SANSEVERINO D’ARAGONA, Roberto.
– Figlio di Elisa, sorella del condottiero Francesco Sforza, e di Leonetto, conte di Caiazzo, nacque nel Regno di Napoli nel 1418.
Raggiunta l’età adulta, fu avviato alla carriera militare sotto gli ordini dello zio materno, con il quale combatté anche contro gli aragonesi, perdendo dunque i feudi regnicoli. Tra il 1447 e il 1448, servì ancora come capitano Francesco Sforza, ingaggiato dal governo repubblicano di Milano nel corso della guerra contro i veneziani. Lo seguì poi nella conquista della stessa Milano (1450), di cui lo zio, sceso a patti con Venezia e sostenuto da una rivolta popolare, decise di insignorirsi. Al fianco di altri importanti capitani, fra cui Bartolomeo Colleoni, prese dunque parte, a partire dal 1452, alla successiva riapertura delle ostilità con la Serenissima, e fu dislocato nel Bresciano. Successivamente, prima della stipula della pace di Lodi (aprile del 1454), fu invece impiegato nel recupero di alcuni territori che erano stati occupati dal duca di Savoia.
A questa data, l’autorità e il prestigio di Sanseverino erano ampiamente consolidati: nell’ambito della riorganizzazione militare voluta nel 1453 da Sforza, gli fu infatti affidato il comando del primo colonnello, costituito da uomini d’arme veterani e dalla famiglia ducale. Nell’ottobre dell’anno successivo, inoltre, la sua compagnia, acquartierata nel Cremonese, contava un numero considerevole di uomini d’arme, fra i maggiori dell’esercito sforzesco. Non a caso nel 1455, quando il condottiero Giacomo Piccinino, congedatosi da Venezia, si spostò in Toscana cercando di sfruttare le instabilità locali per conquistare una signoria territoriale, il duca di Milano, nell’esigenza di inviargli contro le sue migliori compagnie a difesa degli equilibri della Lega, scelse quella di Sanseverino. La campagna, che più che dall’aspetto militare fu condizionata dalle fitte trattative diplomatiche fra tutti gli Stati peninsulari, non fu però priva di successi sul campo, i quali contribuirono ad amplificare la fama del condottiero.
Nel luglio del 1457, giudicando il momento propizio, Sanseverino si recò nuovamente nel Regno di Napoli con lo scopo di riottenere i feudi paterni confiscatigli da re Alfonso d’Aragona; a Milano, d’altro canto, tardavano le elargizioni in termini di possedimenti, così come, a causa del compromesso stato delle finanze sforzesche, i pagamenti ordinari della sua condotta. Riuscì a farsi consegnare, dall’omonimo conte di Sanseverino, Corleto Monforte e casali, ma non la contea di Caiazzo, che il sovrano aveva intanto concesso all’amante Lucrezia d’Alagno. Inoltre, il suo breve soggiorno nel Regno fu funestato dal sopraggiungere di una febbre terzana, che lo condusse quasi in fin di vita. Un voto espresso in questa circostanza fu con ogni probabilità all’origine del suo celebre pellegrinaggio in Terrasanta, nel 1458.
Salpato in maggio da Venezia, costeggiò la Dalmazia, navigò lungo le coste albanesi fino a Durazzo, e da qui giunse a Rodi, degnamente accolto. Dopo un breve soggiorno, proseguì il viaggio, fece tappa a Cipro e sbarcò infine in Terrasanta. Qui toccò diversi luoghi santi, tra cui Gerusalemme, e poi si recò al Cairo, dove rese omaggio al sultano. Tornato a Gerusalemme, a metà ottobre intraprese il difficile viaggio di ritorno in Italia, che terminò nuovamente a Venezia, nel gennaio del 1459.
