forma di solfuri come la pentlandite, (Fe, Ni)9S8, la millerite, NiS, la polidimite, Ni3FeS5, arseniuri come la niccolite, NiAs, e antimoniuri (in giacimenti di origine magmatica). È anche significativa la sua presenza sotto forma di silicati come la garnierite, (NiMg)6Si14O10(OH)8, e di ossidi come la limonite nichelifera, (Ni, Fe)2O3•nH2O. Come elemento è presente, insieme al ferro, nelle meteoriti precipitate sulla Terra; il ferro meteorico contiene dal 5 al 15% di nichel.
Le maggiori riserve di nichel sono situate nella Nuova Caledonia, in Indonesia, in Canada e in URSS. Giacimenti significativi sono presenti anche nelle Americhe, in Australia, in Africa, in Giappone, in Finlandia, in Grecia e nelle Filippine. Nella fig. 8 viene indicato l'andamento della produzione mineraria mondiale di nichel. Nella tab. XI vengono riportati alcuni dati relativi ai principali paesi produttori nel 1960, 1970 e 1979.
Il processo di estrazione del nichel varia a seconda del tipo di minerale da cui deve essere estratto. Tuttavia è possibile distinguere tra due tipi di metallurgia: quella dei minerali solforati e quella dei silicati.
Il nichel fonde a 1.455 °C, è un metallo duttile e malleabile, il suo peso specifico è 8,90 g cm-3, la sua conducibilità elettrica è circa sei volte inferiore a quella del rame, è ferromagnetico (30% circa del valore del ferro). È un metallo estremamente resistente all'ossidazione e alla corrosione. Proprio queste ultime caratteristiche lo rendono un metallo di grande interesse in diversi settori della più moderna tecnologia. Il nichel viene largamente impiegato nella preparazione di leghe speciali (se ne conoscono circa 3.000). Dato che la presenza del nichel migliora la resistenza meccanica degli acciai, più del 50% del nichel viene utilizzato come componente di leghe con il ferro. La percentuale di nichel presente può variare notevolmente a seconda degli impieghi cui è destinato l'acciaio: 0,5-9% per motori di mezzi adibiti a trasporto, fino al 26% negli acciai inossidabili e resistenti alle alte temperature, 14-28% in leghe destinate alla fabbricazione di magneti permanenti, 30-90% nelle leghe magnetiche.
Il 25% del nichel prodotto è destinato alla preparazione di leghe con altri metalli. La lega rame-nichel è utilizzata nell'industria chimica (più del 50% di nichel), nella fabbricazione di monete (circa 25% di nichel) e nella fabbricazione di resistenze elettriche (circa 45% di nichel). La lega nichel-cromo, dotata di notevole resistenza al calore, è utilizzata per la realizzazione di motori a reazione, turbine (2-73% di nichel) e resistenze elettriche (80-85% di nichel). La lega nichel-alluminio viene utilizzata per la costruzione di pezzi di motore di automobile e di aereo (1-5% di nichel). In certe circostanze, nell'industria chimica vengono utilizzate leghe nichel-ferro-cromo (6-20% di nichel).
Come si può vedere nella tab. XII, dal 1975 al 1979 il consumo mondiale di nichel è aumentato all'incirca del 36%.
12. Rame.
Il rame, il cui nome latino, cuprum, deriva da Cipro, l'isola in cui erano e sono tuttora presenti importanti giacimenti, non è un metallo estremamente diffuso nella litosfera, dato che ne costituisce appena lo 0,0047%.
Il rame è presente in natura sia sotto forma di sali sia allo stato libero. Tra i primi possiamo ricordare i solfuri di rame, che si trovano nelle rocce ignee o eruttive, come la bornite, Cu5FeS4, e la calcopirite, CuFeS2; i minerali contenenti ossigeno, derivati dall'azione degli agenti atmosferici, come la cuprite, Cu2O, la malachite, CuCO3•Cu(OH)2, l'azzurrite, 2CuCO3•Cu(OH)2, e la crisocolla, CuSiO3•2H2O; i solfuri semplici come la covellite, CuS, e la calcosina, Cu2S.
Come l'oro e l'argento, il rame è presente in natura anche allo stato libero, e questo fatto ne ha permesso l'utilizzazione fin dai tempi più remoti. Alcuni oggetti di rame sembrano essere stati confezionati fin dal Neolitico e comunque già nel 3500 a. C. il bronzo, una lega di rame e stagno, era largamente utilizzato. Anzi, la cosiddetta età del Bronzo, preceduta dall'età della Pietra e seguita dall'età del Ferro (verso il 1800 a. C.), segna una tappa fondamentale nella storia della civiltà.
Solamente nel XIX secolo, tuttavia, la produzione di rame ha raggiunto il livello di razionalizzazione necessario per consentirne un impiego massiccio. La scoperta dell'elettricità ha sicuramente contribuito ad aumentare notevolmente la richiesta di questo metallo (v. sotto) sollecitandone l'immissione sul mercato in quantitativi sempre più elevati. Si è dovuti passare così dallo sfruttamento dei soli filoni più ricchi (con un tenore in metallo del 15-20%) all'estrazione del rame anche da miniere relativamente povere; attualmente si estrae il metallo da giacimenti che hanno un tenore dello 0,4-0,5%. Al giorno d'oggi, l'arricchimento del minerale prima del processo metallurgico è praticamente una necessità.
Sembra che fino alla metà del XVIII secolo siano state prodotte circa 8.000 tonnellate di rame, cioè meno di quanto se ne produce oggi quotidianamente (v. fig. 9 e tab. XIII). Dal 1976 al 1979 il consumo di rame raffinato è aumentato del 16% circa (v. tab. XIV) e non sembra che questa tendenza debba modificarsi.
Il rame fonde a 1.083 °C e ha un peso specifico di 8,93 g cm-3. Il suo colore naturale è rosa salmone, a volte rosso a seguito di processi ossidativi. Esposto all'aria si ricopre di una patina verde di solfato basico di rame che protegge il metallo da ulteriori processi ossidativi. Viene impiegato in massima parte come metallo puro piuttosto che in lega con gli altri metalli. Data la sua elevata conducibilità elettrica (v. tab. XV), il rame trova largo uso nelle linee di trasferimento dell'energia elettrica. Circa il 40% del rame prodotto viene infatti impiegato per questo uso. Anzi, per questo scopo è assolutamente necessario avere a disposizione rame a elevato livello di purezza (intorno al 99,9%). La presenza di piccole quantità di impurezze può pregiudicare in modo rilevante le proprietà del rame: per esempio, la presenza dello 0,1% di arsenico può abbassare la sua conducibilità del 3%.
Tra le leghe, che interessano circa il 35% della produzione, possiamo ricordare il bronzo (una lega rame-stagno), che è utilizzato nella costruzione di organi meccanici come cuscinetti e ingranaggi (12-20% di stagno), nella costruzione di campane (24% di stagno), nella scultura (in questo caso viene aggiunto anche lo zinco) e per la fabbricazione di monete e medaglie.
Anche l'ottone, una lega rame-zinco, ricopre un ruolo importante, anzi, tra le leghe che non utilizzano ferro è tra le più importanti. L'aggiunta di zinco al rame ne aumenta la durata e la resistenza e, dato il costo inferiore dello zinco, in diverse applicazioni le leghe rame-zinco sostituiscono il rame puro. Anche il colore varia notevolmente in funzione della percentuale di zinco: con il 10% di zinco la lega ha un colore rosa, con il 15% assume un color oro, con il 20-25% il colore è giallo, con il 40-45% è ancora rosa e infine con il 50% o più diventa biancogrigio.
Il 15% del rame prodotto viene utilizzato in composti che hanno azione antiparassitana e il 10% viene impiegato in applicazioni diverse, tra cui possiamo ricordare la verniciatura delle chiglie delle navi: per questo scopo vengono utilizzati l'ossido rameoso, Cu2O, l'arsenito, Cu3(AsO3)2, e l'arseniato, Cu3(AsO4)2.
13. Stagno.
Lo stagno è presente nella crosta terrestre in misura dello 0,00025% circa ed è noto, sotto forma di metallo, fin dall'antichità. Teofrasto nel 320 a. C. ne riporta l'uso come rivestimento del ferro per proteggerlo dalla corrosione.
La principale fonte di stagno è la cassiterite, SnO2, i cui giacimenti principali si trovano in Bolivia, Nigeria, Malesia e Indonesia. Anche lo Zaire, l'Australia e l'Inghilterra possiedono importanti giacimenti stanniferi.
Lo stagno ha dieci isotopi stabili. Può esistere in diverse modificazioni cristalline a seconda della temperatura: a temperatura ordinaria si trova come stagno β, bianco, peso specifico 7,28 g cm-3, mentre al di sotto di 13,2 °C si trasforma in stagno α, peso specifico 5,76 g cm-3, con un aumento di volume rispetto allo stagno β, cosa che lo rende facilmente frantumabile in polvere (la cosiddetta peste dello stagno). Al di sopra di 161 °C esiste sotto forma di stagno γ, estremamente fragile.
Lo stagno fonde a 231,9 °C. Esso è stabile all'aria e resistente agli acidi organici, come l'acido acetico e l'acido citrico, e agli alcali diluiti. Queste caratteristiche lo hanno reso e lo rendono tuttora estremamente adatto per la fabbricazione di contenitori (in banda stagnata) per alimenti, ed è questa la sua attuale, principale utilizzazione. Sotto forma di leghe con altri metalli trova poi applicazione in svariati settori. La lega stagno(75)-antimonio(12,5)-rame(12,5) viene utilizzata per la costruzione di metalli antifrizione, la lega stagno(26)-antimonio(15)-piombo(58)-rame(1) per caratteri di stampa, la lega stagno(82)-antimonio(18) per la creazione di oggetti d'arte, ecc. Possiamo inoltre ricordare il bronzo, una lega dello stagno con il rame, di cui si è già trattato nel capitolo riguardante il rame.
