Ritratto di cose di Francia
Del R. esistono tre testimoni: una copia manoscritta (M), non autografa, che proviene dall’Archivio mediceo ed è conservata presso la BNCF, e due stampe, la giuntina (G) del 1532, pp. 59r-66r, e la Cambiagi (C), del 1782-1783 (Opere, 2° vol., 1782, pp. 149-55), derivante secondo i curatori da un autografo (oggi scomparso). I tre testimoni sono indipendenti l’uno dall’altro, ma tutti risalgono a uno stesso antigrafo e rispecchiano la medesima fase redazionale.
Circostanze di composizione. Trattandosi dell’ampliamento di un rapporto di missione, è necessario in primo luogo riassumerne le circostanze. Occorre considerare non soltanto le ultime due missioni di M. presso la corte di Francia tra il 1510 e il 1511, ma tutte quelle da lui svolte in precedenza nello stesso Paese, sempre in momenti di grande emergenza. La prima, con la lunga permanenza presso Luigi XII del 1500 allo scopo di risolvere il problema della mancata conquista di Pisa per l’inefficacia dei mercenari assoldati dal monarca francese, fu per il Segretario l’occasione di studiare agevolmente il Paese e, soprattutto, lo spirito dei governanti. Tre anni più tardi la situazione politica era cambiata molto. A motivare la seconda missione di M. a Lione, nel gennaio-marzo 1504, quale guida e sostegno dell’ambasciatore titolare Niccolò Valori, già presente in quella città, non era più l’esigenza di prevedere quali sarebbero stati i rapporti tra il re di Francia e l’imperatore dopo la presa di Milano da parte di Luigi XII (→ Discursus de pace inter imperatorem et regem), e di prevederne le ripercussioni per Firenze, ma la preoccupazione di arginare l’avanzata degli spagnoli, alleati di papa Giulio II, in seguito alla sconfitta dell’esercito francese al Garigliano del 28 dicembre 1503. Nella commissione della Signoria a M., datata 6 gennaio 1504, drammaticamente si esorta il mandatario a far intendere al re e al suo potente ministro, il cardinale Georges d’Amboise, arcivescovo di Rouen (Roano), che nient’altro rimane alla Repubblica fiorentina che la sua «piccola libertà», da salvaguardare «con ogni industria». Anche vi appare per la prima volta l’invito, rivolto personalmente a M., a osservare attentamente le disposizioni militari prese dalla Francia in soccorso della debole alleata e a riferirne subito alle autorità fiorentine aggiungendovi «coniettura et iudizio» suo.
Se le lettere di questo periodo sono tutte firmate da Valori, il loro contenuto indica il decisivo apporto del Segretario, il cui soggiorno viene prolungato per «osservare un poco più costoro, per vedere se se ne potesse trarre altro» (lettera del 7 febbr. 1504, in Legazioni e commissarie, a cura di S. Bertelli, 2° vol., 1964, p. 791). Sono queste congetture e giudizi formulati da M., richiesti o non, attraverso le varie missioni, che alimentano lo scritto finale sulla Francia.
Nel 1510, il Segretario trascorse quattro mesi in Francia (da luglio a ottobre), durante i quali cercò di proporre la mediazione fiorentina insistendo sulla neutralità della Repubblica; nella breve missione diplomatica del 1512 (tra settembre e ottobre) fece ogni sforzo per allontanare dal territorio fiorentino il concilio scismatico che il re aveva convocato a Pisa. Dopo la scomparsa (25 maggio 1510) del potente ministro del re di Francia, il cardinale d’Amboise, sarà il gran cancelliere Jean de Ganay, fino al suo decesso (24 maggio 1512), l’interlocutore principale del Segretario. La diversità delle circostanze e delle situazioni, come la frequentazione delle varie personalità incontrate, anche al di fuori della ristretta cerchia al potere, e l’ascolto di ciò che si dice a corte, tutto ciò permette a M. di produrre una precisa descrizione del Paese identificando la struttura della società.
