Abstract
Si distinguono due tipi di rivalsa: quella “semplice”, che corrisponde a un’azione di regresso (ed è presente nel campo delle accise, nell’imposta sugli intrattenimenti, nella responsabilità d’imposta, nella responsabilità del consolidante fiscale), e quella “dinamica” che ha natura procedimentale ed è strumento di attuazione del tributo, presente nella disciplina dell’IVA e nella sostituzione d’imposta mediante ritenuta. Vengono esposte le modalità di esercizio della rivalsa nei differenti casi, e le problematiche di esercizio successivo della rivalsa, di recente consentite dall’ordinamento in materia di IVA nei casi di accertamento dell’imposta. Un ultimo paragrafo è dedicato alla disamina della risoluzione dei rapporti nel caso di errata applicazione dell’IVA in fattura, ed in questo contesto viene indicata la soluzione di recente proposta dalla dottrina dell’inquadramento giuridico della relativa responsabilità nell’ambito della “responsabilità da contatto sociale”.
La rivalsa è fenomeno nel diritto tributario tradizionalmente inquadrato tra gli strumenti attraverso i quali il soggetto che ha corrisposto un tributo, oppure è tenuto a pagare un tributo, trasferisce il relativo onere economico ad un altro soggetto. L’evidenza di questa definizione si dimostra però subito illusoria poiché congloba morfologie diverse, non necessariamente aventi rilevanza giuridica; come dimostra la traslazione economica del tributo, solitamente attuata con l’aumento del corrispettivo del bene venduto, che ha natura economica e non giuridica. Ed anche a volere isolare questo fenomeno, di esclusiva rilevanza economica, potrebbero forse porsi le basi per la definizione della traslazione cd. palese, in cui al soggetto che esercita la rivalsa è attribuito un autonomo titolo di credito ed ove assume evidenza (sia sotto il profilo giuridico che sotto il profilo economico) la ripercussione dell’onere tributario dal soggetto attivo a quello passivo della rivalsa. E tuttavia ci si rende subito conto che questo fenomeno assume poi nel diritto positivo una così vasta gamma di modelli ed assetti attuativi da imporre ulteriori differenziazioni sul piano sistematico. Ed infatti, il trasferimento a soggetti terzi dell’onere fiscale può avere effetti giuridici anche in un altro caso, da tenere distinto dalla rivalsa, e con caratteri particolari, qual è quello delle clausole di accollo d’imposta. Di comune, con la rivalsa, l’accollo ha il trasferimento del carico tributario da un soggetto ad un altro. Ma differiscono nettamente i presupposti. Mentre con la rivalsa – può dirsi in via generale ed in prima approssimazione – il trasferimento del tributo da un soggetto all’altro assume rilevanza in relazione ai criteri di riparto di cui all’art. 53 Cost., in quanto si inserisce nella disciplinadel tributo come meccanismo preordinato a far concorrere alle spese pubbliche (anche o soltanto) il soggetto che la subisce, il patto di accollo è invece tendenzialmente estraneo a questo criterio di riferibilità, ed anzi muove, rispetto ad esso, in direzione opposta, giacché, nella sua essenza, mediante l’accollo la parte cui è riferibile il presupposto d’imposta ex art. 53 Cost. trasferisce l’onere d’imposta ad un altro soggetto che al presupposto è invece estraneo. Questa differenza si pone in coerenza con l’opinione, ormai generalmente accolta, che l’art. 53 Cost. non investe la regolamentazione dei rapporti tra le parti private, ma concerne soltanto – può dirsi, a monte – la giustificazione ed i criteri di quantificazione del tributo.
Isolata la rivalsa dalle altre figure che realizzano, al pari di essa, la traslazione del tributo, non può con questo ritenersi risolto il problema definitorio da cui si sono prese le mosse. La legge individua, infatti, diversi tipi o forme di rivalsa. Vi sono casi in cui la legge pone l’obbligo di esercizio della rivalsa (è quanto accade, ad esempio, nella rivalsa IVA e nella rivalsa mediante la ritenuta d’imposta), altri in cui ne dispone solo la facoltà (come, emblematicamente, nella rivalsa del responsabile d’imposta). Differenti possono poi essere le modalità attuative della rivalsa, potendosi essa realizzare, come nell’IVA, con la partecipazione del soggetto che la subisce, chiamato ad adempiere nei confronti di chi la opera; oppure realizzandosi mediante la unilaterale determinazione del soggetto attivo, che trattiene di fatto le somme, come nella sostituzione d’imposta mediante ritenuta.
