RIVESTIMENTI PARIETALI
Dalla lettura delle fonti si ha l'impressione che l'ostentazione del lusso importato dall'Oriente abbia trovato a Roma più seguito nell'architettura privata che in quella pubblica: un simile atteggiamento va attribuito alla mentalità moralistica romana del periodo compreso tra la fine della repubblica e l'inizio dell'impero, secondo la quale «il popolo romano non sopporta l'ostentazione del lusso privato, apprezza invece la magnificenza pubblica» (Cic., Mur., 76).
Va comunque notato che se nell'architettura domestica il lusso viene vissuto come ostentazione di potere e, per certi versi, come mezzo di propaganda politica, non diversamente alla fine della repubblica le maggiori famiglie romane si distinguono per una intensa attività edilizia anche nella sfera pubblica. Pure in questo settore non mancano attestazioni dell'uso di materiali preziosi: si ricordano le fastose e sovràbbondanti decorazioni dei teatri abbelliti, in particolari occasioni, con apparati d'oro, d'argento e perfino d'avorio (Plin., Nat. hist., XXXIII, 16, 53). La Porticus Octavia, eretta nel 167 a.C. da Gneo Ottavio con il bottino della terza guerra macedonica, era definita Corinthia a causa di due file di colonne di stile corinzio con capitelli rivestiti di bronzo; in bronzo siracusano erano i capitelli posti da Marco Agrippa sulle colonne del Pantheon (Plin., Nat. hist., XXXIV, 7,13); e ancora «i soffitti, che ora si coprono d'oro anche nelle case private, sono stati dorati per la prima volta in Campidoglio dopo la distruzione di Cartagine, sotto la censura di L. Mummio. Di là la doratura è passata alle volte e alle pareti, che sono anch'esse ormai dorate come vasi» (ibid., XXXIII, 18,57); nel medesimo passo Plinio riferisce che si deve a Q. Lutazio Catulo la doratura delle tegole dello stesso Tempio di Giove Capitolino (69 a.C.).
Il Pantheon adrianeo conserva ancora, nella decorazione bronzea dell'occhio della cupola, un ricordo degli originali elementi metallici che ne caratterizzavano l'architettura: erano in bronzo le travature del portico, fatte smontare nel 1620 da Urbano Vili e probabilmente in bronzo dorato era la decorazione interna del cassettonato della cupola.
Alla decorazione architettonica del Tempio di Diana Nemorense appartiene una lastra di rivestimento in bronzo dorato, decorata da palmette, databile al III sec. a.C. attraverso il confronto con rivestimenti fittili coevi. Pure a edifici pubblici sono da riferire i rivestimenti in bronzo studiati da M. P. Rossignani (1969): si tratta prevalentemente di lastre di rivestimento, di cornici e di elementi di zoccolature che testimoniano la diffusione di questi esempì di «architettura metallica»; particolarmente significativi e interessanti risultano i rivestimenti interni della Basilica di Iulium Carnicum al museo di Cividale, ove modanature bronzee arricchite da una raffinata decorazione vegetale sottolineavano l'arco di alcune nicchie, mentre le pareti erano scandite da fregi in bronzo. Questo tipo di decorazione, attestato con particolare frequenza soprattutto nelle città dell'Italia settentrionale (Brescia, Velleia), mostra una notevole omogeneità e può essere collocato cronologicamente nell'ambito del I sec. d.C.
Il linguaggio recepito dai ricchi e potenti ottimati dell'età tardo-repubblicana non andò perduto, nonostante la fiera condanna dei moralisti e le severe leggi suntuarie che cercarono di porre un freno all'eccessiva ostentazione del lusso in ambito privato. Gli stessi stilemi si ritrovano nella Casa di Augusto sul Palatino, sulla cui modestia insistono le fonti antiche. La residenza infatti non raggiunge le dimensioni e non partecipa del fasto delle regge ellenistiche, ma da alcuni segnali si intende che il messaggio è stato ampiamente recepito. Anche la raffinata decorazione interna ricalca in qualche modo quei modelli: nel cubicolo superiore, ispirato al mondo isiaco, all'interno di delicati fregi vegetali, compaiono gemme riprodotte pittoricamente. Gli stucchi che decorano il soffitto mostrano ancora tracce dell'originale doratura.