A Milano, intanto, il duca, allarmato per il precedente soggiorno napoletano del condottiero, si era deciso a concedergli, nel 1458, l’investitura di Colorno, nel contado di Parma, e di Pontecurone presso Tortona. Tuttavia, Sanseverino non cessava di agognare la totale restituzione dei feudi regnicoli, e a questo scopo aveva premuto sull’ambasciatore sforzesco a Napoli anche nel corso del suo pellegrinaggio. L’occasione si presentò ben presto con lo scoppio nel Regno della guerra di successione, a seguito della morte di re Alfonso.
La sollevazione di alcuni grandi baroni napoletani e la minaccia, poi concretizzatasi, di un’invasione (da Genova) da parte del figlio del pretendente al trono angioino, Giovanni, misero in grave difficoltà il nuovo re di Napoli, Ferrante. Come suo principale alleato, il duca di Milano intervenne quindi tempestivamente in aiuto dell’aragonese. Le prime truppe, comandate da Alessandro Sforza e Federico da Montefeltro, furono inviate a fermare l’avanzata di Giacomo Piccinino, ma non riuscirono a impedire che il condottiero, al soldo degli Angioini, penetrasse nel Regno. Inoltre, il 20 luglio 1460, gli sforzeschi subirono una rotta a San Flaviano, che seguiva la dura sconfitta del re di Napoli nella battaglia di Sarno (7 luglio).
A questo punto, Sforza decise dunque di mandare in soccorso del sovrano Sanseverino, con la sua rinomata compagnia di fanti e cavalieri. Oltre a offrire un sostanzioso aiuto militare, egli avrebbe anche svolto la funzione di mediatore diplomatico tra Ferrante e i baroni ribelli esponenti della casa Sanseverino, suoi parenti. Il condottiero giunse a Napoli a inizio novembre, dopo aver compiuto diverse azioni militari in difesa delle terre pontificie, e ben presto contribuì a far tornare alla fedeltà del re il potente conte Roberto di Sanseverino. Conseguì, però, anche diversi successi sul campo di battaglia, combattendo – fra il 1461 e il 1463 – in Calabria, nel Salernitano e in Puglia, dove partecipò fra l’altro alla risolutiva battaglia di Troia (agosto del 1462). Dal canto suo, re Ferrante, nonostante la diffidenza nei confronti dei suoi progetti, aveva provveduto a ricompensarlo opportunamente: al principio del maggio del 1461, gli aveva infatti conferito le insegne di casa d’Aragona e poco dopo la contea di Caiazzo, tolta alla ribelle Lucrezia d’Alagno (maggio del 1461).
Alla fine della guerra, i feudi del conte erano, oltre Caiazzo, le terre in Principato di Albanella, Corleto Monforte e casali (tra cui Roscigno), Felitto, Serre (presso Eboli) e probabilmente Campora. Non riuscì invece a ottenere San Pietro al Tanagro, che pure gli era stato promesso da re Alfonso nel 1457.
Nonostante le acquisizioni territoriali, il condottiero, conscio dell’autorità su cui ormai poteva contare e contraddistinto da un carattere orgoglioso e caparbio, mirava però a un radicamento ancora maggiore nel Regno, con l’intento di svincolarsi da Sforza: nel 1463, dunque, giunse ad avanzare la richiesta di nomina a gran connestabile, ufficio che lo avrebbe posto a capo di tutto l’esercito regnicolo, provocando il risentimento del duca di Milano.
Nel marzo del 1463, Francesco Sforza morì e gli successe il figlio Galeazzo Maria, sotto il quale, lungo i tre anni successivi, si accrebbe il malcontento del condottiero. Come altri capitani sforzeschi, egli chiedeva un adeguato rinnovo della condotta, ulteriori concessioni feudali e un alto ruolo di comando; mentre il duca era a corto di risorse, tanto che nel febbraio del 1466 giunse a esigere dai feudatari – tra i quali rientrava anche Sanseverino – un prestito forzoso. Inoltre, il carattere sanguigno di Sanseverino, a cui stava stretto il ruolo di consigliere e capitano, lo poneva in contrasto con Sforza: sono documentate non raramente le sfuriate del condottiero, lasciato fuori dalle stanze della Corte dell’Arengo, dove si riunivano i più stretti consiglieri e i capi militari per deliberare sull’esercito.
