Risparmio
Tutela del risparmio
Il settore delle imprese, intese come unità di produzione, deve approvvigionarsi di fondi per finanziare i propri investimenti e la propria crescita. Tali fondi provengono, direttamente o indirettamente, dal r. finanziario del settore delle famiglie, unità di consumo, il cui reddito eccede la spesa (consumi e investimenti reali, prevalentemente in immobili). Le famiglie, dunque, accumulano attività finanziarie e le imprese passività finanziarie. Includendo nel quadro l'indebitamento del settore pubblico e i flussi finanziari dall'estero e verso l'estero, a fronte delle attività finanziarie nette delle famiglie sull'interno si trovano le passività finanziarie sull'interno del settore delle imprese e del settore pubblico. Di seguito si considereranno solo i rapporti finanziari tra famiglie e imprese.
Il ricorso al finanziamento da parte delle imprese può avvenire in forme svariate. Una distinzione fondamentale è fra la partecipazione al capitale di rischio e il ricorso al debito. La prima conferisce diritti residuali ai flussi di reddito prodotto dall'impresa e al suo valore di liquidazione: residuali, perché subordinati al soddisfacimento di altri diritti conferiti dalla legge o dai contratti, fra cui quelli dei creditori. Considerando le imprese costituite in forma societaria, quei diritti sono in prevalenza incorporati in azioni, le quali conferiscono (ma non necessariamente) anche diritti di voto nelle assemblee dei soci. La partecipazione al capitale di una società può essere detenuta da un numero limitato di soci individuali o offerta sul mercato a un pubblico indistinto: in questo caso la società è quotata su un mercato di borsa, nel quale gli azionisti possono liberamente acquistare o vendere le loro azioni.
Il ricorso al debito può avvenire in molti modi, resi più numerosi dall'innovazione finanziaria: titoli obbligazionari, emessi anche presso il pubblico indistinto e negoziabili sul mercato, i quali danno diritto a un flusso di interessi e al rimborso del capitale a una certa data; debito contratto con intermediari finanziari, il quale a sua volta può essere a breve o a medio-lungo termine, dotato o privo di una garanzia reale, con precedenza di rimborso o subordinato al rimborso di altri debiti.
Il r. delle famiglie può affluire direttamente alle imprese, come avviene in prevalenza nel caso di azioni e obbligazioni quotate, o essere intermediato dalle banche, le quali raccolgono quel r., sotto forma di depositi o di obbligazioni bancarie, e a loro volta finanziano le imprese. Tra la fine del 20° sec. e l'inizio del 21° le famiglie hanno affidato in misura crescente le gestione del proprio r. a investitori istituzionali, che si incaricano delle scelte di investimento in azioni e obbligazioni: soprattutto fondi comuni di investimento, le cui quote vengono sottoscritte dai risparmiatori e fondi pensione, per la gestione del r. previdenziale.
La tabella riporta, per il 2005, la composizione della ricchezza finanziaria delle famiglie italiane, che era pari a 3,3 volte il loro reddito disponibile (le azioni quotate sono solo quelle possedute direttamente dalle famiglie; a esse si deve aggiungere la quota, maggiore, presente nel portafoglio dei fondi di investimento e delle assicurazioni).
Si è verificato che il grado di sviluppo finanziario di un Paese, misurato dall'entità del ricorso delle imprese al finanziamento esterno, è associato alla crescita economica di lungo periodo: un maggiore sviluppo finanziario indica un più agevole accesso al r. per il finanziamento degli investimenti e consente una migliore valutazione e una maggiore diversificazione dei rischi d'impresa, e in definitiva un minor costo del capitale. L'accesso diretto ai risparmiatori attraverso l'offerta di strumenti finanziari quotati sul mercato consente vantaggi ulteriori: ripartizione del rischio d'impresa su una popolazione vasta di investitori; possibilità per questi di diversificare il rischio del loro investimento finanziario e liquidità, ossia facile negoziabilità degli strumenti che lo rappresentano; valutazione, anonima, del mercato del valore dell'impresa, che si esprime nei prezzi di quotazione; possibilità di affidare la gestione dell'impresa a manager specializzati.
