FRANCESE, RIVOLUZIONE
. La molteplicità delle cause, la complessità degli elementi, la varietà dei momenti e delle conseguenze hanno reso sempre difficile il giudizio e la valutazione del moto che, trasformando la Francia, ha contribuito al mutamento della società europea e della coscienza civile. Quanti scorsero nella rivoluzione solo distruzione e violenza, quanti espressero il loro rammarico per non potersi limitare alla narrazione delle guerre vittoriose e della propaganda fatta dai grognards della risorta Francia errarono, come errarono quelli che lamentarono di non potersi consacrare all'esaltazione di particolari periodi, uomini, istituzioni. Le dottrine sovvertitrici e le ideologie dannose, la brutalità e le profanazioni, le lotte civili e i delitti del Terrore s'accompagnano e s'alternano infatti con l'entusiasmo creatore e gli slanci appassionati di una società rinnovata, con la conquista dell'eguaglianza giuridica e dell'ordine amministrativo, con la sostituzione della legge all'arbitrio, con la liberazione dall'eredità del passato. Liberazione che è piuttosto superamento e trasformazione anziché sola distruzione materiale. Poiché la rivoluzione recò a termine con la sua violenza l'opera condotta nei secoli dalla monarchia dell'antico regime e abbatté le sopravvivenze feudali e le disparità sociali, consacrò l'importanza e la forza della borghesia, accentuò e unificò il governo e l'amministrazione, accelerò il già iniziato trapasso della proprietà, rese uguali gli uomini davanti alla legge.
Preparata dalle dottrine dell'illuminismo (v.) e dalle riforme della monarchia, la rivoluzione uscì dai confini del territorio dov'era nata e invase gli stati della vecchia Europa del diritto divino e del privilegio, ridestando sentimenti e aspirazioni nazionali, eccitando ribellioni contro gli ordinamenti sociali e le forme politiche. Gli eserciti della rivoluzione poterono essere sconfitti, ma le idee si propagarono e improntarono di sé tutta la storia del secolo XIX. (Per gli avvenimenti particolari, v. europa; francia: Storia).
Nella struttura della società francese dopo la morte di Luigi XIV si è sempre cercata una delle ragioni della rivoluzione. La monarchia dell'antico regime aveva assicurato alla Francia ordine, prosperità e potenza, ma non aveva saputo crearsi una propria solida base. Rimasta sempre una monarchia personale, non era riuscita a trasformarsi radicalmente con le riforme tentate, ma aveva indebolito istituzioni e ordinamenti nei quali avrebbe potuto trovare aiuto e forza. E più tardi l'alleanza stretta con le classi privilegiate a danno della borghesia, secolare compagna del re nella lotta antifeudale, finirà di alterare l'equilibrio politico e identificherà pericolosamente gl'interessi del monarca, ormai più assoluto in apparenza che in realtà, con quelli degli ordini privilegiati. Dal suo grandioso sviluppo del Sei-Settecento la borghesia fu tratta a invocare libertà economica ed eguaglianza civile, abolizione di privilegi e costituzione. Parola magica questa, ma che significava disciplina e norma certa, più che radicale innovazione di governo.
Se il regime di privilegio assicurava una situazione particolare ai 140.000 nobili e ai 130.000 ecclesiastici costituenti le due classi dominanti la massa di 20.500.000 Francesi, accanto a essi esisteva una borghesia ricca d'energie e di aspirazioni, alla quale la coscienza del proprio valore accresceva l'ambizione. E i ceti privilegiati sentivano invece diminuire la propria forza e mancavano nel loro interno di omogeneità e quindi di solidarietà di classe. La loro debolezza indeboliva il regime.
Al clero l'immunità fiscale, i benefici statali, il diritto d'asilo, i tribunali e cento altri privilegi creavano una posizione di particolare potenza, garantita da una ricchezza calcolata, nel 1789, a tre miliardi. Eppure questa classe su cui si avventava demolitore lo spirito del secolo, era in sé radicalmente divisa. Di fronte a un alto clero legato alla corte e alla nobiltà, esistevano una borghesia e un proletariato ecclesiastici, che non potevano guardare benevolmente ai veri privilegiati dalle grosse prebende e dovevano accogliere con simpatia le idee di critica e di rinnovamento, prima, la propaganda e l'azione rivoluzionaria, poi. L'atto d'accusa lanciato contro i privilegiati dal curato Jean Meslier restava apparentemente senza eco per mezzo secolo, ma i Talleyrand, i Grégoire, i Sieyès, i defroqués e i preti giurati, educati da Mably e dal Vicario Savoiardo, attesteranno la crisi profonda di quella società ecclesiastica.
Anche la nobiltà era immune da oneri e gravami, godeva di privilegi giuridici, riscuoteva dai proprî vassalli tributi e diritti, esigeva lavori e corvées. Sue erano le cariche pubbliche, suoi gli uffici militari, suoi i lauti benefici ecclesiastici, sua un'enorme porzione del suolo francese (clero e nobiltà possedevano insieme i ⅔, se non i 4/5 del territorio). Ma anche questa classe non costituiva un fronte unico, ché a fianco dell'alta nobiltà v'erano una media e piccola nobiltà rovinate dal mercantilismo, malcontente del proprio stato, confinate in provincia e nelle campagne. E anche sui nobili delle varie categorie agivano con l'antico spirito di fronda il movimento filosofico e le tendenze dissolvitrici. Liancourt, ClermontTonnerre, Lally-Tollendal, La Fayette saranno all'avanguardia dei liberali moderati; Mirabeau padre scriveva a mezzo il secolo un libro apparso rivoluzionario e il figlio si assiderà a Versailles tra i rappresentanti del Terzo Stato; nobiluccio di provincia, il conte di Barras voterà per la morte del re e preparerà la strada a un altro ci-devant, Napoleone.
Ma anche ces messieurs du Tiers mancano ormai di omogeneità. Il mercantilismo ha differenziato la classe. L'alta borghesia dei banchieri, degli armatori, dei commercianti e degli appaltatori ha ricavato dalla trasformazione economica grandi ricchezze e, con una più viva coscienza della propria forza e dei proprî diritti, l'aspirazione a una qualche attività politica. Assai vicina alla nobiltà, vi entra per mezzo di quelle cariche che la tramutano in noblesse de robe, ma non si separa del tutto dagli elementi della media e della piccola borghesia. Quella è istruita, colta, aperta alle nuove idee, animata da profonda avversione per i privilegiati; l'altra dei piccoli commercianti, dei bottegai, degl'impiegati, è numerosa, scontenta, irritata, e perciò facile alle idee estreme e alle speranze messianiche.
Anche meno bene sta il proletariato cittadino e rurale. E in questo quarto stato, che invano tenterà di affermarsi durante la rivoluzione borghese, la condizione dei contadini è inferiore a quella degli operai. Quindici milioni di abitanti delle campagne odiano il regime feudale (ma le paysan ha già cominciato a riscattare per sé la terra e il decadimento della piccola feudalità accelera il trapasso) e il loro odio avvampa anche contro il proletariato urbano, che appare loro particolarmente beneficato. E non è, ché la diversità delle industrie, la concorrenza straniera, la regolamentazione rigida, la clausura corporativa impediscono lo sviluppo industriale e quindi il benessere operaio. Il protezionismo non bastava a salvare l'economia nazionale. Le importazioni erano superiori alle esportazioni, e queste diminuivano ancor più e quelle aumentavano. La terra rendeva poco, ormai, e lo scarso reddito, che all'inizio della rivoluzione si aggirava su due miliardi e mezzo, era disperso fra troppi beneficiarî.
