Roberto Cessi ed Ettore Rota
Nato il 20 agosto 1885 a Rovigo, terra di lotte contadine, Roberto Cessi ebbe in comune con Niccolò Rodolico sia l’amicizia che legò entrambi a Gaetano Salvemini (di cui Cessi fu anche discepolo) sia l’interesse nei suoi studi per i comportamenti delle masse popolari in età medievale. Nel 1904, quando era ancora studente all’Università di Padova, scrisse un breve saggio sulla lotta di classe nel Medioevo che venne pubblicato sul giornale «L’Avanti!» dell’11 settembre. In seguito, per la tesi di laurea, si occupò in maniera più approfondita della corporazione dei drappieri a Padova. Terminati gli studi, ricoprì l’incarico di assistente presso l’Archivio di Stato di Venezia, quindi insegnò per diversi anni nei licei. Nel 1920 vinse il concorso per la cattedra di storia del commercio nell’Istituto di scienze economiche e commerciali di Bari. Due anni dopo venne trasferito all’analogo Istituto di Trieste e infine, nel 1927, tornò nella sua Università di Padova, dove resse la cattedra di storia economica, poi di storia medievale e moderna. Come Rodolico membro dell’Accademia nazionale dei Lincei, Cessi fu anche presidente della Deputazione di storia patria per le Venezie e membro del Consiglio superiore di Stato degli Archivi. Cessi, inoltre, sin da giovane e a differenza di Rodolico, si occupò di politica iscrivendosi nel 1908 al Partito socialista italiano. Fervente antifascista, dopo l’8 settembre 1943 si dette alla clandestinità prendendo parte alla lotta di Resistenza. Nel dopoguerra fu eletto nella prima legislatura della Repubblica d’Italia, come deputato per la circoscrizione Verona-Vicenza-Padova e Rovigo (1948-53).
I suoi studi risultano incentrati soprattutto sulla storia della Repubblica di Venezia dal periodo medievale fino all’Unità d’Italia. Collaborò a lungo con l’Enciclopedia Italiana, scrivendo tutte le voci riguardanti la storia veneta; ma nella sua carriera affrontò altre tematiche. Celebre è la sua monografia dedicata alla figura di Martin Lutero (1954). Come Rodolico, anche Cessi basava i suoi studi su minuziose ricerche d’archivio: il canone metodologico di Cessi, scrisse Ernesto Sestan (Roberto Cessi storico, «Archivio veneto», 1969), «era l’archivio, era la carta, il documento, il codice, la fonte insomma, nella sua immediatezza corposa: tutto il resto, studi, ricerche, volumi, veniva poi» (p. 222). A lungo lavorò all’Archivio di Stato di Venezia e, quando fu eletto in Parlamento, si batté per il potenziamento degli archivi di Stato.
La sua produzione storiografica fu vasta e comprende decine di volumi, centinaia di articoli, saggi, note, schede di ogni genere e ampiezza, spaziando su un arco cronologico che va dal tardo impero romano agli anni della Resistenza: collaboratore infaticabile di riviste e periodici, promotore di collane di fonti, animatore pungente e combattivo di polemiche storiografiche, anche se talvolta una certa ruvidezza di carattere e una troppo rigida chiusura nei confronti di nuovi indirizzi di ricerca lo isolarono rispetto alle nuove generazioni di storici. Morì a Padova il 19 gennaio 1969.
Un’evoluzione di interessi storiografici simile a quella di Rodolico e Cessi (dal Medioevo al Risorgimento) caratterizzò anche la carriera professionale di Ettore Rota (Milano 1883-Cannobio 1958). Anche Rota insegnò in vari istituti scolastici prima di approdare all’università: precisamente a Pavia dove resse la cattedra di storia medievale e moderna. Dopo iniziali ricerche sul Medioevo (con un’edizione critica di Pietro da Eboli), egli si volse al Settecento italiano, del quale mise in rilievo i motivi originali e autoctoni e i segni diffusi di un rinnovamento civile e nazionale. La sua opera principale è rappresentata dai due volumi de Le origini del Risorgimento, pubblicati a Milano nel 1939.
Rota diede anche un significativo apporto allo studio del giansenismo in Italia, principalmente con il saggio Il giansenismo in Lombardia e i prodromi del Risorgimento italiano, uscito nella Raccolta di scritti storici in onore del prof. Giacinto Romano, pubblicata a Pavia nel 1907. Nel giansenismo Rota vide uno degli elementi formativi del Risorgimento nazionale e del moderno democraticismo, visione che la successiva critica ha potuto temperare, ma non rifiutare del tutto. In particolare, egli sosteneva che il giansenismo fosse un movimento democratico borghese, sinceramente cristiano secondo la tradizione italiana: un ritorno al Vangelo per abbattere l’aristocrazia ecclesiastica, demolire la forza temporale della Chiesa e ricondurre questa alla sua primitiva purezza. Tale interpretazione venne duramente criticata da Arturo Carlo Jemolo. Rota nei suoi numerosi articoli approfondì inoltre la vicenda di Pietro Verri e dei suoi fratelli, intellettuali appartenenti a una famiglia della nobiltà milanese, facendo risalire agli anni del dispotismo illuminato l’inizio del Risorgimento.