Roberto Michels
A oltre un secolo dalla pubblicazione, Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie (1911; trad. it., riveduta e ampliata dall’autore, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, 1912) continua ad assicurare al suo autore, il tedesco naturalizzato italiano Roberto Michels, un posto di primo piano tra i pensatori del Novecento. Grazie a quest’opera, infatti, egli è ricordato tra i pionieri della sociologia politica e tra i fondatori dell’elitismo. E ciò essenzialmente in virtù dell’analisi disincantata sulla base della quale, dopo aver investigato i meccanismi di funzionamento dei grandi partiti di massa, denunciò l’esistenza di un’inesorabile «legge ferrea dell’oligarchia», responsabile, in ultima analisi, della formazione di una ristretta minoranza di potere all’interno di ogni associazione umana.
Michels nacque (con il nome proprio di Robert) a Colonia, in Germania, il 9 gennaio 1876. All’indomani del compimento degli studi ginnasiali (1894) e di una breve parentesi nell’esercito (1895-96), frequentò le università di Parigi, Monaco, Lipsia e Halle; in quest’ultima, nel 1900 conseguì il dottorato in filosofia, storia ed economia politica. L’anno successivo, in seguito a un primo, ma significativo incontro con gli ambienti intellettuali torinesi, si iscrisse al Partito socialista italiano, e nel 1902 al Partito socialdemocratico tedesco. Rientrato in patria, si stabilì a Marburgo. Qui, dopo aver tentato invano di proseguire la carriera accademica, ebbe inizio la sua esperienza di militanza politica attiva, che si tradusse nella collaborazione con le più importanti riviste socialiste di allora e nella partecipazione ai principali congressi nazionali e internazionali del movimento operaio.
Già tra il 1904 e il 1906, denunciando la deriva legalitaria e nazional-patriottica intrapresa dalla socialdemocrazia tedesca, si avvicinò alle posizioni del sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel in Francia e di Arturo Labriola ed Enrico Leone in Italia. Nel 1907, dopo alcune brevi esperienze di insegnamento a Parigi e Bruxelles, tornò a Torino, dove, grazie ad Achille Loria, conseguì la libera docenza in economia politica. Ai piedi della Mole, per effetto della crescente disillusione verso i partiti di ispirazione socialista, destinata di lì a poco a tradursi nel definitivo divorzio dal movimento operaio, Michels recepì alcuni segmenti del teorema di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto da un lato e della sociologia di Max Weber dall’altro. L’insieme di tali influenze, abbinato alle tesi da lui formulate sulla base della propria esperienza di militante, trovò espressione compiuta nel 1911 sulle pagine di Zur Soziologie des Parteiwesens.
A partire dalla pubblicazione del controverso saggio Elemente zur Entstehungsgeschichte des Imperialismus in Italien («Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», 1912, 1, pp. 55-120, e 2, pp. 470-97; trad. it., riveduta e ampliata dall’autore, L’imperialismo italiano: studi politico-demografici, 1914), le sue prese di posizione in favore delle aspirazioni italiane gli attirarono le aspre critiche dei giornali e dei colleghi di lingua tedesca.
Chiamato nel 1913 ad assumere il prestigioso incarico di codirettore della rivista «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», nello stesso anno, a fronte di un crescente disagio nei confronti della Germania guglielmina, maturò la decisione di chiedere la naturalizzazione italiana (che avrebbe tuttavia ottenuto solo nel 1921). Alla vigilia della Prima guerra mondiale si trasferì a Basilea, in Svizzera, dove nel 1913 era stato invitato a ricoprire la cattedra di economia politica e statistica.
Tra il 1922 e il 1924, alla luce di quella controversa trama di suggestioni sulla base della quale aveva sino ad allora abbinato una concezione assoluta (à la Rousseau) della democrazia alla diffidenza verso i meccanismi della società borghese, iniziò a guardare con crescente attenzione al movimento fascista.