Riguardo alla datazione del R., è stata da tempo notata una discrepanza cronologica fra la descrizione della corte francese, databile attorno agli anni 1510-11, e l’allusione alla battaglia di Ravenna (→ Ravenna, battaglia di) dell’11 aprile 1512. Bisognerà quindi supporre che il R. comprenda un nucleo primitivo composto in occasione della missione diplomatica del 1510-11, con una descrizione dei rapporti interni della corte e della situazione internazionale corrispondente ai mesi che seguirono la morte di Georges d’Amboise, a conferma di una prima elaborazione strettamente collegata a una relazione destinata alle autorità fiorentine, come dimostra anche l’uso della seconda persona plurale per designare i destinatari. A questo nucleo primitivo furono aggiunti in seguito passi relativi alla situazione storica della primavera del 1512 con il riferimento espresso alla battaglia di Ravenna dell’11 aprile e, indirettamente, alla morte di Jean de Ganay avvenuta il 24 maggio. Dall’analisi fattane da Jean-Jacques Marchand, che ne fornisce il testo, nella sua monografia del 1975 (Niccolò Machiavelli: i primi scritti politici (1499-1512). Nascita di un pensiero e di uno stile, p. 264), il R. sarebbe stato costruito secondo un piano che andava dal generale (lo Stato di Francia) al particolare (la corte), con la figura del re come punto di partenza (simbolo della saldezza dello Stato) e punto di arrivo (autorità suprema al centro della corte). Emerge un tema fondamentale: il progressivo accentramento di vasti territori e di tutti i poteri nelle mani del re e, parallelamente, la diminuzione dell’autorità baronale e la sottomissione del popolo non bilanciate dall’emergere di una potente classe borghese.
Nonostante l’accenno alla differenza tra Francia e impero, lo scritto non è costruito sull’opposizione fra due regimi politici: il R. costituisce una descrizione del regno di Francia e un’analisi della sua organizzazione, in quanto ricerca delle caratteristiche fondamentali di uno Stato potente che prelude alle opere maggiori. Perciò, nel suo svolgimento, appaiono evidenti parallelismi tra la Francia e le altre grandi monarchie europee: Spagna e Inghilterra.
Si noterà, in primo luogo, il carattere frammentario del testo, suddiviso in paragrafi spesso sconnessi, soprattutto verso la fine: per es., l’importante § 126 sul «franco arciere» si trova schiacciato tra i due paragrafi che evocano i diritti di Francia e Inghilterra su territori al di fuori delle loro frontiere e che, logicamente, avrebbero potuto essere riuniti. L’ultimo paragrafo poi (134), su parrocchie, vescovati e arcivescovati inglesi, appare completamente slegato dal contesto, e il lettore dovrà ravvicinarlo al discorso analogo riguardante la Francia. Già Federico Chabod (1964) notava in proposito che «v’è indubbiamente un certo disordine di composizione», ma che, nonostante l’impressione di una «relazione informativa», quel che colpisce è «il momento politico» che batte «sulla potenza della monarchia» (pp. 364-65).
Bisognerà quindi stabilire il debito rapporto tra questo scritto sulla Francia, compendio di tutte le esperienze francesi del Segretario, e un precedente, il De natura Gallorum (in SPM, pp. 453-57), composto fra il 1500 e il 1503, in seguito quindi alla prima missione dal luglio al dicembre 1500, la sua più lunga e spiacevole esperienza in terra di Francia. Accingendosi a chiudere la serie di aforismi che compongono quello scritto, M. affermava a proposito dei francesi, come per riassumere l’aspetto fondamentale del loro carattere, che sono «varii e leggieri». A livello politico, i due termini si traducono in mancanza di fermezza e di chiaroveggenza, le due qualità indispensabili al vero uomo politico. Ma nel R., composto una decina di anni dopo, il punto di vista è cambiato: non più il carattere dei francesi, presi in blocco, ma la saldezza del regno cui ha condotto l’intelligente politica dei monarchi.
