Neolitica, rivoluzione
Le classificazioni ottocentesche della preistoria, basate su aspetti formali dell'industria litica (e della ceramica per le fasi più avanzate), contrapponevano basilarmente un Paleolitico (pietra scheggiata) e un Neolitico (pietra levigata), con la successiva inserzione del Mesolitico (industria microlitica). La classificazione tipologica (anche all'interno delle grandi fasi) era la più ovvia giacché il materiale proveniva da tombe, ripostigli, ritrovamenti isolati, più che da contesti abitativi e significativi in senso economico. Era comunque chiaro (dalla tipologia stessa degli attrezzi) che il Paleolitico corrispondeva a uno stadio nomadico e di caccia, il Neolitico a uno stadio sedentario e agricolo. Parallelamente si sviluppavano (da parte antropologica e storico-filosofica) teorie sullo sviluppo complessivo della civiltà umana, per lo più di carattere evoluzionistico-lineare (per stadi successivi), come quella di Morgan e poi di Marx, che distingueva uno stadio 'selvaggio', uno di 'barbarie', uno di 'civiltà' (v. Harris, 1968). Tali teorie erano basate soprattutto su paralleli etnografici e su proiezioni da documentazione storica tarda (greca, romana, biblica); mentre la correlazione degli 'stadi' con fasi note attraverso ritrovamenti preistorici rimaneva incerta. Grosso modo lo stadio 'selvaggio' corrispondeva al Paleolitico, quello 'barbarico' al Neolitico, quello 'civile' all'età dei metalli. Si riteneva correntemente che l'allevamento del bestiame (praticabile in forme nomadiche) fosse nettamente anteriore all'agricoltura (che richiede sedentarietà); ma taluni pensavano ad un'orticoltura (agricoltura 'alla zappa') anteriore all'allevamento. Più ancora che sulle forme economiche, l'interesse si appuntava sull'evoluzione delle forme sociali e sull'origine delle istituzioni civili e politiche: l'opera di Engels sull'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato è ben rappresentativa di questa impostazione.
Col progredire delle ricerche preistoriche e in particolare con lo scavo di abitati, la classificazione tipologica dell'industria litica si arricchì di annotazioni relative agli altri settori della cultura materiale e di indicazioni socioeconomiche. Ma i dati (cronologici ed ecologici) per una visione complessiva del problema erano ancora inaffidabili. Inoltre le conoscenze si accentravano sull'Europa, zona in cui il Neolitico si presentava compattamente caratterizzato da sedentarietà e agricoltura, senza indizi di fasi preparatorie e percorsi alternativi.
Spetta al grande paletnologo inglese Vere Gordon Childe il merito di aver fatto della 'rivoluzione neolitica' (da lui così denominata) un oggetto di studio specifico e di averne sottolineato il valore di maggiore tappa nello sviluppo dell'umanità. Le idee di Childe (espresse in varie opere dagli anni venti ai primi anni cinquanta; v. Childe, 1934) risentono inizialmente delle impostazioni allora correnti (evoluzionismo lineare per stadi, diffusionismo migratorio, identificazione popolo/cultura), ma vanno poi ben oltre (concetto di 'processo', dinamica crisi/adattamento, peso dei fattori socioeconomici) e impostano il problema in termini che sono grosso modo ancora attuali. Il carattere 'rivoluzionario' del passaggio va inteso sia nel senso di una relativa rapidità sia nel senso di un completo capovolgimento (dal procacciamento alla produzione) dalle conseguenze culturali e demografiche colossali. In termini ancora ottocenteschi, le due 'rivoluzioni' di Childe (v. Trigger, 1980) segnano il passaggio dallo stadio selvaggio a quello barbaro (rivoluzione neolitica) e dallo stadio barbaro a quello civile (rivoluzione urbana).
Recependo le indicazioni, che venivano dalle prime esplorazioni archeologiche nel Vicino e Medio Oriente, di un progressivo inaridimento dell'Asia, e collegandole con la sommaria cronologia delle ere glaciali (stabilita alla fine dell'Ottocento), Childe propose di collocare la rivoluzione neolitica a ridosso della fine dell'ultima glaciazione e di ambientarla in un restringimento della popolazione e delle risorse nelle nicchie più favorite ('teoria delle oasi'), all'interno delle quali la stretta simbiosi uomo-animale-pianta avrebbe prodotto crescenti conoscenze, e la carenza di cibo avrebbe spinto verso l'adozione di tecniche produttive. Il fattore climatico ha dunque per Childe un peso enorme (a differenza della 'rivoluzione urbana' da lui spiegata in termini tecnologico-organizzativi). Recependo anche il crescente interesse delle scoperte archeologiche nel Vicino Oriente, allora e da sempre considerato come culla della civiltà, Childe ipotizzò anche che la rivoluzione neolitica si fosse verificata originariamente in quell'area, che la sua diffusione nel Mediterraneo e in Europa fosse secondaria e che altri focolai di neolitizzazione fossero comunque successivi se non anch'essi secondari.
Nel frattempo i botanici studiavano l'origine delle piante coltivate e i centri di diffusione dell'agricoltura sulla base di dati moderni (diffusione attuale dei cultigeni), senza potersi avvalere di dati propriamente paleobotanici, ancora (nella prima metà del Novecento) quasi del tutto assenti. Già alla fine dell'Ottocento i botanici avevano conseguito risultati validi (specialmente De Candolle - v., 1882 -, che identifica correttamente i principali focolai di grano e orzo). Poi negli anni venti il russo Vavilov impostò un programma di rilevamento sistematico su scala mondiale, isolando sette centri di origine delle piante coltivate: Cina, India, Vicino Oriente, Mediterraneo, Etiopia, Messico, Ande (v. Vavilov, 1950). Più tardi anche l'americano Sauer pubblicava una sintesi impostata su centri di origine e meccanismi di diffusione, peraltro viziata da insufficiente lavoro di raccolta e da ipotesi azzardate (v. Sauer, 1952).
Ma a partire dagli anni cinquanta, botanici e archeologi lavorano congiuntamente (v. § 1d), affiancando alla documentazione moderna una sistematica raccolta di dati paleobotanici. Tra le successive proposte di carattere strettamente botanico, intese a precisare l'individuazione delle zone d'origine, va segnalata quella di Harlan (v., 1971; cfr. Harlan, in Reed, 1977, pp. 357-383, e in Hutchinson e altri, 1977, pp. 13-25), il quale distingue 'centri' e 'non-centri', intendendo con questo termine ampie zone di diffusione di piante coltivabili che però non parteciparono all'iniziale rivoluzione agricola. I 'centri' (Vicino Oriente, Cina, Messico) hanno una dislocazione più settentrionale, temperata, rispetto ai corrispondenti 'non-centri' (Sahel, Asia sudorientale, America meridionale) prevalentemente subtropicali: dunque l'origine dell'agricoltura è condizionata da situazioni ecologiche precise, ed è insomma un fenomeno storico più che strettamente botanico.