Ancora un esempio dell'adesione ai modelli ellenistici è rappresentato dalle navi da parata fatte costruire da Caligola nel lago di Nemi, a imitazione della famosa Thalamegòs di Tolemeo IV o della Syrakòsia di lerone di Siracusa. Queste navi, decorate come palazzi con pavimenti a mosaico e a opus sectile, con colonne di breccia, hanno restituito anche i frammenti dell'arredo interno quali elementi in bronzo dorato, tarsie in legno e in avorio, piccole cornici d'argento.
Tutto ciò trovò la sua più esplicita espressione nella Domus Aurea di Nerone. La realizzazione del nuovo piano urbanistico di Roma permise, nella costruzione della sua residenza, di espandere gli spazi come nessun altro aveva potuto fare. La decorazione interna, quella che ha dato il nome a tutto il complesso, è efficacemente descritta in un passo di Svetonio (Ner., 31): «Nelle altre parti tutto era ricoperto d'oro, ornato di gemme e di conchiglie. Le sale da pranzo avevano soffitti coperti di lastre d'avorio mobili e forate in modo da permettere la caduta di fiori e di profumi». Un gruppo di ambienti appartenenti alla Domus Transitoria e rimasti inglobati nelle fondazioni del Palazzo dei Flavi sul Palatino, comprendeva un sontuoso ninfeo decorato con colonnine di marmi pregiati con basi e capitelli di bronzo dorato, scoperto e distrutto nel 1721. Nelle sale superstiti si possono ancora ammirare le decorazioni delle pareti e delle volte che mostrano quadri a carattere mitologico circondati da eleganti fregi in stucco dorato con incastonate gemme di pasta vitrea.
Sempre a proposito del Palatino, P. S. Bartoli (in C. Fea, Miscellanea filologica, critica e antiquaria, 1, Roma 1790, p. 223 ss., Mem. 7) ricorda che al tempo di Alessandro VII si scavò nel giardino di mons. Massimi «ove si trovarono colonne scannellate di giallo antico preziosissime, alcune statue in frammenti; e tra le altre cose una stanza, foderata di lamine sottilissime di argento che all'apparenza avevano sopra ornamenti più preziosi; le quali dall'ignoranza de' cavatori non conosciute, la più parte furono vendute ad uso di ferri vecchi...».
Flaminio Vacca nelle sue Memorie di varie antichità (n. 101) ricorda invece il ritrovamento, nella zona del Piccolo Aventino, di «uno stanzino molto adorno, col pavimento fatto di agata e corniola e li muri foderati in rame dorato con alcune medaglie commesse, con piatti e boccali di rame, instrumenti che servivano nei sacrifizi, ma ogni cosa aveva patito il fuoco».
Un particolare e prezioso rinvenimento effettuato a Roma alla fine del secolo scorso e recentemente riconsiderato, permette di ripensare in maniera più documentata il capitolo relativo all'introduzione del lusso architettonico nel gusto romano. Le nostre conoscenze su questo argomento sono principalmente basate sulla lettura delle fonti antiche, assai ricche di notazioni a questo proposito, relative sia al periodo ellenistico, sia alla recezione da parte romana di certe «spinte» verso l'apparato di lusso, provenienti dalla parte orientale dell'impero. Altri documenti utili a questo riguardo sono forniti dalle rappresentazioni pittoriche, soprattutto nell'ambito del II stile, che trasferiscono sulle pareti domestiche splendenti architetture «dorate» di non chiarissima origine.
Il ritrovamento di cui si parla riguarda una sorta di tesoretto, costituito da migliaia di frammenti di lamine di bronzo dorato rinvenute, insieme a un gran numero di gemme, all'interno di un ambiente appartenente a una residenza imperiale sull'Esquilino, identificata come gli Horti Lamiani.