Dopo un breve soggiorno negli Stati Uniti, nel 1928 tornò in Italia e qui, grazie all’interessamento personale di Benito Mussolini, ottenne la cattedra di economia generale e corporativa presso l’Università di Perugia. Nel periodo compreso tra il primo (1924) e l’ultimo (1936) incontro con Mussolini, Michels proseguì la sua attività di ormai affermato studioso, alla quale accompagnò quella di ambasciatore internazionale del regime fascista, nella convinzione che il rapporto non mediato tra capo e masse rappresentasse l’inveramento di una più autentica forma di democrazia diretta. Morì a Roma il 2 maggio 1936.
Nel 1910, nelle pagine di un suo denso medaglione biografico, Loria definì Michels un «chierico vagante» (Un intellettuale italo-tedesco: Roberto Michels, «Nuova antologia», 1° novembre 1910, p. 133). Più recentemente, anche un altro autorevole interprete, Henry Stuart Hughes, non ha esitato a indicare in Michels «il più cosmopolita tra i principali intellettuali del Novecento» (Consciousness and society: the reorientation of European tought, 1890-1930, 1958, rist. 2002, p. 251). E, in effetti, non è possibile comprendere appieno né il significato della sua opera, né venire a capo delle contraddizioni – talora vistose, talora soltanto apparenti – che segnarono il suo itinerario, senza fare riferimento al suo profilo di intellettuale ‘di frontiera’.
Grazie alla predisposizione quasi naturale in virtù della quale, per sua stessa ammissione, poté condurre sin da giovane «una vita per cui non esistevano pregiudizi e confini di sorta» (testo inedito di metà degli anni Trenta, in Archivio Robert Michels della Fondazione Luigi Einaudi, fasc. Michels Roberto, Note biografiche), Michels fu in grado di svolgere un’ininterrotta funzione di mediazione tra contesti sociali, culturali e nazionali diversi tra loro, sì da fare dell’approccio comparativo uno degli aspetti, sul piano metodologico, più tipici della sua opera. Ma questo tratto specifico del suo profilo intellettuale, che pure lo espose (soprattutto tra il 1914 e il 1918) a un fitto fuoco incrociato di sospetti, non mancò di avere significative ricadute anche sotto altri punti di vista.
In questa prospettiva, non può essere trascurato, per es., il contributo da lui offerto alla cultura europea del Novecento in qualità di intellettuale italo-tedesco per definizione. Contributo che si espresse su un piano duplice, se solo si pensa al fatto che, oltre ad aver svolto una funzione non del tutto trascurabile nel rinnovamento della scienza sociale italiana attraverso l’introduzione di importanti segmenti della cultura tedesca, Michels favorì l’approfondimento della conoscenza reciproca tra Germania e Italia, concorrendo con ciò anche a modificare sensibilmente l’immagine internazionale della penisola, fino ad allora rimasta per lo più legata allo stereotipo romantico del «Paese in cui fioriscono i limoni».
A livello più strettamente tematico, il suo profilo intellettuale di frontiera concorre poi a spiegare le ragioni di quella spiccata sensibilità nei confronti dei meccanismi di formazione delle identità collettive che lo avrebbe spinto a nutrire un costante interesse verso il tema della nazione, sino al punto di giungere, in uno dei suoi più importanti lavori della maturità, Der Patriotismus. Prolegomena zu einer soziologischen Analyse (1929; trad. it. Prolegomena sul patriottismo, 1933), a gettare le basi di una vera e propria ‘sociologia del sentimento patrio’.
Non da ultimo, il suo profilo intellettuale di frontiera consente di riportare l’attenzione anche sul fatto che la sua indagine sul partito politico, sebbene per lo più ispirata alle vicende della socialdemocrazia tedesca, si sviluppò a partire da un quadro analitico molto ampio, all’interno del quale il confronto con le dinamiche politiche, sociali ed economiche italiane rivestì indubbia importanza: basti pensare, non da ultimo, agli importanti studi da lui dedicati al socialismo italiano, tra cui Proletariat und Bourgeoisie in der sozialistischen Bewegung Italiens. Studien zu einer Klassen- und Berufsanalyse des Sozialismus in Italien («Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», 1905, 1, pp. 347-416, 1906, 1, pp. 80-125, 2, pp. 424-66, e 3, pp. 664-720; trad. it., riveduta e ampliata dall’autore, Il proletariato e la borghesia nel movimento socialista italiano: saggio di scienza sociografico-politica, 1908) e Historisch-kritische Einführung in die Geschichte des Marxismus in Italien («Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», 1907, 1, pp. 189-258; trad. it., riveduta e ampliata dall’autore, Storia del marxismo in Italia, 1909).