Che le «cose di Francia» si riferiscano essenzialmente alla monarchia francese, lo esprime chiaramente la frase introduttiva: «La corona e gli re di Francia sono oggi più gagliardi, ricchi e più potenti che mai fussino per le infrascritte ragioni» (§ 1, in SPM, p. 546). Le «ragioni» enumerate sono la ricchezza della monarchia («le sustanzie e stati e beni proprii», § 2), la sottomissione di baroni un tempo rissosi e inclini ad allearsi con potenze straniere, l’appartenenza dei principali baroni al sangue reale («per questo ciascuno si mantiene unito colla corona, sperando o che lui proprio o li figliuoli suoi possino pervenire a quel grado», § 8, in SPM, p. 547), la legge di primogenitura che evita la frammentazione del regno e per giunta spinge gli altri fratelli al mestiere delle armi mediante il quale sperano di acquistarsi «uno stato». L’osservazione sulla primogenitura sfocia così nelle considerazioni militari, la costituzione della cavalleria francese, la migliore del mondo («E di qui nasce che le gente d’arme franzese sono oggi le migliori che sieno», § 13, in SPM, p. 548). Ma, di rimbalzo, approda al ben noto deprezzamento psicologico («E’ Franzesi per natura sono più fieri che gagliardi o destri; e in un primo impeto chi può resistere alla ferocità loro, diventono tanto umili e perdono in modo l’animo che divengono vili come femine», § 22, in SPM, p. 549), con relativa esemplificazione storica: la battaglia del Garigliano, quando l’esercito francese, superiore in numero, fu disfatto da quello spagnolo per non aver saputo resistere in condizioni disagiate; o la battaglia di Agnadello (indicata da M. come giornata di «Vailà», Vailate, attualmente in provincia di Cremona), quando i veneziani comandati da Bartolomeo d’Alviano non seppero contenere il proprio furore attaccando troppo presto l’esercito francese, prima che questo fosse fiaccato dall’attesa, e ne furono sconfitti. Quanto alla già citata battaglia di Ravenna, vinta dai francesi al prezzo di gravissime perdite, la ragione della loro vittoria fu la precipitazione spagnola che non tenne conto del temperamento francese, quale è caratterizzato dall’autore attribuendo a Cesare un giudizio sui Galli che è in realtà di Livio («E però Cesare disse e’ Franzesi essere in principio più che uomini e in fine meno che femine», § 29, in SPM, p. 550). Probabilmente il trasferimento della sentenza da Livio a Cesare contribuisce ad avvalorare il giudizio espresso.
L’autore torna quindi alla descrizione del regno con le sue ricchezze naturali (l’ampiezza del territorio, i grandi fiumi) e, a contrasto, la povertà dei «popoli», i quali possono appena mettere insieme i soldi per i dazi da pagare ai signori, poiché non sanno a chi vendere i prodotti agricoli, che tutti hanno in abbondanza. Quanto ai signori, già ricchi in natura (bestiame, pollame, cacciagione), spendono il denaro che ricevono dai popoli solo nel vestire. Un’osservazione, questa, che rivela il cittadino fiorentino, sempre interessato se non implicato nel funzionamento delle Arti maggiori, prevalentemente quelle tessili, fornitrici delle corti europee.
Tra i signori si distinguono i prelati. M. pone l’accento su un dato che segna la situazione francese fino alla vigilia della Rivoluzione: l’esorbitante ricchezza del clero («Li prelati di Francia traggono 2/5 delle entrate e ricchezze di quello regno», § 33, in SPM, p. 551); dopo l’invariabile accenno all’avarizia, di cui vien sottolineato l’aspetto antieconomico («tutti li denari che li pervengono in mano non escono mai»), è messo in rilievo lo sviluppo artistico (l’«ornamento delle chiese») al quale la ricchezza del clero è almeno in parte destinata. In Francia – osserva poi l’autore, che ne aveva avuta larga esperienza – i prelati intervengono grandemente «nel consultare e governare» (§ 35, in SPM, p. 552) lo Stato, una particolarità che colpisce il cittadino di una repubblica laica quale era quella fiorentina. L’eccezione francese (la prammatica sanzione emanata il 7 luglio 1438 da Carlo VII) stabilisce che i benefici ecclesiastici siano conferiti dai loro collegi, senza intervento regio: una specie di distinzione fra Chiesa e Stato alla quale generalmente i re si confanno. Più oltre (SPM, pp. 555-56), l’autore evocherà il numero ingente dei vescovati e arcivescovati, delle parrocchie e delle badie, senza commento, come se le cifre parlassero da sole. Ma alla parrocchia è legata l’istituzione del «franco arciere», obbligato a tener cavallo e armi a spese della parrocchia e a esser pronto, a un cenno del re, ad accorrere ovunque ci fosse pericolo: «secondo le parrocchie», essi sono un milione e settecento, cifra poco attendibile, ma che comunque evoca un contingente più che rispettabile in difesa del regno; senonché questa truppa popolare, costituita di «ignobili» e di «gente di mestiero», è troppo inesperta per essere affidabile in una vera guerra (§ 15, in SPM, p. 548), e la sua virtuale presenza non inficia la preferenza del re per quella ben reale di svizzeri o tedeschi, che il monarca francese sa tenere a bada.
