Ritualismo
(v. rito, XXIX, p. 466)
In antropologia culturale il termine ritualismo si riferisce alla tendenza che porta a conformare i comportamenti umani a norme culturali di valore essenzialmente simbolico, osservandone il significato tradizionale ma anche adeguandole con scrupolo ai più nuovi e diversi contesti. Il termine va distinto dai concetti di ritualizzazione e rito, che, peraltro, non sono categorie separabili, poiché rappresentano il continuo dinamico di una stessa realtà: la ritualizzazione è, infatti, l'adeguamento ripetitivo e formale di ogni azione umana alle regole definite, mentre il rito ne è lo svolgimento effettivo.
Il r. è una tendenza fondamentale della cultura umana, che si riscontra in tutte le società con manifestazioni estremamente varie, per cui presenta caratteristiche costanti di universalità, tipiche delle leggi naturali, e insieme di variabilità proprie della cultura. Infatti, come fenomeno, non appartiene soltanto alla sfera del sacro, ma interessa ogni forma di attività individuale e collettiva, così come gli studi moderni hanno ampiamente documentato. La dicotomia tra sacro e profano, proposta da E. Durkheim, non è considerata cogente e precisa. Nella sua opera, Les formes élémentaires de la vie religieuse (1912), Durkheim basava le sue osservazioni sulle religioni totemiche degli aborigeni australiani, ritenuti all'epoca i popoli più primitivi, e riteneva che l'idea del sacro fosse derivata dall'esperienza individuale dei totem, oggetto di culto e nello stesso tempo simbolo dei clan. Nel ritualismo totemico ispirato alla mitologia cosmologica l'autore riteneva di riconoscere l'origine dell'ordine sociale, ossia della società, e delle regole del comportamento umano. Secondo tale concezione, le norme che distinguevano i rapporti verso il sacro dei totem e il profano dei clan costituivano la struttura dell'ordine sociale. È appena il caso di osservare che le argomentazioni durkheimiane non hanno retto di fronte alla pluralità etnografica delle religioni. Attualmente è convinzione diffusa che la distinzione tra sacro e profano costituisca più un impedimento che un aiuto per l'analisi e la comprensione del r. in genere (Kertzer 1988, p. 9). Tuttavia, il valore simbolico del presupposto mitico, il concetto di norma e di solidarietà collettiva, prospettati da Durkheim, continuano a essere validi strumenti della ricerca sociale e antropologica.
La teoria antropologica sul r. si è andata chiarificando specialmente nei decenni dopo la Seconda guerra mondiale, quando si è approfondita l'analisi delle grandi manifestazioni popolari organizzate dai regimi dittatoriali. Le dimensioni di quelle manifestazioni, che suscitavano l'adesione e l'entusiasmo delle masse popolari, hanno favorito i piani di guerra dei dittatori, portati fino alla tragedia dell'olocausto e della sconfitta e alla dissoluzione della stessa società. L'impatto che avevano esercitato sulla psicologia della folla si valeva della fastosa liturgia laica che nell'intenzione avrebbe dovuto annullare e sostituirsi alle feste religiose cristiane. Una tale pretesa di rivivere l'antico paganesimo risuscitando riti e credenze di un mitico passato, mentre metteva a nudo il carattere totalitario religioso dello stato, creava i presupposti di un aperto conflitto con le chiese.
Nel periodo dopo la guerra, le grandi adunate erano un'amara esperienza del passato, ma il r. è riemerso come fattore determinante della lotta politica. Le ricerche e le analisi della nuova realtà sociale hanno molto contribuito a chiarire il significato del r. come fenomeno culturale e politico. Una tappa significativa in tale senso si è avuta con le ricerche specifiche condotte dall'antropologo americano D. Kertzer, dapprima sull'antagonismo tra la parrocchia e la cellula del partito comunista nel quartiere Lame di Bologna (Kertzer 1980) e in senso più generale e comparativo sul rapporto tra rituale e potere politico (Kertzer 1988). L'analisi di Kertzer dimostra che il r., nella ripetitività senza tempo dell'azione rituale e del simbolismo, ha il pregio di ingenerare fiducia nelle incertezze della vita: "Il fissismo e l'atemporalità del rituale costituiscono un rassicurante elemento del tentativo di addomesticare il tempo e definire la realtà" (1988; trad. it. 1989, p. 19). I simboli che animano il rituale sono un condensato multivocale di concetti, si prestano cioè ai molti significati, che possono risultare complessi e ambigui, ma proprio da tale complessità e molteplicità di significati traggono la loro forza. La fissità senza tempo delle norme rituali può rendere il r. un elemento di conservazione politica e un ostacolo al cambiamento, ma il solo fatto, osserva Kertzer, che esso venga applicato lo può rendere una forza di innovazione: per paradosso, è proprio la forza conservatrice delle forme rituali a fare del rituale una forza potente del cambiamento politico.