Verso il 1950 si ebbe una svolta decisiva. Il paletnologo americano Robert Braidwood dell'Oriental Institute di Chicago impostò e poi realizzò un progetto di ricerca sul campo relativo all'origine della produzione di cibo, e mise insieme un gruppo di specialisti delle varie scienze fisico-naturalistiche (v. Braidwood e Howe, 1960), dando inizio a una metodica 'interdisciplinare' poi divenuta abituale. Si trattava di verificare su dati oggettivi quelle che fino ad allora erano state teorie, e in particolare la teoria childiana (v. Braidwood, 1960). Braidwood scelse l'area alle pendici dei monti Zagros (Iraq) quale migliore candidata per rappresentare una di quelle 'zone nucleari' dalle quali doveva essersi sviluppato il processo: zona sita nel Vicino Oriente (il maggiore e più antico 'centro'), all'incrocio degli habitat selvatici di cereali e caprovini, in zona di interfaccia ravvicinata tra ecosistemi diversi (a quote diverse), con nicchie riparate (piccole valli intermontane). La sequenza da lui ottenuta in vari siti (il più famoso è Giarmo) fornì la prima base documentaria del passaggio progressivo dalla caccia-raccolta alla produzione di cibo, attraverso precise fasi (v. § 3a). Negli stessi anni un analogo progetto venne avviato per l'area mesoamericana da Richard S. Mac Neish (v., 1992).Sul piano teorico, riguardo alle cause della rivoluzione, Braidwood ritenne di contrapporsi a Childe (criticato per il suo 'materialismo'), considerando irrilevante il fattore climatico (in quanto il mutamento alla fine del Pleistocene precede di due-tre millenni gli inizi della domesticazione) e privilegiando il fattore propriamente culturale di una 'maturazione' (per linee interne, senz'altra condizione che la disponibilità di piante e animali domesticabili) delle conoscenze e delle possibilità tecnologiche per operare il salto (v. Braidwood, 1964, pp. 81-135). Se la negazione del fattore climatico si è rivelata un punto debole, cui hanno poi rinunciato i suoi stessi collaboratori (cfr. Wright, in Reed, 1977, pp. 281-318; v. Wright, 1993), resta decisiva la svolta impressa da Braidwood allo studio del problema: sia sul piano operativo, sia nel rilievo dato ai fattori culturali, sia nella definizione delle fasi.
La controllabilità delle ipotesi poté giovarsi (a partire dagli anni cinquanta e poi con crescente affidabilità) di sviluppi propriamente scientifici applicati all'archeologia preistorica. La datazione al carbonio14 ebbe un effetto 'liberatorio' riguardo al problema cronologico, di grande rilievo per la comprensione della dinamica del fenomeno (anteriorità o meno di un centro sugli altri, processi di derivazione secondaria) e delle sue fasi, problema fino ad allora affidato alla stratigrafia e alla tipologia comparata. Anche se talune date si sono rivelate erronee, e se la precisione e la corrispondenza con effettive date 'calendariali' si è affinata solo negli anni settanta e ottanta, spetta comunque al carbonio-14 il merito di aver fornito una griglia adeguata per mettere in relazione la cronologia archeologica con quella paleoclimatica.
Per quanto riguarda la paleoecologia, sono state le analisi polliniche (sequenze di percentuali di polline derivato dalle varie specie vegetali) a fornire quadri attendibili sia dei mutamenti climatici sia della configurazione della flora per aree e periodi. L'aggancio dei diagrammi pollinici a datazioni al carbonio-14 fornisce una cronologia assoluta dei paleoambienti succedutisi nel corso dei millenni. Si può così collocare la distribuzione delle specie vegetali e animali in un quadro non anacronistico quale quello attuale, ma invece effettivamente pertinente all'epoca della loro domesticazione (cfr. Bottema e Van Zeist, in Bintliff e Van Zeist, 1982, pp. 277-321). I più recenti progressi della paleoclimatologia (v. Kutzbach e Wright, 1993) devono ancora essere pienamente sfruttati in senso storico-archeologico, ma è ormai possibile collocare la rivoluzione neolitica nel suo effettivo contesto ambientale e valutare con precisione il peso del fattore climatico.
Anche i recenti progressi nella biologia genetica ed evolutiva rendono possibile non più 'postulare', ma ricostruire positivamente l'origine delle specie coltivate, con una sicurezza e una precisione impensabili ancora nel recente passato. Sul piano pratico, la generale adozione del sistema della flottazione (dai primi anni settanta) ha consentito di recuperare anche i più minuti resti paleobotanici e paleozoologici che sfuggivano alle grossolane setacciature del passato.
Intorno al 1970 si moltiplicarono i convegni (v. Ucko e Dimbleby, 1969; v. Higgs, 1972; v. Reed, 1977; v. Hutchinson e altri, 1977; v. Megaw, 1977), le rassegne del problema (v. Higgs e Jarman, 1969; v. Wright, 1971; v. Flannery, 1973; v. Hole, 1984), con le proposte di nuovi modelli. L'affinamento dei metodi e la moltiplicazione dei dati archeologici e paleoclimatici hanno consentito i più recenti sviluppi della new archaeology, che sul piano metodologico si caratterizza per il processo 'scientifico' di ipotesi, controllo, dimostrazione, e sul piano delle scelte si contraddistingue per un approfondimento dei processi di adattamento 'ecologico'. La vecchia alternativa tra determinismo climatico e idealismo (il 'genio' che inventa l'agricoltura) viene superata col concetto di adattamento (ricerca di nuovi rapporti tra uomo e risorse ambientali) a crisi o squilibri intervenuti a seguito di processi interni o esterni, e col ricorso a spiegazioni multifattoriali. Anche la vecchia ricerca del 'dove' e del 'quando' viene ridimensionata dalla sottolineatura del carattere processuale del passaggio e dalla preferenza per visioni poligenetiche. La stessa meccanica del cambiamento viene presentata come un ampio ventaglio di strategie alternative ed esiti diversi (cfr. Harris, in Reed, 1977, pp. 179-243), anche se si deve osservare che soltanto un paio di tali strategie portano storicamente alla neolitizzazione piena.
Concetti un tempo acquisiti vengono rimessi in discussione: si fa strada il parere (sul modello di Boserup: v., 1965; v. Smith e Young, 1972) che la pressione demografica sia il fattore principale del mutamento tecnologico (nel nostro caso dell'inizio della produzione di cibo), anche a prescindere dall'eventuale riduzione delle risorse a seguito di un peggioramento climatico; e si fa notare (v. Sahlins, 1972) come il passaggio dalla caccia-raccolta all'agricoltura non sia vantaggioso né per valori dietetici né per quantità di lavoro e uso del tempo (v. anche Russel, 1988). Tra gli studiosi di preistoria si va da posizioni più drastiche secondo cui una 'crisi alimentare' avrebbe costretto a una scelta tutt'altro che ovvia e vantaggiosa (v. Cohen, 1977) a posizioni più articolate che mettono l'accento sull'effetto della pressione demografica in aree 'marginali', le quali, non riuscendo a riassorbirla, devono mutare strategia: in particolare Lewis R. Binford (v., 1968) ha messo a punto il modello più autorevole in proposito.
Si deve a Kent Flannery l'importante osservazione che la rivoluzione agricola venne resa possibile dalla precedente rivoluzione dell''ampia gamma' (broad spectrum revolution), corrispondente all'affermazione del Mesolitico in termini tradizionali: caccia e raccolta diversificate (inclusi molluschi e uccelli) resero possibile quella sperimentazione che sarebbe stato inconcepibile applicare alle battute di caccia paleolitica ai grandi ungulati, e la messa a punto dei 'preadattamenti' tecnologici (pozzetti, pestelli, falcetti) già necessari per la raccolta intensiva e poi reimpiegati in agricoltura (cfr. Flannery, in Ucko e Dimbleby, 1969, pp. 73-100). Più di recente Donald Henry ha chiarito come l'intensificazione della raccolta in situazione di sedentarietà porti inevitabilmente o alla crisi o al cambio di strategia (adozione dell'agricoltura): da un lato essa esaurisce le risorse, dall'altro comporta una rinuncia alla mobilità (v. Henry, 1989). È in qualche modo una riformulazione in senso diacronico del modello elaborato da Binford in senso spaziale. La 'rivoluzione sedentaria' è più importante di quella produttiva (che segue come effetto automatico).
C'è stata da ultimo una seconda ondata di convegni (v. Zvelebil, 1986; v. Aurenche e Cauvin, 1989; v. Bökönyi, 1989; v. Harris e Hillman, 1989; v. Milles e altri, 1989; v. Clutton-Brock, 1989; v. Cowan e Watson, 1992). La prevalenza americana negli studi ha spostato l'accento dall'accentramento europeo e vicino-orientale verso una gamma più diversificata nella quale i 'centri' mesoamericano e andino hanno grande evidenza (v. § 2d), e il parametro storico-cronologico è sottovalutato a vantaggio di quello geografico-ecologico. Anche da parte europea le visioni diffusionistiche sono spesso abbandonate a vantaggio di un continuismo endogeno su scala locale (v. § 2c).