La contropartita di questi vantaggi è tuttavia l'estraneità dell'azionista minore alla gestione dell'impresa, che viene delegata a uno o più soggetti: come recita il codice civile (art. 2380 bis), "la gestione dell'impresa spetta esclusivamente agli amministratori", i quali a loro volta possono delegare, come solitamente avviene, le proprie attribuzioni a un componente del collegio (amministratore delegato). Al di là di poche materie di competenza dell'assemblea degli azionisti (approvazione dei bilanci, nomina e revoca degli amministratori, alcuni provvedimenti di natura straordinaria), il diritto di proprietà degli azionisti minori, rappresentato dalle azioni possedute, è privo di diritti e di poteri effettivi di decisione e di controllo sull'operato di chi gestisce l'impresa.
Questa delega all'esercizio dei più rilevanti poteri decisionali configura, fra deleganti e delegato, un tipico rapporto di agenzia, in cui i primi (principals) affidano al secondo (agent) il compito di gestire e valorizzare l'impresa in cui essi hanno investito. Questo rapporto è caratterizzato da uno spiccato privilegio informativo del delegato: questi, infatti, possiede informazioni non disponibili ai deleganti e può compiere azioni o assumere decisioni a essi ignote (asimmetria informativa); il primo è un insider, i secondi sono outsiders. Esistendo questo privilegio, si manifesta la possibilità che il gestore eserciti i suoi poteri in funzione dell'interesse proprio, anche quando questo sia in contrasto con quello degli azionisti (o dei creditori) dell'impresa, e che pertanto le decisioni che egli assume risultino pregiudizievoli agli investitori. Da tutto ciò deriva una situazione che gli economisti (e ancor prima gli assicuratori) definiscono di azzardo morale: in un rapporto contrattuale caratterizzato da asimmetria informativa la parte che possiede le informazioni può essere indotta a comportamenti che danneggiano la parte meno informata.
Come mostra anche la cronaca degli scandali societari che sono venuti alla luce, i conflitti di interessi fra azionisti e gestore dell'impresa possono assumere forme numerose, comprese sotto la dizione di 'benefici privati del controllo': sforzo insufficiente da parte del manager; all'opposto, mancata distribuzione agli azionisti delle disponibilità liquide dell'impresa e impiego di esse per perseguire disegni di espansione da cui gli azionisti non traggono vantaggio; compensi e indennità eccessivi, privilegi in natura; vera e propria diversione di risorse dalla società con azionisti diffusi ad altra entità posseduta dal manager, attraverso transazioni commerciali o finanziarie a condizioni svantaggiose per la prima ('transazioni con parti correlate') o con veri e propri mezzi fraudolenti.
Questa situazione, endemica, di azzardo morale, al di là di conseguenze distributive, provoca costi sociali, che si manifestano in difficoltà di finanziamento degli investimenti. L'estrazione di benefici privati riduce il reddito d'impresa destinato a remunerare l'investimento finanziario da parte dei risparmiatori. La percezione di questo esito rende gli investitori diffidenti: riduce pertanto il finanziamento esterno di cui l'impresa può disporre, o lo rende possibile solamente a condizioni più onerose. Se, poi, i risparmiatori non sono in grado di distinguere fra imprese migliori (in termini di estrazione di benefici privati) e peggiori, ma sono tuttavia consapevoli della qualità media della popolazione di imprese, una valutazione media uniforme della probabilità di estrazione di benefici privati danneggerà le imprese migliori, che soffriranno di condizioni di finanziamento più sfavorevoli di quanto meriterebbero, a vantaggio di quelle peggiori: il risultato è una selezione avversa, con un'offerta di fondi minore e meno efficiente.
Questo problema di agenzia, che si manifesta nei rapporti fra risparmiatori e soggetti che impiegano il loro r. (non solo fra azionisti e manager, ma anche, per es., fra sottoscrittori e gestori di fondi di investimento) non è suscettibile di soluzioni contrattuali. Nessun contratto fra deleganti e delegato può prevedere e regolare ogni possibile comportamento del primo: tutti i contratti sono, necessariamente, incompleti, in quanto non possono disciplinare (o potrebbero disciplinare solo a costi assai elevati) tutte le possibili eventualità. Neppure è realistico ritenere che gli azionisti minori siano in grado di esercitare un efficace controllo successivo sull'operato del manager (monitoring). Anche ammettendo possibilità di accesso alle informazioni rilevanti, un controllo puntuale è costoso in termini di tempo e di denaro per il soggetto che si prende la briga di esercitarlo. Quel soggetto, tuttavia, mentre sopporta l'intero costo del controllo, gode solo di una frazione dei benefici che ne derivano, i quali si ripartiscono su tutta la popolazione degli azionisti. Ne nasce un 'problema di azione collettiva': essendo il costo privato ma il beneficio pubblico, nessuno assume l'iniziativa.