Di fronte alla varietà pressoché infinita delle forme rituali, le ricerche antropologiche sul r., compiute durante gli anni Novanta secondo il metodo antropologico dell'osservazione partecipante in contesti culturali specifici, hanno dato un contributo etnografico determinante per una più approfondita comprensione del r. come fenomeno culturale.
Il ritualismo della morte
La straordinaria partecipazione di popolo al cordoglio per la morte della principessa di Windsor, lady Diana Spencer, ha costituito una manifestazione eccezionale di r. della morte.
Subito, con la notizia dell'incidente mortale diffusa il 31 agosto 1997, l'ondata emotiva è andata crescendo, coinvolgendo, attraverso la televisione e la radio, il mondo intero. Le circostanze del fatto, un incidente automobilistico apparentemente banale di cui è rimasta incerta la dinamica, hanno in un certo senso accomunato la principessa al destino delle tante vittime degli incidenti stradali. L'alto rango sociale di Diana non ha così impedito che la gente comune si sentisse pressoché identificata con la triste vicenda della principessa e ne percepisse, comunque, il lato umano. Il forte sentimento e l'unanimità delle dimostrazioni hanno avuto un ruolo determinante perché alla principessa fosse concesso il funerale di stato. Il rito, condotto secondo l'antico protocollo monarchico, ha avuto l'effetto di far dimenticare il distacco che aveva separato la principessa dalla famiglia reale.
In particolare sono stati due gli effetti derivati da questo r. della morte: la riabilitazione post mortem della principessa e il rinnovamento della solidarietà nazionale in Gran Bretagna. Se la curiosità di cronisti e mass media in genere si è presto esaurita, l'aspetto ritualistico dell'evento è attualmente scelto come oggetto di studio e di analisi nelle scuole, nei corsi universitari e nei convegni di studio. Le analisi hanno rilevato l'effetto prodotto dalla partecipazione unanime del popolo britannico, una grande emozione non priva di un certo fanatismo per l'esaltazione della 'principessa del popolo', fino a chiederne la santificazione quasi per voce popolare - vox populi, vox dei - (Watson 1997). Il senso di unità nazionale che si è manifestato nello svolgimento dei riti è stato ammirevole e sorprendente, e ha dettato comparazioni significative. Come ha sostenuto C.W. Watson, si potrebbe dire che come il sangue dei martiri è il seme della Chiesa, così la morte dei martiri sociali secolari può considerarsi il seme della rigenerazione della nazione. Un'affermazione ripresa da altri per sottolineare il fatto che il r. è servito per sostenere il tentativo di forgiare un popolo (Edwards, Simpson 1998, p. 15). Non c'è dubbio che il r. dell'evento abbia accomunato l'intera nazione sia nel cordoglio e nell'esaltazione per la morte così tragica di una principessa per tanti versi sfortunata, sia nella preoccupata discussione sul destino dei figli rimasti orfani di madre. Il senso di solidarietà che si andava creando era del tutto nuovo. La solidarietà popolare ha trasformato il r. della morte in una forza decisiva per rinsaldare il senso nazionale dell'intero popolo britannico e per restituire in morte a Diana lo status gerarchico di principessa che aveva perduto in vita.
In realtà, il r. della morte si avvera nelle più diverse circostanze e dà luogo a una serie di atti e di riti spontaneamente espressi secondo usanze e tradizioni familiari o prescritti dalle norme di legge, comunque culminanti nella liturgia religiosa o laica della sepoltura. Lo scopo che il r. persegue è quello di rinsaldare lo strappo causato dalla morte e di permettere alla società di riappropriarsi del defunto nella sua nuova condizione e, in un certo modo, di reinserirlo nelle proprie file. Le forme di una tale riappropriazione possono essere assai diverse. Il caso della principessa Diana ne è un esempio. Più comunemente si cerca di mantenere vivo il ricordo dei defunti con riti singolari e collettivi. Sono molte le culture che attraverso i riti assegnano i morti alla categoria degli antenati, detti in molte culture africane morti viventi. Nei casi, invece, che si tratti di morti senza prole si fa in modo di procurare loro una paternità post mortem. In tal senso non c'è costume più evidente del levirato. In molte culture antiche era obbligo del fratello del morto di ereditarne la vedova e, nella nuova funzione di leviro, di attribuire al morto la paternità dei figli avuti dalla vedova, costume, peraltro, che si riscontra tuttora presso diverse etnie africane e asiatiche. Il valore simbolico del levirato e di altri costumi affini pone in risalto, innanzi tutto, la differenza concettuale tra genitore e padre, ma lo scopo vero perseguito, come già osservava Evans-Pritchard (1956), era quello di assicurare la sopravvivenza del morto, restituendolo attraverso il r. al collettivo sociale dei viventi.
