MANDELLO, Robaconte da
Figlio di Enrico, nacque presumibilmente a Milano verso il 1170. Le notizie sulla sua vita, al di là di quelle sull'attività politica, sono molto scarse. Si è addirittura teorizzato che siano esistiti due personaggi di tal nome, uno attivo nei primi anni del Duecento e uno vissuto nel terzo e quarto decennio del secolo; in realtà, non vi sono motivi che rendano necessaria tale ipotesi: la carriera del M. si svolse nell'arco di un quarantennio, fra il 1196, quando ricoprì il consolato in Milano, e il 1238, quando fu deposto dall'incarico di podestà di Firenze.
La sua carriera politica iniziò con l'incarico di console del Comune, ricoperto nel 1196, cui seguì, nel 1203, quello di consigliere comunale. Il M., però, non fu mai un protagonista di primo piano della vita interna di Milano: in un'efficace divisione dei compiti in seno al nucleo familiare, egli lasciò ai figli Uberto e Ruffino i più prestigiosi uffici civici (entrambi, per esempio, furono rettori della Lega lombarda, designati da Milano), dedicandosi invece in prima persona a una ricca e fruttuosa carriera di podestà, che gli garantì a un tempo una fama sovralocale e consistenti introiti in stipendi e donativi.
Fu infatti al di fuori delle mura urbane che il M. costruì la propria fortuna. Fin dal suo primo incarico a Novara, nel 1202, egli dimostrò una statura politica eccezionale: imponente la lista delle sue attività in quell'anno, che andarono dall'emanazione di disposizioni per liberare dagli edifici abusivi i dintorni delle mura cittadine, alla fondazione del borgo nuovo detto appunto borgo Mandello, alla pace conclusa fra la città e i conti di Biandrate, che rimase per molti anni a fondamento dei rapporti fra il Comune novarese e la dinastia. La memoria di questo notevole esordio gli valse di essere richiamato come podestà di quel Comune altre cinque volte, nel 1220, e poi, ininterrottamente, dal 1232 ai primi mesi del 1235: egli resse in tal modo la città per l'inusuale periodo di oltre tre anni, senza interruzione.
Meno fortunata fu la podesteria veronese del 1205-06, durante la quale infuriarono le lotte fra i conti di San Bonifacio e i Montecchi, che il M. non fu in grado di controllare. Egli fu comunque richiamato in Verona due anni dopo, a dimostrazione che anche in quell'occasione non aveva sfigurato. Le sue capacità di mediazione furono nuovamente richieste nel 1229, a Bergamo: qui, in seguito a una serie di dure lotte civili, il cardinale Goffredo da Castiglione - il futuro Celestino IV - fece eleggere podestà il milanese Pagano Della Torre, ma a fine giugno i membri della famiglia Colleoni, banditi dalla città, riuscirono a rientrare e cacciarono Della Torre, che aveva perseguito una politica troppo sfacciatamente volta ad appoggiare la pars filopapale. Come nuovo rettore fu nominato il M., garante a un tempo di una non mutata alleanza con Milano e di una gestione equilibrata del potere entro le mura cittadine.
Nel 1231 il M. fu in Toscana, podestà di Arezzo. Si trattava di un incarico di responsabilità, in evidente continuità con quello che il parente Alberto da Mandello aveva avuto nei due anni precedenti a Firenze, visto che le due città erano alleate nella perdurante guerra contro Siena. In conseguenza della buona prova fornita nella precedente podesteria, nel 1235 il M. fu richiamato a Bergamo; dopo questo incarico si spostò, l'anno successivo, a Faenza, dove si distinse per l'impegno nel raccogliere truppe da inviare contro l'imperatore Federico II di Svevia.
Nel 1237 giunse la nomina a podestà di Firenze. A riprova del peso del nuovo incarico, il più importante della sua carriera, egli si recò in Toscana affiancato da una grossa schiera di collaboratori.