Le lamine di bronzo dorato, trovate appunto in grandissima quantità, ma in uno stato di disperante frammentarietà, permettono di ricostruire l'immagine di una sfarzosa decorazione dalla superficie dorata, tutta d'effetto, all'interno della quale, ad arricchire ulteriormente i bagliori dell'oro, si inserivano gemme e pietre dure.
Le sottilissime lamine sono lavorate a sbalzo e mostrano una larga gamma di motivi decorativi, per lo più di origine vegetale, ma anche geometrici, che a volte si organizzano in fasce, a volte si distendono in disegni più ampi e liberi in un intrecciarsi di tralci, lasciando sempre lo spazio giusto per l'inserimento delle gemme. Compaiono quindi fogliette lobate insieme a foglie dai margini lisci, calici acantiformi, palmette di diverse forme e misure. E poi fiori dai petali tondeggianti o appuntiti, tralci acantini che si diramano generando foglie e fiori. Insieme a questi motivi, spesso troppo isolati per intuirne il disegno d'insieme, si trovano le fasce decorative che mostrano schemi più noti e ricostruibili: kymàtia ionici con ovoli e punte di lancia - ma anche con punte di freccia - trecce arricchite da palmette, serie di arabeschi intercalati da rosette a quattro petali; file di perle rotonde, un piccolo kymàtion con fogliette lobate.
In alcuni piccoli frammenti si riconoscono microscopici kàntharoi, in altri parti di ali e forse di uccellini. Uno degli elementi meglio conservati, poiché i frammenti sono rimasti casualmente aderenti a una tegola, mostra un piccolo bucranio dalle cui corna pende un'infula perlinata, e che, allo stato attuale, appare circondato da motivi vegetali.
Le gemme di qualità, forma e misura diverse sono sempre inserite in castoni: questi sono per la maggior parte costituiti da un nastro piatto che circonda la pietra, ma in molti casi si arricchiscono di orli perlinati, si circondano di petali a formare una corolla, sono sempre e comunque perfettamente integrati nello schema decorativo.
La tecnica costruttiva di questo complicato e sfarzoso apparato ornamentale è solo intuibile attraverso una serie di indizî riconoscibili nella congerie di materiale emerso dallo scavo ottocentesco: p.es. piccole tracce di fibre lignee, rimaste aderenti a qualche lamina fanno pensare che il supporto di base fosse costituito da pannelli di legno. Su di essi poi era sistemata la parte decorativa che doveva presentare larghe zone a superficie liscia (a giudicare dal gran numero di frammenti di lamine dorate prive di decorazione) e una parte decorata a sbalzo che probabilmente era montata a giorno sulla superficie di fondo. A una simile organizzazione del sistema decorativo si giunge attraverso l'analisi di tutti gli elementi ritrovati insieme: chiodi di diverse misure a sezione quadrata, spesso ancora inseriti in tubetti, leggermente più corti, ottenuti avvolgendo su se stesse piccole lamine di rame. Questo accorgimento doveva servire a disporre la decorazione su diversi piani, in modo da movimentarne la superficie. Chiodi con testa larga e piatta, con superficie dorata, fanno pensare che tessuti preziosi facessero parte dell'apparato. Infine lo scavo ottocentesco ha restituito una grande quantità di lastrine di agata lucidate e una serie di globi di cristallo di rocca forati al centro, probabilmente pertinenti alle zampe di un mobile prezioso.
La spiegazione più verosimile per giustificare il ritrovamento in un unico sito di tutto questo materiale è che si tratti dei resti della sontuosa decorazione di un ambiente, ove le lamine di bronzo dorato e le gemme si configurano come un preziosissimo rivestimento parietale, mentre gli altri elementi possono aver fatto parte dell'arredo. Si può pensare a un ambiente particolare, legato alla funzione di residenza imperiale svolta dalla villa degli Horti Lamiani. Saremmo quindi in presenza di un fenomeno di imitazione di quei complessi e preziosi apparati decorativi, straordinariamente raffinati e ricchi di simbolismi, che le fonti ci tramandano a proposito dei palazzi dei sovrani ellenistici.