Lo stesso intento si riscontra nel rituale degli 'spiriti irrequieti', morti prematuramente senza prole, detto hsiu-kou-ku, praticato dalle comunità cinesi della Thailandia (Formoso 1996). La mancanza di ritualità con cui i morti senza prole vengono seppelliti è ritenuta per essi causa di tormento e ragione che li rende 'irrequieti', una minaccia per i viventi. Per tale motivo i Cinesi, quando temono che gli spiriti diventino nocivi, ne raccolgono le ossa in cumuli che bruciano con il rito della cremazione allo scopo di pacificarli e rabbonirli. Secondo Formoso, l'insieme di questi riti non ha solo lo scopo dichiarato di pacificare i morti, ma risponde a esigenze implicite di carattere profilattico e terapeutico e serve, in particolare, a consolidare l'identità etnica delle comunità cinesi nei confronti dei Thailandesi.
Il ritualismo del regicidio
Partendo dalla definizione del rituale come un'azione avvolta in una rete di simboli (Kertzer 1988), si può dire che non ci sia figura altrettanto avvolta in un tessuto di simboli come quella del re. Nel suo argomentare Kertzer si avvale di un'ampia casistica come, per es., l'incoronazione in tenera età di Carlo ix e di Luigi xiii di Francia, non ancora in grado di sostenere il peso fisico delle insegne regali, che pur dovettero indossare perché essenziali simboli dell'autorità reale e del potere. L'investitura trasforma il re da comune essere mortale, appartenente come tutti a una famiglia e a una parentela, in un essere elevato al rango reale, superiore e pressoché divino, che lo distacca dalla condizione degli stessi suoi parenti.
Vi sono sistemi monarchici in cui il re era ed è considerato dio, un'incarnazione della divinità. Nella sua persona si avvera la fusione tra sacro e profano, che in ogni caso sottolinea la condizione di ambiguità del monarca che, mentre viene investito di un potere simbolico che lo vuole portatore di vita e di forza, lo lascia esposto alla precarietà della vita umana e al destino finale della morte, come ogni comune essere mortale.
È per superare tale contraddizione che la persona del re viene rivestita di simbolismo e la sua attività privata e pubblica regolata da norme rituali. A tale proposito risulta illuminante l'osservazione di V. Valeri, relativa alla regalità e al sacrificio nelle antiche Hawaii, con la quale sottolinea come gran parte delle prescrizioni che circondano la sacra persona del re sono volute per mantenere la purità e l'integrità che lo rendono divino (Valeri 1985). Eppure, nonostante i tentativi di mantenerne salda l'integrità e di tenere lontano dalla sua persona la malattia e la morte, il destino della condizione umana lo persegue e lo condanna come ogni altro mortale. Nella realtà etnografica il rimedio lo si cerca nei riti che rispondono a norme estreme. Vi sono sistemi in cui il silenzio sulla vita personale del re è assoluto e si ritiene che le malattie e la morte non debbano toccare il re: sulla sua salute si fanno trapelare notizie generiche, e la notizia della sua morte viene rimandata fino alla concomitanza con la proclamazione del successore: morto il re, viva il re. Vi sono, invece, sistemi in cui, prima che la 'debolezza' intacchi il ruolo del re e la sua malattia metta a repentaglio il benessere e la sopravvivenza della nazione, lo si forza ritualmente, ossia per norma tradizionale, all'abdicazione dopo un breve periodo di regno (7 o 8 anni), o al suicidio, o al regicidio.
Negli ultimi decenni si sono avuti numerosi studi sul destino del 're divino', considerato tale perché ci si aspetta che egli sia in grado di garantire il benessere e la continuità della nazione. Com'è noto, il termine re divino risale a G. Frazer, che inizia la sua ponderosa opera The golden bough (1890) con il confronto tra il duello mortale del re nemorense e la sepoltura da vivo del reth degli Scilluk del Sudan meridionale. Il metodo di Frazer è stato sempre molto discusso, ma le sue intuizioni sono spesso risultate stimolanti. Le ricerche sui re bantu dell'antropologo belga L. de Heusch (1972, 1982, 1987), sul re dei Mundang del Ciad del francese A. Adler (1982), sui Pari del Sudan dell'olandese S. Simonse (1992) hanno ampiamente documentato la condizione del re divino, monarca esaltato nel pieno delle sue forze, esposto a fine violenta nel momento del declino. Adler e de Heusch si sono dichiarati neo-frazeriani e si sono attenuti alla sua linea interpretativa. In realtà, esiste una logica nel destino finale del re divino quando venga meno alle sue funzioni di garante: l'investitura non lo rende solo personalmente responsabile del benessere, ma anche del malessere che mette in pericolo la vita di tutti. Se ciò avviene, tocca a lui pagare per tutti e, appunto perché re, diviene il capro espiatorio che con il sacrificio della vita salva la nazione nella consumazione estrema del suo rango divino.