Questa evidente eterogeneità della rivalsa in campo tributario induce a spezzare l’unitarietà dell’istituto, e pone le basi per una distinzione tra rivalse costituenti norme e rivalse costituenti formule. Con ciò volendosi significare che solo alle “norme” sulla rivalsa va attribuita la funzione di introdurre nel sistema ordinamentale in cui sono inserite effetti giuridici propri, ulteriori e nuovi di riflesso a quelli che normalmente vi si ricollegano attingendo al significato che quella formula di rivalsa ha nell’elaborazione della teoria generale del diritto. La dottrina più recente ha indicato queste rivalse col nome di rivalse dinamiche, in quanto il volume della loro forza precettiva e la peculiare efficacia possono cogliersi solo “mettendole in moto”, in ragione degli effetti che esse determinano nella sfera del soggetto che, nell’articolazione disciplinare del tributo, subisce l’esercizio della rivalsa (ne sono esempio la rivalsa nell’IVA e la rivalsa nella sostituzione d’imposta mediante ritenuta). Mentre le rivalse costituenti “formule” descrivono un fenomeno la cui regolamentazione è propria di altri settori dell’ordinamento, cui quella nozione nulla aggiunge nello specifico ambito tributario di attribuzione. A questo tipo di rivalsa è stato invece attribuito il nome di rivalsa semplice, in quanto descrittiva di un fenomeno che trova essenzialmente nella disciplina del regresso civilistico il suo referente normativo (ed è rinvenibile principalmente nelle accise, nell’imposta sugli intrattenimenti, nella responsabilità d’imposta, nella responsabilità del consolidante fiscale).
La dottrina si è prevalentemente occupata della rivalsa tributaria nell’ambito della sostituzione mediante ritenuta e dell’imposta sul valore aggiunto. L’analisi che ne è seguita ha dunque inevitabilmente risentito del carattere subordinato delle relative indagini rispetto alle opzioni interpretative di partenza del tributo oggetto di indagine. Dal panorama complessivo possono enuclearsi due concezioni di fondo che nei decenni hanno ispirato i diversi approcci metodologici ed interpretativi, il cui snodo cruciale è stato quello del ruolo rivestito in questi casi dalla rivalsa. Ora confinata nell’ambito di un rapporto esclusivamente privatistico, tra il soggetto attivo e quello passivo, con conseguente sua estraneità alla disciplina propria del tributo. Oppure, al contrario, è stata inserita a pieno titolo nella struttura del tributo, concorrendo all’individuazione del soggetto passivo e, correlativamente, all’individuazione della capacità contributiva colpita dall’imposta.
Possono così enuclearsi in via sintetica, da un lato, la prospettazione in senso cd. “giuridico-formale” della rivalsa, che sarebbe espressione del primo dei due approcci considerati; e dall’altro lato, facendosi leva sulla rilevanza che assumerebbe la rivalsa nella struttura del tributo, nel costituire essa il meccanismo appositamente voluto dal legislatore per incidere con l’onere fiscale il soggetto che la subisce, si è fatta strada l’impostazione cd. “economico-sostanziale”.
La prima impostazione ha prevalso principalmente nel periodo anteriore alla riforma tributaria degli anni Settanta, ed i motivi principali risiedono nel fatto che nel vigore del testo unico delle leggi sulle imposte dirette del 1958 la rivalsa esercitabile dal sostituto era generalmente facoltativa; tanto che nella prassi di regola essa non veniva esercitata, e solo eccezionalmente il legislatore ne disponeva l’obbligatorietà. Era dunque agevole concludere che il sostituito non potesse essere considerato, per il solo fatto di subire la rivalsa, soggetto passivo del tributo in punto di diritto. Alle stesse soluzioni si giungeva nell’ambito delle imposte indirette e segnatamente nell’IGE, con riferimento alla quale l’opinione prevalente era quella che i soggetti passivi dell’imposta generale sull’entrata fossero coloro che avevano realizzato l’entrata; ossia il cedente o prestatore del servizio.