Questa disparità sociale e questa insufficienza economica, sulle quali agiscono le critiche corrosive degl'intellettuali, sono alla base dello sforzo di trasformazione statale e sociale, che s'iniziò nel 1789. La diversità di educazione accentua la diversità delle condizioni. Lo stato spende poco per l'istruzione pubblica: la cultura resta patrimonio d'una minoranza privilegiata. Il contrasto tra un popolo ignorante, ma assetato di fede e in attesa di miracolosi mutamenti, e una élite intellettuale imbevuta di un dogmatismo generalizzatore e di un classicismo di maniera dovrà dare amari frutti. E poiché lo stato ha abbandonato alla chiesa troppe funzioni e mansioni e si è fatto ufficialmente intollerante, un sentimento anticlericale, che diverrà anticattolico, s'impadronisce degli spiriti. E non si bada se, per abbattere la potenza della chiesa, si colpisce anche il trono, che trova in quella il suo puntello. L'ossequio per la regalità diviene puramente formale.
L'illegalità e l'arbitrio tenevan luogo di legge. Non difettavano i tribunali, ma il loro numero e la diversità del diritto e della procedura creavano confusione e disuguaglianza di trattamento. E tutta la macchina statale mostrava disparità e disordine: mancavano norme e regole comuni; i governi locali e quello centrale erano deboli per mancanza di unità e per l'instabilità degli uffici e delle magistrature. Il sistema finanziario e il regime fiscale aggravavano la situazione generale in quanto schiacciavano solo una parte, la più numerosa però, della società. I ministri, anche i migliori, non riuscivano con i tentati espedienti, cui era d'ostacolo la resistenza nobiliare, a frenare le spese e vedevano accrescersi paurosamente il deficit. Nel 1789 il debito pubblico ammontava a circa 1630 milioni.
Un paese siffatto non ha alcuna possibilità d'informazione sicura. I pochi giornali non servono che a diffondere notizie indifferenti alla massa e polemiche letterarie. La Gazette de France, il Journal de Paris, l'ormai vecchio Mercure e il gesuitico Journal de Trévoux, in armi contro Giansenio, non si compromettevano con critiche al governo o alla costituzione sociale. A dispetto della censura entravano dall'estero libri e pamphlets eterodossi (specie durante la guerra dei Sette anni), ma erano a un tempo troppo poco e troppo insieme per un'opinione pubblica male informata, impreparata alla discussione e alla critica. E che cosa potesse nascere da questa ignoranza di massa si vide al processo della collana.
Su questo mondo inquieto e diviso agisce una cultura di origine franco-inglese, permeata di filosofia, di spirito "libertino", di aspirazioni più o meno concrete a riforme, una cultura che intacca e corrode le tradizioni e gl'istituti su cui è poggiata la società e pone insieme le fondamenta di un novus ordo.
Il fine delle nuove tendenze è chiaramente espresso nella Histoire philosophique dell'abate Raynal (1772). La filosofia sola unisce, illumina e conforta gli uomini: essa sostituisce sulla terra la divinità. L'umanità sostituita a Dio, la filosofia alla religione: che altro invoca per l'umano ardir il Monti? Senza limiti è il potere della ragione, cui solo una mèta resta ormai da raggiungere, vincere la morte. Ai filosofi, il compito di dettare la legge, che gli uomini adotteranno. E la legge è dal Raynal concepita come un'ideale spada uguagliatrice. Saint-Just ha solo tre anni, ma Fouquier-Tinville è già sui trenta. Mezzo secolo di dogmatismo ideologico prepara il dogmatismo democratico dei giacobini.
Verso la metà del Settecento, allorché la pace di Aquisgrana pareva promettere un'era di quiete e di felicità, usciva l'Esprit des lois del Montesquieu (1748), che smosse potentemente le vecchie idee e suscitò con il desiderio di nuove istituzioni l'aspirazione all'attività politica. E se la dottrina della relatività delle forme istituzionali e giuridiche in rapporto all'ambiente non ebbe fortuna presso i contemporanei, la concezione della divisione dei poteri e l'acuta esposizione dei principî di un liberalismo costituzionale ispireranno invece la futura azione rivoluzionaria. Alla critica della religione aveva contribuito anche il Montesquieu con le Lettres persanes, ma ben più efficace appare in questo campo il Voltaire. Inquieto e aulico, onorato dai contemporanei, sarà adorato dagli uomini della prima fase della rivoluzione. Imbevuto anch'egli di spirito inglese, coopera al lavoro di demolizione degli ordinamenti e delle istituzioni, pur non essendo affatto, aristocratico del pensiero, un rivoluzionario. Convinto della bontà e della necessità della sua missione trascina l'opinione pubblica verso un radicale anticlericalismo. L'irreligiosità di cui fanno pompa, sull'esempio dei maggiori, gli uomini del tempo, è spesso prova d'uno scarso contenuto spirituale, più spesso dell'insofferenza dei vincoli e degl'inciampi di cui si accusava la chiesa. Nella seconda metà del secolo la diffusione di scritti anticattolici si accentua e l'ateismo invade ugualmente le classi dirigenti e la borghesia; c'è una religione dell'irreligiosità. Nell'alto clero, sebbene in maggioranza fedele al proprio dovere, non mancano prelati mondani e qualche scettico, come il Talleyrand e il Loménie de Brienne. Abbondano poi opere gianseniste, ricercate soprattutto, forse, per l'affinità loro con le nuove dottrine giurisdizionaliste. Se Voltaire professa un deismo razionalistico, che avrà un apostolo in Robespierre, e Rousseau divinizza l'umanità e la natura, Naigeon sogna già di strangolare l'ultimo re con le budella dell'ultimo prete.
Quando l'Esprit des lois appare, è ormai viva nella mente del Diderot l'idea dell'Enciclopedia, la Bibbia dell'illuminismo. Spirito spregiudicato di borghese insoddisfatto, entusiasta e grossolano, l'ateo e materialista autore dell'Interprétation de la nature lancia con il D'Alembert la sua poderosa macchina di guerra contro l'antico spirito e l'antico regime. La sua influenza fu notevole sulla generazione rivoluzionaria. Brissot è del '54; Barras e Barère son dell'anno dopo; La Fayette del '57; Robespierre e Vergniaud del '58; Desmoulins e Babeuf del '60; Barnave del '61. La rivoluzione la faranno i giovani penetrati dalle idee dell'Enciclopedia. Condorcet, più vecchio (è coetaneo di Marat), ne sarà addirittura collaboratore. E l'umanitarismo, il cosmopolitismo, l'insofferenza dei vincoli e delle imposizioni dei culti ufficiali diffonde la Massoneria, non a torto definita la Compagnia di Gesù dell'illuminismo. Nelle sue logge i futuri attori della rivoluzione, carnefici e vittime, s'imbevono di quella cultura, si riconoscono uguali a dispetto delle differenze sociali e attuano il vangelo della fraternité e preparano il culto della Dea Ragione, dell'Essere supremo, della teofilantropia.
Un tale movimento culturale non è del tutto nuovo, perché idee di progresso e di tolleranza e aspirazioni a riforme civili serpeggiavano già nel classicheggiante secolo del Re Sole. Il Dictionnaire historique et critique del Bayle anticipa Voltaire e l'Enciclopedia. Ma i filosofi e gli scienziati del Settecento, convinti della propria infallibilità e animati da una salda e ingenua fede nel progresso, accentuano questo movimento. Le idee di una minoranza dottrinaria investono l'intera generazione e soffocano ogni rispetto per la tradizione e l'autorità.