È in base a un tale ragionamento che, nel 1984, i Pari del Sudan meridionale arrivarono alla condanna a morte della regina Nyiburu. S. Simonse, che ha dato dell'episodio un resoconto dettagliato, informa di aver registrato tra il gruppo etnico dei Pari, cui appartengono anche i Bari, i Lotuho, i Lokoya e i Lulubo, una serie di 24 regicidi compiuti nel periodo tra il 1850 e il 1984 (Simonse 1992, p. 171). La condanna della regina Nyiburu avvenne al culmine di un lungo processo, durato quattro anni, segnati dall'aggravarsi di una siccità disastrosa. La regina tentò in tutti i modi di dimostrare di aver compiuto tutti gli atti prescritti dalla tradizione, ma il verdetto finale fu spietato: "tu ci stai uccidendo e abbiamo tutto il diritto di ucciderti" (Simonse 1992, pp. 360-64). I Pari, osserva Simonse, avrebbero ben preferito la pioggia alla morte della regina, ma quando la siccità divenne una calamità ineluttabile, il regicidio si impose secondo la tradizione come unica soluzione. Appare così evidente che il regicidio è una logica conseguenza del simbolismo rituale che investe il re divino, facendolo responsabile del bene e del male della sua nazione.
Il regicidio virtuale
La complessità dei riti che culminano nel regicidio costituisce una dimostrazione della multivocalità che Kertzer segnala come uno degli aspetti essenziali del ritualismo. Attraverso il simbolismo ritualistico è possibile, tuttavia, trasformare il regicidio in un evento prettamente virtuale. In uno studio del 1997, l'antropologo inglese A. Gell ne ha descritto un caso significativo relativo ai riti della regalità - dasara - dei Bastar. Sono questi un'etnia dell'India centrale, ritenuti primitivi e disprezzati dagli altri Indiani perché il loro sistema monarchico, pur essendo territorialmente molto esteso, non aveva una burocrazia sviluppata e non era sostenuto da un ceto di grandi proprietari terrieri, come negli Stati indù e musulmani.
Il sistema dei Bastar, infatti, era prevalentemente egalitario, ma comprendeva anche una struttura differenziata di caste alte e basse. Il rituale dasara si svolgeva per la durata di nove giorni e nel suo cerimoniale rifletteva le caratteristiche sociali del regno attorno a una forma di regicidio virtuale. La casta più bassa dei Mahar aveva il diritto di dare inizio al rito, scegliendo una bimba di circa sette anni come sciamana e medium per ottenere l'oracolo della dea Danteshwari, protettrice del regno. Soltanto il rāja può compiere i sacrifici offerti a Danteshwari, una divinità etnica di cui i Bastar sono gelosi, tanto che contestano la pretesa degli Indù di farne una divinità del proprio pantheon. Quando la piccola sciamana pronunciava l'oracolo della dea, il re - rāja - restava sospeso dalle sue funzioni per tutta la durata del dasara, mentre i poteri di governo passavano interamente nelle mani del primo ministro. Il rāja perdeva ogni diritto regale, non poteva più portare le insegne del regno, né godere dei privilegi; non poteva più comunicare con nessuno, né gli era lecito di muoversi da solo: lo si doveva trasportare su un palanchino ornato di drappi e bandierine. In sua vece, nella funzione regale subentrava un uomo scelto da una delle caste inferiori per essere, nei giorni del dasara, re-sostituto e prestarsi a fare il morto. Per tutti i nove giorni doveva restare a digiuno steso sulla cenere al fondo di una fossa scavata nel cortile reale, dentro la quale erano anche poste le offerte che, secondo il costume tradizionale, accompagnano il viaggio del defunto nell'oltretomba. Mentre il re-sostituto rimaneva nella condizione rituale di morto, il rāja, trascorsi i primi due giorni del dasara, veniva condotto all'altare della Danteshwari e agli altari delle altre divinità, per invocare la protezione divina. Al nono giorno la processione con l'immagine della dea Danteshwari chiudeva il rito. Il rāja attendeva all'ingresso del palazzo per introdurvi solennemente l'immagine e riprendeva le sue funzioni, rafforzato dal dasara. Anche il re-sostituto riprendeva la sua condizione sociale e ritornava, da uomo comune, alla sua vita normale.
Il simbolismo del dasara è carico di significati. Il suo scopo primario è quello di ridare vigore alla persona del rāja attraverso un regicidio essenzialmente virtuale e l'omaggio rituale alla dea Danteshwari; un ulteriore scopo è quello di rinsaldare la coesione sociale dei Bastar attorno al rāja. In altri regni indiani, dove si celebravano riti analoghi al dasara dei Bastar, il sacrificio di una pecora sostituiva il sacrificio del re: in realtà i sacrifici teriomorfici erano una forma ulteriore per eludere il regicidio.