In sostanza, lo studio dell'origine dell'agricoltura (in ogni tempo e regione) ha finito col vanificare quello della rivoluzione neolitica, e i concetti di 'transizione' e 'adattamento' finiscono col negare quello di 'rivoluzione' caro a Childe e Braidwood: è in un certo senso la fine dei grandi sistemi otto-novecenteschi, dismessi (per motivi sostanzialmente ideologici) proprio quando divenivano scientificamente controllabili. Infine, all'insistenza quasi ossessiva sul condizionamento ecologico del comportamento umano, che ha dominato negli anni sessanta-settanta, si contrappongono le più recenti posizioni 'post-processuali' con la loro rivalutazione degli elementi simbolici e mentali, considerati preminenti e anche anteriori a quelli tecnico-ambientali ('rivoluzione mentale': cfr. Cauvin, in Aurenche e Cauvin, 1989, pp. 3-36; v. Hodder, 1990).
La rivoluzione neolitica si realizzò indipendentemente in diverse zone del mondo. Una generale contemporaneità dei primi focolai (ca. 8.000-7.000 a.C.), a ridosso della fine dell'ultima glaciazione (transizione dal Pleistocene all'Olocene), porta a considerare importanti i fattori climatici, almeno quali condizioni contestuali, accanto ai fattori di sviluppo strettamente culturale. Ovviamente in precedenti fasi interglaciali la cultura non era ancora 'pronta' (secondo un'espressione di Braidwood, bersaglio dei sarcasmi neoarcheologici) per reagire alle mutate disponibilità alimentari con un radicale mutamento di strategia.
È altrettanto interessante constatare una certa similarità ecologica tra i vari focolai: a livello macroecologico sembrano privilegiate le zone di passaggio tra la fascia temperata e quella semiarida, e a livello microecologico le zone di contatto ravvicinato tra ecosistemi diversi (specialmente le pendici montane) - ciò che porta a considerare importante la disponibilità ravvicinata di risorse diverse e stagionalmente complementari.
Viceversa occorre sottolineare che la risposta in senso produttivo prese vie diverse, soprattutto tra comunità agricole o agropastorali e comunità esclusivamente pastorali: ma su queste ultime gli studi sono stati finora assai carenti (per obiettive difficoltà documentarie) e l'attenzione modesta, anche a livello teorico. Ciò vale anche per la risposta di tipo orticolo degli ambienti subtropicali, assai meno 'rivoluzionaria' in quanto diluita nel tempo e in quanto meno adatta a innescare ulteriori mutamenti economici e sociopolitici.
Nell'ambito della risposta agricola (e soprattutto cerealicola) sono comunque individuabili dei focolai di neolitizzazione 'primaria', nei quali il processo si sviluppò per linee interne, e delle zone adiacenti di neolitizzazione 'secondaria'. Questa elementare classificazione non deve far dimenticare la complessità del processo, che in una data zona può comportare sia elementi di carattere primario sia apporti di carattere secondario, e anche diversi dosaggi nel corso del tempo.
Tra i vari focolai primari quello vicino-orientale era un tempo considerato l'unico (monogenesi dell'agricoltura, in termini di diffusionismo radicale) o almeno il più antico in assoluto. Oggi si pensa sia solo uno tra i tanti, anche se forse il più importante, e la sua stessa priorità cronologica è posta in dubbio.
La sua importanza, che induce a utilizzarlo tuttora come caso guida per lo studio del fenomeno, è duplice: innanzi tutto è il focolaio di gran lunga meglio studiato, sul quale si ha una quantità di dati (e anche di datazioni) e di studi specifici più avanzati e solidi; in secondo luogo è il focolaio dal quale storicamente si sono irradiati fenomeni di neolitizzazione secondaria verso zone (Europa, Mediterraneo, Egitto) che hanno svolto un ruolo di primo piano nella storia successiva, cosicché le piante e gli animali addomesticati nel Vicino Oriente si sono di fatto diffusi più largamente di quelli addomesticati altrove, almeno fino al rimescolamento dell'epoca moderna.
Le due zone privilegiate per lo studio della rivoluzione neolitica sono: a) i fianchi montani della 'fertile mezzaluna', e cioè le pendici dei monti Zagros e loro estensioni verso sud (Khuzistan) e ovest (pendici del Tauro); b) il 'Levante', cioè la fascia siro-palestinese. La prima zona fu scelta da Braidwood per la sua ricerca sistematica sul campo, ma gli studi si sono poi concentrati (per motivi di accessibilità) piuttosto sulla seconda, che sembra poter vantare anche una priorità cronologica (v. Henry, 1989; v. Bar-Yosef e Belfer-Cohen, 1989; v. McCorriston e Hole, 1991). In Palestina la sequenza di 'Kebarano' (ca. 12.500-10.500 a.C.), 'Natufiano' (ca. 10.500-8.500 a.C.), 'Neolitico aceramico A' (ca. 8.500-7.500 a.C.; PPNA nella sigla anglofona corrente), 'Neolitico aceramico B' (7.500-6.000; PPNB) e 'Neolitico ceramico' (dal 6.000 a.C.) consente di seguire in maniera precisa lo sviluppo dalla raccolta intensiva e caccia selettiva alla produzione incipiente, fino alla produzione piena, e anche le fasi caratteristiche della tipologia abitativa e delle espressioni simboliche (pratiche cultuali, inumazioni).
La correlazione tra mutamenti climatici e strategie economiche sembra ormai chiarita per il Levante (v. Henry, 1989), con uno schema a due tempi: a) dal clima freddo e secco del tardo Pleistocene (18.000-13.000 a.C.), in cui il Vicino Oriente era occupato da steppa atta alla caccia ai grandi e medi ungulati, si passa al clima temperato e molto più umido della fase di transizione (13.000-8.000 a.C.) in cui si espande la foresta rada (quercia-pistacchio), ricca di graminacee e risorse variate, e si introduce l''ampio spettro' e la raccolta intensificata, con conseguente sedentarizzazione e aumento di popolazione; b) nella fase successiva (8.000-6.000 a.C.) il passaggio a un clima ancora più caldo ma anche secco porta all'arretramento della foresta e alla crisi delle risorse alimentari: alcuni gruppi passano allora alla produzione di cibo, mentre i gruppi marginali si riconvertono a un'economia di caccia e raccolta non intensiva.
Le specie animali addomesticate nel Vicino Oriente sono le capre, le pecore, i bovini, i suini; le specie vegetali sono l'orzo, il frumento (varie specie), diversi legumi (ceci, piselli, lenticchie, fave), infine il lino (pianta oleosa e tessile). Questo complesso si è imposto come il più importante nei millenni successivi (v. §§ 2c e 2d). L'origine vicino-orientale è sostenuta per due ordini di motivi: dati paleobotanici e paleozoologici (ossa e semi con le modifiche morfologiche dell'addomesticamento) assegnabili a date molto alte nel Vicino Oriente; diffusione selvatica di tali piante e animali o esclusivamente vicino-orientale o più ampia ma comunque inclusiva del Vicino Oriente (v. Zohary e Hopf, 1993).
Dalle zone di innesco primario, di norma nicchie ecologiche ristrette con interfacce ravvicinate tra ecosistemi diversi (in senso verticale nei monti Zagros, in senso orizzontale nel Levante stretto tra Mediterraneo e deserto siro-arabico), la neolitizzazione si diffuse poi in zone più vaste, dove conobbe sviluppi quantitativi impensabili nelle nicchie originarie: in particolare sulle alte terre dell'Anatolia e nei bassopiani della Mesopotamia, che ospiteranno le più cospicue manifestazioni del Neolitico pieno.
