MACHIAVELLI, Ristoro
Nacque a Firenze il 19 ag. 1552 da Ristoro di Lorenzo e dalla seconda moglie di questo, Simona di Ludovico Alamanni. Era il penultimo di sei figli, tre maschi e tre femmine, l'ultima delle quali postuma. Al battesimo gli fu imposto il nome Ludovico in onore dell'avo materno, ma alla morte del padre, avvenuta il 17 giugno 1553, ricevette il nome paterno.
La famiglia Machiavelli, ricca e potente, proprietaria di vasti terreni e di diritti di patronato su chiese e cappelle, era nel ceto dirigente fiorentino almeno dalla fine del secolo XIII. Anche il padre del M. - facoltoso imprenditore nel settore della lana e, in misura minore, in quello della seta e con importanti interessi economici anche a Roma - fu sporadicamente presente nelle cariche pubbliche: due volte console e una volta camarlingo dell'arte della lana, fece parte dei Dodici buonuomini e del Consiglio dei duecento, degli ufficiali del Monte e dei capitani del Bigallo. La partecipazione a queste cariche dimostra che, anche se egli non fu tra i principali collaboratori dei Medici, del tutto destituito di fondamento è il giudizio espresso da Arditi sui genitori del M., che, al pari degli altri giovani coinvolti nella congiura di Orazio Pucci, descrive come "vissuti scorretti e nati di cattivi e maligni padri" (p. 150).
Della fanciullezza del M. si sa soltanto che alla morte del padre egli rimase con i fratelli sotto la tutela della madre e che, nonostante la perdita, le loro condizioni economiche rimasero floridissime, come dimostra l'entità delle doti corrisposte alle sorelle in occasione dei loro matrimoni: 5000 scudi per Costanza, sposata nel 1566 con Lorenzo Guicciardini, e ben 9000 scudi per Ludovica, sposata nel 1575 con Francesco di Piero Capponi.
Dalla tutela materna il M. si liberò il 1 maggio 1571, quando entrò in possesso della metà del patrimonio familiare perché nel frattempo era morto il fratello maggiore Filippo, lasciando soli eredi il M. e il fratello Lorenzo. A quest'ultimo il 27 dic. 1574 il M. fece donazione, con apposito atto notarile, di tutti i suoi beni immobili situati nello Stato fiorentino, riservandosi invece la sua porzione dei proventi degli uffici venali romani detti "porzioni di Ripa". Nell'atto non si esplicitano i motivi della decisione: alla luce degli avvenimenti successivi si può ipotizzare che la cattura, il 1 sett. 1574, di Cosimo Rinieri per cospirazione contro Francesco I de' Medici facesse presagire un imminente pericolo anche per il M. e che egli cercasse dunque con questo espediente, poi rivelatosi inutile, di sottrarre alla confisca i beni di famiglia. Il M., infatti, a quella data aveva certamente già cominciato a frequentare il gruppo di giovani antimedicei che si riunivano nella casa di Piero Ridolfi.
Si trattava di circa venti persone che, come ha dimostrato J. Boutier, erano collegate da vincoli di parentela o affinità e che, benché appartenenti a famiglie del ceto dirigente, erano imparentate in vario modo con esponenti dell'opposizione antimedicea: il capo del gruppo, da cui in seguito la presunta congiura prese il nome, era Orazio Pucci, figlio di quel Pandolfo che nel 1560 era stato giustiziato per aver cospirato contro Cosimo I de' Medici; due erano della famiglia Alamanni, uno dei quali, Niccolò, era stato anch'egli implicato nella congiura del 1560; altri due appartenevano alla famiglia Capponi, fratelli di Francesco che, oltre che cognato del M., era cugino di secondo grado. Il M., poi, era imparentato per parte di madre anche con gli Alamanni. I loro sentimenti, vagamente libertari, repubblicani e decisamente antimedicei, erano stati rafforzati dalla successione, nell'aprile 1574, di Francesco I, figlio di Cosimo, che aveva adottato metodi di governo e comportamenti personali più autoritari e aggressivi di quelli del padre. Fu facile pertanto per il Pucci e per il Ridolfi, i due principali punti di riferimento del gruppo, fomentare l'odio e il risentimento. Poiché il loro quartier generale era la casa di Piero Ridolfi in via Maggio, adiacente al palazzo di residenza di Bianca Cappello, l'amante del granduca, capitava loro spesso di vedere dalle finestre il Medici che si recava ai convegni amorosi; ciò li indusse a fare progetti più o meno fantasiosi sui modi di attentare alla vita di Francesco de' Medici. La loro ingenuità e l'improntitudine giunsero fino al punto che il Ridolfi fece coniare in Roma una medaglia con l'immagine del tirannicida Bruto.
