Rivolte e rivoluzioni
Gettando uno sguardo verso il passato si scorgono, nel panorama degli avvenimenti trascorsi, alcuni eventi prominenti che si stagliano sugli altri per la loro grandiosità, quasi fossero montagne. Sono vicende che hanno fondato compagini politiche o sociali, religiose o nazionali e il cui racconto ha poi continuato ad accompagnare nel tempo la memoria e la storia di queste comunità. Si tratta dunque di grandi narrazioni, di fatti ritenuti decisivi, originari, densi di gesta memorabili e ricchi di significati, popolati di figure eroiche e tragiche, animati da simboli potenti. Sono epopee, storie mitizzate che si pongono come l’inizio di tutto o, almeno, come l’inizio di una nuova epoca: eventi-matrici, dunque, che si situano esattamente dove scaturisce la storia di un popolo e, spesso, di uno Stato. Sono le rivoluzioni.
Ogni nazione europea (e non solo europea) ne ha almeno una. Lontana nel tempo o più vicina, essa costruisce il motore immobile, il fulcro di propagazione di una storia concepita come progressiva, che mentre spiega il passato, fornisce di senso il presente e orienta il futuro. Questa concezione di un evento decisivo e unico, che fa compiere alla storia un salto qualitativo e che è comprensibile solo dentro un quadro concettuale che chiarisce in anticipo quali sono i salti da compiere, gli stadi o le tappe di un percorso da effettuare, di uno sviluppo da conseguire, ha un inizio preciso: essa deriva dal modo con cui è stata concepita la più tellurica e impensabile delle rivoluzioni, non per caso la rivoluzione per antonomasia, la Rivoluzione francese.
Di questo cambiamento epocale è spia lo slittamento di senso compiuto dal termine «rivoluzione». Proveniente dal linguaggio astronomico, dove designa il movimento completo di un corpo celeste attorno a un altro, esso prese a indicare, attorno alla metà del Seicento, i cdd. rivolgimenti di Stato. Il legame concettuale tra questi due linguaggi, quello astronomico e quello politico, era assicurato dalla concezione aristotelica (ma spesso richiamata attraverso la mediazione di Polibio) per cui esistevano sostanzialmente tre modelli di regimi politici: quello repubblicano, a prevalenza popolare; quello aristocratico, a egemonia nobiliare; e quello monarchico, dove si esprime il dominio di una sola volontà. Ognuno di questi regimi, tuttavia, era creduto soggetto a un decadimento e anzi a una vera e propria degenerazione. Un sovrano, per es., poteva iniziare ad abusare del suo potere e a trasformarsi in tiranno, aprendo così la strada alla sollevazione popolare e quindi alla Repubblica; la Repubblica a sua volta, poteva corrompersi e trasformarsi in anarchia, spingendo così le classi nobiliari a instaurare un regime aristocratico, che a sua volta poteva irrigidirsi e sfociare in una oligarchia, per sfuggire alla quale si avviava il ritorno al regime monarchico. Vi era dunque una circolarità del mutamento politico, che aveva una sua fisiologia simile a quella dell’ugualmente circolare movimento dei pianeti o a quella del moto delle costellazioni di stelle dentro i quadri astrologici.
Prima dello scoppio della Rivoluzione francese, quindi, il termine rivoluzione designava un mutamento di stato quasi naturale, una trasmutazione di regime all’interno di forme ben conosciute. Dopo, invece, esso prese a designare uno spartiacque, un mutamento irreversibile, ciò che separa il prima dal poi, il vecchio regime dal nuovo, l’antico dal moderno. Al posto di una visione circolare si affermava, con la Rivoluzione francese, una prospettiva unilineare e progressiva, dentro la quale la trama della grande révolution diventerà il modello delle rivoluzioni a venire; essendo, nel frattempo, anche un fondamentale schema di spiegazione delle rivoluzioni passate.
L’instaurarsi di un regime narrativo «rivoluzionario» modifica naturalmente anche il significato dei termini simili con cui si indicano azioni di trasformazione violenta dei poteri costituiti: rivolte, ribellioni, guerre civili, colpi di Stato e così via; l’emergere del modello rivoluzionario porta infatti alla svalutazione di tutti questi sommovimenti politici, che sono identificati ora in negativo, come «non rivoluzioni», eventi incapaci cioè di porsi come fondativi di un nuovo ordine. Inizia, così, da subito, tra gli stessi attori storici che imbracciano le armi, un’importante battaglia discorsiva, che viene combattuta a fianco di quella militare e di quella politico-diplomatica: la battaglia per dare nome – e con il nome dare senso – alle cose accadute. Attorno al termine e all’idea di rivoluzione si dibattono cioè fondamentali issues che sono in primo luogo quella del diritto a resistere e a ribellarsi e quindi quella della legittimazione del nuovo corso rivoluzionario.
Poi, a una certa distanza temporale dagli avvenimenti, quando le acque sembrano (anche apparentemente) calmarsi e quando gli elementi del puzzle politico-istituzionale sembrano trovare un’ipotesi di ordinamento, al fuoco dei pamphlets e alla moschetteria della propaganda si sostituiscono, ancora a caldo, le più meditate ricostruzioni degli storici. Spesso le dispute storiografiche riproducono così le interpretazioni alternative già presenti alla coscienza dei contemporanei; cosa fu, per es., quella sequela di avvenimenti iniziata nel 1640 con il rifiuto del Parlamento inglese a sciogliersi e culminata nel 1649 con il processo e con l’esecuzione di Carlo I Stuart: una revolution o una great rebellion? La rivoluzione si distingue dalla rivolta non già per una sua natura differente, ma per il significato di evento legittimato o meno a sostenere un nuovo ordine di cose che a essa viene attribuito.