Interprete della più inquieta anima popolare, fa parte per sé stesso Rousseau. Il secolo crede alla perfettibilità umana e alla potenza della ragione; egli le nega. La civiltà è male, ingiustizia, schiavitù, corruzione; l'uomo non vi si sottrae se non tornando alla natura. Osteggiato dalla cultura ufficiale, il pensiero di Rousseau penetra largamente nella società del suo tempo, che nel Contrat social sente affermato nella dottrina della volontà generale il diritto alla sovranità popolare, assoluta e inalienabile, della quale il governo è solo mandatario ed esecutore. E il Contrat indicava agli uomini che il massimo bene era costituito dalla libertà e dall'uguaglianza. La dottrina di Rousseau diede vita a una nuova coscienza giuridico-sociale e con l'affermazione di un diritto d'iniziativa rivoluzionaria diffuse il desiderio d'istituzioni democratiche.
La critica all'ordinamento sociale fondato sulla proprietà, causa d'ogni male, assume forma più audace in Morelly, in Restif de la Bretonne, in Mably, propugnatori di collettivismo, in Brissot, che anticipa Proudhon, in Linguet, il cui linguaggio ha accenti moderni. Ma alla maggioranza dei contemporanei apparvero quasi più rivoluzionarie le dottrine dei fisiocratici (v.), secondo i quali le forze produttive e l'interesse individuale debbono esser liberi da ogni imposizione innaturale. E le riforme proposte si allargavano dal campo puramente economico a quello amministrativo e tributario e investivano in pieno gli ordinamenti sociali.
Tutto questo fermento di idee, al quale contribuiscono differenti tendenze e uomini di origine diversa, penetra per mille guise nella società. La coscienza e la fede nei tradizionali diritti della classe si annebbia nei privilegiati, mentre la cultura accende le speranze e le ambizioni della borghesia e, attraverso questa, eccita e intorbida la passione popolare. Le future vittime non si accorgono di scavarsi la fossa. La mancanza d'una vera esperienza politica è pericolosa per questo mondo imbevuto d'ideologie. Qualcuno lancia il grido d'allarme o la parola profetica. A mezzo il secolo d'Argenson denuncia la neonata dottrina della superiorità della nazione sul re e crede possibile uno sconvolgimento; nell'Émile Rousseau sente prossima l'era delle rivoluzioni; e nel '64 Voltaire scrive che la rivoluzione è fatale. Casanova, è d'accordo con lui.
La coscienza che l'offensiva illuministica non sia solo rivolta contro l'"infame", ma possa anche investire il regime, si va facendo strada. Gli attacchi alla monarchia non mancano. L'anno prima dell'abolizione dei gesuiti già si proclama che i re son fatti per i popoli, non questi per quelli. Rousseau non è solo. Nessuno vuole veramente la repubblica nel 1789, ma tutti aspirano a modificare la monarchia. L'ideale repubblicano è per molto tempo letterario, ma Danton lo dice negli spiriti da vent'anni. Si studiano e si ammirano, spesso per motivi sentimentali, gli ordinamenti stranieri, della Svizzera e dell'Olanda, della Prussia federiciana, magari della Russia di Caterina, ma più quelli dell'Inghilterra. E la costituzione inglese si vuole adattare alla Francia, ove molti pensano a una monarchia temperata dalle camere. Altri preferisce il sovrano illuminato dai filosofi; qualcuno vuole un dispotismo vero; pochi ancora sono per gli autentici ordinamenti democratici; ma son troppi a voler cose diverse e il concetto che l'uomo debba governarsi da sé si fa strada. Intanto la rivoluzione d'America suscita altre idee e fornisce modelli d'azione; e La Fayette è a scuola di libertà oltre Oceano.
Il popolo non legge i libri dei filosofi e non conosce l'Enciclopedia, ma ha vivo il senso della propria inferiorità e della dissoluzione aristocratica: il giorno in cui la borghesia gli fornirà i capi per il movimento, scoppierà la crisi con mal preveduta violenza. Dogmatismo ideologico e classicismo libresco, sensiblerie e irreligiosità, cosmopolitismo e umanitarismo, desiderio di virtù e di giustizia e volontà di liberare l'uomo e di renderlo signore del suo destino faranno domani universale la rivoluzione. L'impossibilità di trasformazione dell'organismo politico-sociale, internamente minato, provoca il crollo del regime. I tentativi di riforma riescono inutili; gli atti dell'ultimo Luigi sono buoni, ma insufficienti. L'indisciplina e l'incoscienza nobiliare affrettano la crisi e Luigi XVI cadrà per le colpe degli antenati e gli errori del regime.
Vano ricorso quello agli Stati generali. La salvezza non può venire da questa eredità del Medioevo. Gli ordini esistono ancora, ma nel nome, non nella sostanza. Il Terzo Stato con i suoi cahiers ha, moderatamente ma inequivocabilmente, espressa la volontà nazionale: costituzione, garanzia dei diritti individuali, uguaglianza fiscale. Nobiltà e borghesia sono d'accordo nel chiedere libertà di stampa, tolleranza religiosa, limitazione delle manomorte; e il basso clero parla un linguaggio di riforma e chiede una diversa distribuzione dei beni ecclesiastici. In tutti è poi l'attesa del miracolo e, in fondo, una certa fede nel re. Ma la monarchia, che non saprà guidare il moto, è destinata a cadere.
Il Terzo Stato, già una prima volta vittorioso per la duplicazione dei suoi mandati e cosciente ormai del valore nuovo che l'antica assemblea ha assunto, impegna la lotta sulla questione della votazione. Il 17 giugno 1789, forte dell'apporto di membri degli altri ordini, la borghesia crea l'Assemblea nazionale. E la reazione della corte e dei privilegiati è vana: dal Jeu de paume alla seduta reale la forza del Terzo, guidato da Sieyès, Bailly, Mounier, Legrand, e fiancheggiato dall'opera di giornalisti, di pamphlétaires, di oratori popolari, si fa irresistibile. Mirabeau superbo e orrido interpreta nella risposta al Dreux-Brézé la nuova coscienza popolare: l'Assemblea è sovrana e inviolabile. La teoria di Rousseau della volontà generale dà vita alla Costituente. E il regime capitola. Qualcuno, di fronte all'immensa vittoria, crede la rivoluzione compiuta. Ma "le flambeau de la raison" dell'abate Jallet diventa nell'atmosfera sovreccitata di quei giorni la fiamma che alimenta l'incendio. E l'Assemblea non può che ratificare il 14 luglio, rivoluzione municipale e di plebe. La violenza sanguinaria si sovrappone alla legalità. Dalla presa della Bastiglia la commune democratica si accampa vittoriosa a fianco della borghesia dottrinaria. E anche quella interpreta Rousseau e, poiché rappresenta il popolo sovrano, si riterrà tra breve superiore alla stessa Assemblea. Questa intanto lavora: i pratici cercano di tradurre in realtà il pensiero degl'ideologi. Al di fuori, i clubs, organi di quei partiti che nell'Assemblea stentano a formarsi con caratteristiche definite, discutono, suggeriscono, impongono. E a poco per volta i clubs di sinistra, sorti dalla Società degli Amici della costituzione, predominano su quelli di destra. Il radicalismo accentuato dei Giacobini, un tempo monarchici liberali, provocherà più tardi la scissione dei Foglianti; per il momento i Cordiglieri sono tra i più arditi. Ma son sempre elementi borghesi che li compongono: il popolo si organizza nelle sections. L'esempio di Parigi agisce sulle provincie, ove cadono le minori bastiglie e si scatena la jacquerie. Crolla di fatto il regime feudale, e la notte del 4 agosto sanziona per sempre quanto è accaduto. La vecchia Francia rinuncia ai suoi diritti, ai suoi privilegi e crea la base dell'uguaglianza giuridica dei cittadini. Le conseguenze di fatto saranno anche più radicali.