Quasi tutti i membri del gruppo avevano anche interessi a Roma, tanto che lì si diffusero le prime notizie sulla presunta congiura e lì furono raccolte dal cardinale Ferdinando de' Medici, che provvide a informarne il fratello granduca. L'età (erano tutti giovani intorno ai venti anni) e i comportamenti tenuti dal gruppo sembrerebbero dar ragione al cronista Giuliano de' Ricci, che riduce la presunta congiura a una bravata "da fanciulli", ma il granduca fu di tutt'altro avviso: non solo prese quelle velleità molto sul serio, ma si abbandonò a provvedimenti repressivi di sproporzionata ferocia, almeno su coloro che, come il M., sottovalutando il pericolo, non si misero in salvo con la fuga. Dopo Cosimo Rinieri fu Orazio Pucci a essere catturato, il 24 apr. 1575. Per lungo tempo Pucci non poté essere interrogato perché nell'imminenza dell'arresto aveva tentato il suicidio. I persecutori allora aspettarono che fosse guarito dalle ferite che si era inferto volontariamente per interrogarlo sotto tortura e strappargli i nomi di tutti i membri del gruppo. Il Ricci, tuttavia, afferma che a compromettere il M. furono alcune lettere inviate dal Ridolfi, rifugiato a Venezia, a lui e al proprio padre Lorenzo. La verità è che il M. era già stato individuato e fin dal 6 maggio 1575 il suo nome era citato in una lettera da Roma del cardinale Ferdinando de' Medici al granduca.
Nel maggio 1575 la cattura del Pucci fu seguita dalla citazione e ai primi di giugno dall'emissione del bando in contumacia contro Antonio Capponi e Piero Ridolfi e nel successivo mese di agosto dall'esecuzione, mediante impiccagione, dello stesso Pucci. Ma neppure questi avvenimenti indussero il M. a lasciare lo Stato fiorentino; anzi, dopo aver ceduto al fratello i propri beni, non mostrò altri segni di apprensione e continuò nella solita vita, impegnandosi nei preparativi per il matrimonio della sorella Ludovica con Francesco Capponi.
Il 19 sett. 1575, secondo il Ricci, o il 29 settembre, secondo Arditi, dopo la tortura del Pucci, un giovedì mattina, proprio nel giorno in cui nella sua casa fervevano i preparativi per il pranzo nuziale, il M. fu arrestato e tradotto nelle carceri del Bargello. Vi rimase circa venti mesi. Mentre era in carcere, il Capponi tentò di avvicinarlo, chiamandolo nottetempo dalla strada, sotto la finestra della segreta in cui era detenuto, ma fu a sua volta condannato a un anno di confino. Il 30 apr. 1577 terminò il processo, istruito congiuntamente contro di lui e Cosimo Rinieri da Lorenzo Corboli, cancelliere degli Otto di guardia e balia, la magistratura competente per i reati più gravi. Le imputazioni furono "havere cogitato, pensato, ragionato, congiuntamente cospirato et machinato [(] contro alla persona del serenissimo granduca et suo felicissimo stato, excogitando varii et diversi modi di privare S.A.S. di vita et de' poteri dello stato", in concorso con Orazio Pucci, Piero Ridolfi e altri (Arch. di Stato di Firenze, Camera e auditore fiscale, filza 2145, cc. 9-10). Si trattava, stando alle parole della sentenza, di semplici velleità, senza alcun tentativo concreto di metterle in atto.