L'andamento della produzione mondiale di stagno dal 1960 al 1979 è riportato nella fig. 10. Nella tab. XVI vengono riportati i principali paesi produttori negli anni 1960, 1970 e 1979. Le variazioni dei consumi mondiali sono riportate nella tab. XVII.
14. Uranio.
L'uranio è presente in natura nella percentuale del 2×10-4%. Klaproth, che scoprì questo elemento nel 1789 (sotto forma di UO2, come fu dimostrato successivamente), lo chiamò uranio in omaggio alla scoperta di Urano, avvenuta in quell'epoca. L'uranio metallico fu ottenuto per la prima volta da Péligot, nel 1841, per riduzione del tetracloruro di uranio, UCl4.
Praticamente inutilizzato fino a poche decine di anni fa, dopo la scoperta della fusione nucleare su questo elemento si sono focalizzati gli interessi dell'industria nucleare, mettendo in moto un meccanismo di sfruttamento massiccio. Data la grandissima importanza dell'uranio, tutti i suoi giacimenti e tutti i suoi sali (carbonati, fosfati, ossidi, silicati, tantalati, uranati, ecc.) sono utilizzati per l'estrazione del minerale, cui vanno associati indispensabili processi di arricchimento.
Giacimenti molto importanti sono stati scoperti in Sud Africa, Namibia, Nigeria, Canada, Stati Uniti e Australia. Anche in URSS sono presenti giacimenti significativi. Nella fig. 11 e nella tab. XVIII vengono riportati alcuni dati relativi alla produzione di uranio negli anni che vanno dal 1960 al 1979. Alcuni dati relativi alle riserve accertate e valutate, suddivise in funzione del costo per chilogrammo di uranio (minore di 80 dollari e compreso tra 80 e 130 dollari), sono riportati nella tab. XIX.
L'uranio è un metallo bianco brillante, che fonde a 1.132 °C, ha un peso specifico pari a 19,05 g cm-3 e fa parte del gruppo degli attinidi. Allo stato naturale è presente sotto forma dei tre isotopi 238U (99,28%), 235U (0,71%) e 234U (0,006%). L'isotopo che subisce il processo di fissione e a cui, quindi, sono legate le speranze di ‛autonomia' energetica, da un lato, e le polemiche di numerosi gruppi contrari alla scelta nucleare, dall'altro, è l'235U. L'uranio è in grado di fornire leghe con un gran numero di metalli come, per esempio, alluminio, cromo, ferro, molibdeno, silicio, ecc., ma la sua importanza è totalmente collegata all'enorme quantità di energia di cui può essere la fonte attraverso il processo di fissione. Per esempio, 100 grammi di uranio, trasformati completamente per fissione, corrispondono a circa 2.200.000 kWh o, se si vuole, possono produrre energia termica corrispondente a circa 1.310 barili di petrolio grezzo. Non è certamente questa la sede per entrare nel merito dell'opportunità o meno di effettuare una scelta sicuramente impegnativa e, tutto sommato, non del tutto priva di incognite; ma certamente i paesi industrializzati e quelli che vogliono diventarlo non hanno di fronte, almeno nel breve e medio termine, alternative altrettanto efficaci all'energia ricavata dal petrolio. Come in altri campi, anche in questo il problema non è di facile soluzione. Da un lato, infatti, esiste l'energia nucleare, vantaggiosa per certi aspetti, minacciosa per altri, la cui introduzione è spesso osteggiata da gruppi di pressione più o meno autonomi, dall'altro esiste un'energia ricavata dal petrolio, non più a buon mercato, le cui riserve si vanno consumando rapidamente e i cui paesi produttori costringono i paesi industrializzati a non facili equilibri politici. In ogni caso, diversi paesi hanno sviluppato da tempo una precisa politica nucleare installando numerose centrali: alla fine del 1979 esistevano 15 centrali nucleari nella Repubblica Federale di Germania, 16 in Francia, 33 in Inghilterra, 31 in URSS, 23 in Giappone e 74 negli Stati Uniti; in Italia solo 4.
Nella tab. XX vengono riportati alcuni dati relativi alla presumibile richiesta di uranio nel mondo occidentale nei prossimi anni. L'aumento del fabbisogno di uranio potrà essere soddisfatto se si arriverà alla scoperta di nuovi giacimenti e alla realizzazione di nuovi impianti di produzione.
I finanziamenti necessari per raggiungere questi traguardi sono addirittura ciclopici; le cifre previste si aggirano intorno alle migliaia di milioni di dollari (forse 20.000). I paesi consumatori, in cambio di aliquote di prodotto, potrebbero partecipare al finanziamento di queste opere, ma, ancora una volta, le scelte politiche, più che le difficoltà tecniche, avranno sicuramente un ruolo dominante.
15. Zinco.
Lo zinco costituisce lo 0,008% della crosta terrestre. I primi accenni a questo metallo risalgono al XVI secolo, ma solamente nel XVIII secolo fu messa a punto la preparazione dello zinco per distillazione. La tecnica di estrazione dello zinco dalla calamina, ZnCO3, è comunque opera di J. J. D. Dony che ne ottenne il brevetto nel 1810.
In natura lo zinco esiste essenzialmente sotto forma di carbonato (smithsonite o calamina) e sotto forma di solfuro (blenda, ZnS). L'attuale, principale fonte di zinco è la blenda. La percentuale di zinco presente nei minerali è, comunque, piuttosto bassa (tra l'altro, nei minerali, lo zinco è in genere associato al piombo e, spesso, anche al rame e al ferro), per cui si rende necessaria l'applicazione di processi di arricchimento.
Lo zinco metallico viene ottenuto per via metallurgica, attraverso la riduzione dell'ossido di zinco, ottenuto, per esempio, per arrostimento della blenda, oppure per via elettrochimica, per elettrolisi del solfato di zinco, ottenuto trattando il minerale arrostito con acido solforico diluito.
L'andamento della produzione mondiale di zinco dal 1960 al 1979 è riportato nella fig. 12. Tra i maggiori paesi produttori (v. tab. XXI) possiamo ricordare il Canada, l'URSS, l'Australia, il Perù, gli Stati Uniti e il Messico.
Lo zinco fonde a 419 °C, è un metallo di peso specifico pari a 7,14 g cm-3, di colore bianco-bluastro, malleabile e poco duttile. Lo zinco si presenta sotto forma di lingotti, laminati, fili, pasticche, polvere; tra gli usi più comuni possiamo ricordare il suo impiego nella realizzazione di processi di zincaggio elettrolitico, di protezione catodica, nella costruzione di edifici (sottosoffitti, tetti, ecc.), nella preparazione di vernici anticorrosive, nella fabbricazione di pile e di ossidi di zinco speciali. Assai spesso è utilizzato sotto forma di leghe: ricordiamo le leghe con il piombo o con l'alluminio, impiegate in processi di galvanizzazione, e le leghe con il rame e il titanio che trovano larga applicazione nelle costruzioni. Nella tab. XXII vengono riportati alcuni dati relativi al consumo mondiale di zinco negli anni che vanno dal 1975 al 1979.
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Risorse del fondo marino: aspetti giuridici
SOMMARIO: 1. Introduzione. □ 2. La libertà dei mari e di sfruttamento delle risorse marine come regola fondamentale del diritto marittimo fino alla seconda guerra mondiale. □ 3. La crisi del regime di libertà negli ultimi trent'anni e le sue cause. □ 4. Prima tappa della crisi del regime di libertà: i poteri dello Stato costiero sulla piattaforma continentale. □ 5. Seconda tappa della crisi del regime di libertà: i poteri dello Stato costiero nella zona economica esclusiva. □ 6. Rapporti tra piattaforma continentale e zona economica esclusiva. □ 7. Problemi di delimitazione delle aree del fondo marino sottoposte alla giurisdizione costiera. □ 8. Carattere iniquo della distribuzione delle risorse marine tra gli Stati costieri. □ 9. Il regime delle risorse al di là della giurisdizione costiera: proposte per una disciplina futura. □ 10. La situazione attuale. □ 11. Considerazioni conclusive. □ Bibliografia.
1. Introduzione.
Lo sfruttamento delle risorse del suolo e del sottosuolo marino, di cui solo negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale cominciò a profilarsi la praticabilità, è ai nostri giorni un fenomeno in continua evoluzione grazie ai rapidissimi progressi della tecnica.
Come le ricerche oceanografiche hanno messo in luce, le suddette risorse, soprattutto quelle minerarie, sono così ingenti che, se si provvederà negli anni futuri a razionalizzare e sviluppare i metodi di sfruttamento, molti dei problemi energetici e di reperimento di materie prime, incombenti sull'umanità, potranno essere risolti. Per limitarci a qualche dato elementare, ricordiamo che già allo stato attuale il petrolio e il gas naturale estratti dal fondo marino (l'estrazione è ancora limitata alle zone vicine alla costa) rappresentano rispettivamente circa il venti e il dieci per cento della produzione mondiale e che simili percentuali, secondo stime attendibili, sono destinate almeno a raddoppiare nel giro di una decina d'anni. Pronti per lo sfruttamento (in base a tecniche messe a punto negli Stati Uniti d'America da società private appositamente costituite, ma non ancora entrate in azione per i motivi politici e giuridici che più avanti esporremo) sono a loro volta i noduli di manganese presenti sotto forma di ammassi sui fondali degli oceani Pacifico, Atlantico e Indiano, a profondità di circa cinquemila metri, e contenenti non solo manganese ma anche ferro, alluminio e piccole quantità di rame, nichel e cobalto. Notevole è infine l'importanza che viene data, tra gli altri depositi, ai cosiddetti fanghi metalliferi, i quali consistono di straordinarie concentrazioni di vari metalli, in particolare di ferro, zinco, rame, piombo, argento e oro.