L'Assemblea, intanto, più sotto l'influenza degli "americani" e delle idee dei fisiocratici, di Montesquieu e di Rousseau che dei cahiers, lancia la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, riepilogo delle conquiste compiute e avviamento alle future. Mirabeau, di fronte alla realtà preoccupante dell'ora, avrebbe voluto una dichiarazione dei doveri, ma il dottrinarismo dei deputati vagheggia una dichiarazione che possa servire d'esempio al mondo, per tutti i tempi. Di qui il suo difetto: l'umanità è anteposta alla Francia, l'individuo alla società. Democratico e quasi repubblicano, questo catéchisme national mancava, però, della dichiarazione della libertà di coscienza (C'est la faute à Rousseau...), e ideologico e umanitario si troverà in contrasto con la costituzione. L'assenza di una tradizione costituzionale, la pressione degli avvenimenti e l'astrattismo dottrinale dei più non potevano dar di meglio.
Altrettanto accadrà per la costituzione, che, aspirando a riedificare la Francia, disorganizzerà il paese; preoccupata di assicurare il predominio borghese, scatenerà l'anarchia; ispirata ad alti principî ideali, ne renderà impossibile l'applicazione concreta. L'uguaglianza giuridica è violata dal nuovo privilegio del censo (e i democratici protestarono dentro e fuori l'Assemblea contro la disparità creata a favore di poco più di 4 milioni di Francesi); la camera unica, imposta dal dogmatismo illuministico, rafforza la borghesia, ma mette in pericolo la moderazione del potere legislativo; la limitazione delle prerogative regie, che ha la sua giustificazione in Rousseau e nei borghesi che diffidano della monarchia alleata dei privilegiati, e la rigida divisione dei poteri, appresa in Montesquieu, finiranno con indebolire l'autorità del governo.
La costituzione apparve subito inapplicabile agli occhi di molti osservatori, che si preoccuparono dell'abisso scavato tra il potere legislativo e l'esecutivo. Ma, in realtà, la prevalenza assoluta del primo finì col ricostituire l'unità spezzata. La predilezione per le formule teoriche, per lo spirito sistematico ritarda, non impedisce il trionfo dell'idea unitaria. Le giornate di ottobre, intanto, feriscono il prestigio della monarchia e fanno questa e l'Assemblea prigioniere della capitale. Il riordinamento dello stato sovverte l'amministrazione e annienta la coscienza gerarchica; la confusione e l'incertezza, la prepotenza demagogica e la diffidenza tra Assemblea e sovrano impediscono di saldare il vecchio al nuovo. Solo a patto di ricondurre la fiducia tra il re e la borghesia, inducendo il primo ad accettare le conquiste vitali della rivoluzione e la seconda a rispettare in lui il capo effettivo del potere esecutivo, è possibile salvare la Francia e la rivoluzione. E a quest'opera gigantesca si consacra Mirabeau, illuso di poter creare sulle rovine del regime feudale l'edificio della monarchia rappresentativa. Ma Mirabeau, logorato dalla vita turbinosa e mal secondato dal re, che ne diffida, soccombe nell'impresa eroica e vana.
Il tentativo di risolvere il pauroso problema finanziario crea una nuova realtà economica e dà modo all'Assemblea di far trionfare le concezioni dell'illuminismo sui rapporti tra la chiesa e lo stato. La proposta di Talleyrand porta alla confisca e alla vendita dei beni del clero, secondo le aspirazioni dei cahiers, che quelli consideravano proprietà nazionale affidata alla chiesa per scopi di utilità pubblica. Il deficit non fu colmato, ma le conseguenze sociali e politiche del fatto furono enormi, perché si creò una classe di piccoli e medî proprietarî, base della potenza economica della nuova Francia, interessati a difendere la situazione creata dalla rivoluzione.
Le discussioni sull'alienazione dei beni ecclesiastici portarono la Costituente ad affrontare ardue questioni religiose. ll gallicanismo di un Grégoire, il giansenismo di un Camus, l'eredità volterriana, l'esempio di Giuseppe II, qualche reminiscenza febroniana agiscono sull'Assemblea. "La chiesa fa parte dello stato; noi siamo una Convenzione nazionale e abbiamo quindi la facoltà di modificare la religione", proclama Camus. Gallicani, giansenisti e protestanti si vogliono vendicare di Roma; qualcuno sogna una riforma religiosa, ma la maggioranza sente piuttosto l'aspetto giurisdizionale del problema. Il riordinamento unilaterale dell'organizzazione ecclesiastica, voluto dallo spirito semplificatore dell'Assemblea, portò alla tentata subordinazione della chiesa. L'inattesa opposizione ecclesiastica alla costituzione civile e il giuramento imposto ai preti, "funzionarî" dello stato, esasperarono il conflitto. La simpatia del clero per la rivoluzione diminuì e il rifiuto di giurare e la volontà dell'assemblea di creare un clero costituzionale provocarono una pericolosa lotta religiosa.
La diffusione e l'accentuazione d'idee estremiste in un paese privo di vera educazione politica è rapido e profondo. Si sentono risonare le voci di una propaganda repubblicana, scarsa e inefficace dapprima, limitata a qualche deputato, a giornalisti come Marat, a pensatori come Condorcet, ma destinata ad allargarsi a una più vasta cerchia, anche se non ancora veramente popolare. La fuga di Varennes, che dà modo alla Costituente di umiliare il monarca e di consacrare il diritto rivoluzionario con la temporanea istituzione di un governo d'assemblea, fa nascere un vero e proprio movimento repubblicano, che riceve sanguinoso battesimo il 17 luglio 1791 al Campo di Marte. Da allora, di fronte all'impossibilità di creare un partito monarchico vitale, l'idea repubblicana cammina. Quando la Costituente chiude i suoi lavori, l'antico regime, colpito nella sua forza, nelle sue forme, nel suo prestigio, agonizza. Ancora una volta si parlò di rivoluzione compiuta. Errore, certo; ma i principî affermati e fatti trionfare, se non permisero vita durevole all'organismo uscito dalla costituzione del '91, saranno domani la base dell'edificio a cui attenderà il Primo Console.
Diversa nella sua composizione dalla Costituente, l'Assemblea legislativa, composta per lo più di uomini nuovi, di borghesi oscuri e ambiziosi, malcontenti e moralisti, sarà spinta dalle difficoltà interne, dal pericolo esterno, dalla crescente pressione della piazza a risoluzioni estreme. E così gli uomini della Legislativa, in gran parte costituzionali delle varie tendenze, finiranno con l'affermazione radicale del diritto rivoluzionario. Plutarco e Marco Aurelio erano i padri spirituali del gruppo d'idealisti che a sinistra costituivano quella che sarà poi la Gironda. Fanatici di Rousseau ma atei convinti, i Romains de Bordeaux, privi di vere qualità di uomini di stato, avevano capi famosi in Brissot, quacchero e avventuroso, in Condorcet, oracolo dommatico e noioso, in Vergniaud dalla voce potente, dall'oratoria ciceroniana, ma irresoluto e bizantino. Meno celebri per allora i Giacobini, i Cordiglieri e i pochi Montagnardi, già repubblicani. Di fronte a questa sinistra, che gli eventi tramuteranno presto in repubblicana, la destra moderata dei Foglianti, costituzionali, ma incerti e senza seguito vero nel popolo. Al centro la massa amorfa degli Indipendenti, bons à tout faire.
