Bresson, Robert
Regista cinematografico francese, nato il 25 settembre 1907 a Bromont-Lamothe (Puy-de-Dôme) e morto a Parigi il 18 dicembre 1999. È stato uno dei protagonisti della rinascita del cinema francese nel secondo dopoguerra. Sin dai primi film si impose all'attenzione per l'analisi radicale della condizione etica dell'individuo, svolta attraverso un'interpretazione del cristianesimo di ascendenza giansenistica, che privilegia i temi della Grazia, della collisione tra l'innocenza della fede e il nichilismo della modernità, della solitudine e dello scacco esistenziale. A tale poetica corrisponde un coerente percorso estetico, in cui la ricerca del rigore formale, perseguita attraverso la riduzione all'essenziale dei mezzi più comuni della scrittura cinematografica (movimenti di macchina, recitazione degli attori, uso della musica) tende a definire uno sguardo puro sul mondo capace di trascendere il visibile per rivelare l'intima bellezza delle cose. Ottenne numerosi riconoscimenti, tra i quali, al Festival di Cannes, nel 1957 il premio per la miglior regia per Un condamné à mort s'est échappé (1956; Un condannato a morte è fuggito), nel 1967 un premio speciale per Mouchette (Mouchette ‒ Tutta la vita in una notte) e il complesso della sua opera, e nel 1983 il Grand prix du cinéma de création per L'argent; al Festival di Berlino l'Orso d'argento nel 1977 per Le diable probablement… (Il diavolo probabilmente…).Dopo gli studi di lettere e filosofia, a Parigi, si dedicò per qualche tempo alla pittura, prima di esordire nel cinema all'inizio degli anni Trenta con Affaires publiques (1934), un burlesque andato disperso durante la guerra e ritrovato nel 1986. I termini del mondo poetico di B. si delinearono già nel primo lungometraggio, Les anges du péché (1943; La conversa di Belfort), realizzato dopo un periodo di prigionia trascorso in Germania. Il percorso parallelo verso la redenzione di una giovane assassina e di una ragazza in attesa dei voti esibisce il rapporto di reciprocità e di sublimazione che si instaura tra i due universi chiusi del carcere e del convento, tra la ribellione e l'orgoglio che anima l'ansia religiosa. Il successivo Les dames du Bois de Boulogne (1945; Perfidia) affronta ancora il tema dello scambio tra perdizione e santità adattando, con la collaborazione di Jean Cocteau, un racconto di tradimenti e inganni, inserito in Jacques le fataliste et son maître di D. Diderot. Queste prime opere risentono dei modi di una drammaturgia tradizionale che B. cominciò ad abbandonare con Le journal d'un curé de campagne (1951; Il diario di un curato di campagna), tratto dal romanzo omonimo di G. Bernanos, incentrato sullo scacco esistenziale di un giovane parroco che, nel tentativo di essere fedele all'esempio di Cristo, provoca l'incomprensione dei suoi parrocchiani. Isolato, pieno di dubbi, muore di cancro, esprimendo nelle ultime parole la sua fede ("Tout est Grâce"). La preminenza del testo diaristico rende l'azione visiva una semplice immagine esteriore dello stato dell'anima, sottolineando l'impotenza del curato che solo nell'interiorità riesce a vivere compiutamente i propri valori. Il film, oltre all'interesse suscitato nella cultura cattolica, lo rese uno dei referenti privilegiati della