Come era prevedibile, la possibilità di sfruttare risorse di tal genere, e la conseguente apertura di una sorta di nuova frontiera per l'umanità, ha determinato tra gli Stati una situazione non dissimile da quella che l'apertura del lontano West determinò a suo tempo tra i pionieri americani: corsa all'accaparramento delle zone da sfruttare, ricorso a più o meno improvvisati titoli giuridici per giustificare il possesso delle medesime, dissidi profondi e tendenza, talvolta palese, talvolta mascherata, all'imposizione della legge del più forte. Tutto ciò trova puntuale riscontro nel dibattito che da anni si svolge in seno alle Nazioni Unite, e del quale non si intravede la fine, circa il regime giuridico più appropriato degli spazi marini. Tale dibattito, caratterizzato da toni polemici e spesso drammatici, dalla contrapposizione non solo tra paesi ricchi e paesi poveri ma anche e soprattutto tra paesi geograficamente avvantaggiati e paesi geograficamente svantaggiati, dalla difesa della tradizione da una parte e dall'ansia (non sempre razionalmente giustificabile) di rinnovamento dall'altra, si ricollega strettamente all'altrettanto interminabile dibattito nel quale è oggi impegnata tutta la comunità degli Stati e che ha per oggetto l'instaurazione di un nuovo ordine economico internazionale fondato sulla collaborazione anziché sul profitto.
Di fronte a simili contrasti di opinione e di azione diventa obiettivamente difficile indicare con esattezza quali principi generali di diritto internazionale siano oggi applicabili allo sfruttamento delle risorse sottomarine. Si sa che i principi del diritto internazionale si formano per consuetudine, attraverso i comportamenti degli stessi Stati e quindi come regole cui più o meno tutti i paesi spontaneamente si conformano. Orbene, proprio la scoperta di nuovi orizzonti circa lo sfruttamento delle risorse dei mari e degli oceani, da un lato, e la presenza di un gran numero di Stati di recente indipendenza (i paesi del Terzo Mondo rappresentano ormai la maggioranza dei membri della comunità internazionale), che si distinguono per il loro generico atteggiamento di contestazione verso qualsiasi regola formatasi in epoca passata, dall'altro, hanno messo in crisi alcuni dei principi del diritto internazionale marittimo consolidati attraverso i secoli. L'epoca presente è cosi caratterizzata dalla ricerca di regole più aderenti alle nuove esigenze e tali da attuare soluzioni di compromesso tra opposti interessi. Il travaglio che si accompagna a siffatta ricerca è testimoniato dal numero di conferenze intergovernative indette dalle Nazioni Unite per la codificazione del diritto marittimo, ossia per la predisposizione di convenzioni internazionali multilaterali capaci di raccogliere il consenso della più gran parte degli Stati e quindi di sostituirsi ai vecchi principi consuetudinari. Già nel 1958, al termine di un intenso lavoro preparatorio a opera della Commissione di diritto internazionale (l'organo dell'ONU di cui sono membri giuristi di vari paesi e che ha come compito istituzionale quello di promuovere la codificazione e lo sviluppo progressivo del diritto internazionale), si tenne a Ginevra una prima Conferenza di diritto marittimo, dalla quale sortirono quattro grandi Convenzioni successivamente ratificate da una cinquantina di paesi: come avremo modo di vedere, una di queste Convenzioni si ricollega strettamente al nostro tema, avendo per oggetto lo sfruttamento della piattaforma continentale. Ben presto però le norme ginevrine apparvero superate e comunque furono in larga misura respinte da quei paesi che, avendo in quegli anni raggiunto l'indipendenza per effetto della decolonizzazione, non avevano partecipato alla relativa Conferenza. Cosicché, verso la fine degli anni sessanta, precisamente nel 1967, ebbe inizio all'Assemblea generale delle Nazioni Unite un'ampia e accanita discussione sostanzialmente centrata sulla revisione e l'integrazione delle norme adottate nel 1958, e prevalentemente dedicata proprio alla disciplina dello sfruttamento delle risorse del fondo marino. Tale discussione si protrasse per vari anni e diede luogo all'apertura, nel 1974, di una nuova assise, la terza Conferenza internazionale sul diritto del mare (una seconda Conferenza, di scarso interesse e su temi assai limitati, si era tenuta, senza successo, nel 1960). La terza Conferenza ha tenuto sessioni a Caracas nel 1974, a Ginevra nel 1975, a New York nel 1976, 1977, 1978, e nel 1979 due sessioni a Ginevra e a New York. La Conferenza è tuttora in corso. L'accordo su certi punti è stato raggiunto, ma il disaccordo su certi altri, di fondamentale importanza, appare ancora insanabile. Quando poc'anzi dicevamo che non si intravede la fine del dibattito in corso in seno alle Nazioni Unite sul regime giuridico degli spazi marini, intendevamo per l'appunto riferirci ai lavori della terza Conferenza sul diritto del mare!
Si capisce dunque perché lo stato attuale del diritto internazionale in tema di risorse marine non può essere descritto in termini semplici, attraverso l'indicazione di qualche regola. Ciò che occorre è piuttosto uno sforzo di sintesi tra il vecchio, il nuovo e il nuovissimo. Occorre partire, come faremo, dai vecchi principi per rendersi conto delle innovazioni che via via sono state a essi apportate nell'ultimo trentennio e per stabilire su quali basi una nuova disciplina si vada, sia pur faticosamente e tra mille difficoltà, formando.
2. La libertà dei mari e di sfruttamento delle risorse marine come regola fondamentale del diritto marittimo fino alla seconda guerra mondiale.
Si può dire che fino alla seconda guerra mondiale il principio primo e fondamentale di tutto il diritto internazionale marittimo fosse il principio della ‛libertà dei mari'. Tale principio si era consolidato attraverso i secoli. Esso aveva trovato nel sec. XVII la sua più valida difesa, sul piano dottrinale, nell'opera Mare liberum dell'insigne giurista olandese, e padre del diritto internazionale moderno, Ugo Grozio; contemporaneamente, sul piano diplomatico, il governo olandese ne aveva promosso l'osservanza, vincendo le resistenze di quegli Stati che, come l'Inghilterra, la Spagna e il Portogallo, avanzavano pretese al controllo esclusivo di vaste e talvolta vastissime estensioni marine e oceaniche. Mai, dopo di allora, il principio era stato più posto seriamente in discussione nella pratica delle relazioni internazionali.
Il principio della libertà dei mari presentava, come tutti i principi di libertà, un aspetto positivo e uno negativo. Dal punto di vista positivo esso garantiva a tutti gli Stati, e quindi alle navi e agli individui appartenenti ai vari Stati, il diritto di usare ad libitum degli spazi marini, di navigarvi, di pescarvi, in una parola di trarne ogni possibile utilità. Negativamente, esso comportava che l'utilizzazione del mare non potesse spingersi fino al punto da sopprimere ogni possibilità di utilizzazione altrui; esso comportava, in altri termini, il divieto di trasformare l'uso del mare in una sorta di controllo monopolistico su questa o quella zona da parte di questo o quello Stato. La tesi correntemente sostenuta per esprimere sia l'aspetto negativo che quello positivo del principio di libertà, tesi mutuata dai giuristi romani (i quali peraltro l'avevano coniata per i rapporti interindividuali e non per quelli internazionali) era che il mare, al pari dell'aria, dovesse considerarsi come res communis omnium.
Norma fondamentale del diritto internazionale marittimo, il principio di libertà non soffriva che pochissime e tassative eccezioni. L'unica regola eccezionale di rilievo era quella formatasi in relazione ai mari adiacenti alle coste. Si riteneva cioè che, nei mari adiacenti, lo Stato costiero potesse esercitare il proprio potere sovrano. Entro quali limiti? In effetti, fino alla seconda metà del secolo scorso era addirittura rimasta estranea alla pratica degli Stati (anche se era stata utilizzata su di un piano meramente teorico e dottrinale) la figura del ‛mare territoriale', inteso come una fascia di mare costiero equiparata al territorio dello Stato e quindi sottoposta in linea di massima, così come il territono di terraferma, alla piena sovranità dello Stato rivierasco. La prassi si era sempre orientata, al contrario, nel senso che ai mari adiacenti si estendesse il principio di libertà, salva soltanto la possibilità per lo Stato costiero di imporre le proprie leggi alle navi altrui in due campi ben determinati e precisamente per regolamentare la pesca e per reprimere il contrabbando. È significativo che un simile orientamento prevalesse in Inghilterra, e dunque nella massima potenza marittima dell'epoca, ancora nel 1876, allorché, nel caso del vapore Franconia, i giudici di Sua Maestà britannica (si trattava di uno dei più autorevoli organi giudiziari, la Corte dei casi riservati alla Corona) declinarono la propria potestà giurisdizionale in ordine a una collisione avvenuta a sole due miglia dalla costa inglese, sostenendo per l'appunto che si trattasse di spazio sottratto alla sovranità territoriale britannica. Solo più tardi, tra la fine del secolo scorso e gli inizi dell'attuale, le pretese degli Stati a considerare il mare adiacente alle coste come proprio territorio si andarono intensificando, non incontrarono resistenze e proteste, e diedero in definitiva vita a una vera e propria norma consuetudinaria a esse conforme. Ma si trattò pur sempre, fino alla fine del periodo che stiamo considerando e cioè fino alla seconda guerra mondiale, di una eccezione assai blanda, e spazialmente circoscritta, al principio della libertà dei mari: basti pensare che, secondo la tesi strenuamente difesa da talune potenze marittime, il mare territoriale non si sarebbe dovuto estendere oltre le tre miglia misurate dal limite della bassa marea (cosiddetta politica inglese delle tre miglia), e che anche gli Stati più ‛territorialisti' non rivendicavano a quell'epoca un'estensione maggiore delle dodici o quindici miglia.