Sanseverino era al contempo in rotta anche con il re di Napoli, dal quale non si riteneva ben remunerato e che giudicava «inimicho de li soy pari et de quel che esso appetisse, che è la grandeza nel mestiere suo» (Lorenzo de’ Medici, Lettere, a cura di N. Rubinstein, I, 1977, 39 n.). Ferrante d’Aragona e Galeazzo Maria Sforza lo spinsero allora, per eludere le sue richieste e tuttavia farlo restare nell’alveo della Lega particolare, verso l’alleata Repubblica di Firenze. Dopo molti mesi di trattative, nel marzo del 1467, egli ottenne di fatto la condotta fiorentina, con la prestigiosa nomina a capitano generale.
Con questa carica, poco dopo fu in Romagna contro Bartolomeo Colleoni, che, svincolato da Venezia, alla testa del suo potente esercito tentava di penetrare in Toscana e conquistarvi uno Stato. Sanseverino partecipò all’unico scontro di grandi proporzioni del conflitto, la battaglia della Riccardina, avvenuta il 25 luglio 1467 sul fiume Idice, nei pressi di Bologna.
La condotta con la Repubblica scadeva nel marzo del 1470 e la sua conferma incontrò grande opposizione da parte dei fiorentini. Fin da gennaio i signori lo avevano autorizzato a trattare per farsi assoldare altrove, salvo poi dirsi disposti a offrire per la sua riconferma la metà dell’ingaggio che aveva prima. Dal canto suo, il condottiero si lamentava delle pretese dei fiorentini, che tendevano a imporre uno stretto controllo sulla sua compagnia, in quanto sospettavano di lui.
E a buon diritto: l’anno precedente erano stati, ad esempio, scoperti suoi contatti segreti con Ercole d’Este, al servizio di Venezia. Egli stesso si vantava dopotutto di aver ricevuto altri partiti, riferendosi all’offerta fattagli dai veneziani per mezzo di Bartolomeo Colleoni, che prevedeva il matrimonio di un figlio di Roberto con la figlia del condottiero, e la sua nomina, dopo la morte di quello, a capitano della Serenissima.
A ogni modo, nonostante le difficoltà, alla fine il contratto della condotta fiorentina, di durata annuale, fu stipulato (12 aprile 1470). Già dall’inizio dell’anno, tuttavia, il duca di Milano aveva avviato pratiche per ricondurre Sanseverino al suo servizio: da un lato egli temeva che il condottiero passasse effettivamente al soldo di Venezia, con la quale si preparava a scontrarsi, dall’altro aveva bisogno di un esperto capitano da tenere costantemente a guardia del Bolognese contro le mire espansionistiche veneziane e del papa. A tal proposito, Sforza inviò a Firenze l’ambasciatore Gerardo Cerruti, con le prime offerte. La condotta con Milano, della durata di quattro anni, fu infine firmata il 31 gennaio 1471.
L’ingaggio milanese vanificò probabilmente i progetti di conquista di Sanseverino, che allo scadere della ferma con Firenze aveva in mente di rivolgersi contro il Senese, sull’esempio della spedizione di Giacomo Piccinino, inserendosi nelle controversie di confine tra la Repubblica di Siena e quella fiorentina.
