CAMINO, Rizzardo da
Secondo di questo nome, figlio di Gherardo - "il buon Gherardo" ricordato da Dante -, nacque nel 1274. Ignoriamo se fosse figlio della prima o della seconda moglie di Gherardo. Suo padre, come capitano generale di Treviso, aveva tutto preparato per la successione, spianandogli abilmente la via del potere.
Nell'ottobre 1295 il C. fu armato cavaliere dal marchese Azzo VIII d'Este nel corso di una fastosa cerimonia, ed un mese dopo con altrettanta sontuosa magnificenza furono celebrate le nozze del C. con Caterina di Ortenburg. Ella discendeva da una assai cospicua famiglia nobile della Carinzia che godeva di una certa influenza anche nel Friuli. Le prime vicende nelle quali ebbe parte attiva non testimoniano a favore del carattere del giovane C.: nel 1296 ebbe uno scontro con il patriarca di Aquileia, fu implicato nell'assassinio del vescovo di Feltre e Belluno, Iacopo, come pure, probabilmente, nell'uccisione del podestà di Milano, Iacopo del Cassero, nel 1298. Di entrambi gli assassinî non si conoscono le precise motivazioni. Ancora vivo il padre, il C. disponeva già di possedimenti propri, che aveva ottenuto da membri della sua casata così largamente ramificata ed in parte anche dal padre. Negli ultimi anni del "buon Gherardo" mentre questi si ritirava sempre più nell'ombra, il C. prese parte sempre più attiva agli avvenimenti della Marca trevigiana e del Friuli. Mentre l'interesse di Gherardo era stato prevalentemente rivolto, in politica, ad un'attività di mediazione tra le parti senza prendere mai una precisa posizione in favore dell'una o dell'altra, l'azione del C. seguì degli indirizzi ben diversi.
Nel conflitto tra Venezia e Padova, che Gherardo stava ancora cercando di comporre, il C. si alleò con Venezia cui promise l'appoggio di Treviso nella guerra contro Padova. Venezia ricompensò questo gesto con la concessione della cittadinanza (1304). Poco dopo il C. intraprese una spedizione contro il patriarca di Aquileia, Ottobono dei Razzi. Dalla parte del C. si schierarono i suoi congiunti conte Enrico di Gorizia e Mainardo conte di Ortenburg, e un contingente di truppe del marchese di Ferrara. Anche i nobili friulani avevano abbandonato il loro signore feudale e si erano alleati con il C. mentre a fianco del patriarca rimanevano soltanto le città della Patria ed i lontani duchi di Carinzia (1305). Un armistizio, e la morte di Gherardo nel marzo 1306, allontanarono per il momento il pericolo per il patriarca.
Gherardo aveva preparato e garantito in modo tanto lungimirante la successione del C. a signore di Treviso, che alla sua morte la posizione costituzionale del nuovo "capitano generale" apparve assolutamente sicura. Del resto, fin dal 1301 il C. portava questo titolo insieme con suo padre, che gli aveva anche assicurato una sia pur limitata partecipazione al potere, ed una sua propria corte. Subito dopo la morte di Gherardo il C. fu confermato senza difficoltà capitano generale dall'assemblea popolare.
L'intenzione di concludere col patriarca una pace di compromesso (luglio 1307) può essere stata suggerita al C. dall'atteggiamento dei Veneziani. La cittadinanza veneziana del C., che gli era valsa in passato l'appoggio della città marinara nella guerra contro il patriarca di Aquileia, si ritorse a suo danno quando - essendo egli sottoposto, secondo il parere dei Veneziani, alla giurisdizione della loro città proprio a causa della sua cittadinanza veneziana - fu convocato a Venezia per discolparsi dall'accusa di tentato omicidio ai danni di un membro di ca' Dolfino. Nel settembre 1306 il doge Piero Gradenigo aveva ordinato al signore di Treviso, "suo fedele", di presentarsi a lui entro un termine stabilito per difendersi dall'accusa. Le possibili conseguenze politiche di questo invito, che cominciavano a delinearsi, erano di immensa portata: se il C. avesse obbedito all'ingiunzione, ciò avrebbe significato il riconoscimento di un permanente diritto d'intervento di Venezia nei suoi confronti, come pure nei confronti dei suoi ricchi possedimenti e, in pratica, di tutta la sua signoria. Si preannunciava in tal modo la politica di espansione verso la terraferma svolta dalla città lagunare. Naturalmente il C. non diede seguito ai ripetuti inviti, e le relazioni tra Venezia e Treviso peggiorarono a vista d'occhio, tanto da far temere lo scoppio di una guerra. L'impegno veneziano nella lotta per la successione ferrarese fece passare in secondo piano la contesa col Caminese. Venezia doveva concentrare tutte le sue forze per superare questa crisi, e assicurare le vitali linee di rifornimento da Treviso. Lo stesso C. non aveva preso posizione per nessuna delle due parti nella lotta tra Fresco e Francesco d'Este.