È il caso di insistere sul punto che, a parte l'eccezione ora indicata, il principio di libertà era sentito come obbligatorio in ordine a ‛tutti' i possibili usi del mare e quindi non solo alla navigazione ma anche allo sfruttamento delle risorse marine, ossia all'esercizio della pesca, che era allora l'unica risorsa sfruttabile. Anzi, proprio in materia di pesca, gli Stati si mostravano quanto mai restii a tollerare eccezioni al principio del libero uso del mare; cosicché venivano costantemente scoraggiati i tentativi, cui in qualche occasione si lasciavano andare gli stessi paesi ‛liberisti', diretti a impedire agli stranieri, o magari soltanto a regolamentare, la pesca oltre i limiti del mare territoriale o comunque oltre le zone di mare situate nelle immediate vicinanze delle coste. Tentativi del genere non riuscivano neppure a Stati particolarmente potenti: quando, ad es., la Russia zarista nella prima metà e gli Stati Uniti nella seconda metà del secolo scorso decisero di adottare una serie di misure restrittive circa la pesca delle foche al largo dell'Alasca, pretendendo di imporle ai pescherecci stranieri fino a distanze oscillanti fra le settanta e le cento miglia dalla costa, essi, dopo lunghe controversie con altri Stati e particolarmente con l'Inghilterra, furono costretti a revocarle. Nè (per scegliere un altro esempio, relativo a epoca a noi più vicina) ebbero miglior successo analoghe pretese avanzate dagli stessi Stati Uniti nei confronti delle navi giapponesi, nel periodo tra le due guerre mondiali, in ordine alla pesca del salmone nel Pacifico settentrionale.
3. La crisi del regime di libertà negli ultimi trent'anni e le sue cause.
Se quella ora descritta era la situazione fino alla seconda guerra mondiale, una netta inversione di tendenza si è andata verificando dal 1945 in poi. La caratteristica più rilevante dell'odierno diritto internazionale marittimo è infatti costituita proprio dal rapido e inarrestabile declino del principio della libertà dei mari. Ovviamente, la crisi del regime di libertà non investe in egual misura tutte le possibili utilizzazioni del mare. Ad es. la libertà di navigazione, sebbene debba conciliarsi con nuove esigenze (è impensabile una navigazione del tutto libera nelle zone in cui viene intensivamente sfruttato il fondo marino) non è in linea di massima disconosciuta da nessun paese; lo stesso dicasi per la libertà di posa di cavi e di condotte sottomarine. Il settore in cui il declino del principio di libertà è invece innegabile, profondo e totale, è proprio il settore che ci interessa, cioè quello dello sfruttamento delle risorse marine. Tutto il settore, si badi, è investito dalla crisi: il principio del libero uso del mare risulta sempre più inapplicabile e inapplicato non solo per quanto riguarda le risorse minerarie del suolo e del sottosuolo, recentemente scoperte, ma anche in ordine a quella risorsa antica quanto il regime di libertà, cioè la pesca.
Prima di esaminare le tappe di siffatta crisi, e indicare quindi le regole che si sono affermate o si vanno affermando in luogo del principio della libertà dei mari, occorre chiedersi come mai un principio che aveva dominato per secoli stia ora decadendo così rapidamente. La risposta è semplice: negli ultimi trent'anni è venuto meno il presupposto fondamentale, è venuta meno la ratio sulla quale il principio era stato edificato. Ci riferiamo all'idea che il mare, o meglio le sue risorse fossero inesauribili. Era per l'appunto l'inesauribilità a far propendere per la tesi che il libero uso delle risorse del mare potesse perfettamente conciliarsi con la natura di res communis omnium propria degli spazi marini e la conseguente destinazione di questi ultimi a tutto il genere umano. ‟Il est manifeste - diceva uno dei più celebri giuristi del XVIII secolo, Emmerich de Vattel - que l'usage de la pleine mer, le quel consiste dans la navigation et dans la pêche, est innocent et inépuisable; c'est-à-dire que celui qui navigue, ou qui pêche en pleine mer ne nuit à personne, et que la mer, à ces deux égards, peut fournir aux besoins de tous les hommes" (v. Vattel, 1916, p. 243). Ai nostri giorni le prospettive sono rapidamente mutate. L'inesauribilità delle risorse marine è un dato smentito dalle attuali conoscenze scientifiche. Le risorse minerarie (ad es. i noduli di manganese depositati sui fondali oceanici) non si salvano dai rastrellamenti massicci resi possibili dai rapidi progressi della tecnica; a loro volta, le risorse ittiche possono sì esser mantenute in quantità sufficienti ai bisogni dell'umanità, ma a patto che radicali misure siano adottate per contrastare le moderne tecniche distruttive, e quindi a patto che non sia più tollerato il ‛libero' esercizio della pesca. In un contesto del genere si capisce perché il principio della libertà dei mari sia divenuto anacronistico e la comunità internazionale sia andata allineandosi su posizioni diverse in ordine alla distribuzione delle risorse. Purtroppo, come vedremo, ciò non significa altresi che le diverse soluzioni adottate, o in via di adozione, si ispirino tutte ai principi della giustizia distributiva.
4. Prima tappa della crisi del regime di libertà: i poteri dello Stato costiero sulla piattaforma continentale.
La prima, grossa deroga al regime del libero sfruttamento delle risorse marine si è avuta con l'affermarsi nella prassi internazionale, intorno agli anni cinquanta, dei principi relativi alla piattaforma continentale. Come è noto, la piattaforma è quella parte del suolo marino contigua alle coste che costituisce il naturale prolungamento della terra emersa e che pertanto si mantiene a una profondità costante (circa duecento metri) per poi precipitare o digradare negli abissi; estesa talvolta per centinaia di miglia, essa comprende non solo le zone più facilmente sfruttabili, data la non rilevante profondità, ma anche le più ricche di giacimenti petroliferi. Secondo i principi affermatisi nella prassi, tutte le risorse della piattaforma, e quindi il diritto allo sfruttamento esclusivo della medesima, appartengono allo Stato costiero. Nessuno ha ormai più dubbi in proposito, essendo tante le manifestazioni della pratica degli Stati che depongono in senso conforme. Furono gli Stati Uniti, nell'immediato dopoguerra, a dare il primo esempio: in un proclama emesso dal presidente Truman, nel 1945, essi rivendicarono ‛controllo e giurisdizione' sulle risorse della piattaforma contigua alle proprie coste. Il proclama non solo non diede luogo a proteste, ma fu seguito da tutta una serie di dichiarazioni unilaterali, di contenuto identico, da parte degli altri Stati. Cosicché la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, nel procedere al lavoro preparatorio della Conferenza per la codificazione del diritto marittimo, Conferenza poi tenutasi a Ginevra nel 1958 (v. sopra, cap. 1), non ebbe difficoltà a ritenere che il diritto dello Stato costiero allo sfruttamento esclusivo della propria piattaforma fosse definitivamente riconosciuto per consuetudine. A sua volta, la Conferenza di Ginevra accettò siffatto punto di vista, adottando una Convenzione interamente dedicata alla piattaforma continentale, il cui art. 2 così stabilisce: ‟Lo Stato costiero esercita diritti sovrani sulla piattaforma continentale ai fini della sua esplorazione e dello sfruttamento delle sue risorse naturali. Tali diritti sono esclusivi nel senso che, se lo Stato costiero non intraprende alcuna attività di esplorazione o di sfruttamento, nessun altro può farlo, né può rivendicare diritti sulla piattaforma senza il consenso espresso dello Stato costiero medesimo. [...] Le risorse naturali riservate allo Stato costiero comprendono le risorse minerarie e le altre risorse non viventi del suolo e del sottosuolo marino, nonché gli organismi viventi che appartengono alle specie sedentarie [...]". Come ha dichiarato anche il massimo organo giudiziario internazionale, la Corte internazionale di giustizia, nella sentenza del 20 febbraio 1969 sul caso della piattaforma continentale del Mare del Nord (cfr. Cour internationale de justice, Recueil des arrêts, 1969, p. 22), la norma dell'art. 2 della Convenzione ha natura meramente riproduttiva del diritto consuetudinario e come tale si impone a tutti gli Stati, abbiano o meno provveduto a ratificare la Convenzione.
Si comprende l'importanza e la vastità della deroga al regime di libertà che l'attribuzione allo Stato costiero delle risorse della piattaforma continentale comporta, ove si consideri, da un lato, l'imponente estensione degli spazi che così vengono sottoposti al dominio di un solo Stato e, dall'altro, i limiti ridottissimi entro i quali era invece tollerata in epoca precedente la sovranità dello Stato costiero sui mari adiacenti. La deroga, poi, non consiste soltanto nel fatto che notevolissime risorse vengono in tal modo sottratte al libero uso di tutti gli Stati, ma riguarda la stessa utilizzazione delle acque sovrastanti la piattaforma e in primo luogo la libertà di navigazione. Lo sfruttamento della piattaforma, infatti, avvenendo in forma verticale e richiedendo installazioni fissate sul suolo marino, costituisce di per sé un intralcio alla navigazione, intralcio finora contenuto entro limiti modesti ma che potrà assumere dimensioni notevoli in futuro nelle zone in cui si procederà a uno sfruttamento intensivo. È bensì vero che nella maggior parte degli atti con i quali gli Stati hanno dichiarato la propria sovranità sulla piattaforma, nonché nell'art. 3 della citata Convenzione codificatoria del 1958, viene sancito il ‛rispetto' delle acque sovrastanti; ma c'è da chiedersi fino a che punto tale rispetto possa essere effettivamente attuato.