Gli alloggiamenti dell’esercito sono disposti in modo da non procurare disagio alle popolazioni, che sono quindi retribuite secondo le prestazioni fornite e ben precisate.
M. si sofferma – senza prendere posizione – a esporre i diritti («le ragioni») accampati dalla Francia sullo Stato di Milano, e dall’Inghilterra sul regno di Francia. Questi contrasti d’interesse motivano le guerre in corso e quelle in preparazione. Nel susseguirsi dei paragrafi, al raffronto Francia/Spagna fa seguito quello Francia/Inghilterra e, inaspettatamente, ma non senza una logica interna al testo, questo si chiude sulla notazione senza commento del numero degli arcivescovati, dei vescovati e delle parrocchie d’Inghilterra, di gran lunga inferiore a quello di Francia.
La politica estera francese è poi misurata su un dato caratteriale – l’avidità di beni altrui – altrettanto malevolo quanto quello, già indicato, che riguarda l’attitudine militare; si noteranno, anche in questo caso, il parallelo con la Spagna e, al tempo stesso, l’espressione divertita:
La natura de’ Franzesi è apetitosa di quello d’altri; di che, insieme col suo e quello altrui, è poi prodiga; e però il Franzese ruberia collo alito per mangiarselo e mandarlo male, e goderselo con colui a chi lo ha rubato; natura contraria alla spagnuola, che di quello che ti ruba mai ne vedi niente (§ 40, in SPM, p. 552).
Si susseguono quindi i riferimenti agli avversari dei francesi: gli inglesi, che i francesi temono molto, dopo le antiche invasioni e distruzioni, ma irragionevolmente, dato che i tempi non sono più gli stessi e non ci sono più quegli Stati regionali (Bretagna, Borgogna) che ne favorivano le imprese devastatrici. Potrebbero temere invece gli spagnoli, ma la geografia li protegge (i Pirenei e l’aridità di quella regione che dissuadono gli spagnoli dal tentare un’invasione della Francia). Il discorso si fa insieme più preciso e complesso riguardo ai fiamminghi, dei quali vengono individuate, da un lato, la scarsa produzione agricola, dall’altro, l’attività manifatturiera – situazione che li rende docili alla monarchia francese per non intralciare gli scambi («[...] e’ populi di Fiandra vivono di opere di mano, le quali merce e mercanzie loro smaltiscono in sulle fiere di Francia», § 48, pp. 553-54): mai, se non forzati, farebbero guerra alla Francia. Ben diverso è il caso degli svizzeri, temuti dai francesi per la vicinanza e per la possibilità di attacchi repentini: ma anche alla pericolosità degli svizzeri c’è un limite, nella loro natura più atta alla battaglia campale che all’espugnazione di fortezze. Quanto agli italiani, i francesi non li temono di certo, per la loro divisione («per non essere in Italia principe atto ad assaltarli, e per non essere Italia unita come era al tempo de’ Romani», § 54, in SPM, p. 555). A Sud, il mare protegge il regno, e una flotta abbondante sta a guardia da inopinati assalti. La regola generale nella difesa di Francia sembra essere la previdenza («giucare al sicuro», § 56, in SPM, p. 555), una regola che non implica spese ingenti grazie all’obbedienza dei sudditi.
Come logica conseguenza, all’aspetto militare fa seguito quello fiscale, e anche su questo punto prevale l’autorità regia, la quale di rado consente taglie o prestiti straordinari («se non per qualche grandissima necessità», § 69, in SPM, p. 556). Il testo si fa enumerativo, ma indica con precisione chi è incaricato del pagamento e chi ne è beneficiario, secondo una gerarchia che funziona con regole fisse («Li tesaurieri tengono lo argento e pagono secondo l’ordine e discariche de’ generali», § 75, in SPM, p. 557).