Ancora una volta riarsero le contese tra il C. e il patriarca di Aquileia per il predominio nel Friuli, la zona prediletta dall'espansionismo dei Caminesi, quando cominciò a delinearsi in occidente la potenza degli Scaligeri, ed ogni progresso in quella direzione fu perciò impossibile (1309). Si stabilirono le solite alleanze: da una parte il C. con molti nobili friulani e con il conte Enrico di Gorizia; dall'altra il patriarca con le città della Patria. La guerra fu condotta con la più grande spietatezza da entrambe le parti. Venezia, ostile al patriarca a causa dell'Istria, seguì con favore l'avanzata del signore di Treviso in Friuli. Una lega dei più importanti Comuni della regione non fu in grado di respingere il C. e il conte di Gorizia. Di fronte alla loro superiorità il patriarca Ottobono fu costretto a salvarsi con la fuga, e riparò fuori della regione. Il C. ed i suoi aderenti s'impadronirono delle rendite della Chiesa di Aquileia, e si innalzarono con ciò a signori di fatto sull'intera regione. All'apogeo della sua potenza in Friuli, il C. fece ritorno a Treviso nel luglio del 1309.
Nell'autunno di quell'anno sembrò che il C. riuscisse a dare anche una base legale alle sue usurpazioni. Si giunse ad un riavvicinamento e ad un armistizio tra lui e il patriarca; Ottobono si fermò, durante il suo viaggio di ritorno verso la sua sede patriarcale, a Treviso, dove s'intavolarono trattative. Nell'ottobre lo stesso C. si recò con grande seguito ad Udine presso il patriarca per concludere definitivamente la pace. Gli aderenti del C. si impadronirono di Udine col tradimento, e probabilmente in questa situazione di violenza il patriarca dovette cedere alle richieste del C.: lo investì dei feudi che erano stati concessi a suo padre Gherardo dalla Chiesa di Aquileia, e lo nominò capitano generale della Patria. Una rivolta della popolazione di Udine contro i Trevigiani ed i loro sostenitori tolse tuttavia ogni effetto pratico a questo atto. Ancor più decisivo fu, tuttavia, il fatto che il C., a causa della sua aspirazione alla carica di capitano generale del Friuli, entrò in un duro conflitto col cognato ed alleato di lunghi anni, il conte Enrico di Gorizia. Questi già nell'estate del 1309 aveva apertamente rotto i suoi legami col C., e come "capitano generale per il tempo dell'assenza del patriarca" aveva trovato il consenso delle città e della nobiltà del Friuli. Da antico alleato del C. quale era stato, il conte di Gorizia divenne il suo più serio antagonista nel gioco politico friulano. Il conte si mise alla testa del movimento di opposizione al C., che ad Udine sfuggì di misura alla cattura. Nel gennaio 1310 il conte Enrico ottenne dal Parlamento la sua conferma come capitano generale, e sotto la sua guida furono prese l'una dopo l'altra le rocche dei nobili friulani fedeli ai Camino. Il duca Ottone di Carinzia entrò egli pure nella coalizione contro il signore di Treviso. I sostenitori del C. diminuivano invece a vista d'occhio. Invano egli arruolò nuove truppe; da ultimo, anche Venezia concluse la pace col patriarca e col conte di Gorizia.
Con questo erano completamente naufragate le ambizioni friulane del C., ambizioni che forse aveva già nutrite Gherardo. I suoi sostenitori, che erano una volta molto numerosi nella regione, furono anch'essi costretti a passare dalla parte del nuovo signore del paese, il conte di Gorizia; alcuni si rifugiarono persino a Treviso. Non sembra che si sia giunti alla conclusione di un accordo definitivo tra il C. ed i partigiani del patriarca. Solo dopo la morte del C. nel 1313 si poté trovare un accomodamento.