Quale giustificazione può darsi alla sovranità dello Stato costiero sulla piattaforma continentale? Si è fatto leva in proposito, soprattutto nella dottrina e nella prassi anteriori alla Conferenza di Ginevra del 1958, su titoli di natura, per così dire, giuridico-geografica. La piattaforma, si è sostenuto, costituisce il ‛prolungamento naturale' del territorio di terraferma ed è perciò logico che a essa si estenda ipso facto la sovranità dello Stato costiero. Nonostante siffatta tesi abbia avuto in seguito l'avallo della stessa Corte internazionale di giustizia nella sopra citata sentenza del 1969 relativa al caso della piattaforma continentale del Mare del Nord, essa ci sembra, sia detto con rispetto, capziosa. L'acquisto della sovranità territoriale su di una determinata parte della terraferma, secondo un principio di diritto internazionale sempre seguito, consegue soltanto al ‛possesso effettivo' della medesima; e se talvolta si è tentato di introdurre principi diversi da quello dell'‛effettività' (per es. all'epoca dell'espansione coloniale in Africa si cercò di imporre la regola della ‛continuità', per cui il possesso della costa si sarebbe dovuto ritenere sufficiente ai fini dell'acquisto di tutte le terre retrostanti, fino a un confine naturale, e quella della ‛contiguità', in base alla quale l'occupazione di un elemento di un'unità geografica, come l'isola di un arcipelago, avrebbe dovuto implicare la sovranità su tutta l'unità) il tentativo è rimasto senza successo. È dunque per lo meno singolare che, nel caso della piattaforma, le cui risorse sono di pertinenza dello Stato costiero indipendentemente dall'occupazione effettiva e anche prima che qualsiasi attività di sfruttamento sia intrapresa, la disciplina dei modi di acquisto della sovranità territoriale venga invocata e, al contempo, sovvertita. Ancora più singolare è poi, trattandosi di risorse del fondo marino, riferirsi a regole formatesi con riguardo alla terra emersa. In realtà tutto ciò che si può dire è che, venuto meno, per i motivi che dianzi indicavamo, il presupposto sul quale il regime di libertà si fondava, cioè l'inesauribilità delle risorse marine, la comunità internazionale ha finito col cedere alle pretese e pressioni di quegli Stati costieri che (con gli Stati Uniti in testa) hanno un notevole sviluppo di coste ed estesa piattaforma. Riservandoci di tornare in seguito (v. sotto, cap. 8) sulla iniquità di un simile cedimento, iniquità comune a ulteriori concessioni a favore degli Stati costieri maturate negli ultimi anni, occorre riconoscere che al successo delle pretese relative alla piattaforma hanno contribuito non solo ragioni economiche ma anche esigenze politiche e di difesa: lo sfruttamento della piattaforma, comportando una serie di installazioni fisse, implica necessariamente la presenza di vere e proprie comunità, di gruppi organizzati nell'area da sfruttare; ed è chiaro quindi che il monopolio dello Stato costiero sulle risorse tende anche a evitare che, al largo delle coste, altri Stati estendano in modo permanente la loro organizzazione con conseguente, possibile minaccia alla sicurezza stessa della comunità costiera.
Un problema che pure è stato molto dibattuto, soprattutto nel periodo successivo alla Conferenza di Ginevra del 1958, è quello dei confini della piattaforma continentale. Si sa che l'estensione della piattaforma varia in modo molto sensibile a seconda delle regioni e come conseguenza della diversa conformazione geografica dei continenti: basti pensare ai paesi che, come il Perù, il Cile ecc., sono addirittura sforniti di piattaforma in quanto lungo le loro coste gli abissi marini fanno immediatamente seguito alla terra emersa, oppure ai paesi la cui piattaforma è interrotta da fosse o canali assai profondi (per es. la fossa norvegese). Orbene, allo scopo di correggere le disparità derivanti dalla situazione geografica e in seguito alle pressioni dei paesi interessati, la Conferenza di Ginevra decideva di discostarsi dalla nozione puramente geologica di piattaforma continentale, stabilendo, all'art. 1 della citata Convenzione di codificazione, che il controllo dello Stato costiero dovesse estendersi al suolo marino contiguo alle coste senza riguardo alla profondità delle acque sovrastanti ma fino al limite in cui il suolo medesimo fosse sfruttabile verticalmente. Senonché l'adozione del criterio della ‛sfruttabilità' si è rivelato in seguito del tutto inadatto allo scopo e ha finito con l'introdurre, a causa della sua elasticità, un gravissimo elemento di incertezza nella determinazione delle aree effettivamente rivendicabili. I progressi della tecnica intervenuti dopo il 1958 sono stati infatti così rapidi e imprevisti da rendere possibile l'attività di sfruttamento anche a profondità notevoli (ad es., per quanto riguarda il rastrellamento dei noduli di manganese, fino a cinquemila metri) e più che probabile il suo intensificarsi in futuro. Dove allora - ci si è chiesti - va in definitiva fissato il confine dei fondali marini riservati allo Stato costiero? La questione si è intrecciata negli ultimissimi anni con quella dei limiti della zona economica esclusiva e quindi conviene tornarvi dopo aver parlato di quest'ultima.
5. Seconda tappa della crisi del regime di libertà: i poteri dello Stato costiero nella zona economica esclusiva.
La seconda, e altrettanto importante, tappa del processo di decadimento del principio che sanciva la libertà di sfruttamento delle risorse marine è di data assai recente. Ci riferiamo alla generale accettazione da parte degli Stati, nella prassi di questi ultimi anni, di una nuova figura del diritto internazionale marittimo: la zona economica esclusiva, detta anche mare patrimoniale. Nella zona, la cui estensione è fissata niente di meno che a duecento miglia dalla costa, tutte le risorse naturali, non solo del suolo e del sottosuolo ma anche delle acque sovrastanti e in esse comprese le risorse ittiche, sono sostanzialmente riservate allo Stato costiero.
La spinta al riconoscimento della zona economica esclusiva è venuta, intorno agli anni sessanta e per motivi attinenti prevalentemente alla pesca, dai paesi dell'America latina. A questi paesi si sono via via aggiunti gli Stati di nuova indipendenza, la cui difesa accanita della sovranità sulle risorse della zona economica contigua alle proprie coste ha assunto un'intensità pari se non superiore alla difesa della sovranità sul proprio territorio. A loro volta i paesi industrializzati hanno finito con l'accettare l'istituzione della zona, salva una certa opposizione, peraltro sempre più blanda, circa il ‛totale' controllo dello Stato costiero sulle attività di pesca. Di tutte queste posizioni ci si può rendere conto attraverso un esame dei lavori della terza Conferenza sul diritto del mare (v. sopra, cap. 1), Conferenza che si è aperta nel 1974 su iniziativa dell'Assemblea generale dell'ONU con lo scopo di procedere a una ricodificazione dell'intera materia dei rapporti internazionali marittimi: sebbene la Conferenza non si sia ancora esaurita e sebbene i contrasti tra i paesi industrializzati e i paesi in via di sviluppo permangano gravi su altri punti (ad es., come vedremo, sul regime delle risorse sottomarine ‛oltre' le duecento miglia), l'accordo circa l'istituzione della zona economica esclusiva è già stato raggiunto, sia pure in linea di massima e non nei dettagli, taluni dei quali molto importanti. Ed è sintomatico che a favore del limite delle duecento miglia abbia preso posizione anche il Consiglio dei ministri della Comunità Economica Europea (alcuni membri della CEE, come la Gran Bretagna e il Belgio, erano all'inizio tra i paesi più restii ad accettare la nuova misura), in una Dichiarazione di intenzioni del 27 luglio 1976.
L'istituzione della zona economica costituisce una definitiva rottura con la disciplina tradizionale dei rapporti marittimi. L'ampiezza dei poteri esercitabili dallo Stato costiero risulta davvero straordinaria ove si consideri che ci si avvia ad accordare a quest'ultimo non solo lo sfruttamento esclusivo di tutte le risorse della zona ma anche una serie di poteri che allo sfruttamento sono connessi ma che fatalmente finiranno con l'incidere, in misura ben più grave di quanto già risultasse dalle regole sulla piattaforma continentale, sulla navigazione e sulle altre consuete utilizzazioni (ad es. la posa di cavi) degli spazi marini; basti ricordare per tutti il potere, generalmente riconosciuto in seno alla terza Conferenza, di proteggere l'ambiente con misure preventive e repressive nei confronti di qualsiasi nave. Anche nel caso della zona economica, dunque, la libertà di navigazione per tutti, che pure viene in teoria considerata come intoccabile, dovrà compromettere con le esigenze dello Stato costiero. Su quali basi avverrà il compromesso? Come ci si comporterà, ad es., nel caso occorra decidere se sacrificare l'interesse dello Stato costiero a chiudere temporaneamente al traffico una certa area della sua zona economica per meglio sfruttarne le risorse o anche soltanto per disinquinarla, oppure l'interesse degli altri Stati a che quella medesima area resti sgombra qualora costituisca una rotta usuale per le navi? Trattasi di interrogativi che per ora restano senza risposta in quanto non vi è affatto unanimità di vedute al riguardo. Da un lato le potenze di tradizione marittima difendono la supremazia della libertà di navigazione; ma dall'altro la maggior parte degli Stati, ossia i paesi in via di sviluppo, insistono nel sostenere che nella zona economica la sovranità dello Stato costiero debba essere la regola, e la libertà degli altri Stati l'eccezione. Una soluzione salomonica, ma purtroppo anch'essa teorica, potrà forse consistere nell'eliminare gli stessi concetti di sovranità e libertà, sostenendosi la tesi che i diritti sia dello Stato costiero (allo sfruttamento delle risorse) che degli altri Stati (ai traffici e alle comunicazioni marittime) abbiano carattere ‛funzionale': sostenendosi cioè che sia lo Stato costiero che gli altri Stati debbano limitarsi a svolgere quelle attività che siano strettamente indispensabili all'esercizio dei rispettivi diritti.