Si badi bene, a tale proposito, che l’interesse nutrito da Michels verso il ‘laboratorio italiano’ non è spiegabile solo alla luce di quella «arcana affinità elettiva» (Trocini 2007) che lo aveva avvinto all’Italia sin dai primi anni del secolo. Esso rimanda piuttosto a un complesso insieme di convinzioni. Tra queste rientra anzitutto l’idea di carattere più generale, condivisa con l’amico e collega Werner Sombart, secondo la quale all’Italia andava ormai riconosciuto il diritto di non esser più «considerata secondo criteri speciali» (W. Sombart, Die römische Campagna: eine sozialökonomische Studie, 1888, p. 1). E, quindi, l’idea secondo cui, per verificare l’esattezza della dottrina marxiana, fosse indispensabile prendere in esame non tanto le condizioni socioeconomiche dei Paesi più progrediti, quanto, e soprattutto, quelle dei Paesi più arretrati. Specialmente in coincidenza con gli anni del soggiorno torinese, in Michels queste due convinzioni preliminari si prestarono a un ragionamento di carattere più generale, teso a rafforzare concettualmente le conclusioni cui egli era giunto, sul piano dell’esperienza concreta, dopo aver preso atto delle ambiguità pratiche e teoriche del Partito socialdemocratico tedesco. A suo parere, infatti, la ricostruzione dei processi di formazione e consolidamento del Partito socialista italiano suscitava un vivo interesse, perché consentiva di verificare fino a che punto le degenerazioni cui era andata incontro la socialdemocrazia tedesca fossero da rimandare alle specifiche condizioni sociopolitiche all’interno delle quali essa era stata costretta a operare o, invece, a un problema di ordine più generale, legato all’impossibilità da parte di ogni associazione umana di sottrarsi alle «leggi pericolose della psicologia collettiva» (Storia critica del movimento socialista italiano dagli inizi fino al 1911, 1926, p. VIII).
Oltre all’esame in parallelo del caso italiano e di quello tedesco, nel processo di genesi delle tesi sul partito politico che Michels avrebbe esposto nel 1911 giocò un ruolo decisivo anche la sua riflessione sul tema della nazione e del nazionalismo.
Sebbene solo occasionalmente approfondita, essa occupa un posto di rilievo nel bilancio complessivo della sua opera, al punto che si potrebbe parlare, accanto a un più noto Michels ‘studioso del partito politico’, anche di un Michels vero e proprio ‘studioso della nazione’. Mettendone in risalto la rilevanza scientifica non si intende tuttavia affermare che gli scritti sul tema della nazione occupino una posizione autonoma rispetto a quelli dedicati al partito politico. Si intende piuttosto sottolineare che gli uni e gli altri incarnano due prospettive strettamente intrecciate tra loro e, al contempo, altrettanti momenti decisivi della sua indagine sulla democrazia tout court.
Ciò è dimostrato anzitutto dal fatto che, al pari degli scritti sul partito politico, anche quelli sulla nazione sono contraddistinti, nonostante le oscillazioni che segnarono la biografia intellettuale del loro autore, da una sostanziale coerenza di fondo, che si manifesta soprattutto rispetto a quel nucleo di concetti fondamentali alla base del suo teorema politico, tra cui rientrano l’idea della «sovranità popolare senza contrasti escogitata da Rousseau» (Violenza e legalitarsimo come fattori della tattica socialista, «Il divenire sociale», 15 gennaio 1905, p. 27) come via privilegiata all’emancipazione universale e la concezione della democrazia nel significato forte di governo ‘del popolo’. Non potrebbe, se non alla luce di tale complesso di idee, essere altrimenti compresa l’insistenza con cui Michels avrebbe denunciato le forme eticamente deviate del sentimento patrio e auspicato, alla luce del principio ubi bene, ibi patria, la riconciliazione dell’amore per la nazione con quello per il mondo, sì che l’uno fosse premessa dell’altro. E tantomeno l’insistenza con cui egli si sarebbe ripetutamente dichiarato «fautore convinto del principio di nazionalità», nella convinzione che esso non fosse altro che «il principio democratico trapiantato sul terreno della politica estera» (In tema di guerra e di democrazia: appunti, «La riforma sociale», 1915, 4-5, p. 326).