D. Hicks, in un saggio sul rito sau-biu dei Tetum e degli Ema del Timor, descrive il significato del sacrificio della bufala e della scrofa, animali che presso i Tetum e gli Ema hanno un ruolo primario negli scambi matrimoniali. Hicks definisce regicidio il rito sau-biu, ma esso sembra più appartenere alla categoria dei riti che competono al re in funzione di 'facitore di pioggia', garante della prosperità della nazione. Il sau-biu si celebra nella stagione in cui la pesca diminuisce e, poiché i Tetum e gli Ema sono concorrenti nello sfruttamento della laguna che dà loro ricchezza, nella circostanza superano le competizioni e si mettono insieme per celebrare in comune i riti tradizionali (Hicks 1996, p. 614). La fase del rito richiede la selezione di un uomo fisicamente perfetto che assuma il ruolo di re temporaneo fino alla fine della celebrazione. Il prescelto viene condotto in riva alla laguna dove lo si proclama dio, lo si fa inginocchiare su una rete da pesca e gli si inferisce un colpo simbolico dopo il quale egli deve cadere simulando la morte. Gli si legano le mani come si fa ai morti e, dopo averlo avvolto in una rete, si compiono i riti che lo inseriscono nel mondo degli spiriti: è il momento del sacrificio della scrofa, di cui si versa il sangue nella laguna. Dalle barche i pescatori, accolti dalla folla tra danze e canti, iniziano la pesca e, al primo pesce, il re risorge e, senza più le mani legate, prende parte al sacrificio della bufala e al lancio delle sue interiora nella laguna. È il rafforzamento della persona del re che, secondo i Tetum e gli Ema, ottiene l'aumento della pesca e rinnova la solidarietà della nazione.
Il ritualismo politico
Il riconoscimento del r. politico ha messo in particolare risalto il suo valore laico. I riti si sono rivelati, infatti, strumenti efficaci per conseguire il potere e ottenere l'adesione ai programmi delle fazioni e dei partiti. Non è fuori luogo richiamare l'insegnamento dell'etologia che ha dimostrato come il r. regoli l'acquisizione del potere anche nel regno animale. I gesti e le lotte si svolgono secondo forme e ritmi ripetitivi sia per definire il territorio di pertinenza o vincere il duello tra maschi concorrenti, sia nei momenti dell'estro quando il maschio conquista la femmina. Mentre nel regno animale l'imprinting genetico guida alla ripetizione dei gesti, nel regno umano è la libertà di scelta che determina la grande varietà delle forme e degli scopi ritualistici.
Nella ritualizzazione politica i simboli assumono un valore essenziale e vengono scelti prevedendo l'effetto che possono produrre e l'efficacia di attrazione che si ritiene possano esercitare. Tutto, infatti, può essere assunto a simbolo, assegnando al segno prescelto un messaggio da trasmettere e un fine da raggiungere. La Costituzione scritta degli Stati e la considerazione pressoché sacra di cui essa è oggetto ne sono un chiaro esempio. La maggior parte dei cittadini ha una conoscenza sommaria dei singoli articoli della Costituzione, mentre conserva un'idea pressoché mistica del suo valore simbolico. Osservazione analoga si può applicare alla bandiera: non sono tanto i segni e i colori che suscitano aggregazione e rispetto, quanto il suo valore simbolico. Th. Herzl, il fondatore del sionismo, affermava con sottile arguzia che "con una bandiera si può fare di tutto, persino guidare il popolo nella Terra Promessa" (Kertzer 1988, trad. it. 1984, p. 231).
La lotta politica si vale più che mai dei simboli. Le parole, i gesti, gli eventi sono sempre suscettibili di significati e di valori relativi alle circostanze del momento e alla personalità di chi li vive. Il programma politico viene proclamato e diffuso attraverso forme ed eventi ritualizzati appunto per convogliare il messaggio al pubblico e mettere in luce le singolarità che lo qualificano. Le fazioni e i partiti politici ritualizzano gli eventi, fausti o tragici che siano, per trarne un significato che accrediti il loro programma. Il coinvolgimento politico è, in un certo senso, totalizzante soprattutto per chi di professione fa il politico. D. Kertzer (1988) compie un excursus amplissimo di avvenimenti politici del passato per scoprirne i significati e i valori simbolici e trarne motivo di comparazione per gli avvenimenti contemporanei. La conclusione cui giunge è che i simboli sono la sostanza della competizione politica. Ciò che appare problematico è la variazione che i simboli possono assumere nel tempo. Essi si rinnovano costantemente e il loro valore tradizionale costituisce normalmente un richiamo forte, ma in realtà lo si adatta alle circostanze del momento. Un tempo il contatto con i cittadini lo si stabiliva nei comizi di piazza, oggi lo si cerca nella televisione. Vi sono veri riti di passaggio che marcano i momenti solenni della vita politica, come le elezioni politiche, l'apertura delle legislature parlamentari, l'elezione e l'insediamento del capo dello Stato e di ogni altra carica parlamentare e statale. Sono eventi di cui il cittadino è semplice spettatore, nei quali si può sentire coinvolto a favore o in opposizione, o restare completamente indifferente. Le regole della politica si osservano e talora si trasgrediscono anche apertamente, ma qualunque sia la ragione per cui si seguono, sono sempre investite di un significato simbolico di valore politico.