scuola critica dei "Cahiers du cinéma", radunata attorno ad André Bazin, che individuò il principio stilistico di B. nell'uso del testo come 'materiale' di cui ribadire l'origine letteraria e il modello narrativo nella via crucis, fornendo quella che rimane la chiave interpretativa più utilizzata. Il regista trasse il successivo Un condamné à mort s'est échappé dal racconto autobiografico Récit d'une évasion di A. Devigny. Grazie a un lavoro incessante e ossessivo, un carcerato costruisce da oggetti di fortuna i suoi strumenti di fuga. La sua volontà testarda, incurante dell'atteggiamento fideistico o rassegnato dei compagni, può scorgere i segni offerti dalla Grazia, indistinguibile dal caso, all'interno dell'inferno nazista, presenza anonima e feroce. Il portato morale e filosofico, nei film precedenti affidato in modo preminente alla componente letteraria (voce narrante, dialoghi), viene espresso qui dalla concreta significatività dell'azione, in modo da realizzare una perfetta consonanza tra l'orizzonte etico e il nuovo linguaggio cinematografico. Nei primi anni Cinquanta, B. aveva infatti avviato una ricerca teorica che avrebbe costantemente accompagnato la sua attività per essere poi raccolta nelle Notes sur le cinématographe (1975; trad. it. 1986), in cui egli sostiene che il regista deve liberarsi dai pregiudizi ricavati dalle altre arti, per interrogare le possibilità significative del proprio mezzo espressivo. Dall'interrelazione tra immagini in movimento e suoni deve nascere una scrittura dotata di una propria grammatica autonoma, per poter recuperare sulle cose uno sguardo primigenio, capace di accogliere l'inatteso. Compito del regista è altresì quello di "mettere in ordine" attraverso un processo di frammentazione e ricomposizione del materiale visivo e sonoro, attuato con i mezzi della riduzione e dell'ellissi; mentre l'attore, preferibilmente non professionista, deve farsi "modello", evitando qualsiasi inflessione emotiva, in modo da vivere sul set la stessa esperienza dell'eroe bressoniano, abbandonato ai propri automatismi, in attesa di una coincidenza imprevedibile, da B. definita "fosforescenza", equivalente estetico della Grazia. Pickpocket (1959), rielaborando alcuni temi di Delitto e castigo di F.M. Dostoevskij, descrive la rivolta esistenziale di un giovane che, dedicatosi al furto per mostrare la sua superiorità rispetto alla legge e al conformismo dell'ordine costituito, riesce solo in prigione ad aprirsi verso l'altro, accettando l'amore umile di una ragazza madre. I principi di rigore estetico del cinema di B. sono qui applicati per mostrare, con insolita leggerezza, il flusso vitale della città; l'ossessività del confronto manuale con gli oggetti non è in vista di una liberazione ma di un loro sfruttamento ludico. Alcuni protagonisti della tendenza allora emergente della Nouvelle vague (Louis Malle, Jean-Luc Godard) accolsero il film entusiasticamente, ma B. manifestò anche in quegli anni la sua estraneità a qualsiasi movimento. Ritornò allo spazio claustrofobico di una prigione per il Le procès de Jeanne d'Arc (1962; Il processo di Giovanna d'Arco), dove esibisce nella forma più pura, anche a livello stilistico, il conflitto ormai irrisolvibile tra santità e ottusità conformista.