Il nesso tra gli scritti sul tema della nazione e quelli sul partito politico è dimostrato anche da un altro fatto. E cioè che Michels iniziò a formulare i principali argomenti polemici nei confronti delle degenerazioni oligarchiche del partito politico tra il 1904 e il 1907, ossia nel contesto della discussione avviatasi, all’indomani della prima ‘crisi marocchina’ (1905), in rapporto alle strategie dei partiti socialisti di fronte all’eventualità di un conflitto tra Francia e Germania. Furono quelli, infatti, anni in cui la minaccia di una guerra europea ebbe sul suo itinerario intellettuale conseguenze significative, che si tradussero in un’intensa campagna di denuncia nei confronti dell’inerzia della socialdemocrazia tedesca, ma anche delle «incoerenze internazionali del socialismo contemporaneo» (come recita il titolo di un suo articolo su «La riforma sociale», 1904, 8, pp. 644-52). A partire dalla constatazione che, in caso di guerra, il gruppo parlamentare socialdemocratico si sarebbe tutt’al più limitato al voto d’astensione, egli spiegò la fiacchezza del Partito socialdemocratico tedesco sulla base della sua ormai avvenuta trasformazione in un disciplinato meccanismo. Il quale, a dispetto della forza elettorale, secondo lui non era più in grado di realizzare «l’union grandiose de l’idée avec la classe» (Le syndicalisme et le socialisme en Allemagne, «Le mouvement socialiste», juillet 1907, p. 59), ma solo di perpetuare il proprio potere, anche a costo di sacrificare il perseguimento del socialismo. Fu in tale quadro problematico che, tra 1906 e 1907, abbinando la denuncia della mancanza di un’adeguata sensibilità internazionalista alla critica della burocratizzazione di partito, sulle pagine dello «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik» Michels giunse a formulare il primo nucleo teorico della ‘legge ferrea dell’oligarchia’.
Ai fini di una più approfondita comprensione dell’opera di Michels, è necessario tener conto non solo del suo profilo intellettuale di frontiera, ma anche del suo profilo di ‘rinnegato di classe’. Ben più che una semplice circostanza biografica, la scelta di ‘autospostarsi’, cioè di rinnegare la classe sociale di origine per porsi al servizio del socialismo, rappresenta infatti una premessa decisiva per far luce sulla dialettica tra gli opposti estremi, dell’idealismo da un lato e del realismo dall’altro, entro cui si sviluppò la sua riflessione politica.
È lo stesso Michels a suggerire in proposito importanti spunti di chiarimento, allorché, prendendo le difese dell’intellettuale socialista di estrazione borghese, egli accennò non solo alle ragioni che lo avevano spinto ad abbracciare, «in uno slancio di idealismo giovanile», la causa del movimento socialista (Bedeutende Männer. Charakterologische Studien, 1927, p. 148), ma anche ai compiti in vista dei quali il partito operaio avrebbe dovuto strutturarsi. In particolare, per Michels, l’organizzazione politica del movimento operaio non doveva porsi solo come avanguardia militante di una classe proiettata verso il rovesciamento rivoluzionario degli equilibri sociopolitici esistenti, ma anche come anticipazione di quello Zukunftstaat («Stato del futuro») all’interno del quale sarebbe stata abolita ogni forma di dominio e realizzata la sovranità popolare à la Rousseau (Tuccari 1993, p. 84). In tale prospettiva, egli definì perciò il partito socialista come il fautore di «una ben precisa dottrina, il marxismo, e, al contempo, come il partito di classe per eccellenza, cui sarebbe spettato necessariamente di assumere la fisionomia di una vera e propria macchina da guerra» (Die deutsche Sozialdemokratie, «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», 1906, 2, pp. 473-74). Tale necessità, ai suoi occhi, anziché determinare la trasformazione del partito operaio in un mero apparato di professionisti, doveva piuttosto favorirne la strutturazione nella forma di una falange «di compagni di animo nobile» (Proletariat und Bourgeoisie…, cit.; trad. it. p. 75), capaci di «consacrarsi al socialismo come si consacrano le monache al nostro Signore Gesù Cristo» (Die deutsche…, cit., p. 541).