La politica del C. nei confronti dei suoi vicini meridionali ed occidentali non fu sempre costante e non fu completamente contrassegnata dalla sua appartenenza al campo guelfo, come era invece accaduto per suo padre. Con Azzo VIII d'Este intrattenne relazioni molto amichevoli, che potrebbero essere state la causa della complicità del C. nella morte di Iacopo del Cassero. Il C. appoggiò il signore di Ferrara contro i suoi numerosi avversari anche mettendo a sua disposizione contingenti di truppa. Dopo la morte di Azzo, il C. non partecipò alla guerra per la sua successione. Con la guelfa Padova e con la sua alleata Vicenza non ci furono aperti contrasti. Molto mutevole fu l'atteggiamento del C. nei confronti di Venezia. Si alternarono frequentemente contrasti ed unità d'azione contro il comune avversario, il patriarca di Aquileia. Nella congiura di Baiamonte Tiepolo, che nell'estate del 1310 scosse Venezia, il signore di Treviso sembra aver fatto il doppio gioco. In lettere ufficiali assicurò il suo orrore di fronte ai delittuosi intrighi dei ribelli e smentì vivacemente le voci, secondo cui Treviso era a conoscenza della congiura o addirittura la favoriva. D'altra parte alla testa della cospirazione furono proprio le famiglie Tiepolo e Quirini, già in ottimi rapporti col "buon Gherardo". Dopo il fallimento della congiura, lo stesso Baiamonte Tiepolo poté trattenersi indisturbato per qualche tempo a Mestre, e dunque in territorio trevigiano. Inviati del C. presero infine parte al convegno segreto tenuto a Padova il venerdì santo del 1311 dal capo della congiura e da altricospiratori, e ad essi fu attribuito un ruolo decisivo in questa riunione. Il completo insuccesso di Baiamonte rese comunque illusorio qualsiasi progetto di partecipazione di Rizzardo. Egli dovette invece innanzi tutto preoccuparsi di mantenere buone relazioni con la città lagunare.
Rimasto vedovo di Caterina di Ortenburg, il C. sposò in seconde nozze Giovannina Visconti. Questo matrimonio con la nobile giovane lodata da Dante e proveniente da una ragguardevole famiglia guelfa di Pisa permise al C. di entrare in contatto con i potenti ghibellini milanesi e anche con re Giacomo II d'Aragona, poiché Giovannina disponeva di una notevole eredità in Sardegna.
Già nell'estate del 1310 gli inviati di Arrigo VII, che portavano in Italia la notizia del prossimo viaggio a Roma del nuovo imperatore, avevano trovato a Treviso, presso il C., un'onorevole accoglienza. È probabile che anche alcuni rappresentanti della città veneta partecipassero all'incoronazione del re a Milano nel gennaio del 1311. Treviso, Ceneda, Feltre e Belluno - cioè le città governate dal C. - furono obbligate a pagare la somma complessiva di 2.500 fiorini all'imperatore. Questa collaborazione tra l'imperatore e la città dominata da Rizzardo continuò senza attriti finché Arrigo VII fu considerato dai partiti in lotta il tanto atteso autorevole pacificatore. Ma quando fu chiaro che il sovrano non era in grado di corrispondere alle speranze riposte in lui e che la resistenza contro di lui divampava in tutti i maggiori centri guelfi, anche al C. si pose il dilemma, se rafforzare la sua posizione alleandosi - come i Visconti a Milano - con l'imperatore, oppure unirsi - come la vicina Padova - ai nemici di Arrigo VII seguendo la tradizione guelfa della sua famiglia.
Il 10 maggio 1311 l'imperatore nominò il C., che egli lodò con nobili accenti, "vicarius civitatis Tervisii, territorii et districtus eiusdem" a vita. Il C. aveva il compito di tutelare tutte le iurisdictiones imperiali nel suo territorio. Nel caso che il signore di Treviso fosse stato rimosso dal suo incarico prima della morte, l'imperatore avrebbe restituito 16.000 fiorini versati ad Arrigo dai procuratori del C. "pro quibusdam utilitatibus Imperii Romani et necessariis". Per il "salario" annuo che i Trevigiani avrebbero dovuto pagare al loro nuovo vicario, era previsto un accordo tra le parti interessate, come risulta anche da una lettera contemporaneamente indirizzata dal re agli abitanti della città e del suo distretto.