È opportuno infine notare che i confini della zona economica corrono assai al largo non solo perché l'estensione della zona è di duecento miglia ma anche per i criteri cui lo Stato costiero può far ricorso per misurare queste ultime. Ci si è già intesi infatti, in seno alla terza Conferenza, sulla regola secondo cui le duecento miglia sono calcolabili a partire dal limite interno o linea di base del mare territoriale. Senonché, come è pacificamente riconosciuto, il limite interno del mare territoriale non deve necessariamente coincidere con la linea di bassa marea e quindi seguire le sinuosità della costa, ma può essere stabilito con il sistema delle linee rette: secondo tale sistema, la cui legittimità fu riconosciuta per la prima volta dalla sentenza della Corte internazionale di giustizia del 18 dicembre 1951 nel caso delle pescherie norvegesi (cfr. Cour internationale de justice, Recueil des arrêts, 1951, pp. 128 ss.) e che dopo di allora è entrato nell'uso comune, la linea di base è segnata congiungendo i punti più sporgenti della terra emersa o, qualora vi siano corone di isole e scogli in prossimità della costa, congiungendo le estremità delle isole e degli scogli medesimi. È chiaro allora quanto siffatto sistema si presti a spostare in avanti il limite interno del mare territoriale, e di conseguenza il confine esterno sia dello stesso mare territoriale sia della zona economica esclusiva. Un freno allo spostamento dovrebbe venire dalla regola valevole per le baie e i golfi, regola secondo la quale la lunghezza della linea retta in presenza di una baia non dovrebbe eccedere le ventiquattro miglia. Diciamo ‛dovrebbe', perché trattasi di una regola sempre più contestata e violata nella prassi. Sta di fatto che un gran numero di paesi, e tra questi molti dei paesi in via di sviluppo, sono andati via via procedendo alla ‛chiusura' di intere baie di vaste proporzioni, pretendendo di misurare il proprio mare territoriale a partire dalla linea di massima apertura (ricordiamo ad es. la ‛chiusura' della Baia di Pietro il Grande da parte dell'Unione Sovietica, del Golfo della Sirte e del Golfo di Gabès da parte rispettivamente della Libia e della Tunisia, di varie baie nella zona del Rio della Plata da parte dell'Argentina e dell'Uruguay, di tutte le baie gaboniane e guineiane, ecc.). Sembra difficile considerare tali azioni, che, nella maggior parte dei casi, più che aver di mira il mare territoriale sono state predisposte proprio per estendere la zona economica e accrescere l'accaparramento delle risorse, come decisamente illegittime; in realtà esse non fanno altro che iscriversi nella generale e irreversibile tendenza ad ampliare a dismisura la sovranità dello Stato costiero sui mari adiacenti.
6. Rapporti tra piattaforma continentale e zona economica esclusiva.
I poteri dello Stato costiero nella zona economica finiranno per assorbire quelli sulla piattaforma continentale? In altri termini, il limite delle duecento miglia costituirà l‛unico' limite in tema di risorse marine riservate allo Stato costiero, siano esse delle acque o del suolo o del sottosuolo? Oppure gli Stati costieri potranno mantenere il loro controllo sulle parti della piattaforma, là dove questa esiste, anche oltre le duecento miglia? La questione è tuttora aperta, essendo oggetto di trattative in seno alla terza Conferenza sul diritto del mare; sicché, a tutt'oggi, le regole sulla piattaforma continentale devono ritenersi ancora autonomamente vigenti. A nostro avviso, tenuto conto anche del fatto che il fondo marino non è stato mai finora concretamente sfruttato oltre le duecento miglia, ci si dovrebbe orientare per l'abrogazione delle norme relative alla piattaforma. Anzitutto, l'adozione del limite fisso delle duecento miglia troncherebbe definitivamente le discussioni circa i confini esterni della piattaforma, cui dianzi accennavamo (v. sopra, cap. 4); in secondo luogo, essa permetterebbe di realizzare un'uniformità di trattamento degli Stati costieri, ad onta dell'estrema diversità nella conformazione delle coste. C'è purtroppo da registrare invece una tendenza esattamente contraria, che sempre più si fa strada in seno alla terza Conferenza e che sembra destinata ad aver successo. Vari paesi, con a capo gli Stati Uniti (si tratta ovviamente di paesi la cui piattaforma è assai vasta), si battono per mantenere comunque il controllo dello Stato costiero fino al cosiddetto margine continentale, cioè fin dove il fondo marino precipita negli abissi; mentre l'unica concessione che essi sono disposti a fare consiste nel devolvere parte dei profitti ricavati dallo sfruttamento del sottosuolo oltre le duecento miglia a beneficio di tutti gli altri Stati e in particolare degli Stati in via di sviluppo. Poco convincenti sono peraltro le argomentazioni giuridiche che vengono addotte da questo gruppo, per così dire, conservatore. A parte il rinnovato ricorso alla teoria della piattaforma come ‛prolungamento naturale' del territorio, già da noi criticata, si è fatto appello alla dottrina dei ‛diritti acquisiti'; si è sostenuto cioè che i diritti sulla piattaforma sarebbero ormai entrati nel patrimonio giuridico dei singoli Stati costieri, essendo stati tra l'altro riconosciuti dalla Convenzione di Ginevra del 1958, e dovrebbero quindi considerarsi come intoccabili. Si può rispondere in senso contrario sia che bisogna andar cauti nel trasferire sul piano del diritto internazionale dottrine che, come quella dei diritti acquisiti, si sono affermate nel diritto statale e dunque in un contesto del tutto diverso, sia che costituisce comunque una petizione di principio l'invocare le norme della Convenzione di Ginevra proprio in quei settori nei quali si va procedendo alla formazione di un diritto destinato a sostituirle. Il vero è che qui non si tratta di risolvere questioni di carattere giuridico ma semplicemente di decidere se, con l'istituzione della zona economica, non sia giusto abrogare le regole in precedenza formatesi circa la piattaforma continentale.
7. Problemi di delimitazione delle aree del fondo marino sottoposte alla giurisdizione costiera.
La vastità delle aree marine impegnate dai poteri degli Stati costieri nella zona economica, e (se, come si deve supporre, non verranno aboliti) dai poteri degli stessi Stati sulla piattaforma continentale, è tale che interi mari, dell'ampiezza e importanza del mare Mediterraneo, verranno spartiti, per quanto concerne lo sfruttamento delle risorse, tra i relativi paesi rivieraschi. Ciò rende sempre più grave e attuale un problema che già si è posto nella prassi, che ha formato anche oggetto di una sentenza del massimo organo di giustizia internazionale, la Corte internazionale di giustizia, ma che non si può dire sia stato finora risolto con regole certe e precise. Ci riferiamo al problema della delimitazione della piattaforma continentale e delle zone economiche esclusive tra Stati le cui coste si fronteggiano o fra Stati contigui.
Della delimitazione sia frontale che laterale della piattaforma continentale si occupa l'art. 6 della più volte citata Convenzione di Ginevra del 1958, stabilendo che, nell'uno e nell'altro caso, si debba ricorrere al criterio dell'equidistanza. Tale criterio consiste nel tracciare una linea i cui punti siano equidistanti dai punti delle linee di base del mare territoriale degli Stati interessati; esso consiste, in altri termini, nell'attribuire a ciascuno Stato costiero tutte le zone di piattaforma che siano vicine a un qualsiasi punto della linea di base del suo mare territoriale più di quanto siano vicine a un qualsiasi punto delle linee di base del mare territoriale di ogni altro Stato. Gli Stati sono liberi, continua l'art. 6, di accordarsi per adottare criteri diversi ma, in difetto di accordo e ‟a meno che delle circostanze speciali non giustifichino un'altra delimitazione", il criterio dell'equidistanza resta quello prescritto.
Si è posto il quesito se il criterio dell'equidistanza, che ovviamente vale nei rapporti tra Stati che hanno ratificato la Convenzione di Ginevra (in tutto cinquantatre, cioè poco più di un terzo dell'attuale ‛consistenza' della comunità internazionale), sia obbligatorio anche per gli Stati non contraenti, in quanto criterio consuetudinario. La risposta trovasi nella sentenza del 20 febbraio 1969 della Corte internazionale di giustizia sul caso della piattaforma continentale del Mare del Nord (cfr. Cour internationale de justice, Recueil des arrêts, 1969, pp. 3 ss.), ed è negativa. Secondo quanto sostenuto nella sentenza, che può essere sottoscritta, l'uso del criterio dell'equidistanza non è così generalizzato nella prassi da far ritenere che si sia formata una norma consuetudinaria al riguardo. Decisiva è poi la circostanza che lo stesso art. 6 non abbia vero e proprio intento riproduttivo del diritto consuetudinario, come appare chiaro dai lavori della Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, che redasse il testo adottato in seguito dalla Conferenza di Ginevra la Commissione, infatti, aveva all'inizio posto il criterio dell'equidistanza sullo stesso piano di altri criteri (delimitazione mediante arbitrato, o secondo una linea perpendicolare alle coste, o prolungando il confine terrestre, ecc.), e lo aveva poi prescelto solo per motivi di opportunità e precisamente in quanto raccomandato da un comitato di esperti in idrografia.