L'Europa, sulla cui documentazione erano basate le prime configurazioni ottocentesche del Neolitico quale stadio a economia agricola in villaggi sedentari, con ceramica, tessitura, pietra levigata, non era però uno dei 'centri' della rivoluzione neolitica, che vi arrivò con tutta evidenza (malgrado tale ipotesi abbia incontrato recenti resistenze di stampo eurocentrico) dal Vicino Oriente come un fatto già compiuto. L'origine vicino-orientale è dimostrata sia dal confronto cronologico, sia dal fatto che la maggior parte delle piante coltivate e degli animali addomesticati in Europa (suini a parte) non vi erano diffusi allo stato selvatico (v. Zohary e Hopf, 1993). La preistoria europea studia perciò piuttosto il diffondersi spaziale della neolitizzazione che non la sua prima costituzione.
La zona egea e balcanica, a immediato ridosso dell'Anatolia, partecipò precocemente al processo innovativo ed è possibile che i bovini vi siano stati addomesticati originariamente e contemporaneamente all'Anatolia. Man mano che ci si allontana dall'Anatolia, le date di inizio del Neolitico europeo si fanno sempre più tarde, configurando una sorta di 'ondata' più o meno regolare che si sposta da sud-est a nord-ovest, e che raggiunge l'Atlantico solo verso il 3.000. Si individuano due direttrici principali di neolitizzazione: una lungo le coste mediterranee (v. Phillips, 1975; v. Uerpmann, 1979), che interessa anche l'Italia peninsulare, e una centroeuropea che ha per asse le vallate del Danubio e del Reno.
La lenta e progressiva neolitizzazione dell'Europa è stata interpretata secondo il modello di un''onda di avanzamento' (v. Ammerman e Cavalli-Sforza, 1984) che procede al ritmo medio di 1 km l'anno, e che ha l'effetto di moltiplicare la popolazione dai rarefatti livelli della caccia-raccolta a densità dieci volte superiori. Questa ondata neolitica di popolamento è stata persino considerata (v. Renfrew, 1987) come il supporto per la diffusione delle lingue indoeuropee (da una presunta 'sede primitiva' in Anatolia). Il modello dell'onda di avanzamento è stato peraltro criticato e modificato, attribuendo un ruolo maggiore (sia demografico sia culturale) ai cacciatori-raccoglitori locali, individuando una preliminare fase di 'disponibilità', e insistendo sulla profondità cronologica del passaggio e sulla sua sfumatura spaziale (v. Zvelebil, 1986; v. Gregg, 1988; v. Zvelebil e Dolukhanov, 1991). Assai più drasticamente, sin dagli anni sessanta la ricerca inglese sulle origini dell'agricoltura (Cambridge) si caratterizza per un'esplicita avversione alla priorità e 'colonizzazione' vicino-orientale, riconducibile a preconcetti eurocentrici e antidiffusionisti, segnatamente antichildiani (v. Higgs e Jarman, 1969; v. Higgs, 1972; v. Dennell, 1983; v. Barker, 1985; cfr. Halstead, in Milles e altri, 1989, pp. 23-53).
La neolitizzazione 'secondaria' non fu priva di originalità e innovazioni, soprattutto connesse alle diversità ecologiche e climatiche. La colonizzazione agricola significò disboscamenti; il legname fornì il materiale tipico per la costruzione di abitazioni e palizzate difensive - che nel Vicino Oriente erano fatte di mattoni crudi. Bovini e suini si diffusero più dei caprovini (largamente maggioritari nel Vicino Oriente); anche per cereali e legumi si ebbero preferenze diverse (sull'Europa occidentale v. Barker, 1985; sull'Europa orientale v. Dolukhanov, 1979; sull'allevamento v. Bökönyi, 1974).
Nell'ambito della diffusione mediterranea l'Italia meridionale venne investita precocemente (VI millennio) da correnti di ultima origine vicino-orientale (caprovini, cereali) mediate attraverso l'area egeo-balcanica (cfr. Cipolloni, in Guidi e Piperno, 1992, pp. 334-365). La neolitizzazione si accentrò sulle piane costiere: caratteristico è il tipo di insediamento del 'campo trincerato' (v. Cassano e Manfredini, 1983). L'economia produttiva e la ceramica impressa risalirono l'Italia centrale sia lungo la costa adriatica sia nell'area tirrenica (Sardegna e Toscana) (cfr. Cremonesi, in Guidi e Piperno, 1992, pp. 306-333). L'Italia settentrionale (cfr. Bagolini, in Guidi e Piperno, 1992, pp. 274-305) conobbe una neolitizzazione più tarda e sfumata, con connessioni centroeuropee.
Oltre a diffondersi verso l'Europa, la neolitizzazione vicino-orientale interessò anche altre zone circostanti. La valle del Nilo (cfr. i recenti sommari di Clark, in Krzyzaniak e Kobusiewicz, 1984, pp. 25-41; v. Hassan, 1986 e 1988) ricevette caprovini e cereali verso il 5.500 a.C., dopo una prolungata raccolta intensiva (con falcetti e pestelli). Più a sud e solo successivamente vennero coltivate piante originarie del 'non-centro' etiopico-sudanese (sorgo e miglio) più adatte al clima subtropicale, e anche la domesticazione dei bovini deve aver utilizzato specie localmente diffuse. La redditività della raccolta ritardò e marginalizzò l'adozione dell'agricoltura, e il peggioramento del clima spinse piuttosto verso l'allevamento nei vasti pascoli sahelo-sudanesi. Nel resto dell'Africa, la neolitizzazione raggiunse il Maghreb verso il 3.000, l'Africa orientale verso il 2.500, l'Africa occidentale verso il 1.000 (v. Davies e altri, 1968; v. Harlan e altri, 1976).A nord e a est del centro vicino-orientale, discussa è la dinamica della neolitizzazione dell'Asia centrale (v. Dolukhanov, in Zvelebil, 1986, pp. 121132) e della valle dell'Indo (v. Sharma e altri, 1980). Molte delle piante coltivate e degli animali addomesticati sono comuni col Vicino Oriente; ma si hanno apporti di diversa origine, specie per l'India: riso, sesamo, banana, canna da zucchero dall'Asia sudorientale, sorgo e miglio dall'Africa orientale (v. Hutchinson e altri, 1977, pp. 129-141; cfr. Vishnu-Mittre, in Reed, 1977, pp. 569-588). Tra i bovini lo zebù è estraneo al Vicino Oriente. Le date vicino-orientali sono per ora più antiche di almeno un millennio, ma la preistoria dell'Asia centrale e dell'India è meno conosciuta e potrebbe riservare delle notevoli sorprese.
La neolitizzazione della Cina (v. Ho, 1975; cfr. Ho, in Reed, 1977, pp. 413-484; v. Keightley, 1983; cfr. Debaine-Francfort, in Aurenche e Cauvin, 1989, pp. 297-317) viene considerata 'primaria' più per lo spazio che la separa dal Vicino Oriente che per la relativa precocità (inizio VI millennio); non possono escludersi contatti prolungati attraverso l'Asia centrale, e alcuni cultigeni sono comuni ai due focolai (orzo, frumento, pecora arrivarono però col III millennio, a neolitizzazione già compiuta). In Cina prevalgono la coppia miglio-riso (più che orzo-frumento) e la coppia maiale-cane (i caprovini vi sono inizialmente estranei) con l'aggiunta del pollame al nord e del bufalo al sud; tra le piante tessili sono caratteristiche canapa e gelso (per la seta). Dal focolaio cinese partono processi secondari che interessano la Corea e il Giappone (cfr. Akazawa, in Zvelebil, 1986, pp. 151-165; cfr. Crawford, in Cowan e Watson, 1992, pp. 7-38). La principale pianta alimentare dell'Asia meridionale e orientale è il riso, la cui domesticazione costituisce un problema ancora aperto (cfr. Chang, in Hutchinson e altri, 1977, pp. 143-157; v. Glover, 1979): attestata sin dal 5.000 nella Cina meridionale, poi nel IV millennio sia in Thailandia e Vietnam (zona di origine), sia nella Cina settentrionale e nella valle dell'Indo. Ma queste date potrebbero dover arretrare anche sensibilmente, data la scarsità dei dati finora disponibili. Al serbatoio subtropicale dell'Asia sudorientale si deve anche la domesticazione di radici (yam e taro), ma la cronologia ne è incerta (v. Ucko e Dimbleby, 1969, pp. 405-425; v. Bayard, 1984). Occorre ricordare che il Sudest asiatico venne proposto (v. Sauer, 1952) quale primo focolaio in assoluto, e taluni considerano ancora tale possibilità (v. Sörensen e Mortensen, 1980).
