DE NOBILI, Roberto
Nacque nel settembre 1577 a Montepulciano (Siena) - ma un'errata tradizione ha ritenuto a lungo che fosse nativo di Roma - dal marchese Pierfrancesco e da Clarice Ceoli (od Oceoli), in una famiglia di antica nobilt à, tradizionalmente legata alla Curia romana. Come primogenito aveva diritto al titolo familiare, ma espresse giovanissimo il desiderio di divenire sacerdote: di fronte all'opposizione della famiglia fuggì di casa e si rifugiò a Nocera dei Pagani in Campania, dove servì come paggio d'onore presso donna Anna Clarice Carafa, figlia del principe Antonio Colonna di Stigliano, finché i familiari non gli concessero di seguire la sua vocazione. Nel 1596, o forse nel 1597, entrò come novizio nella Compagnia di Gesù: per compiere il noviziato venne inviato a Napoli, dove era provinciale della Compagnia il suo conterraneo Roberto Bellarmino.
Morto il padre, il D. ribadì nel 1599 il desiderio di rinunziare al titolo in favore del fratello minore Vincenzo: grazie all'intervento di Claudio Acquaviva, generale della Compagnia, e nonostante le nuove controversie con la famiglia poté terminare a Roma gli studi di teologia e filosofia. Studiò di nuovo con il Bellarmino e conobbe Muzio Vitelleschi, Gregorio de Valencia e Pedro de Arrabal, che seguirono sempre con attenzione e simpatia la sua opera successiva. Nel 1601, dopo aver terminato gli studi, chiese di essere inviato in India, ma la famiglia si oppose, desiderando una carriera ecclesiastica presso la Curia romana, dove già due suoi membri erano cardinali: soltanto nel 1603 la richiesta del D. fu esaudita.
Nel 1604 partì per Lisbona, dove si poté imbarcare per Goa: vi giunse gravemente ammalato dopo dodici mesi di viaggio. Insperatamente guarito - ma la sua salute rimase per sempre minata - rifiutò di accompagnare come cappellano il viceré portoghese a Malacca e fu inviato a Madura, nella provincia gesuitica del Malabar da poco creata su sollecitazione del gesuita italiano Laerzio. A Madura, allora ritenuta l'"Atene dell'India", il D. trovò un gesuita portoghese, Consalvo Fernandez, ex militare, che in dodici anni di attività missionaria non era riuscito a ottenere una sola conversione.
Il D. giudicò l'insuccesso del Fernandez conseguenza di un'errata interpretazione della società indiana: i missionari infatti, dopo una prima fase di conversioni di massa, ottenute anche con la forza, e di violente persecuzioni contro i templi e le religioni indiane, avevano cercato di convertire gli strati inferiori della popolazione, guadagnandosi il disprezzo delle alte caste, che li avevano così identificati come "Prangui" (o "Frangui") e cioè Portoghesi (da un antico termine, forse corruzione di "Franchi", con il quale erano stati denominati nei secoli precedenti tutti gli Europei), gente violenta, di nessuna cultura e di scarso valore.
Il D. ritenne conseguentemente necessario evitare di essere confuso con i "Prangui" e con gli strati infimi della popolazione e tentare invece la conversione delle alte caste, in particolare dei brahmani, la casta più elevata, cui tradizionalmente erano affidate le funzioni sacerdotali e il magistero culturale.
Per far questo occorreva impadronirsi della lingua, delle dottrine filosofiche e teologiche, degli usi del mondo brahmanico e adattarsi ai costumi di questo per convertirlo dal suo interno. Il D. si separò quindi dal Fernandez, indossò la tunica giallo-arancione del penitente indiano, si rasò completamente i capelli e si fece costruire un'abitazione con una cappella privata nel quartiere dei brahmani, presentandosi come un nobile romano - equiparabile socialmente ai ragià indiani -, che aveva rinunciato al mondo e alle sue gioie e voleva imparare la saggezza brahmanica. Nella sua casa visse come un bralimano, mangiando soltanto i cibi permessi ai brahmani ed una sola volta al giorno, studiando testi indiani e impadronendosi della locale lingua tamil e del sanscrito, ricevendo raramente per non essere distratto dalla propria ricerca della pace e della serenità (e in realtà per acuire la curiosità intorno alla propria persona).