Naturalmente ciò non significa che la storiografia sia stata solo il megafono postumo delle dispute contemporanee sulla definizione degli avvenimenti rivoluzionari. Con il tempo, in linea con l’evoluzione degli studi, e poi con l’istituzionalizzazione della disciplina storica, si è via via costituito un campo disciplinare in cui gli eventi rivoluzionari sono stati studiati a fondo, sviscerati a caccia di spiegazioni capaci di rendere plausibile il senso degli avvenimenti. L’affermarsi graduale di un uso controllato delle fonti, l’emergere della critica filologica e infine l’imporsi di una concezione scientifica del fare storia non hanno tuttavia impedito che grandi schemi ideologici continuassero a ispirare la visione e il linguaggio degli storici; in particolare le rivoluzioni hanno costituito le scansioni fondamentali della visione del mondo whig, cioè liberale e progressista. Da qui, una volta mischiata con la prospettiva marxista, nacque poi quella che sarebbe stata la concezione classica della rivoluzione, che avrebbe dominato il Novecento: per la concezione classica la rivoluzione è un fenomeno essenzialmente sociale, di carattere necessario e di significato progressivo che segna il passaggio da un fondamentale stadio dello sviluppo economico e socio-politico a un altro. A una rivoluzione borghese inaugurata dalla Rivoluzione francese, segue – con uno script assai simile – una rivoluzione proletaria, producendo quello che è stato chiamato un effetto telescopico sorprendente, originato dalla perfetta consapevolezza bolscevica di situarsi nel solco giacobino. Va da sé che tale prospettiva ha condotto a rafforzare ulteriormente la distinzione tra le rivoluzioni «vere» e tutti quei sommovimenti (Putsch, insurrezioni o congiure) di cui è piena la storia; questi ultimi sono stati espulsi dalla categoria degli eventi significativi o derubricati al limite come «rivoluzioni immature», «abortite», sempre sfasate, troppo in anticipo o in grave ritardo rispetto alla tabella di marcia idealtipica dello sviluppo.
A partire dagli anni Ottanta del 20° sec. questa concezione classica della rivoluzione è venuta però disfacendosi sotto i colpi della critica «revisionista», che, da F. Furet a C. Russell, ha avuto gioco facile nel denunziare i vizi di teleologismo, le tautologie, i culs-de-sac concettuali cui conduceva la concezione classica della rivoluzione. Una a una le grandi rivoluzioni, da quella inglese a quella americana, da quella francese a quella russa, sono state spogliate del proprio rivestimento mitico e della retroproiezione di schemi concettuali noti solo ai posteri, e ricondotte a sequenze di avvenimenti imprevisti e imprevedibili, a cui gli attori storici hanno reagito con le risorse a loro disposizione, secondo cioè le proprie concezioni del mondo e della società. Invece che obbligati riti di passaggio di una società impegnata nella rincorsa al progresso essi appaiono, con gli occhiali della critica revisionista, eventi casuali, nati nella temperie della lotta politica dal risultato del gioco fazionale, dominati dal fascino artificiale della parola ideologica, e produttori, per questo, di effetti sconvolgenti e traumatici. In breve, la rivoluzione, vista dal punto di vista «revisionista», non è sociale ma politica, non è necessaria ma contingente, e soprattutto non è progressiva ma dispotica e tendenzialmente totalitaria. Naturalmente non sono le tesi revisioniste prive di ipoteche ideologiche: con il tempo è apparso evidente un certo intento sotterraneo, polemico e svalutativo, volto non solo a smitizzare ma anche a depotenziare il racconto della rivoluzione, una chiara diffidenza nei confronti delle opzioni ideali degli attori storici, una resistenza a mettere in campo il punto di vista dell’interprete facendo finta che i fatti «parlino da soli», una propensione a considerare le rivoluzioni sostanzialmente dei disastri imputabili a errori di gestione politica, nati non da visioni del mondo incompatibili ma da una mescola ineffabile di problemi materiali, di inettitudine e magari di sfortuna. L’affermazione della critica «revisionista», inscritta nel più generale clima culturale decostruzionista, ha avuto tuttavia, al di là di una prima fase di effervescente dibattito, l’effetto di «raffreddare» parzialmente l’oggetto «rivoluzione», sottraendolo alle imperiose esigenze del dibattito pubblico e consegnandolo a una riflessione storiografica meno propensa, dopo la caduta del muro di Berlino, a fare da mosca cocchiera di un qualche fronte politico in lotta. Ne sono derivate da un lato una perdita d’interesse pubblico per l’oggetto rivoluzione e dall’altro la possibilità per la storiografia, in misura considerevolmente maggiore che in passato, di riunificare rivolte e rivoluzioni, colpi di Stato e guerre civili entro categorie più ampie e avvertite, dando luogo a un’indagine sulle forme del conflitto sociale ispirata da nuovi motivi, dal bisogno di rispondere a inedite domande. Si tratta anzitutto di un’attenzione per la dimensione identitaria e per gli aspetti simbolici che la connotano. A fianco di essa è venuta emergendo un’attrazione per la violenza e le sue specifiche manifestazioni, una tendenza che si è accentuata dopo i fatti dell’11 settembre 2001. Vi è poi un interesse sempre maggiore per gli effetti traumatici dell’evento rivoluzionario sulle vite, le passioni e le emozioni degli individui. E infine la ricostruzione storica viene sempre di più posta a confronto con quella incarnazione postmoderna del racconto biografico, chiamata memoria. Per queste vie, non sempre lineari e forse ancora non del tutto evidenti, la storia viene di nuovo sollecitata a scrutare i conflitti passati, nella speranza di rispondere alle sollecitazioni dei conflitti presenti.
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