Il momento grave (l'emigrazione appariva ed era un pericolo pauroso), la diffidenza del re per l'Assemblea e per gli uomini che potevano ancora aiutarlo, il prevalere in Parigi (dominatrice fino a Termidoro della rivoluzione) degli elementi estremisti, la sfiducia della sinistra nel potere esecutivo, la convinzione di dover schiacciare con ogni mezzo i nemici interni, ebbero per conseguenza la proclamazione di decreti e di leggi che violavano i principî di recente asseriti e portavano all'affermazione di un nuovo assolutismo.
Per salvare l'eguaglianza gli uomini della rivoluzione saranno costretti a rinunciare alla libertà. L'evoluzione democratica parigina e la generale eccitazione degli animi preoccupano chi, come Dumouriez, risognando il sogno di Mirabeau, aspira a frenare la rivoluzione.
Le prime disfatte della guerra, con ambiguo accordo voluta dalla Gironda e dal re, sono imputate a quest'ultimo dalla plebe, che demagoghi come Marat ed Hébert aizzano, e dai democratici, che Vergniaud, aquila della Gironda, ammalia. Gli attriti tra il re e il ministero girondino, che aveva la sua Ninfa Egeria in Madame Roland, isolano il primo e indeboliscono la Gironda, che, compromessa, inclina contro voglia a demagogia, mentre il popolo tributa la sua adorazione al nuovo idolo, Danton.
La visita armata del popolo parigino al re (20 giugno 1792) è minaccioso avvertimento per tutti. Nell'esaltazione generale (l'Assemblea ha dichiarato la patria in pericolo) anche la Gironda è compromessa. E sebbene la Legislativa, legalitaria e impacciata dalle dottrine, non sia ancora repubblicana e Desmoulins e Robespierre sconfessino l'idea repubblicana, il breve mutamento dell'opinione pubblica a favore del re non ha vera efficacia. Il manifesto di Brunswick è tragicamente decisivo. I giornali attaccano la monarchia, Robespierre rinuncia al suo costituzionalismo, il discorso repubblicano di Billaud-Varennes del 18 luglio diviene il credo di molti. Mentre i deputati si dibattono ancora tra monarchia e repubblica, Danton provoca il 10 agosto. E l'Assemblea borghese depone il re, convoca una Convenzione Nazionale per dare una nuova costituzione alla Francia e affida la giustizia nel ricostituito ministero girondino a Danton, torbido e geniale "Mirabeau de la canaille".
Danton ha voluto tentare l'avventura di creare l'ordine e un governo con un colpo di forza, ricattando l'Europa con la monarchia prigioniera. Ma l'audacia del tentativo ha conseguenze diverse. Ormai il proletariato si riconosce più potente della borghesia che lo ha guidato finora; la sommossa vittoriosa favorisce gli estremisti come Marat, l'imboscato del 10 agosto. E per conservarsi il favore della folla, gli uomini della rivoluzione saranno costretti a una gara di violenza. L'Assemblea riconosce il trionfo dell'insurrezione, ma è ormai colpita ed esautorata. Il popolo si sente più forte: sua è la sovranità vera. E già accanto a Danton il proletariato parigino idolatra il puritano e dottrinario Robespierre.
Di fronte alla Comune che attua misure rivoluzionarie e riempie le prigioni, scarsa importanza ha il governo provvisorio del Comitato esecutivo. Il panico provocato dalle tristi nuove del fronte spinge a misure spietate di repressione. E l'Assemblea, che ha dato al paese lo stato civile e la ghigliottina, istituisce un tribunale straordinario per giudicare i difensori della monarchia, fa occupare i conventi, sopprime le congregazioni, vieta l'uso dell'abito ecclesiastico, confisca beni, espelle e incarcera sospetti, impone calmieri e provvedimenti d'imperio. Un'intensa attività politica s'accompagna a un vigoroso entusiasmo nazionale. Il patriottismo entra come elemento importante nella storia della rivoluzione. In questo clima di passione, di paura, di esaltazione nascono i massacri di settembre, che hanno il 10 agosto come prologo sanguinoso. Il 4 settembre l'Assemblea, vinta, giura di combattere il re e la monarchia. Danton, umanitario e sentimentale, assume la terribile responsabilità del sangue versato. Ma la Francia ha Valmy.
Eletta da una minoranza e convocatasi nel settembre delle stragi e di Valmy, la Convenzione inizia l'opera sua, che farà trionfare in un primo momento la repubblica democratica, soffocherà l'opposizione e libererà il territorio.
La mancanza di veri e proprî partiti tradizionali e organizzati, la violenza delle passioni, la pressione dei club, delle sezioni e dei postulanti, la lotta spietata tra i varî capi e le varie fazioni impediscono ogni collaborazione fattiva. Ora sono a destra i Girondini o brissottini, rappresentanti della Francia provinciale (e quindi facile bersaglio a chi li voglia accusare di pericoloso federalismo) e avversarî dei demagoghi. Ma il loro destino è simile a quello dei Foglianti, dei quali in certo senso prendono il posto: sono disorganizzati e hanno poco seguito. A sinistra i Giacobini montagnardi, democratici dichiarati, cari alla folla, logici, unitarî, accentratori. In mezzo, eterogeneo, timoroso, inquieto e profittatore, il marais. Nell'insieme erano uomini che avrebbero potuto lavorare efficacemente e da loro Napoleone trarrà ottimi elementi per la sua amministrazione.
L'esasperazione dell'ideologia rivoluzionaria, il desiderio e l'illusione di una rigenerazione da compiere, la necessità di difendere il posto e la vita determinano conflitti continui e portano a calpestare leggi e diritti, a violare i principî banditi nelle costituzioni, a governare con i colpi di stato. Danton consacra la repubblica una e indivisibile e aspira a conciliare in nome dell'interesse nazionale uomini e idee di fronte al duplice pericolo della guerra esterna e della rivoluzione interna. Marat invoca la dittatura proletaria. E gli estremisti si servono del medico sanguinario contro il tribuno; di questo contro quello.
I moderati, comunque si chiamino, son destinati al sacrificio. Le colpe e gli errori antichi fiaccano i Girondini, deboli di fronte all'energia dei Giacobini. Sul processo del re si accende un tragico duello, e la Gironda legalitaria è vinta. Vivo il re, la rivoluzione è in pericolo; spento quello, questa è salva. E in nome del diritto della rivoluzione Luigi Capeto sconta le colpe dei suoi maggiori.
Il popolo di Parigi appare arbitro dell'Assemblea e la spinge a misure estreme. Il diritto rivoluzionario ha il suo strumento di giustizia e di morte nel tribunale rivoluzionario, il suo difensore in Fouquier-Tinville. E la borghesia si sente minacciata nelle conquiste recenti dall'eccitata propaganda di un socialismo, che deriva da Rousseau. Il suo dominio sembra finito.