Per Arrigo VII la concessione del vicariato al C. significava assicurarsi una base sicura nella Marca Trevigiana, messa in pericolo dalla rivolta dei Padovani. Anche il prestito garantito dal C. può aver avuto un notevole peso nella circostanza. Col riconoscimento imperiale mutò completamente anche la posizione del C. nel suo territorio. Ora egli esercitava il suo potere non più come capitano generale eletto e confermato dal popolo e dai suoi rappresentanti, ma come signore nominato a vita dalla massima autorità dell'Impero. La legalizzazione ufficiale dello status di fatto usurpato trova la sua significativa espressione nella rinuncia al titolo di capitano generale sostituito da quello di vicarius imperialis. Il C. fece persino aggiungere al proprio stemma due aquile, simbolo del potere imperiale. Solo per le città di Feltre e Belluno mantenne il vecchio titolo di capitano generale. Anche nell'ordinamento interno della città furono apportati cambiamenti. Il popolo dovette giurare ubbidienza al nuovo vicario, in netta contrapposizione al giuramento che il C. aveva dovuto prestare davanti al popolo nel 1306, dopo la morte di suo padre, in occasione della sua conferma a capitano generale. Un vicecomes reggente in nome del vicario sostituì il podestà, la vecchia carica ancora sussistente dal tempo della libertà cittadina.
Il governo del C. a Treviso si mosse all'inizio sui binari tracciati dal "buon Gherardo". Come signore assoluto de facto nel suo territorio egli doveva ratificare tutte le decisioni delle autorità cittadine, altrimenti prive di valore legale. Soprattutto nell'ambito giudiziario il suo intervento violò spesso gravemente l'ordinamento nominalmente ancora vigente, che egli volgeva a favore proprio o a favore dei propri amici. Contro le disposizioni degli statuti il capitano generale cedette proprietà e rendite della città per pagare i propri debiti. Il C. si distinse però anche come protettore della scienza: al suo tempo Treviso ospitò un cospicuo numero di maestri di grammatica, di leggi, di medicina. La protezione accordata ai traffici commerciali tornò a vantaggio della città e dei suoi abitanti. Allo stesso modo il signore di Treviso garantì ai mercanti tedeschi del fondaco dei Tedeschi a Venezia la sicurezza delle strade nel suo territorio.
La cattiva fama della sua signoria sembra soprattutto legata agli ultimi anni del suo governo, dopo il passaggio in campo imperiale. A quell'epoca il carico fiscale era particolarmente pesante ed i numerosi prestiti, che il vicario contraeva presso autorevoli cittadini di Treviso, furono certamente imposti dal C., almeno in certi casi, con la forza. La sua adesione incondizionata ad una politica ghibellina inoltre non dovette incontrare, per comprensibili ragioni, l'approvazione del popolo di Treviso, guelfo da sempre, e particolarmente quella dei circoli politici più influenti. La pietra dello scandalo per i nobili, che avevano sostenuto la signoria dei Camino, fu costituita dal richiamo in patria degli sbanditi del 1283, l'anno in cui Gherardo aveva preso il potere a Treviso come capitano generale.
Il cambio di linea politica costò caro al Camino. Ancora non sono stati interamente chiariti i retroscena del mortale attentato del 5 apr. 1312 contro il vicario imperiale. Quel giorno l'ignaro signore di Treviso, mentre "con la testa alta" (Par. IX, 50-51) giocava a scacchi, nella loggia del suo palazzo di via S. Agostino, fu ferito mortalmente alla testa con una roncola da "un villano". Le guardie del corpo del C. uccisero immediatamente l'attentatore.
Già all'epoca si avanzarono i più vari sospetti sui motivi e sui mandanti dell'attentato: si fecero i nomi di Cangrande Della Scala, per cui il C. costituiva un ostacolo; di Altinieri degli Azzoni, di cui il vicario aveva disonorato la moglie; della città di Padova ribelle all'imperatore, ma anche di parenti dell'ucciso, particolarmente Guecellone (VII), suo fratello e successore. Molto probabilmente nel complotto erano implicate autorevoli personalità, appartenenti alla più ristretta cerchia dei collaboratorì del C. e provenienti dalle maggiori famiglie guelfe di Treviso.
Il C. visse dopo l'attentato ancora una settimana. Nel testamento assegnò diversi legati a parenti e fedeli. Ad eccezione di un figlio illegittimo, di cui si ricordò nel testamento, il C. non lasciò eredi diretti. Come principale erede designò suo fratello Guecellone (VII), ma ad una condizione gravida di conseguenze: nel caso che nell'arco di diciotto mesi non fossero state adempiute tutte le clausole relative ai legati, l'intera eredità sarebbe passata alla Chiesa di Roma. Il C. morì il 12 apr. 1312. Fu sepolto, secondo il suo desiderio, come il padre, in S. Francesco a Treviso.
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