Tornato agli ordini del duca, fu dislocato con la sua compagnia, composta da 600 cavalli, tra Bologna, Cotignola e Imola, in un territorio divenuto ormai una sorta di estensione militare del dominio di Milano; una dislocazione, questa, resa ancor più necessaria dalla crisi politica a Imola (marzo del 1471), che diventerà poi protettorato sforzesco, e da tensioni di confine tra Bologna e il duca di Ferrara. La presenza a Bologna di Sanseverino, condottiero di rango e imparentato con gli Sforza, si configurava di fatto come «una sorta di luogotenenza milanese» (Covini, in Condottieri e uomini d’arme..., 2001, p. 210) e non fu priva di problemi: rivendicando ovviamente uno status da grande capitano, pose condizioni tali che la città non volle o non poté onorarle del tutto. Il condottiero, inoltre, teneva aperti personali canali diplomatici, intesseva relazioni con le fazioni cittadine e ostentava il proprio potere, ad esempio con l’acquisto di una residenza troppo vicina al palazzo pubblico (1474), in maniera non consona agli equilibri repubblicani, generando sospetti.
A ogni modo, il suo soggiorno a Bologna si configurò ben presto come una sorta di esilio. Nel gennaio del 1474, Sforza gli assegnò Castelnuovo di Tortona, risolvendo così una controversia che si trascinava sin dalle prime trattative del 1470; ma nonostante ripetuti aumenti di stipendio e concessioni feudali, la nuova condotta di Sanseverino presso Galeazzo Maria si rivelò ancor più densa di tensioni. Secondo quanto confessato nel 1477 da Donato de’ Borri (conosciuto come Donato ‘del Conte’, capitano delle fanterie milanesi), il condottiero era stato infatti a capo, assieme a questi, di una delle più pericolose fazioni contrarie al duca, tanto da progettare un complotto ai suoi danni.
Tra il 1473 e il 1475, a fronte del progressivo deteriorarsi dei rapporti con il duca di Milano, Sanseverino mantenne attiva o ampliò la sua rete di contatti e influenze. Si era in primo luogo tenuto in stretto rapporto con Lorenzo de’ Medici, che incontrò a Pisa nel marzo del 1473, alimentando fra l’altro forti sospetti a Siena e a Lucca. A quel tempo, però, la mira principale del condottiero era Imola, di cui voleva insignorirsi con l’appoggio dei Medici: a questi piani è forse legato il matrimonio contratto a Firenze (gennaio del 1475) tra uno dei suoi figli, Gaspare Sanseverino, e Margherita, figlia di Giovan Ludovico Pio da Carpi, imparentato con il signore di Imola Taddeo Manfredi. Nell’estate del 1475, il condottiero chiese direttamente l’ingaggio alla Repubblica, ai cui servizi militavano già due suoi figli, ma Sforza vi si oppose. Frequenti erano intanto anche i contatti con Luigi XI, re di Francia, che nel gennaio del 1474 aveva chiesto al duca di Milano di assoldarlo con un elevatissimo stipendio. Tra il 1474 e il 1475 – stando a quanto vantava lo stesso condottiero – vi furono inoltre le proposte del duca di Borgogna, del re di Napoli e del papa.
L’ultima spedizione militare a cui Sanseverino prese parte per conto del duca di Milano fu svolta in Piemonte, nel 1476. A luglio, Sforza sciolse infatti l’alleanza con la Borgogna e cominciò a radunare truppe sul Sesia, al confine con il Ducato di Savoia, per riaffermare la protezione sforzesca sui domini della reggente Iolanda e del duca Filiberto. La campagna cominciò però solo ai primi di novembre, quando l’esercito sforzesco, sotto la guida del duca stesso e di Sanseverino, passò il fiume, conseguendo diversi successi.
Il 26 dicembre 1476, Galeazzo Maria Sforza, rientrato a Milano, fu però assassinato. Sanseverino, che era ancora in Piemonte, fu richiamato d’urgenza da Bona di Savoia, la vedova, di lì a poco proclamata reggente in nome del giovane erede Giangaleazzo. Immediatamente decise di sfruttare la situazione tentando, nella marcia di ritorno, di entrare con un colpo di mano a Novara e a Pavia, ma dovette desistere. Al rientro in Milano, Sanseverino divenne il punto di riferimento e il portavoce delle frange più estreme dell’aristocrazia milanese, avverse all’indirizzo politico della reggente.