Ci sono poi uffici di prestigio che implicano reale potere, come quello del gran cancelliere, titolare di una potestà assoluta («merum imperium»), che intrattiene una piccola corte invitando numerosi commensali alla sua tavola («avvocati e altri gentili uomini che lo seguono», § 79, in SPM, p. 558). L’amministrazione delle province è affidata ai governatori, in numero e in qualità a beneplacito del re («E’ governatori delle province sono quanti el re vuole e pagati come al re pare», § 82, in SPM, p. 558). L’assoluta dipendenza di ogni ufficio dal re è ribadita a guisa di solenne conclusione: «E avete a sapere che tutti li officii sono donati o venduti dal re e non da altri» (§ 84, in SPM, p. 559).
M. evoca le riunioni dei parlamenti provinciali («stati») che sono annue, benché in mesi diversi, secondo la volontà regia; enumera le università con menzione speciale di quella di Parigi. Ma il discorso torna presto sull’argomento militare, con l’indicazione delle guarnigioni («[...] dove vuole il re, e tante quante a lui pare», § 91, in SPM, p. 559). La volontà del re è motivo martellante, come nella frase che compendia l’inchiesta sull’appannaggio personale del re: «Ho fatto diligenzia di ritrarre quanti danari sieno assegnati lo anno al re per le spese sue di casa e della persona sua: truovo averne quanti ne domanda» (§ 94, in SPM, p. 560).
Scozzesi e alamanni costituiscono la guardia della persona del re, comandati dai loro capi. Francesi invece sono i furieri e i marescialli d’alloggio, di cui l’autore vanta l’«ordine mirabile» con cui guidano e dispongono la corte itinerante di quell’epoca, in modo che all’arrivo ciascuno ha il suo posto «fino alle meretrici» (§ 102, in SPM, p. 561). Un ordine mirabile che suona come l’elogio di tutto l’ordinamento del regno.
L’analisi delle ragioni politiche della potenza regia costituisce la parte più elaborata dello scritto: le varie cause (ereditarietà della corona e progressivo accrescimento di beni legati alla corona, sottomissione dei baroni ribelli, scomparsa di ogni pericolo d’intervento straniero per la fedeltà baronale, accentramento dei beni baronali nelle mani di membri della famiglia reale, diritto di primogenitura che mantiene saldezza e unità dei possessi) sono enumerate in un ordine strettamente logico: una concatenazione di cause e conseguenze che illustra il modo dinamico in cui viene concepito il movimento centralizzatore, ispirato dal monarca dal quale tutto dipende, pur se mediante l’autorità baronale a cui sottostà il popolo.
Anche quando appare descrittivo, il R. conduce sempre a constatazioni politiche. Il caso più interessante è quello che riguarda l’aspetto militare: sottoposto ai baroni, il popolo è incapace di combattere («tanto sono in ogni azione depressi che sono vili», § 15, in SPM, p. 548), costringendo il monarca a ricorrere alle truppe mercenarie, le quali peraltro gli sono rispettose e fedeli. Ma si può dire lo stesso per l’aspetto economico. L’abbondanza dei prodotti agricoli determinata dall’ampiezza del territorio e dei suoi fiumi (la Francia è «grassa e opulenta», § 30, in SPM, p. 551) è sfavorita tuttavia dalla limitatezza della moneta e dei mercati («non hanno dove finire le grasce loro», § 31, in SPM, p. 551). Il denaro che affluisce verso i signori per poi accentrarsi nelle mani del re rimane, infatti, fuori del circuito economico ed è perciò improduttivo. Tramite la fiscalità – di esclusiva iniziativa monarchica, che ne impone entità e regolarità – si afferma il potere monarchico sui baroni, di cui vengono controllate le risorse tratte dal popolo, con compiacimento ovvio di quest’ultimo.
