CABANNI (Capanni), Roberto de
Terzogenito di Raimondo, maestro delle cucine reali, e di Filippa da Catania, balia dei figli di Roberto d'Angiò, nacque a Napoli, con tutta probabilità verso la fine del primo decennio del secolo XIV. I genitori, ambedue di origini molto modeste, avevano raggiunto con ambizione e tenacia un'invidiabile posizione alla corte angioina, dove i loro figli crescevano nella quotidiana consuetudine con i principi reali e i grandi del Regno.
Il C., destinato alla carriera ecclesiastica, è nominato per la prima volta il 6 febbraio del 1327 come chierico di re Roberto d'Angiò e della regina Sancia, quando Giovanni XXII gli concesse l'aspettativa su un beneficio del valore di trenta once d'oro nell'arcidiocesi di Napoli. Lo stesso documento ricorda che egli possedeva già un canonicato con prebenda a Salerno e vari altri benefici nelle diocesi di Napoli e di Nola. Nonostante questa ricca dotazione, alla quale si deve aggiungere una rendita di quattrocento once annue concessagli da re Roberto il 16 marzo 1333, il C. decise di lasciare l'abito ecclesiastico, forse in coincidenza con la morte del padre, assurto negli ultimi anni della sua vita alla dignità di siniscalco dell'ospizio reale. Ricordato ancora il 31 agosto 1332 come canonico di Salerno, poco tempo dopo la morte del padre, avvenuta nell'ottobre del 1334, figura come vicesiniscalco dell'ospizio del re e si accorda con la madre e i fratelli Carlo e Perrotto per la divisione di certi beni in Terra d'Otranto lasciati in eredità dal padre. Fu sicuramente allora che egli sposò una gentildonna napoletana di antica famiglia, Sighilgaita di Loffredo Filomarino, che gli portò in dote beni feudali in Montefuscolo. Il C. ottenne anche di essere creato cavaliere, non si sa in quale data.
Devotissimo del re Roberto, che assistette amorevolmente anche durante la sua ultima malattia, come ebbe a ricordare espressamente la nipote Giovanna in un diploma in suo favore, da lui ebbe in concessione, il 5 marzo 1341, la castellania di Lucera e il 22 genn. 1342 quella di Nicastro. Ma la sua vera carriera, sapientemente assecondata dalla madre, governante delle giovani duchesse di Calabria Giovanna e Maria nipoti di Roberto, ebbe inizio solo con l'ascesa al trono di Giovanna nel gennaio del 1343.
Nella corte angioina, dove i parenti della giovane e inesperta regina, i due gruppi famigliari cioè dei Taranto e dei Durazzo, e i grandi del Regno gareggiavano per il predominio, i Cabanni avevano il vantaggio dell'attaccamento personale di Giovanna, cresciuta con le cure materne di Filippa e in quotidiano contatto con loro. Sin dai primi giorni del suo regno il C. appare nella cerchia dei più fidati consiglieri: vicesiniscalco del suo ospizio, già il 15 genn. 1343, cinque giorni dopo la morte di re Roberto, quando la regina costituì Giovanni Grillo suo procuratore per prestare il giuramento di fedeltà al pontefice, il C. figura tra gli alti funzionari e i prelati che assistettero alla stesura del solenne atto. Nel corso del 1343 poi altre concessioni in suo favore attestano la consistenza della sua posizione a corte. Dopo avergli confermato vecchi privilegi (il 13 giugno la rendita ricordata di quattrocento once annue, il 10 luglio successivo la castellania di Lucera), la regina lo nominò verso la fine di settembre siniscalco a vita del suo ospizio e gli concesse nello stesso tempo il casale di San Mauro in Calabria. Il 1º novembre dello stesso anno gli furono consegnati i capitoli del suo ufficio. Ma già poco tempo dopo, probabilmente all'inizio di dicembre, Giovanna lo creò gran siniscalco del Regno, elevando in tal modo un semplice maestro della casa reale a una delle più alte cariche dello Stato.
La sorprendente carriera del C. dette luogo a molte dicerie, tramandate dalle cronache del tempo, secondo le quali egli era l'amante della regina. Sarà sempre difficile verificare affermazioni del genere. Il Boccaccio, che era certo assai bene informato sulle faccende della corte angioina, la ritenne falsa. La nomina del C. a una carica così alta attesta comunque la grande influenza esercitata da lui e dalla madre sulla regina, che poté apparire prigioniera di una vera e propria camarilla di corte. In questo senso va ricordata la testimonianza del Petrarca, ambasciatore a Napoli nell'autunno del 1341, che in una lettera indirizzata al cardinale Giovanni Colonna giudicò la corte angioina dominata da due personaggi, "Achille" e "Pothius", da identificare, secondo una proposta del Léonard (Histoire), con Tommaso Sanseverino gran connestabile del Regno e con il Cabanni.