Costei, in continuità con le scelte del marito, aveva confermato il plenipotenziario Cicco Simonetta come segretario generale e optato per mantenere un ristretto comitato di consiglieri nei più importanti affari politici. Soprattutto, il malcontento era rivolto contro Simonetta, additato come promotore dell’inviso accentramento di potere e sul quale Sanseverino stesso si esprimeva in questi termini innanzi all’ambasciatore mantovano: «non si può comportare più questa sua insolentia di voler essere luy solo quello che governi; lui s’è ristretto con tre solamente, e vogliono esser quelli che governino questo stato e trattare gli altri per bestie» (Pellegrini, 1989, p. 247 n.).
Con il ritorno a Milano dei fratelli del defunto duca, Ludovico il Moro e Sforza Maria Sforza, relegati in esilio Oltralpe, Sanseverino e gli altri avversari del segretario trovarono a loro volta un referente. Nel marzo del 1477, l’ombra del condottiero e dei fratelli Sforza suoi alleati fu pertanto dietro due significativi episodi che scossero il Ducato di Milano. In primo luogo, la sollevazione dei da Correggio di Parma – a cui Sanseverino aderiva, avendo sposato appunto Giovanna da Correggio – contro il predominio dei Rossi, che avrebbe dovuto essere un primo passo verso il tentativo di insignorirsi della città, base di partenza per una futura offensiva contro Milano; e soprattutto la sommossa antisforzesca a Genova. A domarla furono inviati, alla testa dell’esercito ducale, proprio Sanseverino e Ludovico il Moro, che dal successo della missione – ad aprile gli sforzeschi ebbero accesso in città, a capo della quale posero Prospero Adorno – trassero grande prestigio, utile a dare nuova linfa alle macchinazioni contro il governo milanese. I piani del condottiero e degli Sforza – stando alle rivelazioni di Carlo Fieschi, Roberto avrebbe ottenuto la devoluzione di Parma a seguito dell’eliminazione del segretario – furono però scoperti da Simonetta, che a maggio fece arrestare e confessare il congiurato Donato ‘del Conte’. Raccolti i loro armati, tentarono dunque un rapido colpo di mano nella capitale, che tuttavia fallì a causa della mancata adesione della fazione ghibellina.
Milano rimase perciò sotto il saldo controllo della reggente e Sanseverino optò per la fuga, mentre Ludovico e Sforza Maria si orientarono per la riconciliazione, ottenendo l’esilio. Additato come fuorilegge, inseguito, Sanseverino subì la confisca dei beni e l’assoggettamento della sua compagnia ai diretti stipendi ducali, trovando infine rifugio ad Asti, da dove raggiunse poi, accolto onorevolmente, la corte di re Luigi XI (agosto del 1477).
Sanseverino gli propose di porsi alla guida di una futura invasione del Ducato di Milano, ma il re – impegnato nelle guerre contro Massimiliano d’Asburgo e Ferdinando il Cattolico – mirava a regolare per ora le questioni italiane con la diplomazia e lo tenne presso di sé soltanto con vaghe promesse, usandolo come pedina nelle trattative con i duchi Sforza. Questi, dal canto loro, respinsero però qualsiasi tipo di compromesso che riguardasse il suo reintegro.