La riforma tributaria del 1971, contrassegnata, per quanto riguarda la sostituzione tributaria, dall’introduzione quale regola generale della natura obbligatoria della rivalsa e, per quanto attiene alla neo-introdotta imposta sul valore aggiunto, dallo spostamento del baricentro d’individuazione del presupposto oggettivo del tributo dall’entrata al consumo del bene, si può dire che abbia segnato il passaggio dalla prima alla seconda delle ricostruzioni precedentemente richiamate: quella economico-sostanziale, nella quale la rivalsa diventa parte integrante della struttura del tributo e costituisce perciò il segno di un preciso disegno del legislatore di individuare la capacità contributiva colpita, ed il relativo soggetto passivo, nella situazione ed in colui che subisce (necessariamente) la rivalsa. Quest’ultima ha acquistato, per definizione largamente accettata, la natura di rivalsa “tributaria”.
Deve tuttavia farsi notare che questa differenziazione, edificata sul piano delle ricostruzioni sistematiche, non è andata oltre i profili descrittivi del fenomeno, e non ha colto la diversità sul piano funzionale degli effetti che conseguono, nei due differenti casi, dall’esercizio della rivalsa. Anzi, occorre dire che sul piano degli effetti giuridici, anche laddove la rivalsa è stata concettualmente inquadrata dalla dottrina nell’ambito degli istituti di natura prettamente tributaria (e, dunque, è stata qualificata come rivalsa “tributaria”), la sua essenza alla fine è stata ricondotta sempre nell’alveo dell’ordinario diritto di credito. Ed il suo effetto considerato inautonomo, poiché subordinato e diretta conseguenza della disciplina civilistica del rapporto assunto a presupposto della rivalsa medesima. Si è fatta, in sostanza, leva sulla circostanza che il potere in questione è attribuito dall’ordinamento giuridico nel cerchio di interessi che gravitano all’interno della sfera del soggetto che opera le rivalsa. Ciò secondo la visione tradizionale del diritto potestativo, nel quale l’interesse che l’ordinamento tutela mediante l’attribuzione della speciale potestà è interesse privato del soggetto agente.
Non v’è chi non s’avveda che il punto debole di questa ricostruzione è quello di ritenere che la finalità propria della rivalsa sia quella di creare un credito; un’obbligazione di natura pecuniaria, nei confronti del soggetto su cui questa signoria va esercitata. Ma, se così fosse, la valutazione sulla necessità della produzione dell’effetto di rivalsa dovrebbe essere rimessa all’interesse del creditore; ed invece il carattere essenziale nella rivalsa del sostituto d’imposta mediante ritenuta e nella rivalsa nella disciplina dell’IVA è, come noto, la sua doverosità, ossia l’obbligo del suo esercizio.
La questione, va dunque ribaltata nei suoi termini. Invero, non può escludersi che con l’esercizio della rivalsa tributaria, sia nella sostituzione mediante ritenuta che nell’IVA, sorga un diritto di credito in capo a chi la esercita. L’interesse particolare del soggetto agente incide sul fine prefissato dalla norma. Ma occorre subito precisare che questo è solo l’effetto secondario e, per così dire, complementare della rivalsa. Il principale suo effetto è invece quello che si determina nel soggetto che la subisce, nella cui sfera l’esercizio della rivalsa determina ope legis la nascita di una situazione giuridica soggettiva unilaterale e originaria, che consiste nel diritto del soggetto che ha subito la rivalsa di autodeterminarsi; ossia di rendere concreta unilateralmente, e senza l’intermediazione del potere amministrativo, la realizzazione nella sua sfera giuridica di effetti rilevanti nella disciplina di attuazione del tributo. Questo particolare interesse altrui, diverso dall’interesse del soggetto agente, ha una posizione di primo piano giacché la sua realizzazione è indispensabile completamento per il raggiungimento del fine prefissato dalla norma nel sistema del tributo considerato. In questo sta l’effetto “dinamico”della rivalsa, del quale si diceva. La rivalsa penetra nel sistema di applicazione del tributo liberando quell’effetto pubblicistico suo proprio che è alla base e costituisce la ragione principale dell’attribuzione del potere in capo al disponente. Così, nella rivalsa dell’IVA, essa si rende obbligatoria e necessaria all’attuazione del tributo perché attraverso il suo esercizio, che si realizza sul piano formale con l’emissione della fattura, è conferito al cessionario il diritto di portare in detrazione l’imposta dall’ammontare dell’IVA relativa alle operazioni effettuate. Questo diritto di detrazione non è in rapporto sinallagmatico con la situazione giuridica intercorsa nel rapporto col cedente; né si collega in termini di contropartita negoziale con l’operazione intercorsa, dalla quale sul piano degli effetti privatistici è sorto un debito nei confronti del cedente per l’ammontare dell’IVA addebitata.