In lotta con la Gironda decentratrice, Danton impone il Comitato di salute pubblica. La teoria della divisione dei poteri è violata dalla necessità. Le autonomie locali scompaiono; i rappresentanti in missione, aiutati dalle società popolari, epurano energicamente l'amministrazione e abbattono le tendenze federalistiche, e così facendo aiutano il formarsi dell'accentramento statale. I Giacobini trionfano sui Girondini. Danton, respinto da questi, che non ne hanno compreso il valore e le aspirazioni, si getta con quelli. L'insurrezione del 2 giugno 1793 distrugge la fazione girondina, ma, come già le giornate d'ottobre e il 10 agosto per le altre assemblee, costituisce la Convenzione prigioniera del popolo di Parigi.
Il mutamento, che appare radicale, dell'opinione pubblica determina la costituzione democratica dell'anno I (1793), fondata sul suffragio universale diretto, su una sola camera, sul referendum popolare per l'approvazione delle leggi, sulla collegialità del potere esecutivo. Le provincie erano appagate dal riconosciuto diritto plebiscitario, ma le disposizioni ultra-democratiche (diritto d'insurrezione del popolo sovrano e misure contro la proprietà e la ricchezza) non potevano accontentare la borghesia, che aveva negli illuministi e nei fisiocratici i suoi maestri. La costituzione, destinata a non essere applicata, fu approvata con un plebiscito che diede forza agli elementi estremi. La rivoluzione continuò a logorare e a distruggere i suoi uomini.
Danton, cui la soppressione della Gironda toglie il contrappeso agli estremisti, non riesce a imporre la sua politica. Accusato dei disastri vandeani e di arrendevolezza verso i Girondini lascia libero campo a Robespierre e al suo gruppo. I Comitati onnipotenti dànno grande impulso ai tentativi di costruire l'ordine nuovo, e il tribunale rivoluzionario li aiuta attuando una giustizia di sangue.
Nella grande crisi del '93 la rivoluzione supera le sue più ardue prove. Partigiani della Gironda caduta, vandeani, realisti insorgono; la guerra è un seguito di disastri; la crisi economica e lo spettro della fame tormentano gli animi. Ma il terrore, che non fu già parola più che cosa, riesce a galvanizzare gli animi dei Parigini. La legge dei sospetti e la soppressione di ogni libertà, la distruzione sistematica degli avversarî violano le ideologie dell'89, ma risuscitano la fede nella rivoluzione e la salvano. Gli ultimi resti dell'antico regime cadono: la ghigliottina recide il capo all'ex-regina e a Bailly, a Custine e a Madame Roland, a Condorcet e a Filippo Égalité, mentre Hébert porta sugli altari la Dea Ragione.
Danton tenta un'ultima volta di fermare il torrente sanguinoso; ma fallisce. Hébert sanguinario e volgare cade, ma per preparargli la strada alla ghigliottina. L'incorruttibile Robespierre si è servito di Danton, "l'impuro", contro gl'indegni e i violenti; ora si rivolge contro di lui: in un simulacro di processo Danton è condannato.
Spento il grande tribuno, che aveva tentato di domare la rivoluzione, Robespierre, uomo di principî rigidi e dall'anima di inquisitore, senza la genialità e le qualità di uomo di stato che Danton aveva, ma caro al popolo per la sua incorruttibilità, si asside dittatore. Ma la sua è dittatura labile e apparente; non domina, è dominato: non può costruire neppur lui l'ordine nuovo, la necessità lo costringe ad atterrire i nemici con l'esasperazione del terrore. E il popolo, per il momento, segue chi non potendo dargli la felicità promessa lo inebria di virtù e di violenza. "Le verbe s'était fait sang". E in quel sangue ormai la rivoluzione si esaurisce. Robespierre, contro il quale l'opposizione è forte al centro della Convenzione, ha la sua apoteosi con l'istituzione del culto dell'Ente Supremo, ma è prossimo alla caduta. La guerra ora vittoriosa, la paura e la nausea della violenza dànno forza ai suoi avversarî. La Convenzione gli si ribella e abbatte con lui la Comune. Con Termidoro il regime democratico e la fede cieca nella rivoluzione sono finiti. Il popolo invoca con Chénier "des lois et non du sang". I moderati borghesi riprendono forza e terreno; un bisogno di reazione morale e materiale s'impone; la gloria militare fa nascere disgusto dell'eccitazione rivoluzionaria.
La Convenzione di Termidoro non trova subito il suo equilibrio. La lotta tra moderati ed estremisti copre l'altra tra realisti e democratici. E intanto paurosi conati socialisti minacciano altri pericoli: Gracchus Babeuf eccita la plebe. La Convenzione ricorre alla violenza: schiaccia i Giacobini e frena i moderati. Il rilassamento degli organismi rivoluzionarî, l'avvenuta trasformazione sociale (la borghesia in realtà si è consolidata e arricchita), l'aspirazione a una nuova vita portano ai 377 articoli della nuova costituzione dell'anno III, figlia della paura. Antidemocratica e borghese, vuol correggere gli errori delle due precedenti e, salvando alcuni acquisti della rivoluzione, rinuncia a molte delle ideologie del quadriennio 1791-1795. Quindi garantiti i beni nazionali e confermato il bando agli emigrati, ma diritto elettorale censitario, riconoscimento della proprietà individuale e separazione dei poteri e delle camere. La rivoluzione ha trovato la sua soluzione borghese e alla disuguaglianza del privilegio ha sostituito quella del censo, gettando così i germi di futuri conflitti sociali. Ma l'opinione pubblica ormai è indifferente; pochi si recano a votare per l'approvazione plebiscitaria della legge. E Bonaparte il 13 vendemmiale può riportare facile vittoria sulle sezioni insorte. La Convenzione finisce con un appel au soldat: violenza che prepara Brumaio.
La politica incerta della Convenzione termidoriana è continuata dal Direttorio, che si mantiene al potere con i colpi di stato, favoriti da una costituzione inefficace e tollerati da un'opinione pubblica indifferente. E il nuovo governo non riesce a organizzarsi durevolmente, né a crearsi un suo prestigio. Il quadro tracciato da Albert Vandal è eloquente. Regime di disordine e d'immoralità, non ha rispondenza nell'anima popolare. Bisognava rinascere: ai principî, alle grandi frasi era succeduta la nausea delle assemblee, dei club, della libertà stessa. Il Direttorio non riuscì nel suo compito di risolvere la crisi economica e di ridare fiducia al paese, ma non fu tutta colpa sua. E quanto riuscì a compiere non fu inutile. Soffocati i moti comunisti del Babeuf, tentata una ridevole trasformazione religiosa con l'ingenua teofilantropia di Lareveillère-Lépaux, d'ispirazione illuministico-massonica, domati con la violenza gli avversarî, il Direttorio preparò il trapasso dal governo rivoluzionario all'accentramento consolare e in materia finanziaria compì l'opera amministrativa delle assemblee rivoluzionarie, legalizzando con i mandati territoriali il fallimento. Ma ormai Bonaparte è pronto a raccogliere l'eredità della rivoluzione.