Il ritualismo iniziatico
La promozione sociale che segna il passaggio dall'adolescenza all'età adulta è tra i momenti solenni e importanti della vita di un individuo. Non si tratta soltanto del riconoscimento formale dello sviluppo fisiologico dell'individuo, ma soprattutto della sua maturità sociale. Il primo effetto di un tale passaggio è l'identità personale che qualifica il candidato di fronte alla comunità di cui è parte. Ciò lo distacca definitivamente dalla tutela dei genitori, lo rende soggetto autonomo e attivo della vita sociale e, mentre gli si attribuiscono i diritti di adulto, gli si imprime il senso di responsabilità etica che consegue alla sua nuova condizione.
L'esigenza che momenti della vita tanto importanti siano formalmente celebrati ne implica la ritualizzazione. E, in realtà, non c'è società umana in cui i riti di passaggio dall'età adolescenziale a quella adulta non costituiscano un evento ricorrente della vita comunitaria. Si deve all'antropologo francese A. van Gennep l'elaborazione analitica del modello dei riti di passaggio, distinto nelle tre fasi essenziali: 1) abbandono, o morte, dello stato iniziale; 2) condizione liminare dei candidati in un periodo in cui apprendono le tradizioni e le norme della vita sociale; 3) acquisizione del nuovo stato, o resurrezione, dell'uomo nuovo.
I riti iniziatici hanno carattere eminentemente sociale, tutta la comunità ne è direttamente coinvolta, ma sono i singoli candidati i protagonisti rituali. Essi costituiscono un gruppo sociale a sé, ma il gruppo e i singoli individui emergono contemporaneamente nella novità della condizione sociale che li rende coetanei, in base alla comune età sociale o strutturale. L'esperienza vissuta nel passaggio iniziatico è tra i fattori più sentiti della personalità individuale. Lo confermano le ricerche degli antropologi e degli psicologi sulle iniziazioni giovanili tradizionali, in particolare sulla severità delle prove, talvolta crudeli, cui gli iniziandi vengono sottoposti. La relativa casistica etnografica, anche la più recente e attuale, è ricca e varia; ogni caso presenta una certa omogeneità di intenti nel cercare di imprimere nell'animo degli iniziandi il senso di responsabilità e insieme la coscienza della nuova identità con la solennità dei riti e la severità della prova fisica. Ne dà una conferma chiara e attuale H. Whitehouse in uno studio sull'embahi, rito iniziatico praticato dagli Orokaiva, un'etnia della Nuova Guinea. Questi riti iniziatici sono famosi per la crudeltà delle prove fisiche cui i candidati vengono sottoposti: perforazione del setto nasale, bruciatura dell'avambraccio, ferimento del pene (Whitehouse 1996, p. 703). In genere, la circoncisione e, per le ragazze, la clitoridectomia sono le operazioni che costituiscono la prova fisica dei riti iniziatici in molte etnie dell'Africa (oggi, dove ancora si praticano, si compiono negli ospedali). Il caso più crudele che si conosca in Africa era il gar dei Nuer del Sudan meridionale, un'operazione straziante, fatta con tre lunghi tagli che incidevano la fronte dei candidati da tempia a tempia e che li segnava per la vita. Non sembra pertanto esagerata la definizione di rituali del terrore applicata ai riti iniziatici giovanili. E, in realtà, la paura del dolore fisico accompagna l'esaltazione che anima i candidati alla vigilia della prova, in una cornice di isolamento e di segregazione comunitaria, dalla quale usciranno adulti. Il raggiungimento della maturità non è, quindi, un passaggio agevole, ma una conquista culturale e psicologica che segna una cesura profonda nella vita di ogni individuo e che ha proprio nel suo complesso ritualistico la cornice sociale di legittimazione e di promozione sociale.
Nel caso degli Orokaiva della Nuova Guinea, i novizi erano segregati all'interno di una capanna anche per mesi prima che il capo, ricoperto di un cappuccio, li prendesse con la forza per presentarli agli anziani del villaggio, che per l'occasione assumevano il ruolo degli spiriti embahi aggredendoli, in modo anche brutale, in una performance che segnava il culmine, ma non la fine, del rituale iniziatico. Subito dopo, gli iniziati erano condotti nel luogo dei sacrifici, dove rimanevano segregati ancora per un periodo di istruzione e di apprendimento delle tradizioni che poteva durare anche qualche anno. In seguito essi uscivano e compatti entravano nello spiazzo dedicato alle cerimonie per esibirsi in canti e danze di guerra e per dimostrare di avere appreso le tradizioni e di essere in grado di guidare una famiglia e di dirigere i riti, le danze e i canti comunitari. Quindi gli anziani li congedavano innalzando i propri trofei e decantando le proprie gesta di vittoria ad esempio e ammonimento. Il banchetto di carne chiudeva il lungo periodo di segregazione nella commensalità comunitaria (Whitehouse 1996).