Suo vicario per il 1237 era il giudice Engelfredo da Samarate, anch'egli di Milano, mentre non è possibile identificare altri due giudici, di cui sono stati tramandati solo i nomi, Anselmo e Guidotto. Milanese era anche il miles Gilio de Cesate, che era affiancato da un tale Arnoldo, nipote del Mandello. Tre, infine, i notai che accompagnavano il M.: un ignoto Gerardo, Ugo Romanelli, e un novarese, Giacomo Nanus detto Scaramaza. Nel 1238 la familia conobbe alcuni mutamenti: rimasero Anselmo giudice, Gilio de Cesate e Arnoldo, mentre assessore e giudice agli appelli fu Arderico de Comite, di Milano, e come notai operarono il conterraneo Filippo Gairardi e Guglielmo detto Apulus di Bologna.
L'abilità politica e diplomatica del M. fu messa alla prova in alcune importanti mediazioni da lui condotte su scala regionale. Gli arbitrati erano a un tempo un'occasione di sfruttare le capacità di mediazione del podestà e di estendere l'influenza fiorentina sui centri circostanti. Nel giugno del 1237 fu chiamato ad arbitrare le vertenze aperte ormai da tre anni fra i nobili e il popolo di Pistoia, con un pronunciamento che limitò le ambizioni popolari. Un mese dopo, il M. trattò la pace fra San Gimignano e Volterra, in conflitto dal 1236, pronunciandosi in maniera tendenzialmente favorevole alla prima. I Volterrani tentarono allora di corrompere il nipote del M., Arnoldo, al suo seguito come cavaliere, che però rifiutò. La tempestiva denuncia del fatto aumentò notevolmente il prestigio del M. e dei suoi collaboratori. Nel novembre di quell'anno, infine, indusse Guido Guerra e il conte Rodolfo di Capraia a giurare la cittadinanza di Firenze. I ripetuti successi diplomatici gli valsero una riconferma per il 1238.
In quell'anno, però, il vescovo di Firenze Ardingo mosse un'accusa contro il M., tacciandolo pretestuosamente di eresia. Non sono chiare le motivazioni del gesto, che Davidsohn attribuisce a un preteso schieramento filoimperiale del prelato, ma che probabilmente fu causato dalle contese fra Comune ed episcopio per alcune giurisdizioni del contado, rafforzate dalle capillari inchieste fiscali promosse sotto la podesteria del Mandello. Papa Gregorio IX non volle dar seguito alla denuncia, attirandosi le ire di Federico II, che in una missiva del 20 apr. 1239 lo accusò di aver agito con parzialità, per favorire Milano e gli eretici di quella città. L'atto è stato frainteso da Biscaro, secondo il quale il M. sarebbe stato l'oggetto degli attacchi del pontefice: lo studioso giunge così ad attribuire il ruolo di capo del partito imperiale a Milano a uno dei personaggi che, in realtà, si batterono più aspramente e coerentemente contro le ambizioni di Federico II, tanto da guidare, nel 1238, un contingente armato fiorentino fino a Roma, per aiutare Gregorio IX a piegare l'opposizione del popolo capitolino e a rientrare nell'Urbe.
Il conflitto con Ardingo minò la posizione del M., già resa delicata dalla situazione politica italiana. Il 27 nov. 1237, infatti, Federico II aveva inflitto una disastrosa sconfitta ai Milanesi nella battaglia di Cortenuova, in conseguenza della quale molti Comuni dell'Italia centrosettentrionale si sottomisero all'imperatore, abbandonando l'alleanza con Milano. Anche gli aristocratici fiorentini premettero per un cambio di schieramento della città, scatenando tumulti che, alla fine, convinsero il M. a lasciare l'incarico. Nell'estate del 1238 Firenze assunse una posizione filoimperiale, che mantenne per i dodici anni successivi.
Dopo il 1238 si perdono le tracce del M., ormai anziano e duramente colpito sia dall'infelice esito della podesteria fiorentina sia dalla prigionia dei figli, catturati da Federico II a Cortenuova; nessuna notizia è disponibile sulla data della sua morte.
A Firenze però rimase viva la memoria del suo governo, legata alle realizzazioni urbanistiche da lui compiute e alla sua abilità nel giudicare e nel mediare. Proprio nelle vesti di giudice savio ed equanime lo ritrasse, un secolo e mezzo dopo, Sacchetti in una delle Trecentonovelle.
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