Dalla guerra vittoriosa la Francia riceve il suo capo. Hoche, Moreau, Joubert, Bernadotte, Augereau, "les sabres" per i colpi di stato del Direttorio, gli cedono il posto, ed egli dà alla Francia il governo nazionale che la terra della rivoluzione invocava. Unità e ordine; uguaglianza e concordia: "Accueillez tous les Français, quel que soit le parti auquel ils ont appartenu" dice ai prefetti il Primo Console, che nel suo primo proclama annuncia la fine della rivoluzione. E a tutti chiede che "chacun fasse des sacrifices à la paix". Arbitro e conciliatore, restaura l'autorità e la disciplina, ridà prestigio al governo, restituisce alla Francia con la fiducia in sé stessa l'orgoglio e la forza. Dispotismo, cesarismo, autocrazia militare, fu detto; ma la costituzione dell'anno VIII, che creò il consolato e quella dell'anno XII, che consacrò l'Impero, hanno salvato la Francia e quanto era vitale nell'opera della rivoluzione. Il concordato, il codice, il consiglio di stato, il riordinamento amministrativo e giuridico, il risanamento finanziario, l'onore reso all'ingegno, alla capacità, al valore hanno creata la nuova società francese e consacrato il trionfo della borghesia, le vittorie militari hanno diffuso i benefici della rivoluzione alla società europea.
Certo è che il gran moto di Francia, umanitario, cosmopolita, antinazionale, si diffonde con la guerra nell'Europa dell'ancien régime, preparata in gran parte ad accoglierlo dalla predicazione illuministica e dalla penetrazione culturale francese, dalla somiglianza delle forme sociali e del costume politico. Ma i primi rivoluzionarî, preoccupati dei problemi interni della Francia, non pensavano alla guerra. Furono le potenze europee, che aggiunsero alle questioni polacca, americana e orientale quella francese e, timorose del trionfo di paurosi principî di dissolvimento e illuse di poter fiaccare, umiliare, amputare la Francia, mossero guerra al paese della rivoluzione.
E questo reagì per difendersi e agli occhi della monarchia che agonizzava cercò a Valmy la rivincita di Rossbach. La politica estera negativa dell'ancien régime era riscattata dall'atto di forza del popolo, che si creò un esercito di soldati-cittadini, ne curò come mai prima era stato fatto il morale e lo lanciò contro l'Europa. Se l'atteggiamento ufficiale della Costituente pur apparendo diverso da quello della diplomazia tradizionale (annessione di Avignone, questione dei principi alsaziani), era favorevole alla pace, la pubblicistica democratica invocava fin d'allora un'energica azione fuor dei confini, mentre profughi di paesi diversi chiedevano che la Francia propagasse all'estero le nuove idee. Per la costituzione del '91 la nazione francese rinunciava a intraprendere guerre a scopo di conquista e di oppressione della libertà di altri popoli, ma la Legislativa interpretò quel principio nel senso che non escludesse la guerra di liberazione e di propaganda. E ricacciato lo straniero, la guerra difensiva diverrà appunto di liberazione e la Convenzione la condurrà contro i re per dar pace ai popoli. Siamo alla crociata per i diritti dell'uomo, alla dichiarazione di fratellanza e di soccorso alle nazioni che vorranno ricuperare la libertà, all'ordine dato ai generali di non far pace con i paesi che non abbiano istituito un governo libero e popolare. Ai soldati della repubblica "rigeneratori dell'universo" si fanno incontro esultanti i patrioti locali, e il Belgio è invaso e Magonza e Francoforte sono conquistate. Ma la reazione europea scatenatasi alla morte di Luigi XVI riprende il Belgio, assedia e invade la Francia e attenua l'entusiasmo della propaganda. "Unico e naturale alleato dei popoli liberi", il popolo francese - dichiara Danton - non s'ingerisce nelle faccende interne degli altri paesi, come a questi non permette d'ingerirsi nelle sue. Ma già nell'autunno del '93 i rivoluzionarî sono di nuovo vittoriosi e i confini della patria liberati; nel '94 il Belgio è conquistato, la riva sinistra del Reno raggiunta. E Belgio e Germania renana son democratizzate in vista dell'annessione, come l'anno dopo accadrà dell'Olanda e, dopo Loano, degli sbocchi alpini. La dottrina dei "confini naturali" fa della rivoluzione l'erede di Luigi XIV, la guerra di propaganda si chiarisce guerra di conquista. La politica estera unitaria e consequenziaria del Comitato di salute pubblica è continuata dal Direttorio, e le demi-brigades del Bonaparte sconvolgono l'Italia in nome della libertà. Al contatto delle armate rivoluzionarie si disgregano i vecchi ordinamenti, crollano gli antichi edifici politici, si alterano le compagini sociali. E le repubbliche e repubblichette del triennio 1796-1799, modellate sul figurino dell'anno III, conoscono l'avidità e l'iniquità dei proconsoli francesi, ma la coscienza politica dei loro cittadini, già in via di rinnovamento nel corso del Settecento, riceve ulteriore alimento, sia assorbendo idee e principî di Francia, sia reagendo a Francia. Agenti diplomatici ed emissarî di Parigi completano l'opera dei generali; Bonaparte, fallito il sogno di colpire l'Inghilterra attraverso l'Irlanda, tenta di ferirla attraverso l'Egitto; Sieyès cerca a Berlino di persuadere la Prussia a sconvolgere l'Europa orientale per assicurare alla Francia il dominio su quella occidentale.
Ma ai primi del '99, secondo la frase di Sieyès, Londra, Vienna e Pietroburgo suonano a martello per lo sterminio francese. La paura della propaganda repubblicana, la contropropaganda degli emigrati, la speranza di poter sfruttare gli errori dei conquistatori e l'irritazione dei popoli per gli eccessi sofferti danno la vittoria alla nuova coalizione antirivoluzionaria. A Novi il 15 agosto 1799 sembra crollare la fortuna militare del Direttorio; ma pochi mesi dopo la coalizione è di nuovo arrestata.
Esecutore testamentario della rivoluzione, Napoleone porta per l'Europa i grandi principî di libertà, d'indipendenza, di uguaglianza. E la rivoluzione ("un'idea che ha trovato delle baionette") fattasi conquistatrice abbatté ovunque gli ultimi resti dell'assolutismo e della disuguaglianza e impose le norme e le forme delle istituzioni francesi. Belgio, Olanda, Italia, Germania, Svezia, Spagna si trasformarono; e anche là dove le armi francesi non giunsero e non ebbero fortuna, necessità di difesa e di contropropaganda aprirono la strada a riforme e a cambiamenti che risentivano dell'influenza francese. E. Burke aveva sulla fine del '90 lanciato il suo atto di accusa contro la Francia rivoluzionaria, ma pochi mesi dopo nella stessa Inghilterra le Vindiciae Gallicae di sir J. Mackintosh difendevano i principî essenziali della rivoluzione. E da allora in tutta l'Europa l'opinione pubblica si era divisa in due campi e la pubblicistica aveva rispecchiato le varie tendenze. Se l'Inghilterra rimaneva sostanzialmente ostile (ma molti mutamenti della vita interna inglese furono compiuti per effetto dell'influenza sia pure indiretta francese), se in Germania si rimpiangeva che la rivoluzione avesse distrutto i benefici dell'Aufklärung e Federico Gentz interpretava efficacemente la delusione della classe colta tedesca, se l'orrore per le violenze e i massacri determinavano ovunque un vivo senso di reazione, non per questo era arrestato l'influsso delle nuove idee nei varî paesi. La letteratura europea lo dimostra.
La rivoluzione conquistò spiritualmente l'Europa; ma presto l'inevitabile reazione alla conquista denuncierà il dissidio tra la libertà e l'indipendenza promesse e la realtà della dominazione straniera, diretta o indiretta, imposta. E i popoli, educati dai Francesi a lottare contro gli stranieri, riconosceranno anche nei Francesi gli stranieri e richiamati alla coscienza delle tradizioni storiche indigene inizieranno la lotta contro l'uomo e il dominio della Francia della rivoluzione.