Indubbiamente autonomi per ovvie ragioni geografiche sono i focolai americani (v. Flannery, 1973, pp. 287-306; v. Bender, 1975; v. Cowan e Watson, 1992; v. Mac Neish, 1992): certamente primario quello mesoamericano (Messico e Guatemala), da cui dipende in parte quello andino (Perù, Bolivia e zone limitrofe). A ridosso di questi centri la zona tropicale centroamericana e amazzonica costituiva un enorme serbatoio di specie domesticabili. I focolai americani si caratterizzano per una estrema povertà dell'addomesticamento animale, e invece per una grande ricchezza di piante coltivate. Il mais vi ebbe il ruolo alimentare centrale che nell'Eurasia era coperto da orzo, frumento e riso: originario del Messico (ove cresce il probabile predecessore selvatico, la teosinte: v. Galinat, 1971), venne coltivato dal 5.000 e si diffuse in zona andina verso il 4.000 (cfr. Beadle, in Reed, 1977, pp. 615-635). Apporti dietetici importanti sono dati da fagioli e zucche (e altre cucurbitacee) in Mesoamerica, da peperoncini, manioca, arachidi in Perù (varie date, dal 6.000 al 2.000, per le prime attestazioni archeologiche). Nettamente posteriore (400 a.C.) è la coltivazione della patata. Mentre la fase di raccolta intensiva e selettiva sembra iniziare precocemente (in parallelo al Vicino Oriente), il ritmo di sviluppo fu poi più lento, e la fase di piena agricoltura di villaggio venne raggiunta solo verso il 2.000. Si tratta nel complesso di un patrimonio agricolo tanto ricco quanto diverso e complementare rispetto a quello dell'Eurasia: i due patrimoni rimarranno separati per molti millenni, per fondersi soltanto a partire dal XVI secolo d.C.
Anche se il termine 'rivoluzione' allude piuttosto alla radicalità del mutamento che non alla sua rapidità, è stato comunque osservato che un processo che si compie nell'arco di due millenni va considerato brevissimo rispetto ai duemila millenni precedenti di caccia e raccolta. Ciò non toglie che la fase 'rivoluzionaria' sia stata preceduta da necessarie fasi preparatorie. Una più lontana premessa è la cosiddetta 'rivoluzione dell'ampia gamma' (cfr. Flannery, in Ucko e Dimbleby, 1969; v. Flannery, 1973) che caratterizza il Mesolitico: diversificazione accentuata dei prodotti commestibili, con l'aggiunta di pesci, molluschi, crostacei, uccelli ai grandi ungulati oggetto delle cacce paleolitiche, e con l'accentuato sfruttamento di cereali e legumi selvatici. All'interno di quest'ampia gamma potrà iniziare un diverso rapporto dell'uomo con le risorse alimentari, un arricchimento dello strumentario tecnico (falcetti e pestelli usati per mietere e trasformare granaglie selvatiche), una diversa organizzazione del gruppo sociale.In apparente contraddizione, il passo successivo è quello della scelta specializzata, che porta ad esempio ad avere un 90% e oltre di sola gazzella nell'inventario paleozoologico di alcuni siti vicino-orientali. La caccia specializzata porta a una maggiore conoscenza delle abitudini (comportamentali e riproduttive) e degli spostamenti della specie cacciata, a una sorta di simbiosi (o di rapporto 'parassitario') tra l'uomo e l'animale. Ne consegue una caccia 'selettiva', in cui i capi non si abbattono più indiscriminatamente ma secondo una strategia di tutela dell'ulteriore riproduzione della riserva. La raccolta specializzata, per altro verso, con l'afflusso ripetuto dello stesso cereale o legume, porta a un suo addensamento attorno al luogo di residenza. La caccia selettiva di specie migranti (pascoli estivi e invernali a quota diversa) prelude a pratiche di transumanza, ma la raccolta intensiva di piante e molluschi (nonché la pesca d'acqua dolce e l'uccellagione) induce alla sedentarietà, premessa necessaria alla produzione di cibo, e a una vera e propria 'rivoluzione preagricola' (cfr. Henry, in Price e Brown, 1985, pp. 365-384; cfr. Harris, in Reed, 1977, pp. 179-243).
La caccia e la raccolta sedentaria sfociano poi nella fase di 'coltivazione e addomesticamento incipienti' (nella terminologia di Braidwood). Il passo decisivo per l'allevamento sta nella cura e salvaguardia del bestiame: privilegiamento dello sfruttamento non distruttivo (latte, lana), protezione contro predatori e intemperie, selezione degli accoppiamenti; per l'agricoltura sta nell'intenzionale riserva di semente (sottratta al consumo immediato) e nel suo intenzionale seppellimento, con preliminare pulitura della zona, poi anche protezione (recinzione) dagli animali, e innaffiamento. Inizialmente queste operazioni vengono effettuate su piante e animali morfologicamente ancora identici alle specie selvatiche (si è parlato, con espressione solo apparentemente paradossale, di allevamento e coltivazione di specie selvatiche), dunque non riconoscibili come domestici nella documentazione archeologica. Per la fauna si ricorre ad analisi di distribuzione (per sesso ed età) per individuare questa fase incipiente; per i cereali si ha l'impressione di un processo rapido, proprio per l'impossibilità di documentare la fase iniziale.
Si è già visto (v. §§ 2b-d) quanto vasta e diversificata sia la gamma delle specie animali e vegetali addomesticate nei vari centri. Esse rappresentano però solo una parte delle specie che erano state oggetto di caccia e raccolta intensive; si possono ipotizzare anche sperimentazioni fallite, e comunque la domesticazione presuppone caratteristiche di particolare adattabilità. Per esempio, nel Vicino Oriente la gazzella non venne mai addomesticata mentre la capra lo fu, e i punti di partenza non sembravano diversi.
Alcune specie, anche dopo millenaria addomesticazione, mantengono una sostanziale identità con le corrispettive specie selvatiche. Di norma però le specie addomesticate subiscono precisi mutamenti morfologici, che consentono di individuarle come domestiche nei ritrovamenti archeologici (v. Crabtree, 1993). Questi mutamenti sono il risultato di una selezione per lo più inconsapevole, ma in qualche caso si pensa anche a un processo intenzionalmente pilotato dall'uomo. Gli animali addomesticati sono più piccoli ma più grassi, con corna e zanne ridotte (se non atrofizzate), con pelame più lungo e morbido: frutto di una vita più stazionaria e protetta e della selezione da parte del pastore che preferisce individui meno aggressivi e più produttivi; frutto soprattutto della mutata procedura di accoppiamento che, essendo pilotato e non più competitivo, fa venir meno la prevalenza 'naturale' dei maschi dotati di maggiore dimensione corporea, robustezza e aggressività. Molte specie addomesticate sviluppano abitudini 'gregarie' e finiscono per dipendere dall'uomo per la loro sopravvivenza.
Anche per le piante (specie i cereali) i caratteri più adatti alla riproduzione sono diversi e anzi opposti tra stato selvatico e coltivato. In natura si riproducono (e quindi si diffondono) più facilmente quelle dotate di gambo fragile (che facilita la caduta della spiga al suolo) e glume robusto (che protegge i semi); in coltivazione si riproducono più facilmente quelle dotate di gambo resistente (che tiene in piedi la spiga sino alla mietitura) e di glume tenero (che facilita le operazioni di trebbiatura). La diversa procedura di raccolto e riproduzione portò automaticamente (per selezione statistica) a diffondere i caratteri innovativi; ma intervennero anche scelte consapevoli e l'effetto dell'innaffiamento regolare contribuì a selezionare varianti con chicchi più grossi e più numerosi.