La situazione giuridica del cessionario è unilaterale per la ragione che la sua esistenza non ha fondamento nel rapporto giuridico che intercorre con il cedente, e neppure può essere messo in correlazione con un corrispondente debito dell’amministrazione finanziaria. La sua funzione è quella di rendere neutro il tributo gravante sull’operazione, allorquando essa sia intervenuta nei confronti d’un cessionario anch’egli soggetto passivo dell’imposta. Coerentemente con questa ricostruzione, trova spiegazione l’assenza di rivalsa nelle cessioni effettuate dai commercianti al minuto. Si tratta, infatti, in questi casi, di operazioni che sono compiute nei confronti di cessionari che non essendo soggetti passivi IVA non hanno il diritto di detrazione dell’imposta loro addebitata. La rivalsa, considerata per i suoi effetti propri, ad essi non occorre; nonostante – com’è noto – subiscano la traslazione del tributo nel senso economico del termine. Restando a questo esempio, si spiega anche la ragione per la quale nelle cessioni in questione l’emissione della fattura (ri)diventa obbligatoria se la chiede il cliente al momento dell’effettuazione dell’operazione. La rivalsa è in questo caso obbligatoria giacché soltanto attraverso il suo esercizio il cessionario viene posto nelle condizioni di detrarre l’IVA sull’acquisto (ove il richiedente la fattura sia dal canto suo soggetto passivo del tributo, ed inoltre l’acquisto sia inerente all’attività).
Anche nella sostituzione mediante ritenuta il proprium della rivalsa consiste nell’effetto che il suo esercizio determina sul sostituito, ossia su colui che subisce la rivalsa.
E questo diritto consiste, nel caso di sostituzione cd. impropria, nel potere di scomputo, dall’imposta globalmente dovuta, della ritenuta subita; e, nel caso di sostituzione propria, la rivalsa determina il sorgere del diritto del sostituito di escludere il reddito che ha dato luogo all’obbligo di sostituzione dal concorso alla formazione del suo reddito personale complessivo.
Nell’IVA la rivalsa ha la sua espressione formale nella fattura (art. 21 d.P.R. 26.10.1972, n. 633), che è documento atto a legittimare il diritto di detrazione, a prescindere dalla circostanza che l’imposta addebitata sia stata effettivamente assolta. Ed a prescindere anche dalla circostanza che l’operazione economica che ha dato luogo all’emissione della fattura possa essere sul piano del rapporto negoziale intersoggettivo valida o, al contrario, affetta da vizio che ne infici la validità; o addirittura possa essere nulla sul piano dei rapporti civilistici. Ne è riprova la circostanza che lo stesso legislatore, nell’ammettere questa eventualità (d’emissione di fattura a fronte di un negozio civilisticamente nullo), lungi dall’invalidare l’effetto determinatosi nel cessionario con l’annotazione della fattura sul registro degli acquisti, appresta per queste situazioni il rimedio della nota di variazione, ai sensi dell’art. 26 del decreto IVA. Nota di variazione o nota di accredito che, al pari della fattura, è documento anch’esso espressione, seppure in direzione algebrica contraria, della rivalsa; giacché ha l’effetto, se il documento è registrato, di attribuire, questa volta al cedente, il diritto di detrazione dell’IVA dall’ammontare d’imposta dovuta sulle operazioni effettuate.