Anche nei sistemi finanziari più sviluppati le istituzioni del mercato offrono soluzioni solo parziali e incomplete ai problemi di agenzia. In termini generali si parla di corporate governance, ovvero del complesso di istituti che migliorano la protezione degli investitori dall'estrazione di benefici privati e la possibilità di ottenere un rendimento adeguato dai loro investimenti.
In via di principio i membri non esecutivi facenti parte del consiglio d'amministrazione nonché gli organi di controllo interno, nominati dall'assemblea degli azionisti, dovrebbero rappresentare un contrappeso al potere del manager delegato alla gestione. Nella realtà, tuttavia, si tratta di un contrappeso poco efficace: la nomina degli amministratori avviene su proposta di chi controlla effettivamente l'impresa; il management gode di un privilegio informativo anche nei confronti del consiglio, mentre sono frequenti situazioni di implicita o esplicita collusione fra il primo e il secondo. I codici di autodisciplina delle società quotate redatti in molti Paesi, fra i quali l'Italia, indicano un rimedio nella presenza di un numero adeguato di amministratori 'indipendenti', tali definiti in quanto privi di deleghe, non legati al manager da rapporti di parentela ed estranei a rapporti economici con la società: non bastano tuttavia il rispetto di requisiti formali a garantire un'indipendenza sostanziale.
Il problema di azione collettiva nell'esercizio del controllo può trovare parziale soluzione nella presenza nella compagine sociale di un grande azionista, la cui partecipazione rilevante consente una maggiore 'internalizzazione' dei benefici del controllo e pertanto offre un maggiore incentivo a esercitarlo. In effetti, si riscontrano nel confronto internazionale modelli diversi di assetto proprietario, con prevalenza di proprietà diffusa fra piccoli azionisti in Paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti e di concentrazione proprietaria altrove, in particolare nell'Europa continentale. Anche la soluzione del 'grande azionista' presenta tuttavia controindicazioni: un grande azionista può colludere con il manager o, se controllante di diritto o di fatto, estrarre egli medesimo benefici privati ai danni degli azionisti di minoranza. Questa possibilità aumenta nel caso di strutture societarie che consentano di esercitare diritti di controllo in misura assai maggiore dei diritti di proprietà posseduti: così avviene quando vi siano azioni a voto multiplo; o nel caso di strutture piramidali (dette anche scatole cinesi), tali che la quota di controllo di una società a valle sia posseduta, in anelli successivi, da una catena di altre società direttamente o indirettamente controllate da un medesimo soggetto; o con il ricorso a partecipazioni incrociate fra società.
Un funzionamento efficiente del mercato del controllo societario può rappresentare uno strumento di disciplina preventiva del manager. Poiché un'impresa mal gestita può divenire preda appetibile di un'acquisizione da parte di un'altra società attraverso un'offerta ostile, il manager avrà interesse a comportarsi in modo che queste condizioni non si verifichino. In alternativa, tuttavia, egli potrà essere indotto a erigere difese contro possibili acquisizioni, anche quando queste fossero negli interessi degli azionisti.
Un modo per allineare gli interessi del gestore dell'impresa con quelli dei suoi azionisti può rinvenirsi in schemi incentivanti di remunerazione del management, indicizzati in qualche modo alla performance della società. Si tratta di uno strumento particolarmente diffuso negli Stati Uniti, che prende la forma di remunerazioni monetarie variabili in relazione ai risultati dell'impresa e di distribuzione di azioni o di assegnazione di opzioni di acquisto di azioni a un prezzo predeterminato. Il principio è valido, ma le applicazioni, soprattutto negli Stati Uniti, non sono state soddisfacenti. I compensi complessivi dei manager, cresciuti in misura straordinaria soprattutto negli anni Novanta dello scorso secolo, sono spesso il risultato di schemi incentivanti mal disegnati e tali da proteggere gli interessati dal rischio di andamenti negativi della società: un risultato non troppo sorprendente, quando si consideri che quei compensi sono decisi da consigli d'amministrazione su cui il management esercita un'influenza di rilievo.