Dopo la fase 'rivoluzionaria' non cessarono ulteriori sperimentazioni e acquisizioni. Per limitarci qui alle specie a noi più familiari, le tipiche piante 'mediterranee' della vite e dell'ulivo, già oggetto di raccolta sin dal Mesolitico, vennero coltivate in vista di una trasformazione dei loro frutti (vino, olio) solo nel corso del Calcolitico (Turchia e Siria-Palestina, IV millennio); lo stesso vale per il fico (anch'esso mediterraneo) e per la palma da datteri (Golfo Persico e altre zone prospicienti l'Oceano Indiano). Anche l'orticultura irrigua (cipolle, aglio, lattughe, ecc.), cui teorie ottocentesche attribuivano remota antichità, risale al IV millennio, ma tali piante lasciano tracce paleobotaniche evanescenti. Animali di grande rilevanza per il trasporto e la guerra saranno addomesticati solo nel Neolitico pieno, come l'asino (Egitto) e poi, con l'età del Bronzo, il cammello (Asia centrale), il cavallo (Europa orientale), il dromedario (Arabia).
Certi frutti, dapprima raccolti per essere mangiati, vennero diversamente utilizzati quando la coltivazione ne fornì quantitativi maggiori: olive, sesamo per ricavarne olio; orzo, uva, datteri per bevande fermentate (birra e vino). Anche per certi animali la domesticazione prelude a una diversa accentuazione nell'utilizzo (v. Sherrat, 1983): il passaggio della pecora da animale da carne (e latte) ad animale da lana produce un diverso dosaggio delle greggi miste di caprovini e la rinuncia ad abbattere anche i maschi.
Infine si realizzarono nel corso del tempo progressi tecnologici (aratro a trazione animale, slitta da trebbiatura, carro agricolo, ecc.) che hanno fatto parlare di una 'rivoluzione secondaria' (v. Sherrat, 1981). Occorre ricordare soprattutto l'irrigazione artificiale, intervenuta nel corso del Neolitico sia come innaffiamento orticolo in oasi e in zone di risorgive, sia come irrigazione della cerealicoltura estensiva mediante canali.
Se la vecchia individuazione delle fasi preistoriche sulla base delle tecniche di lavorazione della pietra (Paleolitico = pietra scheggiata; Neolitico = pietra levigata) è ormai superata, ciò non toglie che l'industria litica presenti innovazioni di rilievo connesse con la produzione del cibo. Queste innovazioni sono però assegnabili soprattutto alla fase della raccolta intensiva e specializzata, che già richiedeva l'uso di falci (strumento che emblematicamente caratterizza la prima agricoltura), normalmente lamette di selce inserite in supporti di legno. Altri tipici attrezzi agricoli, come soprattutto la zappa e il bastone da semina, erano fatti in legno e si sono raramente conservati. Gli strumenti già in uso per caccia e pesca (frecce in selce e ossidiana, ami e arpioni in osso, coltelli da macellazione) vennero ulteriormente specializzati, dovendo rispondere a una più complessa gamma di esigenze e di attività. Solo in prosieguo di tempo si realizzarono apparecchiature più complesse quali l'aratro a trazione animale e la slitta da trebbiatura, che solo nelle aree di neolitizzazione secondaria fanno parte sin dall'inizio dello strumentario.
La necessità di macinare i cereali determina la diffusione della macina (a trascinamento orizzontale) e del pestello (a percussione verticale), entrambi in pietra ed eredi di strumenti che in economia di raccolta erano già usati per frantumare semi di vario genere e per macinare cereali non coltivati, frutto della raccolta intensiva. Con l'avvento del Neolitico e con il peso preminente assunto dai cereali nella dieta (in forma di pani, ma anche di pappe), la molitura dei grani in farina divenne uno dei compiti più duri per la donna, che verrà alleviato solo dopo diversi millenni (età del Ferro finale) con l'introduzione di macine a trazione animale e poi idraulica.
La ceramica fa la sua comparsa a rivoluzione neolitica già affermata (dopo le fasi del Neolitico aceramico): 'invenzione' che si realizzò probabilmente in varie zone indipendenti tra loro (in Giappone non meno anticamente che in Iran - circa 6.000 a.C - e nell'area saharo-sudanese sin dal 10.000, in economia di pesca-raccolta) a seguito della constatazione che l'argilla cotta assumeva caratteristiche interessanti per la conservazione e il trattamento del cibo.
Il problema della conservazione era fondamentale: i vantaggi della produzione sulla raccolta stavano proprio nella possibilità di accumulare riserve, e la possibilità stessa della coltivazione dipendeva dalla conservazione delle sementi da un anno all'altro. La conservazione in pozzetti scavati nel suolo era inadeguata per la rapida infestazione da parte di parassiti, e proprio il rivestimento in argilla delle pareti dei pozzetti può aver contribuito alla prima sperimentazione dell'argilla cotta per contenitori mobili. Anche la raccolta e conservazione di prodotti liquidi sia della coltivazione (oli, bevande fermentate) sia dell'allevamento (latte) venne facilitata dalla disponibilità di contenitori ceramici più stabili e maneggevoli di quelli precedentemente in uso (otri).
Oltre alla conservazione degli alimenti, la ceramica servì alla loro cottura: la pentola divenne rapidamente lo strumento essenziale della cucina neolitica, soprattutto per cuocere cereali e legumi. Ma anche per la carne si aprirono nuove possibilità, e all'arrosto del Paleolitico si aggiunse il bollito del Neolitico. La distribuzione e la consumazione individuale del cibo cotto richiesero l'approntamento di scodelle, ciotole, tazze, bicchieri. La gamma degli usi generò rapidamente una corrispondente gamma di forme specializzate; e altrettanto rapida fu l'ideazione di complementi alla basilare forma globulare del vaso - coperchi (specie per le pentole), manici e prese, becchi - nonché di trattamenti della superficie del vaso (lustratura) soprattutto in rapporto al grado di impermeabilità richiesto. La lavorazione della ceramica avveniva in ambito familiare (probabilmente da parte della donna): lavorazione e decorazione a mano, cottura in appositi forni.
Se la caccia metteva a disposizione soprattutto pelli e pellicce per la protezione del corpo e per la copertura dell'abitazione, la coltivazione e l'allevamento produssero fibre vegetali e animali utilizzabili (previo specifico trattamento) per l'abbigliamento: soprattutto il lino e la lana. In particolare la straordinaria diffusione della pecora è da mettere in relazione con la produzione della lana assai più che non dei latticini. Se la tosatura a strappo richiedeva solo coltelli di selce, la filatura e la tessitura richiesero la messa a punto dei tipici attrezzi neolitici della fuseruola e del telaio (questo archeologicamente documentato dai pesi più spesso che dalle strutture lignee). L'allevamento rese anche più facilmente disponibili pellame e cuoio per la fattura di scarpe e sacchi, osso e corno per ricavarne aghi e punteruoli.
L'uso di ornamenti personali (specie perline in pietra e conchiglie, forate per comporre collane) si diffonde nel Neolitico, senza che ciò debba mettersi in relazione diretta con le nuove tecniche produttive; ma forse soltanto con la diffusione delle sepolture (contesto privilegiato per il rinvenimento di simili oggetti) e più in generale con la maggiore specializzazione ed evoluzione tecnica. La lavorazione (taglio, foratura, levigatura) delle pietre dure avveniva mediante trapani e altri attrezzi a rotazione rapida.
La produzione del cibo comporta il primo massiccio intervento dell'uomo sull'ambiente (intervento non necessario nelle società di caccia e raccolta). L'intervento riguarda sia le specie animali e vegetali che vengono selezionate e trasformate (con enorme sviluppo delle poche specie domesticate, ed estinzione tendenziale di tutte le altre), sia anche l'ambiente topografico. Nelle regioni temperate l'agricoltura richiede drenaggio di zone paludose, e soprattutto disboscamenti (effettuati presumibilmente col fuoco) che nel corso del tempo riguardano zone sempre più estese. Nelle regioni aride richiede inizialmente irrigazione di tipo orticolo o da oasi, poi canalizzazioni di raggio dapprima locale e poi anche cantonale. L'allevamento produce (più che non richieda) un degrado spesso irreversibile, soprattutto delle zone semiaride e dei pendii montani.
