ROBBIO, Benvenuto, conte di San Raffaele
ROBBIO, Benvenuto, conte di San Raffaele. – Figlio del conte Carlo Francesco (morto nel 1753) e di Irene Cristina Valfredi di Valdieri, nacque a Chieri (Torino) il 27 giugno 1735, unico maschio, seguito da sei sorelle.
La famiglia apparteneva a un antico consortile di Chieri, uno dei cui rami, quello comitale di Variglié, si era garantito da fine Cinquecento alcune presenze alla corte sabauda. Nel 1740 a Chieri il padre fu riformatore delle Regie scuole (ovvero dei collegi superiori che, dopo le riforme degli anni Venti, erano ormai controllati dallo Stato attraverso il Magistrato della riforma); redasse nel 1741 il testamento, il che ha fatto pensare ad alcuni che fosse già scomparso nel 1742, mentre sembra corretta, invece, la data del 1753 indicata nelle genealogie di Antonio Manno. Nel 1744 il «conte di San Raffaele» risultava accusato dall’avvocato Ronzini, giudice di Chieri, di aver sottratto una somma pari a dieci zecchini, versata dalla famiglia Costa Raschieri per pagare la detenzione ad correctionem di un giovane rampollo di quel casato, rinchiuso nel forte di Ceva (Archivio di Stato di Torino, Corte, Segreteria di Stato per gli Affari interni, Corrispondenza, Serie III, Economico, reg. 88: Prigionieri, lettera di Ronzini del 26 agosto 1744). Arrestato, il conte fu costretto a restituire la quota, lasciando evidentemente una nota d’infamia sulla famiglia.
A seguito di queste alterne vicende familiari, gli studi di Benvenuto Robbio seguirono un percorso eccentrico rispetto a quelli classici della nobiltà piemontese. In un’epoca in cui i Savoia avevano centralizzato la formazione dei ceti dirigenti nelle istituzioni torinesi, egli era stato inviato a studiare nel Collegio dei gesuiti di Lione, città cui i Robbio erano legati per avervi fatto fortuna secoli prima con la mercatura, mantenendovi a lungo forti interessi economici. Educato fin da bambino secondo i principi cattolici, si accostò precocemente ai testi dei philosophes, senza tuttavia abbracciarne mai le tesi.
Gli fu maestro il savoiardo Sigismondo Gerdil, di cui, dopo esser rientrato a Torino nel 1752, seguì le lezioni di filosofia morale presso l’Ateneo torinese. Non vi è traccia, tuttavia, di una sua tesi di laurea, mentre un «conte di San Raffaello» compare fra gli studenti iscritti al primo appartamento dell’Accademia Reale di Torino dal 1755 al 1758. La permanenza in Accademia, dove nel primo appartamento non ci si laureava, ma da cui si usciva per frequentare corsi nella vicina Università, precedette il biennio 1758-60, in cui Robbio si dedicò al viaggio in Italia. L’itinerario nella penisola lo portò da Napoli a Roma, Ravenna, Venezia, Padova, Bologna. Lo si evince dal carteggio inedito intrattenuto con l’amico padre Paolo Maria Paciaudi, bibliotecario del duca Filippo di Borbone (Parma, Biblioteca Palatina, Fondo Paciaudi, cass. 90).
Alcune lettere erano dedicate a questioni politiche come la lotta per l’indipendenza corsa condotta da Pasquale Paoli. Altre lettere, successive, vertevano prevalentemente su questioni letterarie, denunciando una precoce tendenza verso il gusto neoclassico e l’omaggio ai grandi modelli della letteratura greca. Non mancavano una precisa polemica contro gli scrittori più in voga nei circoli delle corti settecentesche e, viceversa, l’elogio di un genere in crescita come il romanzo, ben conosciuto da Robbio attraverso il caso inglese. Il romanzo era destinato a costituire per Robbio un irrinunciabile strumento educativo, come avrebbero rivelato tre opere uscite negli ultimi anni di vita: l’Emirena (Milano 1784, ma già apparso in Operette relative alla religione e sopra gli errori correnti nel 1778), il Boezio in carcere (Torino 1787) e Le disgrazie di donna Urania, ovvero gli studi femminili (Parma 1793).
Dalle lezioni di Giacinto Sigismondo Gerdil, una delle figure più influenti nella cultura sabauda settecentesca, Robbio aveva imparato a trattare di questioni pedagogiche, valutando l’importanza dell’educazione impartita nelle scuole e criticando l’idealizzazione dello stato di natura presente nelle opere di Jean Jacques Rousseau. Altro importante modello era rappresentato da un autore che non si recò mai a Torino, ma che ispirò alcune delle riforme scolastiche sabaude: Ludovico Antonio Muratori.