Ciò smentisce quanto asserito da Litta, a proposito della fattispecie di reato attribuita al M. e della scansione cronologica degli avvenimenti: egli afferma, infatti, che il M. fu accusato di essere "ladro, scassatore e macchinatore contro Cosimo". Anche Galluzzi tuttavia pone il disegno criminoso in un tempo precedente alla morte di Cosimo I; probabilmente i progetti furono più di uno, ma ugualmente vaghi e velleitari.
Al M. e al Rinieri durante gli interrogatori furono strappate ammissioni, verosimilmente per mezzo della tortura, poiché nella sentenza si fa riferimento alle loro "confessioni, ratificationi et soscritioni". In ogni caso, pur trattandosi di semplici intenzioni, il reato ricadeva nell'ampia gamma di quelli riconducibili alla lesa maestà e pertanto regolati dalla terribile "legge polverina", fatta elaborare da Cosimo I al suo auditore Jacopo Polverini, che comportava, oltre alla pena di morte da eseguirsi in maniera infamante, la confisca dei beni del reo. Pertanto gli Otto di guardia condannarono all'unanimità ("nessuno discrepante") il M. e il Rinieri alla pena di morte mediante decapitazione, "accioché niuno per alchun tempo possino di tale pessimo et detestabile delitto gloriarsi, ma che la pena loro siasi in exempio delli altri" (Arch. di Stato di Firenze, Camera e auditore fiscale, filza 2145, cc. 9-10).
Il 6 maggio 1577 fu eseguita la condanna a morte, dopo aver issato i due colpevoli su un palco appositamente costruito sulla piazza di S. Apollinare, in modo che tutti potessero assistere all'orrido spettacolo.
I beni del M. furono accuratamente inventariati e confiscati, nonostante il ricorso della madre e del fratello, che cercarono di far valere la cessione effettuata nel 1574. Questi beni, come quelli analogamente confiscati agli altri congiurati, furono donati dal granduca Francesco I al fratello, il cardinale Ferdinando, come segno di riconoscenza per avergli svelato la congiura. In seguito Lorenzo Machiavelli ricomprò dallo stesso Ferdinando i beni di famiglia.
Fonti e Bibl.: Gran parte delle notizie sul M. e i suoi familiari si ricava da un libro di ricordanze e da un giornale di entrate e uscite iniziati dal padre del M. e continuati dal fratello Lorenzo, rispettivamente dal 1538 al 1578 e dal 1552 al 1577, e conservati nella Biblioteca Marucelliana di Firenze, Mss., A. 229, cc. 193-248. Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del principato, filza 5089, n. 46 (lettera di Ferdinando de' Medici del 6 maggio 1575); Camera e auditore fiscale, filze 23, cc. 28-29; 361, cc. 226-227, 781-784; 1747, cc. 349-350; 2143, cc. 304-305; 2145, cc. 9-10; Notarile moderno, filza 2147, cc. 119-120; 2148, cc. 52, 124; B. Arditi, Diario di Firenze e di altre parti della Cristianità, a cura di R. Cantagalli, Firenze 1970, pp. 70, 150; G. de' Ricci, Cronaca, a cura di G. Sapori, Milano-Napoli 1972, pp. 179, 201, 212 s.; R. Galluzzi, Istoria del Granducato di Toscana sotto il governo della casa Medici, III, Firenze 1781, p. 149; G. Rondoni, I "giustiziati" a Firenze (dal sec. XV al sec. XVIII), in Arch. stor. italiano, s. 3, 1901, t. 28, p. 235; J. Boutier, Trois conjurations italiennes: Florence (1575), Parme (1611), Gênes (1628), in Mélanges de l'École française de Rome. Italie et Méditerranée, CVIII (1996), pp. 319-375; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, s.v. Macchiavelli di Firenze.