Nella sostituzione d’imposta mediante ritenuta la rivalsa è espressa formalmente dalla certificazione che il sostituto, ai sensi dell’art. 4, co. 6-ter e 6-quater, d.P.R. 22.7.1998, n. 322, è tenuto a rilasciare al sostituito quale attestazione dell’ammontare delle ritenute operate.
Dunque, anche nella sostituzione questo documento, la certificazione del sostituto, è elemento da solo sufficiente per lo scomputo della ritenuta da parte del sostituito. Ciò a prescindere dalla circostanza che la ritenuta operata e certificata sia stata poi effettivamente versata all’erario dal sostituto (l’art. 22 del TUIR, d.P.R. 22.12.1986, n. 917, ammette in detrazione le ritenute “operate” dal sostituto).
Differente è la cornice ricostruttiva di riferimento quando si passa ad analizzare quella che in premessa si è definita la rivalsa cd. semplice, ossia la rivalsa che nell’ordinamento tributario disciplina un fenomeno la cui regolamentazione è propria di altri settori dell’ordinamento, cui quella nozione nulla aggiunge nello specifico ambito tributario. E con la quale segnatamente si individua da parte del legislatore un fenomeno che trova essenzialmente la disciplina nelle norme sull’azione privatistica di regresso.
In questi casi, infatti, la rivalsa consente la restaurazione del normale criterio di destinazione del carico tributario in capo al soggetto cui è riferibile il fatto causativo del tributo; ma non riveste alcuna rilevanza nel rapporto tributario e, segnatamente, nei confronti dell’amministrazione finanziaria, dal momento che con il pagamento dell’imposta questo rapporto deve considerarsi definito in ogni suo aspetto.
Si prenda, ad esempio di questo tipo, la rivalsa del responsabile d’imposta, la cui disciplina è contenuta nel comma 3 dell’art. 64 d.P.R. 29.9.1973, n. 600. Verrà subito in risalto che l’obbligazione del responsabile d’imposta si correla in via accessoria alla situazione giuridica di altri soggetti, i quali soli occupano il lato passivo del rapporto giuridico d’imposta. A motivo di questa estraneità del responsabile d’imposta rispetto alla situazione di fatto causativa del tributo, la dottrina è unanime nel ritenere che la rivalsa abbia natura privatistica, non avendo essa alcuna rilevanza nei rapporti con l’ente impositore. Ciò in considerazione del fatto che il suo esercizio, che riguarda il trasferimento nel rapporto interno tra due soggetti privati dell’ammontare corrisposto a titolo d’imposta, è estraneo al soggetto attivo del rapporto tributario, ossia è estraneo all’amministrazione finanziaria.
La circostanza che il responsabile sia chiamato a rispondere solidalmente del pagamento del tributo, pur essendo estraneo alla situazione di capacità contributiva che ne ha costituito il presupposto, è soluzione legislativa che si spiega e si giustifica, sul piano essenzialmente pratico, in funzione dell’esigenza di realizzare più agevolmente il prelievo tributario, con maggiori garanzie per l’erario.
Con il pagamento dell’imposta questo rapporto deve considerarsi definito in ogni suo aspetto. Il pagamento del tributo da parte del responsabile d’imposta estingue, infatti, dal lato esterno, il debito che lo lega solidalmente nei confronti del fisco con l’obbligato principale. È, invece, nel rapporto interno che questo pagamento dà luogo al diritto di rimborso delle somme corrisposte.
La rivalsa realizza perciò in questi casi l’effetto di riequilibrio economico che è proprio del diritto di regresso disciplinato dalle norme civilistiche. La norma tributaria, nel prevedere questo diritto, non attribuisce al suo esercizio alcuna funzione disciplinare nell’assetto attuativo del tributo. Si limita piuttosto a ribadire sul piano formale quello che, nei rapporti interni tra i coobbligati, è l’effetto legale proprio (il diritto di regresso) delle obbligazioni solidali. Non a caso, la figura del responsabile d’imposta viene tradizionalmente accostata alla figura del garante. Entrambe, infatti, rispondono alla medesima finalità: rafforzare il credito ampliando la sfera dei soggetti nei confronti dei quali il creditore può pretendere il pagamento. Con la differenza che il responsabile d’imposta è obbligato per disposizione di legge, mentre il garante è obbligato in forza di un negozio.