Il ritualismo ludico
Forse non vi sono forme culturali in grado di dimostrare la tendenza al r. come il gioco e le gare competitive. Nel definire il gioco di solito si dà pieno risalto all'intento ludico e competitivo, mentre si trascura il valore delle norme. Esse sono, invece, essenziali per regolarne lo svolgimento, ed è la ragione per cui se ne impone la più scrupolosa osservanza, pena la non validità del gioco. In realtà, sono proprio le regole che tengono vivi il senso e lo scopo del gioco e che danno ai comportamenti ludici la ritualità che li fa riconoscere genuini e validi. Qualunque sia il suo intento, il gioco ricreativo o competitivo non può essere dissociato dalla ritualità normativa. Le stagioni e i contesti ambientali, i tempi e le fasi delle 'partite', le forme e le dimensioni degli attrezzi e degli strumenti, l'abbigliamento e il corredo, la formazione delle squadre e l'eventualità di giudici, non sono lasciati all'arbitrio, ma regolati da norme scritte tradizionali o consuetudinarie, che obbligano i partecipanti. Gli stessi sostenitori che seguono dall'esterno il gioco, apparentemente dissociati, in realtà devono anch'essi rispettare le regole del gioco e adeguarvi i propri comportamenti. Il fanatismo sportivo è un entusiasmo non impropriamente assimilato al fanatismo religioso. La sua manifestazione, per qualsiasi ragione favorevole o contraria, esplode in sussulti di entusiasmo incontrollabili che non di rado degenerano in atti di violenza anche tragici come quelli che, negli ultimi anni, hanno funestato gli stadi.
Il r. ludico è anche il contesto delle competizioni riprese dalle tradizioni medioevali dei trofei, e il Palio di Siena ne è, in tutti sensi, la manifestazione più tipica. Il r. ne regola con precisione le fasi. Innanzi tutto ne fissa il calendario al 2 luglio e al 16 agosto, così come regola il numero simbolico dei cavalli relativo alle 10 contrade partecipanti, e precisa nei tre giri della piazza del Campo il compimento della corsa. Lo spazio riservato agli spettatori è rigidamente fissato da uno steccato attorno al percorso, che spesso viene varcato nell'entusiasmo della vittoria e nella discussione sulle vicende dei cavalli e della corsa. La festa è vissuta in ogni contrada e in ogni famiglia con un senso di identità 'contradaiola' e cittadina. Con lo sviluppo del turismo, le competizioni pubbliche sul modello del Palio o che rievocano direttamente antichi trofei si sono diffuse un po' dovunque. Più spesso si tratta di sopravvivenze storiche di feste popolari, reinventate con nuove forme folkloriche per esaltare idealmente il passato storico o mitico delle origini cittadine o paesane, comunque per valorizzare le celebrazioni ricorrenti come un modo di consolidare il senso di appartenenza alla comunità. La sfilata, in cui tutti si riconoscono e che costituisce il momento culminante della festa, è formata dalla gente del luogo, famiglie e amministratori accomunati nell'esibire modelli dal taglio e dai colori antichi, adeguati alle esigenze festaiole del presente. Emerge sempre, tra tutti, la figura del maestro di cerimonie, cui sono affidate, prima ancora dello svolgimento della manifestazione, la scelta dei modelli e l'organizzazione nel rispetto delle tradizioni.
Il r. ludico diventa particolarmente significativo nei giochi individuali, che si fanno senza partner, per gusto e soddisfazione personale. Anche qui, pur senza l'altrui controllo, il fine del gioco deve risultare dal rispetto delle norme.
Ne è un esempio caratteristico il cosiddetto solitario, il gioco di carte di cui, com'è noto, esistono numerosi modelli, e la cui esecuzione è lasciata all'iniziativa e all'interpretazione del giocatore. La disposizione delle carte e la riuscita del gioco (réussites è il sinonimo usato dai francesi per i solitari) appartengono al caso che deve risultare dall'osservanza spontanea delle regole, poiché chi gioca è insieme protagonista e giudice di se stesso. In un gioco del genere, sia che lo si faccia per semplice svago, sia che si cerchi nella sua riuscita un auspicio per la realizzazione di un desiderio, è interessante notare che il risultato è valido e in qualche modo affidabile solo se rituale, ossia se risulta dal rispetto delle norme. Poiché tutto è affidato al senso morale del giocatore, è così che appare l'azione penetrante del r. sui modi e le espressioni più intimi e personali della vita individuale. Le norme dei giochi derivano quasi sempre da testi scritti o da consuetudini, ma anche in tal caso, pur essendo consolidate e quasi sacralizzate dalla tradizione, sono suscettibili di adeguamento alle esigenze di particolari contesti. Le innovazioni e i cambiamenti sono accettabili, e in un certo senso legittimi, solo se non contraddicono lo spirito del gioco, vale a dire la lealtà dei comportamenti. Negli stessi giochi che si inventano lì per lì, come i cosiddetti giochi di società, è necessario concordare le norme che regolano il gioco, alle quali ognuno si deve conformare lealmente.