In un sistema finanziario avanzato vi sono altri efficaci strumenti di controllo, esterni all'impresa. Le società di revisione dovrebbero assicurare la completezza e la veridicità dei bilanci; le banche creditrici esercitare una valutazione continua del merito di credito dell'impresa debitrice; gli analisti delle principali istituzioni finanziarie esaminare con continuità la situazione e l'andamento delle società quotate, per consigliarne l'acquisto o la vendita. La rapida evoluzione della finanza ha tuttavia fatto emergere anche in questi casi problemi di agenzia e di conflitto d'interesse. Le banche tendono a trasferire il rischio di credito, promuovendo l'emissione di obbligazioni da parte dei debitori, cartolarizzando i propri crediti e facendo uso di complessi strumenti derivati, mentre i ricavi da commissioni tendono a superare quelli derivanti dal margine d'interesse. Le commissioni rappresentano sovente il compenso per assistenza resa alle imprese nella costruzione di complesse architetture con il fine di rendere meno trasparente la situazione finanziaria o per il ruolo svolto nel collocamento di offerte pubbliche di strumenti finanziari emessi dalle imprese medesime. Gli analisti, che il più delle volte lavorano alle dipendenze delle grandi banche, condizionano spesso le loro analisi alla convenienza delle imprese con cui le banche hanno, o sperano di avere, altri rapporti d'affari. Analoghi conflitti d'interesse si sono manifestati nel caso delle società di revisione, impegnate al tempo stesso nel controllo contabile e in più lucrosi incarichi di consulenza per la finanza d'impresa: per ottenere i secondi si è a volte preferito essere clementi nella revisione.
In definitiva, tali e di tale natura sono i problemi di agenzia che si manifestano nei mercati finanziari, e più specificamente nell'impiego del r. finanziario delle famiglie, da rendere impossibili soluzioni contrattuali, impraticabile o inefficace l'attivismo dei singoli investitori, insufficienti, e con rischio di degenerazione, le soluzioni di natura privatistica. Allo stato attuale, la tutela dei risparmiatori che investono in strumenti finanziari offerti al pubblico indistinto richiede interventi specifici di legislazione e di regolazione pubblica, istituzioni pubbliche di regolazione e di vigilanza, particolari rimedi legali. Il buon funzionamento degli stessi istituti 'privati' di corporate governance può solo situarsi entro una cornice di regole: riguardanti, per es., l'ambito di responsabilità degli amministratori di una società quotata; o le regole contabili da seguire; o gli obblighi di informazione e di trasparenza.
All'inizio del 20° sec. si ebbe un impetuoso sviluppo dei mercati azionari pur in assenza di una disciplina pubblica di tutela degli investitori. Le prime grandi borse (Londra e New York) fiorirono in regime di autoregolamentazione, stabilendo esse stesse i requisiti di ammissione a quotazione e alcune regole di comportamento per gli emittenti di strumenti finanziari. La crescita dei mercati, la diffusione degli strumenti finanziari presso un pubblico sempre più vasto e sempre meno consapevole dei rischi, lo sviluppo dell'industria della finanza e l'innovazione finanziaria misero presto in evidenza la necessità di un intervento pubblico.
Con distinzione rozza, tale intervento riguarda due ambiti, di cui in questa sede si considera solo il secondo: la stabilità del sistema bancario, per prevenire crisi sistemiche di solvibilità delle banche che travolgano i depositanti; la trasparenza dei mercati finanziari e le regole di comportamento degli emittenti di titoli e degli intermediari, per garantire la tutela degli investitori. Dopo il crollo di borsa del 1929 e la grande crisi finanziaria che continuò negli anni successivi, gli Stati Uniti furono il primo Paese a promuovere una legislazione dedicata ai mercati finanziari con i due fondamentali atti legislativi del 1933 e del 1934, il secondo dei quali istituì una potente commissione di vigilanza sui mercati, la U.S. Securities and Exchange Commission (SEC), con competenza amplissima sulla trasparenza e sull'obbligo di informazione da parte degli emittenti, sul perseguimento di illeciti compiuti dagli insider nei confronti del mercato (insider trading e manipolazione), degli azionisti e in genere anche dei risparmiatori, sull'emissione e negoziazione di titoli. Una tendenza analoga, anche se meno penetrante, si affermò in Europa negli anni successivi al secondo dopoguerra.
In Italia la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) venne istituita con la l. 7 giugno 1974 nr. 216. Leggi successive hanno ampliato l'ambito d'intervento e la materia ha trovato una compiuta sistemazione nel 1998 con il Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d. legisl. nr. 58), noto come Testo unico della finanza (TUF). Il TUF si articola in una disciplina degli intermediari, con riferimento ai servizi d'investimento e alla gestione collettiva del r.; una disciplina dei mercati; una disciplina degli emittenti, con riferimento all'appello al pubblico r., ai doveri di informazione, alla disciplina delle società quotate, alla tutela delle minoranze, al funzionamento degli organi di amministrazione e di controllo, all'abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione; una definizione del regime di sanzioni penali e amministrative nel caso di violazione della legge o dei regolamenti emanati dalla Consob.