M. evoca con rispetto il «popolo», incapace di costituire una buona fanteria, ma che – oltre a pagare le tasse – lavora e fornisce prodotti agricoli o artigianali, nell’obbedienza assoluta al monarca per il quale ha una vera e propria venerazione. Espressione della relazione privilegiata re/popolo è la formulazione della richiesta eccezionale delle prestanze per quelle necessità del regno che solo il re può giudicare («Il re nostro sire si raccomanda ad voi, e perché ha faulta d’argento, vi prega li prestiate la somma che contiene la lettera», § 63, in SPM, p. 556). Il rapporto fra monarca e popolo di Francia non è scalfito dalle conseguenze di una giustizia severa, giacché l’amministrazione della giustizia incombe al gran cancelliere e quindi il re può evitare di trovarsi coinvolto in misure impopolari, mentre si riserva di far apparire il suo consenso in quelle favorevoli al popolo («le grazie si fanno per lettere reale sigillate col gran sigillo reale», § 78, in SPM, p. 558).
Tracciando i lineamenti di questo Stato feudale, M. distingue le due classi sociali che ne costituiscono la popolazione: la nobiltà («i gentili uomini») e il popolo, fatto di uomini liberi, ma intimamente asserviti all’autorità baronale, al punto che né loro né le loro donne «usono seta di alcuna sorte» (§ 60, in SPM, p. 555) per non incorrere nel biasimo dei nobili. Giacché il popolo non costituisce la fanteria francese e non è quindi presente sul campo di battaglia, solo alla nobiltà, che nell’esercito forma la pregiata cavalleria («gli uomini d’arme»), va riferita la poco lusinghiera notazione sul carattere al tempo stesso arrogante e poco valoroso dei francesi («più fieri che gagliardi o destri», § 22, in SPM, p. 549), che va dunque socialmente circoscritta.
Le qualità letterarie del testo sono evidenti, in larga parte indotte dall’uso di una lingua fiorentina agile ed espressiva (si pensi a un termine come appetitosa per ‘avida’), adatta in particolare all’ironia (a Ravenna i protagonisti mostrarono «poco consiglio e meno iudizio») e nella quale il soggetto francese apre il varco a numerosi gallicismi. Le endiadi formate con un termine popolare e uno latineggiante (una Francia «grassa e opulenta») vengono talvolta a soccorrere la solennità del testo senza renderlo pesante. La triplice caratteristica della Francia attuale condensata in tre termini («armata, esperimentata e unita», § 41, in SPM, p. 553) ribadisce espressivamente l’alto livello di potenza e di coesione raggiunto dalla monarchia francese. L’uso della parola furore per entrambe le parti in conflitto a Vailà, con la finale sconfitta dei veneziani, fa di questa battaglia un momento eroico e decisivo della recente storia italiana. Ma è soprattutto la sconfitta francese al Garigliano – contro un nemico inferiore di numero – a esser vivacemente descritta, con una scomposizione in quadri successivi che evidenzia il carattere principale della cavalleria francese, più ‘fiera’ che ‘gagliarda’ o ‘destra’: i francesi che il numero sovrabbondante rende sicuri di «inghiottire» gli spagnoli e che perciò sono poco vigilanti; la stagione delle piogge e del fango che demolisce il morale di quegli uomini insofferenti delle privazioni e dei disagi; la loro silenziosa fuga in cerca di una migliore sistemazione; il disordine del campo francese sfornito di difensori al momento dell’attacco (SPM, pp. 549-50).
Numerosi possono essere i raffronti di questo scritto con le opere ulteriori di M., con le quali mai viene a trovarsi in contraddizione: notevole soprattutto l’eco del R. nel Principe (cfr. cap. xix, sul sistema giudiziario favorevole al popolo), benché nel Principe venga soprattutto evocato il caso della conquista di Milano per la quale il regno di Francia è annoverato fra i principati misti (cap. iii). La visione positiva di uno Stato feudale ben governato dal monarca si va attenuando, tuttavia, nel Discursus florentinarum rerum (1520), nel quale i «baroni» – mediatori indispensabili di una monarchia – tengono ‘soffocato’ il popolo.
Bibliografia: F. Chabod, Scritti su Machiavelli, Torino 1964, pp. 363-66; M. Marietti, Un peuple volage, un royaume solide: les Français de Louis XII vus par Machiavel, in L’image de l’autre européen, XVe-XVIIe siècles, Actes du Colloque international, Paris 23-25 mai 1991, éd. J. Dufournet, A. Fiorato, A. Redondo, Paris 1992, pp. 81-95; M. Marietti, Machiavelli. L’eccezione fiorentina, Fiesole 2005, pp. 15-27.