L’occasione di agire a danno di Milano, grazie alla sua vasta rete di contatti, si presentò un anno dopo, nel giugno del 1478, quando il governatore di Genova, Prospero Adorno, entrò in rotta con gli Sforza e, dopo essere stato deposto, con l’appoggio del re di Napoli fece sollevare la città ponendovisi nuovamente a capo con il titolo di doge. In suo aiuto giunsero i Fregoso, su galee napoletane, e fu chiamato Sanseverino, che entrò in Genova (16 luglio) come capitano generale (29 luglio). All’esercito ducale inviato in Liguria il condottiero inflisse una dura sconfitta sul campo, accelerando la crisi diplomatico-militare della reggenza di Bona di Savoia e favorendo l’aperta ribellione di Ludovico e Sforza Maria Sforza, che, nel gennaio del 1479, ruppero l’esilio e si congiunsero alle sue forze in Lunigiana, con l’obiettivo di invadere la Lombardia. Mentre i tre si accingevano a sferrare l’attacco, dichiarati ufficialmente ribelli, avvenne però l’improvvisa morte del duca di Bari, Sforza Maria (29 luglio): Ludovico il Moro assunse dunque il comando dell’impresa, prima prendendo Tortona, poi trattando con la duchessa fino a ottenere la nomina a luogotenente del Ducato e, su pressione di Sanseverino, accampato fuori Milano, l’arresto di Cicco Simonetta (9 settembre).
Ben presto il condottiero entrò tuttavia in contrasto anche con il Moro. Quest’ultimo mostrò infatti quasi subito tendenze autocratiche emarginando i vecchi alleati e, nell’autunno del 1480, diede un’ulteriore stretta al vertice del potere, confinando Bona di Savoia e ponendosi come tutore del giovane duca a capo di una sorta di ‘triumvirato’ (B. Corio, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, II, 1978, p. 1430), dal quale Sanseverino fu estromesso. Frustrato nelle sue ambizioni, egli lasciò dunque Milano, sottraendosi al servizio, e si recò nel suo feudo di Castelnuovo di Tortona.
Per esortarlo a tornare si recarono a fargli visita, come mediatori, oratori del re di Napoli e di Firenze, ma Sanseverino dichiarò di non fidarsi e cominciò nuovamente a tesser trame con altri sodali ai quali era inviso il governo ducale, che si vide quindi costretto a reagire con la forza: all’inizio del 1482, fu inviato contro il condottiero – che aveva rifiutato l’ultimatum del duca ed era stato dichiarato ribelle – un nutrito contingente, il quale riuscì a spezzare la rete di sostegno su cui contava.
Temendo l’isolamento, egli scelse allora di lasciare l’impresa e, a febbraio, con un esiguo numero dei suoi veterani, si recò in Liguria, da dove salpò poi per Siena. Da qui raggiunse infine Venezia, che in vista dello scoppio di una guerra contro Ferrara e i suoi alleati – Napoli, Firenze e Milano – aveva deciso di accrescere considerevolmente il proprio contingente e lo assunse a condotta (3 aprile), con la carica di luogotenente generale. A Sanseverino fu lasciata la scelta sulla strategia da seguire nell’attacco al Ferrarese, mentre Roberto Malatesta, capitano generale, doveva guidare le truppe in Romagna. Mosso dalla speranza di riacquisire i feudi confiscatigli da Sforza, «in cussì breve tempo che ad altri parerà maraviglia ineudita» (Archivio di Stato di Palermo, Famiglie, Rossi, 1470-99, citato in L. de’ Medici, Lettere, cit., VII, 1998, p. 4 n.), a inizio maggio attraversò rapidamente il Po, cogliendo di sorpresa Ercole d’Este, e cinse d’assedio Ficarolo. Questa fu però difesa alacremente e cadde soltanto il 30 giugno, dopo oltre un mese. La battuta d’arresto e la presenza delle truppe di Federico da Montefeltro costrinsero Sanseverino a puntare su Rovigo (metà luglio); ma ormai la malaria si diffondeva fra i suoi uomini ed egli stesso si era gravemente ammalato, facendo perdere vigore alla campagna veneziana. Alcuni giorni dopo la caduta della città (14 agosto), fu infatti costretto a ritirarsi in convalescenza a Padova, dove restò per alcuni mesi, fin quando, ormai del tutto ristabilito, cominciò una nuova offensiva, spingendosi sino a Ferrara. Privo di rinforzi, giunto alle porte della capitale estense, fu però costretto a ritirarsi. Alla fine del 1482, la situazione peggiorò, con il passaggio di papa Sisto IV dalla parte della Lega antiveneziana.