Au hazard Balthazar (1966), storia del calvario di un asino fino alla morte, è l'opera di svolta, poiché la frammentazione del racconto in vista di una sua astrazione metaforica raggiunge il punto forse più alto, e il martirio viene ridotto a testimonianza senza più possibilità di riscatto, conducendo lo spiritualismo a un esito nichilistico, interpretato sia come radicalizzazione della riflessione religiosa (il silenzio di Dio), sia come conclusione disperata e scettica, che piuttosto che cercare i segni di una Grazia ormai irraggiungibile, si ferma a contemplare la disgregazione etica. L'asino, testardo, innocente, che può essere solo testimone del male e dei vizi dei suoi padroni, appare così l'emblema del modello bressoniano. Le tematiche e l'ambiente rurale ritornano, pure se in un tono più naturalistico, nel successivo Mouchette, altro calvario, questa volta di un'innocente ragazzina, ancora da un romanzo di Bernanos. La Parigi contemporanea è invece al centro del dittico Une femme douce (1969; Così bella, così dolce) e Quatre nuits d'un rêveur (1971; Quattro notti d'un sognatore). Nel primo film, tratto da La mite di Dostoevskij, il dialogo tra le anime non è più salvifico ma, secondo una forma che rimarrà costante, si articola come uno scontro tra l'ossessione del denaro, emblema della volontà di dominio e di isolamento (il marito usuraio), e il sacrificio muto e senza speranza di redenzione (la moglie, il cui suicidio rimane un fatto inspiegabile ma al contempo straniante per le certezze del compagno). Nel secondo, sempre da Dostoevskij (Le notti bianche), B. presentò invece il suo universo compositivo in una forma semplificata e con alcune soluzioni di maniera nella descrizione del mondo giovanile. Con Lancelot du Lac (1974; Lancillotto e Ginevra), tratto da Lancelot ou le chevalier à la carrette di Ch. de Troyes, B. ritornò su un progetto degli anni Cinquanta per raccontare il fallimento nella ricerca del sacro (il Graal), se ridotto a simbolo di potere; da questo snaturamento nasce la modernità, caratterizzata dalla disgregazione e dalla profanazione. Il film è estraneo a qualsiasi aura epica o favolistica, così che i cavalieri sono vuote armature votate alla morte e i cerimoniali esibizione di gerarchie e disuguaglianze sociali. Le diable probablement… e L'argent, dal racconto La cedola falsa di L.N. Tolstoj, continuano a esplorare l'eclisse del sacro all'interno della modernità. La macchina da presa immobile, l'assenza di qualsiasi intervento extradiegetico della musica, una scrittura cinematografica ridotta all'uso dei mezzi più essenziali, sottolineano lo sguardo ormai attonito di B., che non trova più distinzioni tra vittime e carnefici in una società assuefatta al male e alla chiacchiera delle varie forme di sapere (religione, psicoanalisi, politica). B. assegna un ruolo centrale al denaro, lo strumento che ha reso possibile la riduzione nichilistica di ogni rapporto e valore alla logica utilitaristica, contrapposta alla dialettica della Grazia dei primi film, a significare che, paradossalmente, solo il male nelle sue forme più radicali, quando diviene gesto gratuito, dissipatore, antieconomico, la può riproporre. Tra i progetti non portati a termine, spicca quello sulla Genesi, il cui tema (la perdita dell'innocenza dello sguardo e la nascita della confusione dei linguaggi) è l'orizzonte che B. ha indagato in tutta la sua opera.
A. Bazin, Le "Journal d'un curé de campagne" et la stylistique de Robert Bresson, in "Cahiers du cinéma", 1951, 3 (trad. it. in La pelle e l'anima, a cura di G. Grignaffini, Firenze 1984, pp. 124 e segg.).
H. Agel, Robert Bresson, Bruxelles 1957.
P. Schrader, Transcendental style in film: Ozu, Bresson, Dreyer, Berkeley 1972.
A. Ferrero, Robert Bresson, Firenze 1976.
G. Tinazzi, Il cinema di Robert Bresson, Venezia 1976.
M. Estève, Bresson: la passion du cinématographe, Paris 1983.
J. Sloan, Robert Bresson: a guide to references and resources, Boston 1983.
Ph. Arnaud, Robert Bresson, Paris 1986.
J. Sémolué, Bresson ou l'acte pur des métamorphoses, Paris 1993.
S. Arecco, Robert Bresson. L'anima e la forma, Genova 1998.
R. De Gaetano, Robert Bresson: il paradosso del cinema, Roma 1998.
Il caso e la necessità. Il cinema di Robert Bresson, Adriaticocinema ‒ Festival di Bellaria Igea Marina, Cattolica, Rimini, a cura di G. Spagnoletti, S. Toffetti, Torino 1998.
La bellezza e lo sguardo. Il cinematografo di Robert Bresson, a cura di L. De Giusti, Milano 2000.