La regolazione e la legislazione sui mercati finanziari e sulla tutela dell'investitore ha assunto una dimensione europea. Per promuovere un mercato unico dei servizi finanziari all'interno dell'Unione Europea, la Commissione ha promosso, e il Consiglio e il Parlamento hanno approvato, una serie di direttive volte ad armonizzare i principi minimi cui le variegate legislazioni nazionali devono ispirarsi. In esecuzione del Piano d'azione per i servizi finanziari, la produzione legislativa europea, cui si devono conformare gli ordinamenti nazionali, è stata assai intensa. Il regolamento sui principi contabili e le direttive sugli abusi di mercato, sugli organismi collettivi di investimento, sui prospetti di quotazione, sulla trasparenza dell'informazione periodica, sui mercati degli strumenti finanziari rappresentano solo gli esempi più importanti. Al tempo stesso è stato istituito un foro delle autorità nazionali di regolazione (The Committee of European Securities Regulators) per assicurare una cooperazione transfrontaliera a livello europeo e il coordinamento della regolamentazione.
Alla fine del grande boom di borsa degli anni Novanta negli Stati Uniti - il Paese ritenuto più affidabile per corporate governance e qualità della legislazione e della regolazione - si sono verificati numerosi e gravi scandali societari, che hanno coinvolto importanti imprese quotate (fra le quali Enron e WorldCom sono le principali). In società ritenute solide si sono palesate all'improvviso perdite gravi e spesso tali da provocare irrimediabili bancarotte, con perdite ingenti per i risparmiatori. Casi analoghi si sono successivamente manifestati in Europa, e in particolare in Italia, dove i fallimenti di Cirio e di Parmalat hanno distrutto il r. di centinaia di migliaia di investitori i quali avevano acquistato le azioni, e soprattutto le obbligazioni, delle due società.
Vi sono alcune cause ricorrenti di questi episodi patologici, anche al di là dei comportamenti fraudolenti dei manager e/o degli azionisti di controllo: collasso di tutti i presidi di controllo interno e del controllo di revisione; collusione di interessi fra controllori e controllati a danno degli azionisti e dei creditori; fenomeni analoghi nel caso delle banche, i cui analisti continuavano a raccomandare l'acquisto dei titoli di società di fatto fallite o prossime al fallimento; impiego, per occultare le perdite, di veicoli societari collegati con sede in giurisdizioni compiacenti; arretratezza della regolazione e ritardi delle autorità di vigilanza rispetto al ritmo della innovazione finanziaria.
La reazione legislativa agli scandali societari è stata immediata e dura negli Stati Uniti. Il Sarbanes-Oxley Act del 2002 ha introdotto una disciplina stringente dei revisori, ha esteso le responsabilità dei consigli di amministrazione, inasprendo le sanzioni (con previsioni di reclusione sino a venti anni), ha aumentato gli obblighi di informazione, è intervenuto sui conflitti d'interesse degli analisti finanziari, ha dotato la SEC di nuovi poteri e di nuove risorse. La reazione in Italia è stata più lenta. Dopo quasi due anni di gestazione una nuova legge sulla tutela del r. (nr. 262) è stata approvata solo alla fine del 2005. Essa, insieme alle nuove disposizioni sugli abusi di mercato recepite dalla direttiva europea, contiene innovazioni importanti in materia societaria (con un rafforzamento dei controlli interni sulla gestione delle imprese, con la previsione di un amministratore espresso dalle minoranze, con una disciplina rigida della trasparenza di società controllate e collegate stabilite in giurisdizioni note come paradisi legali), sul collocamento di strumenti finanziari da parte degli intermediari, sui conflitti d'interesse, sulle sanzioni, sul potere della Consob.
Queste iniziative legislative hanno suscitato numerose obiezioni: si è eccepito in particolare alle limitazioni che esse pongono alla libertà statutaria delle società nonché ai costi per le imprese che derivano dall'adeguamento alle nuove disposizioni. Certo, in alcuni casi si possono ravvisare eccessi di reazione e si può ritenere troppo elevato il rapporto fra costi e benefici della regolazione. È questo tuttavia il risultato, non facilmente evitabile, delle patologie acute di corporate governance che sono venute alla luce e dei danni inflitti a investitori ignari e non sufficientemente tutelati.
bibliografia
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