È a partire da tale modello ideale di partito e dalla sua progressiva messa in crisi che diviene possibile ripercorrere la successiva evoluzione del pensiero michelsiano, il quale, in parte sulla base della propria esperienza, in parte sulla base degli spunti offerti dal teorema mosco-paretiano, si sarebbe via via posto sempre più sotto il segno del realismo.
Un passaggio decisivo di questo processo coincise, come anticipato, con gli anni tra il 1904 e il 1907, allorché Michels iniziò a denunciare le «incoerenze internazionali» del socialismo e al contempo a scorgere nella parabola della partito operaio tedesco alcune specifiche tendenze degenerative, responsabili, a suo avviso, della crisi di quel modello di organizzazione politica e insieme di quel complesso di equilibri democratici che esso avrebbe dovuto presupporre.
In particolare, se già all’indomani del VI Congresso dell’Internazionale socialista (Amsterdam, 1904), ispirato dai motivi polemici elaborati dal sindacalismo rivoluzionario francese, ebbe modo di esprimere il proprio disincanto rispetto all’incapacità da parte della socialdemocrazia tedesca, «di determinare il minimo cambiamento» (Les dangers du Parti socialiste allemand, «Le mouvement socialiste», décembre 1904, p. 193), nei saggi pubblicati a partire dal 1906 sullo «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik» egli iniziò a elaborare i primi segmenti concettualmente più sofisticati della sua analisi del partito moderno. Soprattutto nel citato Die deutsche Sozialdemokratie e nel successivo Die deutsche Sozialdemokratie im internationalen Verbande. Eine kritische Untersuchung («Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», 1907, 1, pp. 148-231), Michels indicò nei progressivi processi di imborghesimento e di sclerotizzazione burocratica i principali indizi della degenerazione in corso nella socialdemocrazia tedesca. Più precisamente, l’imborghesimento faceva sì che il Partito socialdemocratico tendesse ad assumere le forme di un formidabile ‘meccanismo di promozione sociale’, responsabile, in ultima analisi, della deproletarizzazione dei suoi affiliati, mentre la sclerotizzazione burocratica, favorendo l’adozione di una strategia tesa esclusivamente al rafforzamento dell’organizzazione, finiva per determinare il totale snaturamento del partito, il quale si riduceva così a essere nient’altro che un «lupo tra i lupi alla caccia di una maggioranza» (Zur Soziologie…, cit.; trad. it. 19662, p. 34).
Nonostante l’ormai evidente sfiducia verso i partiti socialisti, l’idealismo giovanile di Michels lasciò definitivamente spazio al realismo solo intorno al 1909, in coincidenza con la prima enunciazione della ‘legge ferrea dell’oligarchia’:
Chi dice organizzazione, dice tendenza all’oligarchia. […]. La tendenza burocratica ed oligarchica assunta dalla organizzazione dei partiti anche democratici è da considerarsi senza dubbio quale frutto fatale d’una necessità tecnica e pratica. Essa è il prodotto inevitabile del principio stesso dell’organizzazione (Der konservative Grundzug der Partei-Organisation, «Monatsschrift für Soziologie», 1909, pp. 232-33).
Alla luce di ciò, oltre a prendere atto dell’inevitabile formazione di una minoranza di potere all’interno di qualunque associazione umana – comprese quelle a base volontaria e fondate sull’uguaglianza formale degli affiliati – Michels cessò definitivamente di nutrire ogni restante speranza nelle possibilità concrete di realizzazione della democrazia nel suo significato più forte.
Comunemente considerata un classico della moderna sociologia del partito politico, della teoria della democrazia e della sociologia dei gruppi dirigenti, Zur Soziologie des Parteiwesens è senz’altro l’opera michelsiana più complessa e importante. E questo non solo perché vi confluiscono tutte le diverse esperienze politiche e culturali vissute da Michels lungo il primo decennio del Novecento o perché, nelle sue pagine, indagando i meccanismi di funzionamento dei grandi partiti di massa, egli formulò una teoria generale dei limiti della democrazia, ma soprattutto perché essa dà luogo a un’analisi i cui risultati sono tuttora in grado di far luce su alcune delle logiche alla base della vita politica moderna (Sola 1975, p. 8).