È largamente diffusa in dottrina l’opinione che sia consentito al sostituto, che abbia corrisposto al sostituito il provento senza assoggettarlo a ritenuta, di esercitare la rivalsa anche in un momento successivo. L’azione che ne scaturisce, di cd. “rivalsa successiva”, è stata ritenuta in passato dalla Corte di cassazione, con giurisprudenza largamente prevalente (il cui filone è espresso da Cass., 27.4.1983, n. 2889), rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario in quanto sostanzialmente caratterizzata, nel suo oggetto, da una domanda di regresso avente tra le parti in giudizio natura privatistica. Ciò sino agli arresti successivamente intervenuti (questo radicale mutamento d’indirizzo della Cassazione risale a Cass., 5.2.1988, n. 1200) con i quali la Suprema Corte, ribaltando il precedente indirizzo, ha ritenuto la controversia in esame sottratta alla cognizione del giudice ordinario e rientrante nella competenza giurisdizionale esclusiva del giudice tributario. Per giungere finalmente all’attuale periodo, caratterizzato da grave incertezza interpretativa per il motivo che l’orientamento che si fa strada oscilla tra le due posizioni che si sono sopra richiamate (di cui sono espressione, diametralmente opposta: Cass., 26.6.2009, n. 15031 e 8.4.2010, n. 8312, da un lato; e Cass., 26.6.2009, n. 15047 e 2.3.2011, n. 5050, dall’altro lato), per il che la questione di giurisdizione è destinata a restare ancora aperta per molto tempo, con tutte le conseguenti incertezze del caso.
Occorre tuttavia chiedersi, in limine, se sia in realtà consentito sul piano sostanziale al sostituto l’esercizio della rivalsa in un momento successivo a quello individuato dalla legge.
È generalmente ritenuto che l’omissione della ritenuta non costituisce un effetto impeditivo alla nascita in capo al sostituto dell’obbligo di versamento all’erario dell’ammontare corrispondente alla ritenuta non operata. Ciò per la considerazione che le norme sull’iscrizione a ruolo delle ritenute non versate, cui agli artt. 14 e 15 d.P.R. n. 600/1973, depongono in favore dell’esistenza del potere dell’amministrazione finanziaria di procedere in danno del sostituto per il recupero dei versamenti diretti non effettuati, e non sembra possibile, come tuttavia è stato sostenuto da parte della dottrina, ritenere che l’ambito di applicazione della norma riguardi, per quanto ne occupa, la sola sostituzione a titolo d’imposta e non anche la sostituzione a titolo d’acconto.
Riveste, invece, portata determinante nella soluzione della problematica della rivalsa “successiva” la questione, anch’essa ampiamente dibattuta in dottrina, se la rivalsa tributaria sia esercitabile soltanto mediante la ritenuta, oppure il suo esercizio sia possibile anche successivamente alla corresponsione del provento soggetto a ritenuta.
È infatti evidente che se la previsione della doverosità della ritenuta “...con obbligo di rivalsa”, contenuta nelle disposizioni del d.P.R. n. 600/1973, va interpretata nel senso che al di fuori di questo strumento tipicamente individuato dal legislatore non sia consentito al sostituto di rivalersi nei confronti del sostituito, dovrà conseguentemente negarsi in radice la stessa possibilità di esercizio della rivalsa cd. “successiva”, della quale si discute. Un argomento testuale a favore di questa tesi restrittiva si riteneva discendere, nel vigore del T.U. del 1958, dal testo dell’art. 127, a tenore del quale la rivalsa doveva essere operata dai sostituti d’imposta “mediante ritenuta all’atto della corresponsione dei redditi”. Questa metonimia tra ritenuta e rivalsa non è riproposta dalle norme attualmente in vigore contenute nel d.P.R. n. 600/1973, le quali impongono al sostituto di “operare all’atto del pagamento la ritenuta con obbligo di rivalsa”. È stata, in sostanza, eliminata l’espressione, dal significato strumentale, “mediante ritenuta”.