In meno di un anno si impadronì delle lingue studiate, alle quali poi aggiunse il telegu, e studiò le opere classiche della sapienza indiana: ben presto poté addirittura comporre versi religiosi in tamil. Ormai considerato un sapiente dedito allo studio e alla preghiera, alla rinuncia e alla mortificazione, poté dedicarsi alla predicazione e già nel 1607 ottenne dieci conversioni, che divennero sessantatré nel 1609 e circa centocinquanta nel 1611. Alla fine del 1608 il suo successo aveva scatenato pericolose rivalità e venne accusato da alcuni bralimani di essere un portoghese di casta inferiore, un empio e un ateo, di predicare contro la tradizione indiana: riuscì tuttavia a difendersi davanti a un'assemblea di brahmani; trasformò anzi la propria difesa in un'importante vittoria personale grazie alla conoscenza del mondo indiano. Nel 1609 fu nuovamente accusato di empietà per aver fatto costruire una chiesa nell'area di una pagoda, ma l'accusatore fu scaltramente tacitato con un'offerta in denaro.
L'iniziativa del D. e soprattutto il suo successo provocarono anche lo sdegno e le accuse degli altri missionari, che sentirono disprezzati e scavalcati i loro sforzi, e dei Portoghesi, che temettero di veder compromessi gli equilibri politici e religiosi sui quali avevano basato la propria supremazia in India. Le prime proteste furono tacitate già nel 1609 dal Laerzio, italiano come il D. e altrettanto poco interessato ai successi portoghesi, ma nel 1610 il D. fu accusato direttamente dal Fernandez, profondamente ferito dall'essere stato messo in disparte a Madura, d'illecite compromissioni con il paganesimo, di confusione fra dottrine cristiane e dottrine indiane, di mutamenti non autorizzati del catechismo insegnato nelle missioni e soprattutto di aver permesso ai convertiti di mantenere usi e costumi ancora pagani. In particolare il D. si vide rimproverare di aver permesso ai neopristiani le abluzioni lustrali bralimaniche, anche prima della messa, l'uso cosmetico della polvere di sandalo, il "kudumi" (il ciuffetto di capelli al vertice della testa rasata) e il "cordone" di fili intrecciati sul petto simbolo della più alta nobiltà indiana.
Nel 1610 l'Acquaviva aveva inviato in India Nicolao Pimenta quale visitatore delle province orientali della Compagnia: il Pimenta fu scandalizzato dall'operato del D. e scrisse a Roma per sostenere le accuse del Fernandez. Mons. Roz, arcivescovo di Cranganore, sotto la cui giurisdizione si trovava la missione' di Madura, convocò un sinodo a Cochin: il D. fu ascoltato da teologi e missionari, che si dichiararono infine d'accordo con le sue tesi. Ciò nonostante il nuovo provinciale del Malabar, che aveva nel frattempo sostituito il Laerzio, preferì proibire al D. di effettuare nuovi battesimi, almeno sino a quando tutta la questione non fosse definitivamente accertata.
Da questo momento si sviluppò con rapidità sorprendente una controversia destinata a durare oltre un decennio, nella quale antipatie personali, rivalità nazionali e politiche, lotte fra Ordini e missioni ebbero libero sfogo sovrastando il giudizio di merito sull'opera del D.: nel successivo espandersi a macchia d'olio della vicenda furono coinvolte progressivamente tutte le autorità ecclesiastiche indiane ed europee. Ancora oggi non sono del tutto chiari i moventi dell'intera querelle anche se appaiono evidenti i motivi per cui i Portoghesi volevano fermare l'opera della missione di Madura.