La sentenza del 1969, vale la pena di ricordarlo, è stata emessa in ordine a una controversia tra la Repubblica Federale Tedesca, da un lato, e l'Olanda e la Danimarca dall'altro, controversia sorta dal rifiuto opposto dalla prima di delimitare la propria piattaforma rispetto ai due Stati contigui secondo il criterio dell'equidistanza. In realtà, proprio nel caso di Stati contigui, la linea di equidistanza può dar luogo a risultati paradossali e iniqui uno Stato le cui coste siano disposte secondo una forma convessa può vedere accresciuta la sua porzione di piattaforma continentale in quanto la linea di confine tenderà ad aprirsi verso il largo; viceversa se lo Stato ha coste a forma concava, la linea di equidistanza tenderà a ripiegare verso l'interno, riducendo la porzione di piattaforma. Le coste della Germania sul Mare del Nord, essendo rientranti, formano appunto una concavità; quelle della Danimarca e dell'Olanda hanno invece in linea di massima forma convessa. È chiaro quindi che, se si fosse delimitata la piattaforma continentale tedesca rispetto a quelle dei due paesi vicini in base al criterio dell'equidistanza, l'operazione si sarebbe risolta a tutto svantaggio della Repubblica Federale Tedesca. E si capisce perché la Germania, che non aveva ratificato la Convenzione di Ginevra, si opponeva all'utilizzazione di siffatto criterio, sostenendone (come poi ha riconosciuto la Corte) la natura non consuetudinaria.
Se il criterio dell'equidistanza non è vincolante per tutti, quali principi devono presiedere alla delimitazione della piattaforma continentale? E quali alla delimitazione delle zone economiche? Secondo la sentenza del 1969, la linea di delimitazione non può che essere concordata tra gli Stati interessati, ma l'accordo dovrebbe essere improntato a equità e in particolare dovrebbe tener conto della configurazione geografica delle coste, della struttura fisica e geologica e delle risorse naturali delle zone di piattaforma da spartire, e inoltre di un rapporto ragionevole tra l'estensione della piattaforma e la lunghezza delle coste di ciascuno Stato limitrofo. Per quanto riguarda la delimitazione delle zone economiche esclusive, principi non dissimili sono previsti in un progetto informale elaborato in seno alla terza Conferenza sul diritto del mare: tale delimitazione, si legge nel progetto, sia nel caso di Stati vis-à-vis che in quello di Stati contigui, ‟sarà effettuata, mediante accordo, in conformità a principi equitativi, utilizzando, se del caso, la linea di equidistanza e tenendo conto di tutte le circostanze pertinenti".
Come si vede, l'unica vera (e assai rudimentale!) regola deducibile allo stato attuale dalla prassi è che la delimitazione della piattaforma e delle zone economiche è materia di accordo; con la conseguenza che, se quest'ultimo non si raggiunge, nessuno degli Stati interessati potrà sfruttare quelle parti di zona economica o di piattaforma continentale le quali siano oggetto di contestazione.
È appena il caso di notare l'interesse che il problema fin qui trattato riveste per l'Italia. Fino a oggi, in tema di delimitazione della piattaforma, sono state concluse convenzioni con la Jugoslavia (gennaio 1968), con la Tunisia (20 agosto 1971), con la Spagna (19 febbraio 1974) e con la Grecia (24 maggio 1977); esse si discostano in taluni punti dal criterio dell'equidistanza. Particolarmente complicata, per la conformazione geografica dei luoghi e l'insediamento della Corsica sulla piattaforma italiana, si presenta l'eventuale conclusione di un accordo di delimitazione con la Francia.
8. Carattere iniquo della distribuzione delle risorse marine tra gli Stati costieri.
Con le zone economiche estese a duecento miglia e con il diritto di sfruttamento esclusivo della piattaforma continentale si va dunque operando, nella comunità degli Stati, una formidabile spartizione di ricchezze. Si calcola che, sommando per l'appunto le zone economiche e la piattaforma continentale, le risorse di circa il 42% di tutto il fondo dei mari e degli oceani, e per di più della parte più ricca di esso, ricadano sotto la giurisdizione degli Stati costieri. C'è a questo punto da chiedersi se ciò sia giusto. C'è da chiedersi se sia giusta una ripartizione che in definitiva si fonda su criteri geografici e che palesemente reca maggiori vantaggi ai paesi che hanno più coste e più piattaforma. C'è da chiedersi se sia giusto che notevoli risorse vengano in tal modo sottratte al regime di internazionalizzazione, che vale invece per il rimanente 58% dei fondi marini. La risposta ci sembra francamente negativa. È vero che, come vedremo tra poco, il regime di internazionalizzazione è ancora incerto, e che sulla sua articolazione sono da registrare i più forti contrasti tra gli Stati; ma è anche vero che ci si è almeno intesi sul principio da porre a suo fondamento, e precisamente sulla regola che il fondo marino, al di là della giurisdizione nazionale, non debba essere sfruttato a vantaggio di singoli Stati ma nell'interesse dell'intera umanità. È assai triste constatare, anche se non si constata nulla di nuovo dal punto di vista dei comuni canoni della politica internazionale, che l'altruistico regime dello sfruttamento nell'interesse dell'umanità si va affermando proprio perché le aree più ricche dei fondi marini sono ormai sotto controllo nazionale!
L'ingiustizia della ripartizione sottostante gli istituti della zona economica e della piattaforma continentale appare in tutta la sua evidenza nel caso limite degli Stati sforniti di litorale marittimo (land-locked States). Ed è comprensibile quindi l'opposizione manifestata, in seno alla terza Conferenza sul diritto del mare, da questi Stati (soprattutto da alcuni land-locked States in via di sviluppo, come Bolivia, Paraguay ecc.) contro l'eccessiva estensione della giurisdizione costiera. Senonché, tale opposizione ha urtato contro solidarietà ormai consolidatesi tra paesi assai diversi fra loro per regime politico e per grado di sviluppo economico ma accomunati dall'intento di avvalersi di posizioni geografiche favorevoli. D'altro canto è da considerare come abbastanza teorica, anche se da tutti sostenuta, la concessione agli Stati senza litorale di una quota-parte delle risorse (non minerarie) delle zone economiche proprie degli Stati contigui; le modalità e le condizioni per lo sfruttamento della quota saranno infatti rimesse, come pure da tutti si sostiene, ad appositi accordi con gli Stati contigui medesimi.
Può apparire strano che la maggior parte dei paesi in via di sviluppo sia favorevole a una così estesa giurisdizione nazionale sulle risorse, quando non dispone (ed è molto probabile che non disporrà in un prossimo futuro) dei mezzi sufficienti per un autonomo e intensivo sfruttamento delle aree al largo delle proprie coste. In realtà, l'atteggiamento di detti paesi appare determinato dalla volontà di procedere a una sorta di ‛sequestro conservativo' delle risorse dei propri mari adiacenti, salvo poi, come avviene per le risorse della terraferma e con le stesse garanzie con cui oggi si tende a salvaguardare la sovranità su queste ultime, concederne lo sfruttamento a enti stranieri o comunque avvalersi in una qualsiasi altra forma dell'apparato tecnico e finanziario straniero. Una prospettiva del genere, oltre e forse più che la possibilità di accaparrarsi totalmente le risorse al largo delle rispettive coste, spiega anche perché i paesi industrializzati si siano allineati sulla medesima posizione.
9. Il regime delle risorse al di là della giurisdizione costiera: proposte per una disciplina futura.
Come si accennava, la comunità internazionale si è pronunciata, senza voci discordi, a favore del principio che le risorse del fondo marino situato al di là della giurisdizione nazionale (ossia quel 58% non coperto dalle zone economiche e non costituente piattaforma continentale) siano sfruttate nell'interesse di tutto il genere umano. L'Assemblea generale delle Nazioni Unite, in una solenne Dichiarazione votata all'unanimità il 17 dicembre 1970, ha stabilito che dette risorse appartengono al ‟patrimonio comune dell'umanità, che il loro sfruttamento debba avvenire sotto l'egida di un ente internazionale e che, fino alla costituzione e al funzionamento dell'ente, nessuno Stato possa appropriarsene". Dopo il 1970 questi principi non sono mai stati messi in dubbio. Al fine di tradurli in pratica, e anche se i fondali ai quali il regime di internazionalizzazione si riferisce non sono da comparare, per ricchezza di risorse e almeno allo stato attuale delle ricerche scientifiche, a quelli ormai aggiudicati ai singoli Stati costieri, ci si è impegnati e ci si sta impegnando a fondo in seno alla terza Conferenza sul diritto del mare; nei lavori della Conferenza va anzi prendendo corpo, pur tra forti contrasti e obiettive difficoltà, una delle forme più interessanti di cessione di poteri da parte degli Stati a un'organizzazione intergovernativa.
La terza Conferenza ha finora avanzato proposte circa la struttura dell'organizzazione che dovrà presiedere al regime internazionale di sfruttamento e che prenderà il nome di Autorità internazionale dei fondi marini (International sea-bed authority). Trattasi di una struttura che è in parte tipica delle organizzazioni internazionali operanti in campo tecnico, con un'assemblea nella quale saranno rappresentati tutti gli Stati, un consiglio che, composto di un numero esiguo di membri, eserciterà i poteri di maggior rilievo in quanto stabilirà le linee generali della politica dell'ente, e un segretariato con funzioni esecutive. Sono previsti però due organi che daranno all'Autorità caratteri abbastanza tipici: l'impresa, sottoposta al controllo del consiglio e organizzata in modo da poter procedere ad attività di ricerca e di sfruttamento nell'area internazionale, e un tribunale del mare, le cui competenze ricordano molto da vicino quelle della Corte di giustizia delle Comunità europee, consistendo non solo nel dirimere le controversie tra gli Stati membri dell'Autorità ma anche nell'esercitare un controllo di legittimità sugli atti degli organi.