Caduto, quindi, quello che sembrava un limite testuale all’esercizio della rivalsa tributaria mediante modalità diverse dalla ritenuta, la dottrina largamente prevalente si è orientata nel senso della netta differenziazione dei due concetti, ed ha considerato la ritenuta come “una” delle modalità d’esercizio della rivalsa.
Con l’art. 93 d.l. 24.1.2012, n. 1, è stato riformulato l’ultimo comma dell’art. 60 della disciplina dell’IVA (d.P.R. n. 633/1972) consentendosi al cedente, che sia stato destinatario d’un avviso di accertamento o di rettifica, il diritto alla rivalsa cd. “successiva” nei confronti del cessionario o committente.
Con questa disposizione il legislatore ha ribaltato, con un tratto di penna, il precedente consolidato assetto disciplinare che si esprimeva con il divieto, nel caso segnalato, di esercitare la rivalsa. Alla base di questa riforma sta la necessità, avvertita dal legislatore interno, di assicurare che l’imposta sul valore aggiunto gravi unicamente sul consumatore finale, ciò secondo l’approccio di tipo economico sostanziale che ravvisa nel consumo il presupposto dell’IVA, in aderenza con quanto ripetutamente affermato dalla Corte di Giustizia (ex multis, C. giust., 3.7.1997, causa C-330/95; C. giust., 23.11.1988, causa C-230/87). Se si ponessero limiti temporali all’esercizio della rivalsa si farebbe gravare il tributo su un soggetto diverso dal consumatore finale, così tradendosi il principio comunitario di neutralità dell’IVA.
La nuova norma prevede che il diritto di rivalsa dell’IVA accertata sorge soltanto con il pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, della sanzione e degli interessi. Si ha, pertanto, che in questi casi, in via d’eccezione rispetto all’ordinario meccanismo di funzionamento dell’IVA, la rivalsa non è un effetto legale della fattura, dovendo concorrere con l’emissione del documento il versamento del tributo all’Erario, con gli accessori e la sanzione.
Per quanto riguarda il versante del soggetto nei cui confronti è esercitata la rivalsa successiva, il secondo periodo del nuovo ultimo comma dell’art. 60 consente al cessionario o committente il diritto alla detrazione dell’IVA soltanto a decorrere dal momento in cui egli avrà corrisposto al suo dante causa l’IVA addebitatagli in rivalsa. Si tratta, anche in questo caso, di un’eccezione all’ordinario meccanismo di applicazione dell’IVA, visto che l’art. 19 d.P.R. n. 633/1972, conformemente a quanto disposto dall’art. 168 della Direttiva IVA (Dir. 2006/112/CE del 28.11.2006), consente la detrazione dell’imposta addebitata in rivalsa con la fattura, indipendentemente dal suo pagamento.
Questo collegamento del momento della nascita del diritto-dovere di rivalsa col pagamento dell’imposta accertata pone delicati problemi, anche di economia procedimentale, in tutti i casi in cui il pagamento del tributo dovesse risentire, a sua volta, delle vicende che possono interessare l’atto impositivo. Il provvedimento in questione potrà, infatti, essere stato impugnato dal contribuente, così determinandosi l’operare della riscossione provvisoria in pendenza di giudizio, astrattamente suscettibile di dare luogo all’esercizio della rivalsa successiva. Ad avviso dell’Agenzia delle Entrate (circ. n. 35/E del 17.12.2013), l’operatività di questa disposizione sulla rivalsa successiva presuppone la definizione dell’accertamento (o perché non impugnato, oppure perché divenuto definitivo in forza di sentenza passata in giudicato) avvenuta in data successiva all’entrata in vigore della nuova disposizione (24 gennaio 2012). Per l’Agenzia delle Entrate deve pertanto escludersi la possibilità di esercitare il diritto di rivalsa dell’IVA versata in pendenza di giudizio, stante il carattere provvisorio del relativo versamento.
In ordine alla risoluzione dei rapporti conseguenti all’erroneo esercizio della rivalsa nell’IVA, la giurisprudenza è prevalentemente orientata, nel caso in cui un’operazione sia stata erroneamente assoggettata ad IVA, a ritenere privi di fondamento, ad un tempo, il pagamento dell’imposta da parte del cedente, la rivalsa effettuata nei confronti del cessionario, la detrazione da questi operata. Con la conseguenza che l’errata operazione imponibile IVA darebbe luogo a tre distinti rapporti: uno, di rimborso, tra il cedente e l’amministrazione finanziaria per il pagamento dell’imposta; uno tra il cessionario e l’amministrazione finanziaria per il recupero dell’IVA illegittimamente detratta; il terzo, infine, di diritto privato, tra il cedente ed il cessionario relativo all’esercizio della rivalsa.