Poco dopo il sinododi Cochin fu indetta una nuova assemblea a Goa, quasi completamente composta da portoghesi, alla quale il D. non fu invitato e dalla quale fu naturalmente condannato sulla base delle accuse del Fernandez: tuttavia il metropolita di Goa, D. Menendez, si dichiarò apertamente a favore della missione di Madura, lodandone l'operato. Il Fernandez non desisté e con l'appoggio del clero secolare portoghese accusò il D. di essere contro il pranguismo e quindi contro il cristianesimo: l'accusa suscitò scandalo e il D. ricevette lettere durissime dall'Acquaviva e dal Bellarmino, mentre gli veniva rifiutato il diritto di difendersi nuovamente. Il D. scrisse a Roma per discolparsi e per chiedere l'aiuto familiare, mentre mons. Roz ne prese le difese presso il Bellarmino.
Nel 1615 morì l'Acquaviva e gli succedette il Vitelleschi, antico maestro del D., mentre un nuovo provinciale del Malabar, pur avendo rinnovato al D. la proibizione di battezzare, non gli si rivelò a priori contrario. Nel 1617 infine gli accusatori del D. ritirarono le accuse e questi poté riprendere la sua opera di conversione dei brahmani.
Senonché l'anno prima il primate di Goa era tornato in patria e il suo successore, mons. da Sà, si rivelò fieramente avverso ai gesuiti, in questo appoggiato dal clero indiano, dai domenicani e dai francescani: furono quindi riprese le accuse del Fernandez contro il D., nonostante che, già nel 1616, i teologi romani, sotto l'influsso di parenti e amici del D., ne avessero approvato l'opera. Il breve di Paolo V Cum sicut fraternitatis, arrivato a Goa nel dicembre 1617 con la richiesta di ulteriori delucidazioni sulla missione di Madura, della quale però anticipava un giudizio sostanzialmente benevolo, sorprese quindi sfavorevolmente il da Sà. Questi cercò allora di denunciare il D. come eretico all'Inquisizione di Goa, ma il grande inquisitore di Lisbona, amico dei gesuiti, gli rispose di seguire le indicazioni papali.
Nel 1619, infine, un nuovo concilio fu indetto a Goa dal da Sà per indagare ulteriormente, come desiderato dal papa, sulla giustezza delle tesi del D.: grazie all'opera della Compagnia di Gesù uno dei due inquisitori prescelti si schierò improvvisamente a favore del D. creando una situazione di stallo e il primate di Goa dovette rimettere a Lisbona e a Roma i documenti dei processo. Nel 1621 il da Sà moriva, seguito quasi subito dal Fernandez: nello stesso anno moriva anche Paolo V e diveniva papa Gregorio XV, che creava una commissione, composta da un carmelitano, un benedettino e dal primate d'Irlanda, mons. P. Lombard, per giudicare definitivamente la controversia. Nel frattempo il grande inquisitore di Lisbona aveva espresso un parere favorevole al De Nobili. Anche la commissione si pronunziò a favore del suo operato: nel 1623 Gregorio XV, sollecitato da mons. Sforza, cugino materno del D., mise fine all'intricata vicenda con la costituzione Romanae sedis antistes.