L'intervento umano sul territorio va a configurare (data la pur sempre modesta entità dell'insediamento neolitico) delle 'isole' attrezzate, circondate da spazi rimasti allo stato 'naturale', che fungono da serbatoi per le materie prime e la caccia residuale. Al centro dell'isola è il villaggio; ma attorno al villaggio prendono forma strutture altrettanto basilari e altrettanto culturali: il campo arato (per la cerealicoltura) e delimitato, servito da canaletti di irrigazione (almeno nelle zone semiaride in cui la rivoluzione neolitica ha inizio) e soggetto a rotazioni periodiche; l'orto-frutteto, recintato e oggetto di manipolazione intensiva; il pozzo o il fontanile (fra l'altro luogo di socializzazione femminile); la stalla e l'ovile; l'aia per il trattamento del raccolto; il tratturo della pastorizia transumante, e anche il riparo stagionale lontano dal villaggio-base. Con la rivoluzione neolitica prende forma il paesaggio rurale nei suoi elementi rimasti basilari fino al recente passato.
L'intervento più vistoso (e quello che ha lasciato tracce archeologiche più rilevanti) riguarda le strutture abitative, raccolte in villaggi le cui dimensioni crescono nel tempo, dai circa 500 m² dei siti preagricoli (come nel Natufiano palestinese) ai circa 3-4 ettari del Neolitico aceramico, fino alla diecina di ettari del Neolitico pieno. Non mancano villaggi di dimensioni più rilevanti, ma sembrano costituire casi estremi piuttosto che la norma. Le proposte di convertire l'estensione areale dei villaggi in entità numeriche di popolamento sono da considerare con molta cautela, e i confronti etnografici forniscono una gamma sin troppo diversificata di parametri di conversione. Tuttavia si può indicare con grande approssimazione (più per dare un'idea che non per tentare una valutazione statistica) che il villaggio neolitico poteva contenere dalle 10 alle 100 case (cioè nuclei abitativi familiari), e dai 50 ai 500 abitanti.
La forma del villaggio varia da cultura a cultura; ed è anche da tener presente che il recupero archeologico riguarda quasi sempre parti (percentualmente anche modeste) di villaggi, assai raramente esposti per intero. Nelle fasi iniziali (aceramiche) si tratta di raggruppamenti abbastanza informi, ma più tardi si hanno esempi di villaggi strutturati secondo una sorta di progetto: a pianta rotonda con spazio centrale vuoto, o a pianta quadrata e tessitura più compatta (le due forme elementari più ovvie). A scopo di difesa si può cingere il villaggio con un muro o terrapieno (più fosso), oppure si possono addossare le case tra loro in modo da offrire un muro ininterrotto verso l'esterno.
Se i primi villaggi (preagricoli) sono di norma composti da capanne rotonde e seminterrate, a dimensione individuale, chiara espressione della società di cacciatori e raccoglitori, la rivoluzione agricola comporta invece di norma l'affermazione della casa quadrangolare, a dimensione della famiglia nucleare. La forma è connessa coi materiali costruttivi e con le condizioni climatiche, e varia da regione a regione. In prima approssimazione si può almeno distinguere il tipo vicino-orientale (e in genere delle zone semiaride), costruito in mattoni crudi, con copertura a terrazzo (utile come piano di lavoro) e vari ambienti disposti intorno a un cortile scoperto; e il tipo europeo (e in genere delle zone piovose), costruito in legno, con tetto a doppio spiovente che copre sia le parti propriamente abitative sia quelle da lavoro e le stalle.
Lo spazio domestico neolitico comporta sin dall'inizio delle sia pur modeste specializzazioni funzionali, proprio perché risponde non solo a esigenze di semplice riparo personale, ma anche a esigenze di trattamento e conservazione del cibo, di svolgimento di attività lavorative e anche di simbiosi tra uomo e animale. Le specializzazioni sono ovviamente diverse da quelle moderne, anche perché certe attività si svolgevano all'aperto e altre si sovrapponevano nel corso della giornata. Archeologicamente si individuano precipuamente le zone di immagazzinamento (con silos interrati, poi con giare), di molitura (con pestelli in pietra), di cottura (con focolari e forni), di lavoro generico (con banchine lungo le pareti) e specifico (tessitura e altro), quando esso è tale da lasciare tracce precise.
L'unità produttiva e riproduttiva della società neolitica (e già delle fasi incipienti della raccolta specializzata) è senza dubbio la famiglia nucleare: lo si constata archeologicamente dalle dimensioni delle strutture abitative e lo si deduce dal tipo delle attività produttive, che non richiedono più quella collaborazione estesa delle grandi cacce paleolitiche. Padre, madre e figli non ancora autonomi collaborano e convivono; mentre rapporti di consanguineità e connubio (da famiglia estesa) sono probabilmente operativi sul piano della residenza, della difesa, nell'esecuzione di certi lavori comunitari (scavo di pozzi, erezione di muri e torri) e nella conduzione di settori produttivi, specialmente pastorali, in cui l'appropriazione e il controllo nucleari dei mezzi di produzione sono meno importanti di una qualche garanzia dimensionale.
All'interno della famiglia si impone una divisione del lavoro per sesso ed età, soprattutto determinata dalla condizione della donna perennemente incinta o in allattamento. L'uomo esegue lavori più duri ed esterni (dal dissodamento e aratura alla pastorizia transumante e alla guerra), mentre la donna cura soprattutto la trasformazione e conservazione domestica del cibo e la produzione di vasellame e tessuti. I bambini assumono presto ruoli lavorativi (pastorizia, ma anche tessitura, ecc.), soprattutto di supporto e apprendimento. Il controllo di tutta l'attività (assegnazione dei lavori, spartizione delle risorse) spetta al padre, capofamiglia. Il tipo di economia (autoriproduzione dei nuclei familiari) e di società (egualitaria, senza specializzazioni funzionali fisse) non comporta altre divisioni propriamente 'sociali' del lavoro.
L'esistenza di veri e propri 'mezzi di produzione' non effimeri (attrezzatura da lavoro, luoghi di concentrazione e conservazione del cibo), di abitazioni fisse, e soprattutto dei campi e delle greggi, genera il concetto di proprietà e innesca il processo di trasmissione ereditaria. Mentre in economia di caccia e raccolta il territorio appartiene complessivamente alla comunità e l'attrezzatura alla persona singola, con l'economia produttiva il controllo dei mezzi di produzione passa alla famiglia. Il gruppo familiare che ha dissodato e coltivato un campo, che ha messo insieme e curato un gregge, che ha costruito una casa, si ritaglia un suo proprio spazio e una sua quota di beni mobili che mette da parte rispetto alle altre famiglie (che contemporaneamente fanno altrettanto) - spesso fisicamente recintandolo (orto, campo, frutteto, ovile). Rimangono risorse comuni gli spazi residui della caccia e raccolta (il bosco, la steppa, il lago), i pascoli esterni (frequentati da gruppi multifamiliari), le attrezzature costruite in comune (il pozzo, il muro difensivo del villaggio).
La gestione del patrimonio familiare spetta al capofamiglia, e alla sua morte passa al successivo capofamiglia, di norma suo figlio. Sulla base di quanto documentato in periodi successivi o a livello etnografico, si può presumere che si siano rapidamente istituite delle norme per far fronte alla presenza di più figli (spartizione, gestione indivisa, privilegio del primogenito) o viceversa alla mancanza di figli (adozione); e soprattutto degli aggiustamenti (sia mediante scambi matrimoniali, sia mediante solidarietà tra nuclei familiari imparentati) per mantenere l'equilibrio interfamiliare nel rapporto tra persone e risorse.