Questa soluzione, tuttavia, non è appagante; per la ragione che essa, ponendo su piani di autonomia i singoli rapporti investiti dal fenomeno, non coglie il loro coordinamento, determinato dalla dinamica attuativa del tributo. Occorre infatti far rilevare che l’effetto legale della fattura, attributivo del diritto di detrazione in favore del cessionario, dà rilevanza al reciproco combinarsi delle differenti situazioni soggettive (obbligo di versamento, diritto di detrazione, diritto/dovere di rivalsa) che rispondono all’esigenza di garantire, pur in una relativa autonomia dei rapporti, la funzione connessa di istituti che danno attuazione al tributo stesso. Ne consegue che, nei casi ipotizzati di erronea fatturazione, la soluzione offerta dal procedimento disciplinato dall’art. 26 d.P.R. n. 633/1972 consente di eliminare alla radice questi inconvenienti, collocando la correzione dell’operazione nel solco degli stessi meccanismi strutturali del tributo (con espressione sintetica, l’art. 26 che si è richiamato offre un rimedio che resta all’interno della disciplina dell’IVA).
I problemi sorgono nei casi in cui il soggetto sottoposto a rivalsa non abbia il diritto alla detrazione. In queste situazioni, l’erroneità dell’applicazione dell’IVA in fattura non rende di per sé indebito il rapporto di rivalsa. Ciò per la ragione, com’è noto, che l’erronea fatturazione non esime il soggetto emittente dall’obbligo di versare all’erario l’IVA documentata in fattura (cfr. comma 7, art. 21, d.P.R. n. 633/1972). Mentre, è indubbio che nella sfera del cessionario l’imposta erroneamente applicata si traduce in un immediato pregiudizio economico. In mancanza di variazione della fattura ai sensi dell’art. 26 d.P.R. n. 633/1972, il cessionario danneggiato dall’illegittimo esercizio della rivalsa ha soltanto il rimedio risarcitorio, mediante l’esercizio di un’azione che va esperita avanti il giudice ordinario. In questo senso, l’orientamento della Cassazione è costante (cfr. Cass., 28.1.2011, n. 2064 e Cass., S.U., 8.2.2007, n. 2775).
Recentemente è stata prospettata in dottrina la riconducibilità della responsabilità in questione nell’ambito della cd. “responsabilità da contatto sociale”, ossia della responsabilità cui sono astretti coloro i quali, rivestendo nel rapporto intersoggettivo una posizione qualificata, hanno speciali obblighi a salvaguardia degli interessi del destinatario della loro azione.
La conseguenza di questa diversa impostazione è che, sul piano della disciplina, il rapporto che scaturisce dal “contatto” sarà segnato dal regime delle obbligazioni da contratto. Dal che discenderà, a differenza di quanto scaturisce dall’applicazione alla fattispecie in esame della responsabilità ex art. 2043 c.c., che incomberà sull’emittente la fattura l’onere di dimostrare che l’errore nella fatturazione non è dipeso da causa a lui imputabile (cfr. art. 1218 c.c.); inoltre, sempre di riflesso all’inquadramento di questa responsabilità da contatto sociale tra le responsabilità contrattuali, il diritto al risarcimento del danno sarà soggetto al termine di prescrizione di dieci anni (cfr. art. 2946 c.c.), contro il minor termine di prescrizione di cinque anni del diritto di risarcimento del danno da fatto illecito (cfr. art. 2947 c.c.).
Art. 64 d.P.R. 29.11.1973, n. 600; artt. 18, 26, 60 d.P.R. 26.10.1972, n. 633; art. 16 d.lgs. 26.10.1995, n. 504; art. 16 d.P.R. 26.10.1972, n. 640; art. 17 l. 29.10.1961, n. 1216; art. 127 d.P.R. 22.12.986, n. 917.
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