TAGLIACOZZO, Roberto
– Nacque a Roma il 23 marzo 1928 da Mario e da Virginia Camiz, primo di tre figli.
La sua vita fu segnata fin dall’infanzia dai Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista del 5 settembre 1938 (r.d.l. n. 1390) che decretarono l’espulsione degli allievi, insegnanti e personale di ‘razza ebraica’, da tutte le scuole italiane di ogni ordine e grado. Grazie all’opera del Comitato dei padri di famiglia e alla comunità ebraica romana fu istituita la scuola ebraica di Villa Celimontana, dove Tagliacozzo frequentò il ginnasio fino al 1943. In quell’anno la famiglia fu costretta dall’occupazione nazista a lasciare Roma e rifugiarsi prima a Magliano Sabina in provincia di Rieti, poi peregrinando fra vari istituti religiosi di Roma, sotto il falso cognome Leonardi. Furono infine costretti a pagare un ulteriore prezzo: Roberto e il fratello furono nascosti nell’istituto don Bosco dei salesiani, sulla via Tuscolana, lontani dai genitori e dalla sorella.
Il vivere nell’incertezza e nella paura ebbe un impatto considerevole sulla vita e sul pensiero di Tagliacozzo. Gli anni segnati dalla storia alimentarono in lui una capacità di osservazione del mondo e di ascolto verso quegli stati più primitivi della mente, quegli aspetti più bisognosi dell’uomo, quel rispetto per la fragilità umana, quel desiderio di democrazia, di libertà e di giustizia che furono il fondamento del suo pensiero psicoanalitico.
Tornato al suo liceo Terenzio Mamiani in Roma, Tagliacozzo conseguì la licenza liceale nel 1946. Nel luglio del 1953 si laureò in medicina e chirurgia presso l’Università di Roma La Sapienza dove conseguì, nel luglio del 1957, il diploma di perfezionamento in neurologia e psichiatria. Il suo impegno e i suoi interrogativi, sollecitati anche dalla vicinanza con pazienti gravemente disturbati del reparto di neurologia e psichiatria, lo portarono a richiedere un’analisi personale che iniziò nel 1955 con Nicola Perrotti e nel maggio del 1958 si trasformò in analisi didattica.
Nel 1956 si era sposato con Dina Nanni da cui ebbe tre figlie: Laura, Susanna e Livia.
Alla fine degli anni Cinquanta la psicoanalisi italiana non era ancora conosciuta, sicuramente era fortemente osteggiata negli ambienti accademici soprattutto crociani, ma anche dalla Chiesa e dal Partito comunista che mal digerirono e decisamente fraintesero la messa in crisi da parte di Sigmund Freud del primato della ragione a favore della forza degli istinti. Nel 1964, con il successo editoriale del romanzo il Male oscuro di Giuseppe Berto, la psicoanalisi incontrò un pubblico ben più vasto, interessato ai problemi della vita e desideroso di modernità. Molti giovani psichiatri, sofferenti dell’esclusivo approccio organicistico, si avvicinarono alla psicoanalisi mossi proprio dalla necessità di aprirsi a nuovi orizzonti e in cerca di strumenti più adeguati alle problematiche dei disturbi di personalità. Tagliacozzo divenne membro ordinario della Società psicoanalitica italiana (SPI) nel 1965 e analista didatta nel 1969.
L’Istituto di psicoanalisi di Roma, fondato nel 1952 da Nicola Perrotti, era diventato il crocevia di molti autori stranieri, all’inizio principalmente francesi; si aprì poi al mondo anglosassone, grazie anche al ritorno da Londra della dottoressa Adda Corti. Il pensiero di Donald Winnicott, di Melanie Klein e di Wilfred Bion, insieme al pensiero di Heinz Kohut, ebbero in Tagliacozzo un attento studioso e un fine interprete della metapsicologia del Sé. I suoi lavori sulla depersonalizzazione che trovarono la sua più originale espressione in La depersonalizzazione: crisi della rappresentazione del Sé nella realtà esterna (1976, in R. Tagliacozzo, Ascoltare il dolore..., a cura di N. Bonanome - L. Tagliacozzo, 2005, pp. 54-62), procedevano per rielaborazioni e modificazioni di prevalenze.
L’interrogarsi sui vari livelli di sofferenza, sui modi in cui l’analista registrava e avvicinava il dolore spesso assordante perché muto, richiese un’attenta ricerca delle metodologie e dei limiti delle tecniche fino ad allora usate. Tagliacozzo mise quindi in discussione quel vertice così dominante all’epoca, di cogliere soprattutto i meccanismi difensivi in gioco nell’organizzazione del mondo interno, per fare luce su quel particolare alone di storicità esistenziale ‘il sentimento di storicità’ e il ‘vedersi del soggetto’. Pose la depersonalizzazione in una collocazione più prossima alla posizione depressiva che a quella schizoparanoide, e da qui derivarono molti cambiamenti non solo della tecnica ma soprattutto nell’assetto interno dell’analista, che così assumeva un vertice più propositivo e meno assertivo.