A partire dalla primavera del 1483, si tennero anche trattative clandestine fra i rappresentanti di alcuni figli di Sanseverino (Giovan Francesco, Galeazzo e Gaspare) e quelli della Lega, per esplorare la possibilità di un passaggio del padre nel campo avversario: il condottiero, sembra, avrebbe dovuto disarmare le truppe veneziane e prendere alcune città per conto degli alleati. Non è chiaro quanto egli abbia effettivamente tenuto le fila di queste trame, ma è probabile che mantenesse uno stretto controllo sulla famiglia e valutasse ogni opportunità, puntando sul doppio gioco.
Giovan Francesco, Galeazzo e Gaspare, insieme ad Antonio Maria, erano figli della prima moglie di Roberto, Giovanna da Correggio. Sanseverino aveva in seguito sposato anche Elisabetta da Montefeltro, illegittima del duca di Urbino, e la senese Lucrezia Malavolti (1473), a sostegno delle sue mire sulla città toscana.
Tornato in Lombardia, a metà luglio diede tuttavia inizio a una nuova azione offensiva, attraversando l’Adda e minacciando Milano, alla cui difesa si pose l’esercito guidato da Giangiacomo Trivulzio e dal duca di Calabria. La guerra terminò soltanto dopo le lunghe e complesse trattative diplomatiche che portarono un anno dopo alla pace di Bagnolo (agosto del 1484). I negoziati per fissare le condizioni della fine del conflitto furono avviati e portati a termine da due condottieri: Giangiacomo Trivulzio, per conto di Milano, e naturalmente Sanseverino, che intervenne sia come plenipotenziario in nome della Repubblica di Venezia – non senza contrasti con i provveditori – sia a difesa delle proprie ambizioni. Per sé ottenne infine una grande condotta come capitano generale della Lega (10 agosto), nonché l’agognata restituzione dei suoi feudi nel Ducato milanese e di alcune terre nel Regno di Napoli. Al figlio Giovan Francesco, invece, restò la contea di Caiazzo, che aveva ottenuto passando allo schieramento avversario durante la guerra.
Considerato enormemente accresciuto in potenza, all’apice della sua reputazione e influenza politica, Sanseverino aspirava però ancora alla conquista di uno spazio autonomo, uno Stato, che cercò in diverse direzioni. Tra la fine del 1484 e la prima metà del 1485, valutò la possibilità di farsi signore di Siena, con l’aiuto dei fuoriusciti, o di Bologna, e vi furono anche mire sul Marchesato di Monferrato; ma tutti i piani, ora appoggiati da Ludovico Sforza, ora osteggiati da questi e dagli altri membri della Lega, si disgregarono sul nascere. Come già aveva dimostrato il caso di Bartolomeo Colleoni, la situazione era cambiata, rispetto ai tempi delle vittoriose imprese di Francesco Sforza, per i condottieri che aspiravano a uno Stato, la cui iniziativa, pur basata sulla forza delle armi e su un’estesa rete di relazioni internazionali, non poteva più forzare il saldo meccanismo politico-diplomatico e militare a disposizione dei maggiori Stati italiani, che non lasciava margine d’azione all’ascesa di una nuova potenza.