Al r. ludico, inteso nel senso di godimento artistico, si possono assegnare le sfilate di moda. È vero che esse sono un prodotto dell'industria dell'abbigliamento, ma oggi sono divenute manifestazioni sociali ricorrenti che scandiscono in maniera rituale le stagioni di ogni anno. Ed è particolarmente significativo che per dare dimostrazione ed esaltare l'originalità delle proposte stilistiche si organizzino solenni liturgie laiche in ambienti architettonici monumentali, grandiosi scenari entro cui le modelle si muovono con l'apparente disinvoltura e la grazia gestuale che ne distinguono il passo. In manifestazioni del genere la valorizzazione del r. raggiunge il suo acme artistico e sociale dinanzi a spettatori partecipi e direttamente coinvolti nei giudizi critici.
Il ritualismo postmoderno
Le analisi proposte dall'antropologia postmoderna hanno preso in esame certe forme di r. riadattate nel contesto della società postindustriale. Si tratta di un fenomeno che, mentre tenta di valorizzare commercialmente il simbolismo delle comunicazioni, dimostra la duttilità con cui la tendenza ritualistica si adatta alla varietà multivocale della cultura umana. M. Herzfeld, l'antropologo inglese impegnato in ricerche sulla società industriale moderna, ha messo in risalto i modi cui le imprese ricorrono per stabilire un'atmosfera confidenziale con la clientela, riadattando a tale scopo forme ed espressioni della vita familiare e dei rapporti sociali più comuni.
Herzfeld, per esempio, descrive non senza una certa ironia il saluto che l'assistente di volo negli aerei statunitensi rivolge ai passeggeri in maniera molto familiare per dimostrare che il rapporto dell'equipaggio con loro è, e vuol essere, un rapporto di amicizia. In pratica, si tratta del rito iniziatico che sottolinea non tanto l'inizio del viaggio, quanto la dipendenza dal personale che i passeggeri si trovano a dover accettare. Ma, osserva Herzfeld (1997, p. 7), una tale appropriazione di gesti familiari ritualizzati e tradotti in un contesto tanto diverso manifesta in imprese come le compagnie aeree la volontà di distogliere il pensiero dei passeggeri e dei clienti dalla loro condizione di dipendenza e orientarlo a saper vedere la disponibilità e la condiscendenza del personale. È facile, tuttavia, percepire l'ambiguità di riadattamenti del genere. Nonostante, infatti, l'apparente sincerità degli addetti, l'interesse commerciale che li ispira sminuisce, se non proprio annulla, la spontaneità che i gesti familiari da loro adottati traggono dalla consuetudine quotidiana (Giddens 1990). Eppure, nonostante tali riserve sui moventi utilitari e commerciali dei comportamenti, si deve prendere atto di una ulteriore dimostrazione della duttilità multivocale del r., una tendenza che riemerge e orienta i modi e le manifestazioni anche della società industriale moderna. Di conseguenza, si conferma il presupposto metodologico della ricerca etnografica relativa al r., che impone si debba svolgere soltanto in precisi contesti storici e sociali e in ambiti problematici specifici, perché a causa dei mutamenti sociali i significati simbolici dei segni gestuali e dei comportamenti si adeguano costantemente ai nuovi contesti ritualistici e ne sottolineano di volta in volta la diversità di interpretazione.
Come ogni attività umana anche la tendenza ritualistica è esposta a forme di decadenza patologica. Si è così costretti a registrare il r. dell'abuso come un fenomeno distinto e negativo. L'espressione rituale dell'abuso si riferisce a ogni forma di violenza psicologica, sessuale o fisica, esercitata su una vittima. Gli scopi perseguiti possono essere differenti. Talora si intende compiere un rito che si considera prescritto per ottenere una soddisfazione personale o soddisfare un presunto obbligo, o adempiere un voto verso una divinità, Satana o altro spirito. Le cronache recenti hanno scosso l'opinione pubblica mondiale mettendola di fronte a una serie deteriore di riti cosiddetti satanici e di magia nera, connessi ad atti criminali. Anche in queste manifestazioni patologiche, la tendenza al r. si conferma un'esigenza di fondo della natura umana e ne rivela, se così si può dire, il polo negativo.
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