Più precisamente, partendo dalla convinzione che l’insieme dei fenomeni presenti all’interno di un partito – e in particolar modo all’interno del partito democratico per eccellenza – fosse il campo d’osservazione scientificamente più idoneo per un’analisi sulla democrazia tout court (Zur Soziologie…, cit., p. 6), Michels elaborò la disillusione accumulata nel corso degli anni della sua militanza, giungendo così a una constatazione doppiamente pessimistica. Il manifestarsi, anche in seno ai partiti socialisti, della ‘legge ferrea dell’oligarchia’, contribuiva non solo a dimostrare la scissione permanente tra minoranza dominante e maggioranza dominata, ma anche a documentare la tendenza immanente di ogni aggregato umano alla formazione di oligarchie e quindi, per estensione logica, l’impossibilità stessa della democrazia.
In questa netta accentuazione della distanza tra élite e massa, cui è sottesa la constatazione dell’impossibilità che i rapporti umani si possano presentare sotto altra forma se non quella di subordinazione gerarchica, risiederebbe, in ultima analisi, il carattere machiavelliano della riflessione politica di Michels (cfr. J. Burnham, The machiavellians: defenders of freedom, 1943). Carattere che lo accomunerebbe agli altri due padri fondatori della teoria delle élites, Pareto e Mosca, facendolo più in generale rientrare nell’alveo della tradizione realistica del pensiero politico moderno.
Ma, se è indubbio che da Pareto e soprattutto da Mosca egli trasse molti dei concetti fondamentali della sua teoria e che con costoro condivise la medesima prospettiva d’indagine, protesa ad andare oltre la dimensione ideale e apparente dei fenomeni politici, è altrettanto vero, però, che intraprese le sue riflessioni a partire da presupposti metodologici e ideologici sensibilmente diversi.
In primo luogo, oggetto specifico della sua analisi non fu la società in generale, ma, come già anticipato, la struttura dei grandi partiti di massa e specialmente quella del Partito socialdemocratico tedesco nei primi anni del Novecento. Per tale ragione, Michels articolò la sua indagine lungo due assi principali: uno ‘teorico-concettuale’, con cui predispose la messa a punto di una serie di concetti funzionali all’interpretazione dei dati; e uno ‘teorico-sperimentale’, con cui si sforzò di ricavare dall’osservazione di un’ampia casistica un possibile quadro di generalizzazioni e di linee di tendenza.
In secondo luogo, sebbene interpretasse la formazione delle oligarchie all’interno dei gruppi sociali non come fenomeno patologico, legato a un qualche difetto di funzionamento interno, bensì fisiologico, determinato dalla logica stessa dello sviluppo dell’organizzazione e, in quanto tale, inevitabile, Michels si confrontò con questa verità fattuale non già con lo spirito del conservatore, ma con quello del democratico, sia pure weberianamente disincantato (J.J. Linz, Michels e il suo contributo alla sociologia politica, in Zur Soziologie…, cit., p. XXI). Per tale ragione, sebbene nel corso dei decenni l’opera e l’itinerario di Michels – soprattutto in rapporto alla sua controversa adesione matura al regime mussoliniano – abbiano suggerito molte riconsiderazioni critiche (Hetscher 1993, pp. 147-76) e ci sia stato anche chi, più di recente, è giunto a contestare l’«illusione biografica» in cui molti dei suoi interpreti sarebbero caduti (Genett 2008, p. 25), quella esposta in Zur Soziologie des Parteiwesens non è affatto una teoria antidemocratica. La formulazione della ‘legge ferrea dell’oligarchia’ condusse infatti Michels a mettere sì in discussione i meccanismi formali della democrazia liberale, ma non il concetto di democrazia in quanto tale. Ne è prova il fatto che, a conclusione del suo capolavoro, dopo aver giudicato la democrazia irrealizzabile, ma non per questo meno desiderabile, egli dichiarò la necessità di pervenire «a una visione chiara e netta dei pericoli dell’oligarchia» (Zur Soziologie…, cit., p. 531), riconoscendo al tempo stesso che il problema cruciale non era come «raggiungere la democrazia ideale, ma piuttosto quale grado e quale misura di democrazia sia: a) per se stessa possibile, b) realizzabile in un dato momento, c) augurabile» (p. 525). E ne è prova anche il fatto che nel più tardo Corso di sociologia politica (1927), riferendosi all’esistenza di diverse «élites che si contendono il potere sotto forma di partiti politici» (p. 100), egli giunse infine a prendere in considerazione, e forse a rivalutare, la concezione di democrazia in termini di competizione politica ed elettorale (cfr. D. Fisichella, Roberto Michels, il partito di massa e la democrazia, in Id., Autorità e libertà. Momenti di storia delle idee, 2012, in partic. pp. 190-92).