Nel luglio del 1485, il Moro, che temeva Sanseverino e voleva liberarsi dal peso della sua condotta, riuscì inoltre a spingerlo con l’inganno a cospirare nuovamente contro di lui, e, dichiaratolo ribelle, procedette alla confisca di tutti i suoi beni nel Ducato. Questi si rivolse dunque ancora una volta contro il Regno di Napoli, dove i più grandi baroni, tra cui i Sanseverino suoi parenti, con i quali era in stretto contatto, stavano per ribellarsi apertamente con l’appoggio del nuovo papa Innocenzo VIII. Ottenuto il permesso da Venezia di passare al servizio del pontefice, fu da questi nominato gonfaloniere della Chiesa (novembre) e tra la fine del 1485 e l’inizio del 1486, a rivolta ormai scoppiata, avviò una campagna nel Lazio contro i feudi degli Orsini, alleati del re di Napoli. Intanto, per depistare il nemico, tenne aperti anche i canali diplomatici, pretendendo da re Ferrante, oltre a una condotta, il principato di Rossano, che sosteneva essergli stato promesso durante le trattative di pace a Bagnolo, e di Manfredonia. Il 7 maggio, si scontrò poi con le forze della Lega comandate dal duca di Calabria a Montorio, risultando sconfitto, anche se in modo non decisivo; già due giorni dopo la battaglia, dunque, si offrì di fare da mediatore fra la Lega e il papa, che intanto intavolava parallelamente trattative di pace. Questa giunse tre mesi dopo (11 agosto), ribaltando gli esiti di Bagnolo, a danno di Sanseverino, il quale – considerato fonte di imbarazzo tra i firmatari dell’accordo e di fatto escluso dalle capitolazioni – fu costretto a lasciare immediatamente lo Stato della Chiesa.
Dopo aver cercato inutilmente un ingaggio presso il duca di Calabria, tentato di rifugiarsi nel territorio di Bologna e sperato nell’aiuto del duca di Lorena, il condottiero congedò la maggior parte del suo esercito e proseguì, inseguito dalle truppe della Lega, verso Venezia, la quale, considerate le dimensioni ridotte e ormai controllabili del suo seguito, decise di accettarlo: la Repubblica, dopotutto, fu tra gli Stati italiani quella che più efficacemente riuscì ad assimilare per i propri interessi l’ambigua categoria dei condottieri.
Ormai prossimo ai settant’anni terminò la sua carriera al soldo della Serenissima, per la quale nel 1487, con la carica di luogotenente generale, fu inviato a combattere contro Sigismondo d’Austria, il cui esercito, composto da fanti svizzeri e tedeschi, era calato su Rovereto (aprile). Ripresa la città nel mese di luglio, egli cominciò una difficile marcia verso Trento, difesa dalla fortezza di Castel Pietra, e il 10 agosto, guadato l’Adige, si scontrò in campo aperto con i nemici. Dopo un esordio favorevole, il contrattacco della fanteria tedesca portò tuttavia il panico tra gli uomini d’arme di Sanseverino, i quali, ormai fuori controllo, andarono a gettarsi nel fiume, presso Calliano. Nella rotta, il condottiero fu travolto dai suoi e cadde anch’egli nell’Adige. Il suo cadavere fu riconosciuto e raccolto soltanto il giorno successivo. Venne sepolto onorevolmente nel duomo di Trento e poi, anni dopo, traslato nella sua cappella all’interno della chiesa di S. Francesco, a Milano.
Fonti e Bibl.: M. Sanuto, Commentarii della guerra di Ferrara..., Venezia 1824, pp. 7 s., 17, 23 e passim; Regis Ferdinandi primi istructionum liber, a cura di L. Volpicella, Napoli 1916, pp. 433-436 e passim; G. Simonetta, Rerum gestarum Francisci Sfortiae mediolanensium ducis commentarii, a cura di G. Soranzo, in RIS2, XXI, 2, Bologna 1932-1959, p. X e passim; L. de’ Medici, Lettere, I-X, a cura di N. Rubinstein, Firenze 1977-2003, ad ind; B. Corio, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, II, Torino 1978, passim; La guerra veneto-tirolese del 1487 in Vallagarina. Fonti narrative del XV e XVI secolo, a cura di P. Chiusole, Calliano 1987, p. 37 e passim; Il carteggio di Gerardo Cerruti, oratore sforzesco a Bologna (1470-1474), a cura di T. Duranti, I-II, Bologna 2007, ad indicem.
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