Il D. uscì sostanzialmente vincitore dal lungo conflitto e sicuro dell'appoggio romano poté dedicarsi a una nuova fase della sua predicazione. Decise di rinunziare a quelle esteriorità, quali i simboli di appartenenza alle alte caste, che inizialmente avevano aiutato la sua opera evangelizzatrice, e iniziò a spostarsi per la regione circostante Madura. Promosse una nuova figura di insegnante della verità, un missionario asceta e penitente che poteva rivolgersi a tutte le caste senza incorrere nei biasimi brahmanici. La sua attività incontrò nuovamente forti opposizioni nel mondo indiano e fu più volte imprigionato. Nel 1640 rimase per circa due anni in prigione: quando fu infine liberato, fu designato quale superiore della missione di Ceylon. Ormai quasi dimentico dell'italiano e del portoghese per la troppo lunga frequentazione della cultura e delle lingue indiane, vecchio e malato, si ritirò infine su consiglio dei suoi superiori nel collegio di Djafnapatnam e quindi in quello di Meliapoor: qui trascorse gli ultimi anni della sua vita componendo opere in tamil per i missionari e qui morì il 16 genn. 1656.
Il D. ha lasciato una ricchissima produzione letteraria ed epistolare in più lingue, in gran parte sconosciuta sino a pochi decenni or sono. La sua prima opera in latino, a noi nota, è la Responsio ad ea quae modum quo nova Missio madurensis utitur ad ethnicos Christo convertendos obiecta sunt, breve scritto del 1610, pubblicato dal Dahmen nel 1931 sotto il nome di Prima Apologia, nel quale il D. elaborò i capisaldi della propria difesa contro le accuse del Fernandez: l'abbandono delle scelte missionarie precedenti è motivato dalla necessità di non essere confuso con i "Prangui", questo termine aveva infatti significato dispregiativo e non era sinonimo di cristiano; l'uso delle abluzioni lustrali, del "kudumi", del "cordone" e della polvere di sandalo era di natura civile e non religiosa e quindi poteva essere concesso ai convertiti. Il D. riteneva infatti necessario adattarsi in parte alle usanze della popolazione indiana, se queste avevano carattere politico o sociale e non superstizioso o religioso. Sono infine giustificati i cambiamenti del catechismo, segnalando gli errori compiuti precedentemente nel tradurlo. Susseguente alla Responsio è una prima analisi globale del mondo bralunanico, la De linea Brachmanum.
Nel 1612 il D. scrisse un testo interpretativo dei consigli rivoltigli dall'Acquaviva per cbnvertire gli Indiani, mentre del 1613 è l'Informatio de quibusdam moribus nationis indicae. Recentemente pubblicata dal Rayamanickam del Nobili Research Institute, il D. vi illustrò la struttura sociale delle nazioni indiane, il ruolo sociale dei brahmani, i loro studi e il loro insegnamento, le loro sette e i loro usi, le suddivisioni del clero indiano, per dimostrare ancora una volta il carattere civile degli usi concessi ai convertiti e soprattutto per affermare la necessità di accettare alcuni costumi indiani, se si voleva essere seguiti dalla popolazione indigena. Scrisse quindi una Responsio quibusdam a p. Andrea Buccerio objectis contra meam Informationem (1615) e un breve trattatello. Compose infine per la conferenza di Goa del 1619 la Narratio fundamentorum quibus Madurensis missionis institutum caeptum est, et hucusque consistit, che costituisce una vera e propria summa del suo pensiero. Il D. esordisce dichiarando che ogni opera evangelizzatrice deve fare in modo di essere rispettata e benevolmente giudicata da coloro che devono essere convertiti: per questo è necessario guadagnarsi la simpatia dei brahmani, seguendo un procedimento già sancito da Cristo e dagli apostoli, che seppero adattarsi al mondo ebraico e a quello romano per diffondere la parola divina. In secondo luogo è necessario accettare e trasformare alcuni costumi di coloro che devono essere convertiti: in effetti la stessa storia della Chiesa ricorda numerosi esempi, quali il carnevale, di costumi pagani adottati e trasformati dal Cristianesimo. Non si può pretendere di obbligare i convertiti a una frattura assoluta con il loro mondo: si correrebbe il rischio di spaventarli e quindi di perderli. Per questo bisogna accettare alcuni usi bralimanici ricordando che sono emblemi della loro particolare attività di insegnanti della legge e della verità e non simboli di sacerdozio pagano: non bisogna infatti distruggere i templi, ma soltanto gli idoli in essi contenuti.