Ma scomparso l'uomo e materialmente conchiusa a Waterloo l'era della rivoluzione, non caddero le idee seminate e diffuse. Joseph de Maistre vedeva giusto quando nel '14 diceva che Luigi XVIII non era già salito sul trono dei suoi avi, ma solo su quello del Bonaparte. La sconfitta militare non poteva cancellare quanto si era edificato, mentre quanto si era abbattuto non poteva tornare alla vita. L'idea della libertà diventava religione, il concetto della sovranità popolare si affermava pure attraverso ostacoli e difficoltà innumeri, l'aspirazione all'insurrezione nazionale acquistava valore di dogma agli occhi della generazione che era nata nei venticinque anni del grande sconvolgimento. L'anelito alla libertà, il desiderio di ordinamenti che fossero informati ai grandi principî sociali e umanitarî banditi dalla rivoluzione e il ridestarsi della coscienza nazionale di alcuni popoli suscitarono le lotte che nel sec. XIX scossero l'Europa. Superando le resistenze superstiti e le difficoltà del cammino lungo e doloroso, temperando e integrando le idee e gl'insegnamenti, la società europea liquidò l'assolutismo e rafforzò la borghesia, e con le minori rivoluzioni, generate idealmente dalla prima, accelerò il cammino verso l'indipendenza e l'unità in quei paesi che erano rimasti assenti o in ritardo rispetto al movimento unitario e nazionale.
La storiografia della rivoluzione francese è passata per varie fasi. Dal severo atto di accusa di E. Burke, Reflections on the Revolution in France, Londra 1790, alle pagine di A. Mathiez la rivoluzione ha conosciuto tutte le condanne e tutte le glorificazioni. Belli ed eloquenti i tre volumi di T. Carlyle, The French Revolution, Londra 1837, che però sono piuttosto una serie di episodî cantati in prosa lirica che una vera e propria storia; l'elegante e romantica narrazione di F. Mignet, Hist. de la Rév. française, voll. 2, Parigi 1824, ha ormai poco valore, e così pure quella di A. Thiers, Hist. de la Rév. franç., Parigi 1823-27, che mirava a trasformare la rivoluzione in un'epopea eroica e sacra, come tentarono di fare con diverse finalità L. Blanc, Hist. de la Rév., voll. 12, Parigi 1847-62 e con più vibrante eloquenza J. Michelet, Hist. de la Révol. franç., voll. 7, Parigi 1847-53. Queste due sono le migliori tra le opere più antiche. Con L'ancien régime et la révolution, Parigi 1856, di A. Tocqueville, s'iniziò un nuovo periodo nella storiografia della rivoluzione. In questa il Tocqueville vide la continuatrice, l'integratrice, per certi rispetti, dell'opera dell'antico regime, che con le sue istituzioni era venuto già preparando lo stato moderno accentratore e l'ascesa della borghesia, ed egli fu il primo a porre acutamente in rilievo la tendenza alla propaganda. Quasi contemporaneamente in Germania E. v. Sybel (Geschichte der Revolutionzeit von 1789 bis 1800, voll. 5, Stoccarda 1853-1879) giungeva a conclusioni non dissimili e inquadrava la storia interna dell'avvenimento in quella delle relazioni internazionali. Acuti e vivaci, ma viziati da un eccessivo dottrinarismo e da preconcetti politici e sociali, sono i volumi di H. Taine, Les origines de la France contemporaine, Parigi 1876-94. Preoccupato della grave crisi francese del '70-'71, ingenuamente convinto di poter fare quasi una storia naturale della rivoluzione, il Taine si è eretto a giudice spietato di questa, considerata come un brigantaggio filosofico, del quale egli pone in rilievo volutamente le pagine più sinistre, non senza incertezze e contraddizioni. Più limitato quanto all'argomento e non sempre accettabile per le sue valutazioni L. v. Ranke (Ursprung und Beginn der Revolutionskriege 1791 und 1792, Lipsia 1875), che ha cercato soprattutto di vedere nella rivoluzione quasi la reazione alla politica estera negativa dell'antico regime. Le dottrine del Tocqueville e del Sybel trovavano il loro completamento nella magistrale opera di A. Sorel, L'Europe et la révolution française, voll. 8, Parigi 1885-1893, nella quale si riconosceva la rivoluzione come la violenta esecutrice testamentaria dell'ancien régime, con l'annientamento del superstite feudalismo, con l'accentramento del governo, il trapasso della proprietà, la conquista dell'uguaglianza civile e giuridica dei cittadini. E la storia di Francia il Sorel studiava in rapporto alla politica europea del tempo. All'origine e allo sviluppo delle idee democratiche e delle istituzioni repubblicane consacrava la sua maggiore opera A. Aulard (Histoire politique de la révolution française, Parigi 1901, 6ª ed., 1926), mirando a mostrare come fossero attuati nelle istituzioni e interpretati dall'opinione pubblica dal 1789 al 1804 i principî della dichiarazione dei diritti. Ricco di una conoscenza diretta e sicura, ma non del tutto libero da preconcetti, l'Aulard vuol sostenere che è un errore ritenere la rivoluzione opera d'individui eccezionali (al più è "un soldato geniale" che ne "disorganizza" l'opera politica...); che la generazione che operò dall''89 al '99 fu una generazione di uomini comuni; che è improprio parlare continuamente di "rivoluzione", poiché essa si realizzò solo parzialmente e in un momento determinato (la rivoluzione consiste nella dichiarazione dei diritti dell'89, completata nel '93, e nei tentativi fatti per attuarla) e che il dispotismo imperiale arrestò il movimento e ne compromise i risultati. A questa tendenza apologetica si oppone per molti rispetti la concezione nazionalistica e conservatrice di L. Madelin (La Révolution, Parigi 1911), che in pagine letterariamente felici presenta la rivoluzione come il prologo necessario all'opera di Napoleone. Più affine all'Aulard, G. Bourgin, Die französische Revolution (Stoccarda 1922, vol. VII della Weltgeschichte di L. M. Hartmann; trad. it., Firenze s. a.), che riconosce nella rivoluzione la causa e il principio dell'avvento della borghesia come forza politica. Ordine amministrativo e uguaglianza giuridica sono le sue conquiste essenziali; l'Impero non è che l'erede, spesso dissipatore, delle conquiste rivoluzionarie. A un maggiore radicalismo giunge J. Jaurès (Histoire socialiste, I-IV, Parigi 1901-1904), che assegna grande importanza ai fattori sociali ed economici, come con grande dottrina ha fatto più tardi A. Mathiez (nuovo editore della storia del Jaurès, 1922-1924) in opere particolari e nella Révolution française (voll. 3, Parigi 1922-27), nella quale ha posto in primo piano l'azione popolare e le questioni economiche e ha sottoposto ad acuta, se non sempre felice, revisione i precedenti giudizî su alcuni dei principali attori della rivoluzione. A parte alcune opere minori, l'Italia ha contribuito alla storiografia della rivoluzione con Lazzaro Papi (Commentarii della Rivoluzione francese, Lucca 1830-31), giudice severo e classicheggiante, con A. Manzoni (La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859, Milano 1889, tentativo d'esame rigorosamente morale) e con G. Salvemini (La rivoluzione francese 1789-1792, Milano 1905; 5ª ed., Firenze 1925), per molti riguardi assai vicino alle tesi dell'Aulard.