Come letterato, Robbio esordì con il Ragionamento intorno all’obbligo di allattare i propri figlioli (Milano 1763), trattando un tema caro a Rousseau, con cui condivideva l’utilità dell’allattamento materno contro la pratica del baliatico. Nel 1765 uscì a Torino il Saggio sopra la monarchia di Roma, di argomento storico.
Erano gli anni in cui Edward Gibbon aveva iniziato a definire il suo capolavoro sul declino e la caduta dell’Impero romano. In ambito subalpino stavano maturando nuovi interessi verso il genere storico, né era casuale l’attenzione verso l’età romana. Gian Francesco Galeani Napione (1748-1830) avrebbe sintetizzato, nel Saggio sopra l’arte storica (1773), idee condivise da Robbio nel ritenere fondamentale l’epoca romana come momento di massimo splendore di una cosiddetta «nazione italiana».
Nel 1769 apparve, a Milano, Il Secolo d’Augusto, il suo testo storiografico più noto accanto agli elogi scritti per i volumi dei Piemontesi illustri (Torino 1781, dove Robbio firmò le pagine sul principe Eugenio di Savoia e sull’amico poeta chierese Pier Romengo). In quel testo, con echi vichiani, si sosteneva l’idea di un’auspicata rinascita letteraria italiana, idea che a posteriori sarebbe stata artificiosamente letta con un significato politico di prefigurazione del Risorgimento nazionale. Robbio aveva immaginato di unire, alla trattazione sull’età augustea, anche una seconda parte dedicata al Cinquecento, «il secolo di Leone X», che però, viste le difficoltà incontrate con la censura a Torino, non vide mai la luce.
Nei suoi primi trent’anni, Robbio si conquistò un posto di tutto rispetto nella cultura musicale europea, pubblicando a Parigi e Londra diverse raccolte di sonate e duetti per violino e cembalo. Nel 1765 uscirono a Parigi cinque sonate per violino o cembalo e basso continuo. Seguirono le Sei sonate a violino o cembalo (Parigi 1767), Sei sonate a violino solo con basso. Opera Seconda (Parigi 1767 ca.), Sei duetti per due violini. Opera terza (Parigi- Lione 1770; Londra 1770). Charles Burney, che ne conosceva le musiche, lo incontrò a Torino nel 1770 e lo definì «famous dilettante, [...] great performer on the violin and a good composer» (The present state of music in France and Italy, Londra 1771-1773, II, pp. 63 s.).
Nel 1771 uscì anonimo a Torino il trattato De’ giuochi di sorte, nel quale si illustravano i danni prodotti dai giocatori d’azzardo.
Il ruolo dei vari ceti era concepito all’interno di una società divisa in tre fasce: la «primaria», costituita dalle persone che ricoprivano cariche pubbliche, la «mezzana», formata dai nobili che vivevano di rendita, e l’«infima», cioè il popolo, fra cui la prima e la terza indispensabili sotto qualsiasi governo.
Sfiorando temi sociali analoghi, fin dal 1764 Robbio si era dedicato a un poemetto intitolato L’Italia, che pubblicò, con un altro componimento poetico dal titolo La legislazione (un elogio delle riforme legislative di Vittorio Amedeo II di Savoia), nel 1772 in una raccolta di Versi sciolti. Il poemetto riprendeva spunti toccati in Il secolo di Augusto, tratteggiando un’interpretazione delle vicende italiane secondo una linea di sviluppo (segnata dall’epoca augustea) e di progressiva decadenza (nel Seicento).
La conoscenza, rara all’epoca in Piemonte e in Italia, delle lingue inglese e portoghese accostò Robbio alla letteratura di queste due nazioni ispirandogli alcune traduzioni: in particolare, nel 1772 l’incipit dei Lusiadi di Camoens, Il Messia e La festa di Windsor di Pope.
Gli anni decisivi nel definire il profilo di Robbio furono quelli che lo videro partecipare alla Società Sampaolina, il cenacolo letterario nato a Torino nel 1776 nel salotto del conte Emanuele Bava di San Paolo. Robbio vi trovò l’ambiente consono per stringere amicizia con colti aristocratici come Tommaso Valperga di Caluso, Ottavio Falletti di Barolo, Agostino Tana e, più giovane di lui di oltre dieci anni, Vittorio Alfieri.