La passione per la ricerca e per le ipotesi teorico-cliniche era sostenuta dalla ricchezza somma per lui, del ‘pensare insieme’, e in questo trovò un prezioso e reciproco alimento nel lavorare, negli anni Settanta, insieme a Claudio Neri, a Lydia Pallier, a Giancarlo Petacchi e a Giulio Cesare Soavi. Il sodalizio li portò ad affrontare l’area protomentale della fusionalità, dove avvengono esperienze precocissime e decisive per il futuro Sé, uno spazio per esistere nel mondo relazionale e affettivo, sgombrata dallo stigma decisamente patologico e patologizzante. Il lungo percorso di lavoro insieme fu raccolto nel volume Fusionalità. Scritti di psicoanalisi clinica (Roma, 1990). L’attenzione ai difetti della relazione primaria e alla possibilità di aiutare il paziente a riconoscere le proprie risorse accanto alle angosce più primitive, condussero l’autore a una disamina del legame tra fusionalità patologica, angosce di non esistenza e fantasmi di mostruosità, per creare le condizioni per accogliere e reintegrare in un mondo interno bonificato ‘il bambino rifiutato’ (Il bambino rifiutato: falso Sé, mantenimento e rottura; angoscia del vero Sé, 1990, in R. Tagliacozzo, Ascoltare il dolore..., cit., 2005, pp. 72-80, con una versione inglese The rejected infant: reflections on depersonalisation, e pubblicato a cura di F. Borgogno - A. Lucchetti - L. Marino Coe, in Reading Italian psychoanalysis, Londra 2016, pp. 475-483).
La ‘pensabilità’ fu un altro caposaldo della sua ricerca attenta a quei processi interni necessari per la costruzione di uno spazio analitico soprattutto nel delicato e complesso iter formativo dell’analisi didattica e della supervisione. Il modello di una psicoanalisi decodificante, interprete di un inconscio rimosso, era stato in gran parte sostituito da un modello costruttivo di un ‘apparato per pensare’. Tagliacozzo, consapevole dei limiti dello strumento e della necessità di un percorso trasformativo, non scolastico, non imitativo, mise in guardia dai rischi di una situazione di transfert perversa e ingannevole (Psicoanalisi come droga: note sul progetto e sulla terminabilità dell’analisi, 1980, in R. Tagliacozzo, Ascoltare il dolore..., cit., pp. 149-157), come quella fortemente idealizzata, sostenendo invece la responsabilità dell’analista nella ricerca di un progetto vitale dotato di senso e garante di una tolleranza, espressione di fiducia, verso gli aspetti più fragili e per ciò stesso più a rischio di disumanizzazioni (Considerazioni metapsicologiche sui concetti di tolleranza e intolleranza, 1995, ibid., pp. 232-236).
L’impegno e la passione per la psicoanalisi intesa come un modo di pensare i fatti umani e i suoi limiti per poi operare nella realtà, portarono Tagliacozzo non solo a ricoprire ruoli e funzioni importanti dentro la Società italiana di psicoanalisi (come segretario della Commissione nazionale del training, 1982-90, poi anche presidente della SPI, 1990-92, direttore della rivista Psiche, 1995-97, per citarne solo alcuni), ma anche come supervisore nel Dipartimento di salute mentale dell’Azienda sanitaria locale Roma B, VII circoscrizione (1990-96). Il suo sforzo era quello di colmare, in prima persona, lo ‘iato’ fra essere psicoanalista nel privato e quello di esserlo nel pubblico, dove ancora di più, secondo Tagliacozzo, era necessario da parte di tutti vigilare sulle emozioni in gioco e dove l’‘accoglimento’ come funzione prima del ‘prendersi cura’ non avrebbe riguardato tanto una modalità ‘professionalizzata’ quanto un coinvolgimento di tutta la persona.
Morì a Marino (Roma) il 19 luglio 1997 a causa di un’embolia postoperatoria.
Opere. Dei quaranta articoli pubblicati in varie riviste scientifiche, ventitré dei suoi scritti, oltre due inediti, sono raccolti in R. Tagliacozzo, Ascoltare il dolore. Scritti, a cura di N. Bonanome - L. Tagliacozzo, Roma 2005 (con una bibliografia completa delle opere e degli interventi a convegni e congressi). In Metaxu, 1993, n. 16, pp. 94-99, è pubblicata un’intervista a cura di Stefania Marinelli.
Fonti e Bibl.: L’archivio del Centro di psicoanalisi romano e l’archivio della SPI conservano copiosa documentazione relativa a Tagliacozzo. La voce è stata redatta inoltre sulla base di carte personali in possesso dell’autrice.
Per la vita si vedano: M. Tagliacozzo, Ricordi della campagna razziale 1938-1944, diario inedito conservato presso l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, vincitore dello stesso premio nel 1997 e pubblicato, in forma ridotta, a Milano nel 1998 con il titolo Metà della vita. Ricordi della campagna razziale 1938-1944. Fonti orali sono stati la sorella Franca e il fratello Guido. Necrologi sono stati pubblicati su Il Manifesto del 23 luglio 1997, a cura di D. Fasoli; su La Repubblica, il 25 luglio 1997, a cura di G.C. Soavi; su Il Messaggero del 25 luglio 1997, a cura di T. Pollini e su Il Diario del 13 agosto 1997 (II, n. 32, pp. 96 s.) nella rubrica Se ne sono andati. Si veda inoltre l’intervista di Tagliacozzo citata in F. Barozzi, I percorsi della sopravvivenza. Salvatori e salvati durante l’occupazione nazista di Roma (8 settembre 1943 - giugno 1944). Gli aiuti agli ebrei romani nella memoria di salvatori e salvati, in La Rassegna mensile di Israel, 1998, vol. 64, n. 1, pp. 95-144 (in partic. p. 97).