Rispetto alla teoria di Mosca della classe politica e alla teoria di Pareto della circolazione delle élites, in quella michelsiana è poi soprattutto il concetto di organizzazione ad assumere un rilievo decisivo, non tanto nel senso che l’esercizio e il mantenimento del potere dipendano dalle capacità organizzative dei dirigenti, quanto piuttosto nel senso che dalla stessa necessità oggettiva dell’organizzazione discende la formazione, in virtù del criterio della competenza, di posizioni di privilegio e, dunque, la separazione tra minoranza dirigente e maggioranza diretta (p. 57).
A sostegno di tale tesi – riassumibile nel sillogismo secondo cui «chi dice democrazia dice organizzazione; chi dice organizzazione dice oligarchia; chi dice democrazia dice oligarchia» –, a un primo e più generale livello argomentativo Michels constatò che la democrazia, ossia l’aspirazione alla partecipazione al potere da parte di una classe politicamente subordinata, non sarebbe concepibile senza una qualche forma di organizzazione, funzionale a conferire consistenza politica alla massa numerica delle classi subalterne (p. 55).
A un secondo livello, affermò poi che, in vista della propria sopravvivenza, ogni organizzazione risulta costretta ad affidarsi a un ristretto nucleo di competenti. A un terzo livello, sottolineò che sarebbero proprio tali esigenze di ordine tecnico – abbinate a una pluralità di fattori, tra cui la psicologia individuale dei leader e la psicologia collettiva della massa – a determinare la formazione di una leadership stabile (p. 67), che, consapevole della propria indispensabilità, si trasformerebbe con il tempo in una vera e propria oligarchia di ‘politici di professione’. La quale, al fine di conservare e rafforzare il controllo sul partito, tenderebbe a sua volta a centralizzare sempre più il proprio potere, deresponsabilizzandosi così dalla massa degli elettori; a elaborare una «ideologia bonapartista», che legittimi l’abuso del proprio potere a partire dalla «finzione della onnipotenza democratica delle masse» (p. 301); a sostituire i fini ultimi, cioè la realizzazione di una società più giusta e democratica, con fini strumentali, cioè la salvaguardia dell’organizzazione ormai divenuta fine a se stessa.
In conclusione, per Michels, la ragione ultima alla base dell’inevitabile fallimento di ogni disegno democratico risiede in quella grave contraddizione in forza della quale, per essere concretamente perseguito, esso richiede la costruzione di un’organizzazione sufficientemente vasta che, non potendo sopravvivere senza affidare a una minoranza di competenti l’elaborazione di una linea di condotta unitaria, finisce inesorabilmente per riprodurre al proprio interno una condizione di diseguaglianza. È questo, in sostanza, il significato della ‘legge ferrea dell’oligarchia’.
Proletariat und Bourgeoisie in der sozialistischen Bewegung Italiens. Studien zu einer Klassen- und Berufsanalyse des Sozialismus in Italien, «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», 1905, 1, pp. 347-416, 1906, 1, pp. 80-125, 2, pp. 424-66, e 3, pp. 664-720 (trad. it., riveduta e ampliata dall’autore, Il proletariato e la borghesia nel movimento socialista italiano: saggio di scienza sociografico-politica, Torino 1908).
Historisch-kritische Einführung in die Geschichte des Marxismus in Italien, «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», 1907, 1, pp. 189-258 (trad. it., riveduta e ampliata dall’autore, Storia del marxismo in Italia, Roma 1909).
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