Se la struttura dell'Autorità internazionale dei fondi marini è ormai definita, non si può dire altrettanto delle funzioni che dovranno essere esercitate dall'ente. Su questo punto gli interessi sono così divergenti, i contrasti sono tali da mettere in crisi la stessa volontà di costituire l'ente e da rendere comunque difficile una qualche previsione circa i tempi della costituzione e la soluzione che verrà alla fine adottata. Schematicamente, le varie posizioni possono ricondursi a due schieramenti contrapposti, le cui motivazioni politiche ed economiche sono ovvie: da un lato stanno gli Stati in via di sviluppo, i quali vorrebbero riservare all'Autorità ogni attività di ricerca, estrazione e commercializzazione delle risorse; dall'altro, gli Stati a economia avanzata insistono per un regime molto più blando, che ridurrebbe le funzioni dell'Autorità alla semplice concessione di permessi e licenze ai singoli Stati o alle compagnie pubbliche o private a essi facenti capo. Il tutto è poi complicato dalla ricerca di meccanismi idonei a far sì che le attività condotte sotto il controllo della costituenda organizzazione non abbiano effetti economici negativi (particolarmente per quanto riguarda le economie dei paesi in via di sviluppo) sul mercato dei minerali e delle materie prime.
Se e quando l'Autorità internazionale dei fondi marini sarà costituita, si tratterà comunque di un fenomeno senza precedenti nel campo dell'organizzazione internazionale. Per la prima volta, infatti, un ente internazionale eserciterà permanentemente e stabilmente la sovranità su di una vasta parte del nostro pianeta. Proprio da questo punto di vista, però, sembra naturale porsi un quesito che attiene alla natura dell'atto costitutivo dell'Autorità e sul quale non sembra che ci si sia soffermati con la dovuta attenzione. Si tratta di questo: poiché si prevede che la costituzione dell'Autorità avvenga (e non potrebbe non avvenire, data l'attuale struttura della comunità internazionale) su base convenzionale, sulla base cioè di una convenzione multilaterale aperta alla ratifica di tutti gli Stati, quale sarà la posizione degli Stati che si rifiuteranno di ratificare? In altri termini, come potrà l'Autorità esercitare poteri che comunque consistono nell'aggiudicazione di tutto il suolo marino al di là delle aree sottoposte alla giurisdizione nazionale, se un certo numero di Stati resterà fuori dell'organizzazione? E potranno questi Stati decidere autonomamente di sfruttare una parte del suolo internazionale, e quale? È chiaro che, per attenuare l'importanza di simili interrogativi, occorrerà quanto meno che l'entrata in vigore della convenzione costitutiva sia subordinata alla ratifica da parte di tutti gli Stati a economia avanzata e in grado quindi di procedere in modo autonomo ad attività di sfruttamento.
10. La situazione attuale.
È opportuno a questo punto domandarsi quale sia attualmente il regime giuridico delle risorse del fondo marino oltre la giurisdizione nazionale, in pendenza della costituzione dell'Autorità internazionale. Il problema ha riflessi pratici notevoli, ove si consideri: che determinate risorse, precisamente i depositi di noduli di manganese, sono in parte identificate e tecnicamente passibili di sfruttamento; che negli Stati Uniti si sono già da tempo costituite delle società private con lo scopo precipuo di sfruttare i fondali oceanici a profondità abissali; che alcune di queste società hanno presentato al Dipartimento di Stato una richiesta di protezione diplomatica proprio a garanzia delle attività di rastrellamento dei noduli di manganese, che esse intenderebbero intraprendere nei prossimi anni in certe aree situate al di là di qualsiasi giurisdizione costiera.
La soluzione del problema trovasi nella già citata Dichiarazione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del 17 dicembre 1970, là dove si dice che, prima dell'entrata in funzione dell'organizzazione relativa ai fondi marini internazionali, questi, in quanto patrimonio comune dell'umanità (res communis omnium!), non possono formare oggetto di appropriazione da parte di singoli Stati o di enti da essi dipendenti. La Dichiarazione, che pure dal punto di vista della Carta dell'ONU non è giuridicamente vincolante (l'Assemblea generale ha solo poteri di raccomandazione nei confronti degli Stati), non solo è stata accettata da tutti ma, a ben guardare, corrisponde al diritto consuetudinario. E invero, l'area internazionale dei fondi marini è l'unica area in cui, essendo in via di formazione una nuova disciplina (quella che dovrà far capo alla costituenda Autorità internazionale), resta ancora vigente il vecchio, e sia pur moribondo, principio della libertà dei mari. Precisamente, il principio di libertà è oggi applicabile solo nel suo aspetto negativo (v. sopra, cap. 2), come principio cioè che ‛fa divieto' a ciascuno Stato di sottrarre agli altri l'uso delle risorse del fondo marino in modo permanente e definitivo; non è invece applicabile nel suo aspetto positivo, ossia come principio invocabile da un singolo Stato per sfruttare a proprio piacimento dette risorse, dato che un simile sfruttamento, per le tecniche adoperabili, per i capitali da impiegare, per l'esauribilità delle risorse medesime, non potrebbe che essere permanente e definitivo. In altri termini, il principio della libertà dei mari funziona allo stato attuale solo come congelatore (o norma di stand-still) della situazione esistente, rendendo illecito ogni insediamento nell'area internazionale che non avvenga nell'interesse di tutti. Ed è ciò per l'appunto che si ricava dalla citata Dichiarazione.
Bisogna riconoscere però che il congelamento della situazione preesistente non può durare all'infinito; o meglio è facile supporre che il principio della libertà dei mari nel suo aspetto negativo e la Dichiarazione del 1970 non possano pretendere di esser rispettati all'infinito in una comunità, come quella internazionale, che manca di mezzi di attuazione coercitiva delle sue norme. Ed è sintomatico che proprio la delegazione degli Stati Uniti in seno alla terza Conferenza sul diritto del mare, pur schierandosi a favore della tesi che l'area internazionale sia da considerare come res communis omnium, ha più volte, e anche ufficialmente, avvertito che, se entro un ragionevole lasso di tempo non si raggiungerà l'accordo circa i poteri della costituenda Autorità, sarà difficile mantenere il principio dell'intoccabilità delle risorse da parte dei singoli. In una prospettiva del genere si capisce allora l'azione delle soprammenzionate società commerciali americane, anche se chi ha fede nel valore della collaborazione internazionale non può non esserne scoraggiato.
11. Considerazioni conclusive.
Il regime internazionale delle risorse dei fondi marini, nella sua articolazione attuale e nei suoi probabili sviluppi in un futuro più o meno prossimo, è stato fin qui esaminato in rapida sintesi. Ciò non ci ha permesso di mettere in luce un dato sul quale è bene richiamare l'attenzione a titolo conclusivo e nell'ambiziosa speranza di completare un quadro abbastanza fedele della materia.
Si è più volte ripetuto che la caratteristica saliente del regime delle risorse sta nel pressochè totale abbandono, avvenuto progressivamente a partire dalla seconda guerra mondiale, del principio della libertà dei mari. C'è ora da aggiungere che, per gli stessi motivi che sono alla base dell'abbandono, e cioè per la necessità di provvedere a un'utilizzazione razionale delle risorse, che tenga conto del loro possibile esaurimento, un'altra caratteristica è propria del regime attuale rispetto a quello passato: la disciplina dei rapporti marittimi, che un tempo si esauriva in pochissimi e generici principi (della libertà dei mari, del mare territoriale ecc.), va oggi sempre più assumendo i caratteri di una disciplina di dettaglio. La quantità e la natura particolareggiata delle regole che si vanno elaborando sul piano internazionale, e di cui ci si può rendere conto attraverso un esame anche superficiale dei lavori della terza Conferenza sul diritto del mare, è davvero impressionante! Il dettaglio investe tutti i campi coperti dal regime delle risorse, dai poteri degli Stati costieri sulla zona economica esclusiva e sulla piattaforma continentale (regime delle installazioni per lo sfruttamento del suolo e del sottosuolo, rapporti tra sfruttamento delle risorse minerali e delle risorse biologiche, coordinamento con altri usi del mare, come la navigazione e la posa di cavi e condotte, limiti alla potestà punitiva nei confronti delle navi straniere soprattutto in materia di inquinamento, ecc.) alle funzioni della costituenda Autorità internazionale e ai diritti e doveri degli Stati, e degli enti pubblici o privati da essi dipendenti, nell'area situata oltre i limiti della giurisdizione nazionale. Orbene, sorge inevitabile la domanda se una disciplina così dettagliata potrà aver successo nell'ambito di una comunità ancora tanto... anarchica come quella internazionale; se essa, una volta convogliata in una mastodontica convenzione internazionale, magari ratificata da tutti gli Stati, riuscirà davvero a imporsi. Senza voler qui neppure sfiorare l'eterno problema dell'efficacia del diritto internazionale, va almeno sottolineato che la condizione minima e indispensabile per l'osservanza di una disciplina internazionale di dettaglio è costituita dalla predisposizione di un'istanza giurisdizionale che la gestisca. Ed è comprensibile dunque che la terza Conferenza sul diritto del mare, che pure nelle sessioni iniziali di Caracas e di Ginevra (v. sopra, cap. I) aveva tralasciato di occuparsi del problema del giudice, abbia invece cominciato a dedicarvi tutta la sua attenzione nelle sessioni successive, elaborando vari progetti di clausole arbitrali obbligatorie destinate a coprire non solo i rapporti relativi all'area internazionale (per la quale, come si vide, è prevista la creazione di un apposito tribunale) ma anche i rapporti tra lo Stato costiero e gli altri Stati nella zona economica e in ordine allo sfruttamento della piattaforma continentale. L'accettazione dell'arbitrato, e quindi il superamento della nota avversione che simile istituto provoca negli Stati e particolarmente nelle grandi potenze, costituirà senza alcun dubbio il banco di prova della serietà di intenti della comunità internazionale nella nostra materia.
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