In base all'analisi stilistica dei materiali e a quanto sappiamo sulla storia degli Horti Lamiani, tutto il complesso decorativo dovrebbe risalire all'età di Caligola. Un passo della Legatio ad Gaium (XLIV) di Filone Alessandrino, relativo all'anno 39 d.C., testimonia infatti di importanti lavori eseguiti da questo imperatore all'interno degli Horti di Mecenate e di Lamia, le grandi proprietà sorte sull'Esquilino alla fine della repubblica ed entrate a far parte del demanio imperiale già nei primi decenni del I sec. d.C.
L'immagine che si ricava dall'ipotetica ricostruzione dell'aspetto originario di questo spazio architettonico rivestito di bronzi dorati trova riscontro diretto nelle architetture «fantastiche» che compaiono sulle pareti di II stile pompeiano (v. pompeiani, stili) e nello stesso tempo, attraverso la pittura, diventa possibile un'interpretazione d'insieme dell'apparato decorativo. Se da una parte infatti il confronto tra le pareti con rappresentazioni architettoniche e l'architettura reale (Engemann) oppure quello con le fonti letterarie che descrivono i basilèia ellenistici (Fittschen) permettono di riscontrare una precisa dipendenza della pittura da modelli realmente esistiti, dal punto di vista puramente decorativo i materiali rinvenuti negli Horti Lamiani consentono di trovare un riferimento preciso anche per i lussuosi apparati, che di quegli edifici costituiscono una parte integrante.
Sulle pareti di II stile pompeiano compaiono straordinarie architetture fatte di imponenti colonnati che suggeriscono l'illusione di superare i limiti degli ambienti, spesso molto angusti, e di ampliare a dismisura gli spazi. Lo sguardo può attraversare la parete e penetrare, oltre le colonne, in un giardino all'interno del quale si trovano fontane, tempietti e varî elementi decorativi; oppure può spingersi oltre a percepire lontane prospettive architettoniche. L'ambizione dei ricchi proprietari romani va però oltre, in una ricerca ossessiva di sfarzo e di opulenza. Le domus infatti non svolgono solo la funzione di residenza privata, ma sono considerate sedi di rappresentanza. Per questo motivo Vitruvio (VI, 5, 2) raccomanda ai nobiles, che svolgono pubblici uffici e rivestono importanti magistrature, una particolare grandiosità e magnificenza nella concezione della casa. E allora le pareti si arricchiscono di sovrabbondanti dettagli decorativi, le architetture si impreziosiscono con la trasposizione pittorica dei materiali più preziosi: oro e gemme, argento e avorio, tartaruga e legni pregiati. Gli affreschi del cubicolo 14 della Villa di Oplontis (ν.) o del cubicolo M della Villa di Boscoreale (v.), che rappresentano gli esempî più eclatanti di questo genere pittorico, mostrano colonne con basi e capitelli di bronzo dorato intorno alle quali si avvolgono viticci dorati che generano fiori dai bottoni gemmati; sempre a Oplontis gemme rosse decorano gli occhi delle volute dei capitelli ionici. E ancora colonne dorate circondate da tralci d'edera argentati compaiono nella Casa del Menandro; una stanza tutta d'oro appare l'esedra della Casa delle Nozze d'argento, mentre il triclinio della Casa del Labirinto mostra colonne dorate e decorate da motivi geometrici. Un'attenta analisi di queste pitture ha permesso di riconoscere diretti contatti con alcuni esempì di architettura reale, riconducendo le invenzioni pittoriche a precisi schemi architettonici riscontrabili nelle stesse ville vesuviane.