Oltre alle opere in latino, il D. ha lasciato vari scritti in tamil: catechismi, dialoghi religiosi, vite della Madonna e del Cristo, refutazioni della teoria della trasmigrazione delle anime, trattatelli, versi e sermoni. Scrisse inoltre in telegu, e in sanscrito: una tradizione riportata dal Dahmen ricorda come il D. avesse raccolto i suoi lavori in lingue locali in circa venti volumi in foglie di palma da tempo ormai scomparsi, fra i quali un'altra vita della Madonna, un rituale per i matrimoni e una sorta di compendio della dottrina cristiana composto in sanscrito. Il corpus letterario del D. comprende infine un epistolario di più di cinquanta lettere in italiano, portoghese e latino, in gran parte di interesse strettamente personale: sono documentati tutto il suo processo di assimilazione del mondo indiano, la sua ammirazione per le lingue dravidiche ed anche le sue difficoltà familiari, specie durante il decennio delle controversie su Madura, e le sue richieste di aiuto.
Tutta l'opera del D. sottolinea la sua attenzione alle tradizioni e alle culture indiane: attenzione che non soltanto aprì la strada alla penetrazione cristiana in India, ma permise una maggiore conoscenza della stessa. Per molto tempo tuttavia, anche perché confusa con la lunga querelle sui riti malabarici del primo Settecento, la sua attività, come d'altronde quella precedente del Ricci in Cina, è stata sottovalutata persino all'interno della sua stessa Compagnia: a lungo gli scrittori ecclesiastici ricordarono il D. soltanto come nipote di un omonimo zio cardinale. La figura del D., fatta segno di una sporadica attenzione nei secoli XVIIIXIX, è ritornata alla luce con l'importanza assunta all'interno del mondo cattolico dalla Chiesa indiana ed anche con l'attenzione del concilio Vaticano II ai rapporti con le altre culture religiose. Studiosi indiani e missionari europei hanno dedicato ampi studi alla pubblicazione e alla valorizzazione del suo lascito spirituale. Studiosi europei, affascinati dal mondo indiano, hanno voluto studiare in lui il primo vero scopritore delle radici di quella saggezza: studiosi italiani infine, hanno voluto comprendere la sua attività, quale primo tentativo di dialogo con credenti di differente religione.
Opere: Kândam, Trichinopoly 1891-1906; P. Dalimen, Robert de Nobili, l'apôtre des Brahmes, Première Apologie, 1610, Paris 1931; Trois lettres spirituelles inédites de R. de Nobili, a cura di P. Dahmen, in Revue d'ascet. et de mystiques, XVI (1935), pp. 180-185; La correspondance..., a cura di P. Dalimen, in Revue d'histoire des missions, XII (1935), pp. 579-607; Ars Tevamâtâ Sarittiram, a cura di S. Rayamanickam, Tuttukkuti 1964, Gnāopatesa Kurippitamum, 28Pirasankankalusa, a cura di S. Rayamanickam, ibid. 1965; Upatesam, a cura di S. Rayamanickam, ibid. 1965; A. Rocaries, R. de Nobili S. I. ou le "sannyasi chrétien", Toulouse 1967; J.Wicki, Sei lettere inedite delp. R. Nobili, S. I., 1606, 1607, 1615, in Archivum historicum Societatis Iesu, XXXVII (1968), pp. 129-144;Id., Lettere familiari delp. R. Nobili (1619-1649), ibid., XXXVIII (1969), pp. 313-325; R. de Nobili on adaptation (Narratio fundamentorum), a cura di S. Rayamanickam, Palyamkottai 1971;inappendice: De linea Brachmanum; R. de Nobili, Indian Customs (Informatio de quibusdam moribus nationis Indicae), a cura di S. Rayamanickam, Palyamkottai 1972.
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