La legazione del cardinale Aimeric de Chatelus, mandato a Napoli da Clemente VI per mettere ordine nella caotica amministrazione del Regno, lo indusse a mantenersi cautamente in disparte per ripresentarsi però sulla scena politica napoletana appena il cardinale si apprestò a fare ritorno ad Avignone. Nel novembre del 1344 la regina, contravvenendo alle disposizioni pontificie che proibivano rigorosamente l'alienazione dei beni demaniali, gli concesse la contea di Eboli e gli riconfermò l'ufficio di gran siniscalco del Regno. Tuttavia le proteste per l'influenza sempre crescente esercitata dal C. a corte arrivarono al pontefice. Ritenendolo responsabile della profonda frattura creatasi tra Giovanna e il marito Andrea d'Ungheria, che invano chiedeva una maggiore partecipazione al governo dello Stato, all'inizio del 1345 Clemente VI proibì al C. e ai suoi congiunti l'accesso a corte e lo invitò a giustificarsi davanti a lui in Avignone. Ma non sembra che il provvedimento abbia avuto efficacia. Pochi mesi dopo Giovanna non solo gli riconfermò nuovamente Eboli, ma gli promise anche di investirlo, dopo la morte della regina Sancia, della baronia di Torremaggiore e lo nominò, il 22 ag. 1345, giustiziere di Principato Citeriore.
La posizione di predominio goduta dal C. appariva ormai decisamente insostenibile e in aperto contrasto con l'aspirazione a una maggiore influenza politica nutrita dal marito della regina. Questa semplice circostanza non basta tuttavia a provare la sua effettiva partecipazione all'assassinio di Andrea d'Ungheria, avvenuto nella notte tra il 18 e il 19 sett. 1345, per il quale fu poi condannato a morte. Gli autori del delitto non sono stati ancora identificati, ma è molto probabile che la responsabilità ricada in primo luogo sull'ambiziosa zia e sui cugini della regina, Caterina di Courtenay duchessa di Taranto e i suoi figli Roberto e Ludovico. Se poi vi sia stata anche la connivenza del C. e della sua famiglia, non è possibile accertare; neanche la responsabilità della regina è stato possibile provare. Per la morte del giovane principe furono immediatamente giustiziati due funzionari subalterni, mentre l'ipotesi della responsabilità dei Taranto sembra avvalorata dalla circostanza che Roberto già poche settimane dopo il crimine chiese al pontefice la mano di Giovanna.
Dopo il tragico evento il C. conservò la sua posizione a corte, come dimostrano vari privilegi concessigli dalla regina nel novembre dello stesso 1345. La situazione precipitò all'inizio dell'anno successivo, quando la rivalità esplosa tra Ludovico e Roberto di Taranto per la mano della regina ripropose la questione dell'assassinio di Andrea d'Ungheria. Unitosi al cugino Carlo di Durazzo, Ludovico di Taranto ottenne l'appoggio del pontefice che ordinò un'inchiesta sul delitto. I due principi fomentarono nel marzo del 1346 tumulti popolari e alla testa della plebe napoletana assediarono per quattro giorni la regina in Castel Nuovo, costringendola a consegnar loro il siniscalco del suo ospizio Raimondo da Catania. Sottoposto alla tortura costui indicò come colpevoli dell'assassmio di Andrea vari nobili, tra i quali il C., sua madre Filippa e la nipote Sancia con il marito Carlo Gambatesa conte di Morcone.
Consegnati al gran giustiziere del Regno Bertrando Del Balzo, furono incarcerati nel Castel dell'Ovo, dopo aver ammesso, sempre sotto la tortura, la partecipazione all'assassinio di Andrea d'Ungheria. A nulla valse l'intervento della regina Giovanna in loro favore.
Filippa, non sopportando le durezze del carcere, vi morì prima del processo. Il C., privato dei beni e delle dignità, fu condannato a morte "ob crimen proditionis" e giustiziato a Napoli il 2 ag. 1346, dopo aver subito atroci tormenti.
La sua disgrazia segnò la fine di ogni influenza politica per la sua famiglia. Nulla si sa dei suoi due figli nati dal matrimonio con Sighilgaita Filomarino, Francesco, morto di peste a Napoli nel 1383, e Caterina.
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