Al centro delle discussioni della Sampaolina era il rapporto fra nobiltà e ceti dirigenti. Gran parte della riflessione pedagogica dei soci era incentrata sull’educazione dei nobili, non tanto quella intellettuale, quanto quella morale e religiosa, un tema che Carlo Denina aveva trattato in Dell’impiego delle persone.
Specchio del clima vissuto nelle adunanze della Sampaolina fu, tra gli altri scritti, il trattato Della falsa filosofia (Torino 1777), dedicato a Vittorio Amedeo III. Nel 1778 Robbio ne ricavò finalmente una tanto ambita nomina pubblica: quale riformatore dell’Università di Torino, uno dei quattro posti che erano stati lasciati vacanti dal conte di Pertengo. Il sovrano aveva, infatti, apprezzato l’ispirazione gerdiliana della sua opera, in cui si criticava il pensiero dei philosophes abbracciando un progetto di cauto riformismo d’impronta assolutistica.
Nel 1780 assunse l’incarico di regio revisore dei libri, oltre che di accademico d’onore nella Regia Accademia di pittura e scultura.
In una delle sue opere più mature, Dell’educazione continuata (Torino 1783), sulla formazione del nobile dopo i vent’anni, l’autore tornava al modello dell’Antiemilio di Gerdil irrigidendo la sua posizione in senso moralistico, come era già stato evidente in Della condotta dei letterati (Torino 1780), in cui poeti latini come Catullo e Ovidio erano criticati perché troppo licenziosi. Ed è significativo che, nel 1783, la fama di Robbio a livello italiano avesse fatto parlare di lui come di un candidato in competizione con Alessandro Valperga di Maglione per la nomina ad ambasciatore sabaudo a Roma. «Quantunque non si trovi iniziato nel ministero», si legge nei dispacci inviati a Venezia da Torino, «gode tuttavia della miglior fama d’uomo ripieno di talenti e cognizioni» (Archivio di Stato di Venezia, Senato, Dispacci ambasciatori, Torino, mz. 23, 3 settembre 1783).
Degno di nota, fra gli ultimi scritti, fu il trattato Del gran mondo (Milano 1786; 2a ed. Torino 1792), nel quale l’analisi era rivolta alla decadenza morale, culturale, fisica del mondo nobiliare. Con l’espressione «gran mondo» Robbio indicava tutti coloro che, per nascita o ricchezza o impieghi di corte, avevano acquistato un titolo nobiliare, che l’autore difendeva, criticandone però l’ancora troppo diffusa ignoranza e l’indulgenza al lusso.
Nel Settecento la figura del letterato si era trasformata: lo studioso si era via via emancipato dalla subordinazione al potere, diventando in alcuni casi autonomo dal punto di vista economico. Robbio non si identificò, tuttavia, in questa nuova espressione d’indipendenza intellettuale, continuando a concepire le lettere come otium da alternare al negotium: a una vita attiva, cioè, e a un impiego pubblico legato alla realtà economica e politica del proprio Paese.
Morì a Torino il 27 febbraio 1794. Scapolo, lasciò i propri beni ai figli della sorella Carlotta (1742-1782), moglie del conte Giambattista Curbis.
Fonti e Bibl.: G. Vernazza, Notizie intorno a Carlo B. R., conte di S. R., in Giornale della letteratura italiana, IV (1794), pp. 144-149; A. Cerati, Elogio del conte B. R. di S. R., in Opuscoli diversi di Filandro Cretense, II, Torino 1809, pp. 1-103; G.B. Gerini, Scrittori italiani di pedagogia del secolo XVIII, Torino 1901, pp. 354-381; C. Calcaterra, Il nostro imminente Risorgimento. Gli studi e la letteratura in Piemonte nel periodo della Sampaolina e della Filopatria, Torino 1935, pp. 78-81; L. Ricaldone, Progetti di educazione letteraria intorno al 1790: B. R. di S. R. e la teoria del “Melius aliquid nescire secure, quam cum periculo discere”, in Piemonte e letteratura 1789-1870, a cura di G. Ioli, I, Torino 1983, pp. 368-377; M. Cerruti, Le buie tracce. Intelligenza subalpina al tramonto dei lumi, Torino 1988, pp. 30-32; L. Braida, Il commercio delle idee. Editoria e circolazione del libro nella Torino del Settecento, Firenze 1995, pp. 322-328; A. Merlotti, L’enigma delle nobiltà. Stato e ceti dirigenti nel Piemonte del Settecento, Firenze 2000, pp. 229-237; R. Necchi, «Un pascolo utile insieme e dilettoso»: i “Poemetti italiani” (Torino 1797), in Scienziati e pastori. Poesia didascalica fra Sette e Ottocento, Milano 2013, pp. 25-42.