Per quanto riguarda i rapporti sociali la documentazione archeologica viene generalmente 'letta' sulla falsariga di paralleli etnografici. All'interno della comunità (villaggio, gruppo pastorale) ogni famiglia rappresenta un tassello equivalente agli altri, almeno per funzione - fatti salvi cioè possibili divari quantitativi di origine e carattere non strutturali. Gli scambi interfamiliari sono certamente modesti, legati a cerimonialità e a qualche competenza personalizzata. Non essendoci specializzazione lavorativa si ha una condizione egualitaria, senza spinte verso la stratificazione sociale e il coordinamento centralizzato (che interverranno poi con la differenziazione dei ruoli lavorativi e sociali): situazione da Gemeinschaft più che da Gesellschaft, e da solidarietà cumulativa più che funzionale.
Archeologicamente l'omogeneità delle abitazioni e dei corredi tombali indica che il coordinamento della comunità non era assicurato da capi di rango particolare, ma presumibilmente (in base a paralleli storici ed etnografici) da consessi di 'anziani' o capifamiglia. Il ruolo degli anziani, quali depositari delle norme tradizionali ed esperti delle emergenze, è da considerare nel contesto di comunità in cui di rado si raggiungeva l'età matura.
La ridotta dimensione del villaggio induce a pensare in primo luogo che tutte le famiglie fossero imparentate tra di loro (coincidenza dell'unità gentilizia e abitativa), e poi che si siano rapidamente imposte pratiche esogamiche (rispetto a villaggi vicini). Lo scambio delle donne contribuì alla diffusione soprattutto delle tecniche domestiche di competenza femminile, come la tessitura e la ceramica (quest'ultima ottimo indicatore archeologico), producendo zone - anche ampie - relativamente omogenee per cultura 'materiale' (nell'impossibilità di conoscere lingua e autoidentificazione), che la vecchia archeologia qualificava sin troppo speditamente come entità etniche che restano di difficile dimostrabilità.
È probabile che una certa crescita (e conseguente 'pressione') demografica si sia verificata già in fase di caccia-raccolta selettiva, sostanzialmente a seguito della sedentarietà (e conseguente aumento delle gravidanze portate a termine). Ma anche l'avvento dell'economia produttiva determinò un ulteriore e deciso incremento demografico, una sorta di 'esplosione': a parità di spazio, la produzione di cibo assicura la sopravvivenza di un numero di persone dieci-venti volte superiore a quello assicurato dalla caccia e dalla raccolta (1 o 2 persone per km², invece di 0,1); l'esplosione demografica connessa alla rivoluzione neolitica è ben constatabile archeologicamente nella dimensione e nella densità degli insediamenti. Ciò vale a livello complessivo, regionale (carrying capacity); mentre restano poco importanti, anche se non prive di interesse, le constatazioni a livello individuale sul fatto che l'adozione delle tecniche produttive fa aumentare anziché diminuire la fatica e il tempo di lavoro, o che la qualità di cibo disponibile non migliora (forse peggiora per valore proteico rispetto al Paleolitico, per diversificazione rispetto al Mesolitico). La durata media della vita umana rimane sui 33 anni per i maschi, e passa dai 25 ai 30 anni per le donne: soprattutto frutto delle migliorate condizioni abitative e della più sicura disponibilità di riserve di cibo.
La diffusione della casa ha il suo parallelo nella diffusione (altrettanto rapida) della sepoltura, di norma per inumazione. La pratica dell'inumazione, già attestata nel Paleolitico superiore e nel Mesolitico (come forma di pia tutela dei resti dei congiunti), acquista probabilmente significati simbolici aggiuntivi a seguito della rivoluzione agricola. Il ruolo dominante del capofamiglia e la trasmissione ereditaria dei mezzi di produzione impongono forme di venerazione per i capifamiglia defunti (gli 'antenati') cui la famiglia riferisce la costituzione della propria autoidentificazione e del proprio patrimonio. Le sepolture sono inizialmente connesse con l'abitazione (più tardi si avranno vere e proprie necropoli separate): i defunti sono sepolti sotto i piani pavimentali, oppure entro banchine contro le pareti delle stanze, di modo che i vivi insistano sui defunti. In certe culture neolitiche crani ricoperti d'argilla per restituire le forme fisionomiche, e decorati d'ocra per simulare il colorito della vita, sono conservati nelle case e fatti oggetto di una qualche forma di culto. Infine (è scoperta recente), i primi 'santuari', che risalgono già al Neolitico aceramico, e che richiesero forme di mobilitazione lavorativa di raggio multifamiliare (e dunque erano centri della vita spirituale delle comunità tutt'intere), erano connessi al culto di antenati raffigurati mediante stele iconiche.
Altra ben nota ricaduta simbolica della rivoluzione neolitica è quella definibile come 'culto della fertilità'. La pratica delle tecniche produttive presupponeva ovviamente un'analisi dei procedimenti in qualche misura paralleli della riproduzione vegetale (seppellimento del seme) e animale (penetrazione), e diede luogo a speculazioni simboliche intese a suscitare mediante analogia magica un potenziamento della fecondità e a stornare le ricorrenti crisi (epidemie, siccità). Presero forma il ruolo maschile del seme e della pioggia (spesso connessi al toro) e quello femminile della terra. Figurine femminili con accentuati caratteri sessuali e riproduttivi divengono tipiche espressioni della religiosità neolitica. È anche possibile che la stessa inumazione umana (in posizione fetale: v. Cauvin, 1972) avesse una connessione concettuale col seppellimento del seme in vista di una sua successiva e alquanto 'miracolosa' germinazione (in quantitativi moltiplicati), e dunque che si avesse un'idea di sopravvivenza, almeno sotto forma di un continuum generazionale.
L'idea che la rivoluzione neolitica porti a un netto ridimensionamento delle espressioni simboliche rispetto alla fiorente arte figurativa e 'realistica' del Paleolitico superiore (le pitture in caverna, del resto riferibili a epoche e regioni piuttosto circoscritte) è probabilmente scorretta e dovuta a circostanze tecniche relative alla conservazione dei dati archeologici. Ad esempio, gli alzati delle abitazioni neolitiche sono raramente conservati, e quando lo sono (come nel caso famoso di Çatal Hüyük in Anatolia) presentano decorazioni dipinte alquanto impressionanti.
Ma certo, come il realismo e la drammaticità delle pitture paleolitiche erano funzionali allo scopo del potenziamento 'magico' della caccia, così anche l'arte (soprattutto 'mobile', su piccoli oggetti) del Neolitico va inquadrata nel contesto di una funzionalità che si è fatta assai più diversificata e pervasiva. In qualche misura tutta l'attrezzatura può essere decorata, e in particolare la ceramica diventa supporto di una decorazione dipinta che è funzionale non dal punto di vista tecnico (come invece l'ingubbiatura e lucidatura, che peraltro acquistano spesso un indubbio pregio estetico), ma dal punto di vista dell'autoidentificazione familiare e del gruppo esteso. Analoga funzione doveva essere affidata all'abbigliamento e alla decorazione del corpo, di cui non resta ovviamente testimonianza.
Le deformazioni espressive nelle figurine femminili feconde ne sottolineano la funzione magica; ma in generale si ha un'evidente tendenza all'astrazione formale e al simbolismo, sia nel caso di espressioni figurative schematizzate sia nel caso di decorazioni (specie su oggetti minori d'osso e di pietra tenera) di carattere geometrico. Questa tendenza all'astrazione e la concettualizzazione formale che essa preliminarmente comporta vanno verosimilmente considerate come espressioni di un approccio 'deduttivo' e 'proiettivo' tipico delle nuove tecniche di produzione del cibo, rispetto al più diretto e immediato approccio delle precedenti attività di caccia e raccolta. Per paradossale che possa sembrare, lo stesso antropomorfismo iconico è una forma di simbolismo: mentre nelle pitture paleolitiche un animale rappresenta un animale, nella plastica neolitica la 'venere' rappresenta la fecondità (vegetale e animale non meno che umana). (V. anche Cacciatori e raccoglitori, società di; Coltivatori, società di; Domesticazione; Evoluzione culturale; Rivoluzioni agricole).
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