Ma ancor più significativo appare il fatto che gli stessi schemi trovino puntuali riscontri nelle favolose descrizioni che gli autori antichi ci tramandano dei palazzi dei sovrani ellenistici dove, accanto alla complessa articolazione degli spazi, lo sfarzo architettonico era sottolineato dall'uso di materiali preziosi. È a questi modelli, conosciuti durante le guerre di conquista orientali, che si ispirano i ricchi romani nell'arredo delle loro domus. Basti pensare alle descrizioni, riportate da Ateneo (v, 196-197 d), del padiglione fatto erigere da Tolemeo Filadelfo (285-246 a.C.) dove in un ambiente dalla decorazione esuberante di tessuti preziosi, di elementi di armature d'oro e d'argento, di riferimenti ai tre generi teatrali, di tripodi delfici e di aquile d'oro, trovavano posto cento klìnai d'oro con sostegni a forma di sfingi. Ancor più impressionante è la descrizione che lo stesso autore (v, 204 e-207 e) ci tramanda a proposito delle navi da parata fatte costruire da Tolemeo Filopatore (221-204 a.C.) e da lerone di Siracusa (275-215 a.C.) con arredi interni di legni pregiati, avorio, oro e pietre preziose.
Stupisce che quest'ostentazione di arredi di lusso da parte dei sovrani ellenistici si trovi sempre associata a strutture architettoniche effimere, create per abbagliare i contemporanei e non per durare nel tempo. Sorge immediata l'associazione alle scenografie teatrali sia dal punto di vista dell'immagine (non mancano infatti, tra gli elementi di arredo, riferimenti diretti al teatro), sia da quello ideologico: l'apparizione del sovrano è concepita come una «sacra rappresentazione» ambientata in una cornice sontuosa e impressionante. Una simile concezione delle manifestazioni esteriori del potere deriva ai sovrani ellenistici direttamente dall'Oriente: il tramite fu lo stesso Alessandro che, in una sorta di gara con i re persiani, si fece costruire a Susa un sontuoso padiglione nuziale che poteva contenere cento letti tricliniari, sostenuto da colonne dorate, argentate e tempestate di gemme (Chares apud Ath., XII, 538 c-d). Alessandro morì a Babilonia nel 323 a.C. e, nel 322, fu sepolto ad Alessandria. Per consentire il trasporto delle spoglie fu costruito un carro-nàos, all'interno del quale trovò posto il sarcofago d'oro, sormontato da una volta dorata sorretta da colonne pure d'oro intorno alle quali, dalla base ai capitelli ionici, si avvolgevano dorati tralci acantini (Diod. Sic., XVIII, 26-27).
R. Vallois, nel suo studio sull'architettura di Delo, compie un'ampia analisi sulle testimonianze sia archeologiche sia letterarie relative all'uso dei metalli preziosi nell'architettura orientale; tali testimonianze che sopravvivono fino all'età romana, permettono di riconoscere la matrice culturale che è all'origine di tali fenomeni architettonici. Ne è ulteriore prova la descrizione di Curzio Rufo di una reggia indiana (VIII, IX, 26) «Regia auratas columnas habet; totas eas vitis auro caelata percurrit, avimque, quorum visu maxime gaudent, argenteae effigies opera distinguant».
Al di là degli esuberanti episodî della pittura di II stile, la consuetudine ormai radicata dell'arredo di lusso, resa accessibile a tutti dalla libertà espressiva offerta dalla tecnica pittorica, si diffonde anche in momenti successivi. Mentre il grande impegno formale richiesto dall'organizzazione di una vasta superficie pittorica secondo gli schemi dell'«illusionismo architettonico» riduce a pochi facoltosi committenti quelli che possono permettersi il lusso di una simile decorazione parietale, gli stilemi di questo genere decorativo si diffondono ampiamente e fanno intendere che il fenomeno è diventato moda. Così in alcune case, anche modeste, dipinte nel IV stile pompeiano, piccole e schematiche fasce di bordura che recano motivi assai ripetitivi e schematizzati appaiono spesso dipinte in giallo a imitazione dell'oro e vi si inseriscono gemme dai colori vivaci, circondate da castoni perlinati.
Se dunque i rivestimenti bronzei rinvenuti nell'area degli Horti Lamiani appaiono a tutt'oggi come un esempio isolato di uno strabiliante lusso decorativo, essi si inseriscono perfettamente in quel particolare clima culturale che caratterizzò la penetrazione a Roma dell' «asiatica luxuria».
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