TITI, Roberto
– Figlio di Benedetto di Roberto e di Laura Picconi, nacque a Borgo Sansepolcro (città toscana in provincia di Arezzo) il 4 marzo 1551.
I Titi (o Tidi, nella variante popolare) furono un’antica e nobile famiglia; il capostipite, Tito, era imparentato con i Malatesta di Rimini e sposò una Orsini di Roma. L’unione delle due famiglie a seguito di questo matrimonio è rappresentata nello stemma araldico dei Titi, nel quale campeggia la scacchiera dei Maletesta insieme alle rose degli Orsini. I discendenti di Tito Malatesta (detti Fidetiti – cioè ‘figli dei Titi’ – poi solo Titi) si legarono con nobili famiglie del luogo e si distinsero per l’amore verso la cultura e le lettere, risaldando così il loro potere e incrementando il loro prestigio. Governarono Borgo Sansepolcro per lunghi anni, prima attraverso il potere malatestiano, poi, in qualità di signori locali, come gonfalonieri di Giustizia (lo stesso Benedetto, padre di Roberto, lo fu tra il 1567 e il 1575). Il palazzo che fu della famiglia Titi (ma già dal 1684 passato ai Cantagallina) sorge in Sansepolcro, via XX settembre n. 145. Tra i più illustri discendenti vi è Santi di Tito, celebre pittore coevo al nostro. Nonostante il prestigio sociale e il potere politico che la famiglia Titi aveva all’origine e continuò ad avere anche dopo la morte di Roberto, la condizione economica non fu mai florida.
Della prima educazione di Roberto si occuparono i genitori, dai quali ebbe anche un’istruzione basilare di lingua latina. Proseguì gli studi a Bologna, dove si distinse presso i maestri per l’acume intellettuale e la capacità di memorizzazione. La sua formazione, che fu di stampo prettamente umanistico, venne proseguita a Roma e poi a Pisa, dove dal 1570 frequentò il Collegio ducale della Sapienza (istituto fondato vent’anni prima dal granduca Cosimo I per garantire una cultura alta ai giovani di particolare ingegno che non avevano grandi disponibilità economiche). Lì studiò per sei anni lingua latina e greca con Pietro Angeli, filosofia con Girolamo Borri e Francesco Buonamici. Coltivò, pur se non con grande passione, lo studio della legge, disciplina nella quale si laureò il 28 novembre 1576. Fu promosso dottore dai maggiori professori dell’Ateneo pisano (come Giovan Battista Ometi, Pietro Calefato e Bartolomeo Romoli) discutendo con notevole dottrina ed eloquenza brani del diritto pontificio e imperiale.
Dopo la laurea si trasferì a Firenze, dove iniziò la sua vita pubblica. L’ingresso nella vita culturale fiorentina fu patrocinato da Pietro Gherardi e Francesco Muglioni, due letterati suoi compatrioti. In questa prima parte della sua vita Titi si divideva tra la professione legale (che non doveva amare troppo) e le frequentazioni erudite presso la corte e nelle accademie del posto. Gli apprezzamenti non tardarono ad arrivare da parte degli intellettuali fiorentini; fra questi, fu stimato e protetto dal noto umanista Pier Vettori, il quale giunse a raccomandarlo all’imperatore Rodolfo II d’Asburgo attraverso l’intercessione di Giovanni Sambuco (János Zsámbok, Johannes Sambuctus) e Giovanni Cratone (Johannes de Chaffteim), importanti intellettuali della corte imperiale. Nonostante l’esito positivo del patrocinio, Roberto Titi preferì rimanere a Firenze. L’autore stesso confessa che la mancanza di denaro sufficiente per compiere il viaggio (pur potendo contare sull’aiuto finanziario offerto da Muglioni) e il rischio che implicava il vivere soggetto al clima nordico per la sua salute cagionevole furono le principali ragioni del suo rifiuto. A Firenze cominciò a occuparsi di poesia, sia in latino sia in volgare, scrivendo numerosi componimenti di vario genere (molti in lode dei suoi benefattori, primo fra tutti Gherardi) che gli diedero fama di letterato sia in Italia sia all’estero. Parallelamente alla composizione, in questo periodo si occupò anche di studi filologici e critici, curando e commentando opere latine e volgari. La sua attività primaria rimaneva quella forense che, pur se non amata, gli assicurava la sussistenza e una discreta fama anche in questo campo.
In data imprecisata sposò la nobile fiorentina Maria Mancini, dalla quale ebbe numerosi figli.
Fu proprio la sua attività critica a dare avvio alla polemica letteraria con il filologo francese Giuseppe Giusto Scaligero (Joseph-Juste Scaliger). A seguito, infatti, della monumentale ricerca filologico-erudita di Titi pubblicata nel volume Locorum controversorum libri decem (Firenze 1583), Scaligero, dietro lo pseudonimo di Yves Villomari, lo criticò aspramente nel suo In locos controversos Roberti Titii animadversionum liber (Parigi 1586). Titi rispose con moderazione al violento attacco con il suo Pro suis locis controversis assertio adversus Yvonem quemdam Villomarum Italici nominis calumniatorem (Firenze 1589). La polemica, e il modo in cui fu da lui condotta e risolta, incrementarono la sua notorietà presso i dotti italiani ed europei, con i quali avviò carteggi che durarono per il resto della sua vita (per fare alcuni nomi, Girolamo Mercuriale, Antonio Riccobono, Gabriello Chiabrera e Galileo Galilei).
Nel 1596, venuto a mancare Pietro Angeli da Barga, docente di umanità presso lo Studio di Pisa (il quale fu anche suo maestro), Titi provò a succedergli, ma invano. La delusione non durò a lungo: il 27 febbraio 1597, infatti, due anni dopo la morte del precedente titolare (Tommaso Correa), Titi acquisì la cattedra di umanità presso l’Università di Bologna grazie all’intervento di Mercuriale, Riccobono e del cardinale Gabriele Paleotti, con uno stipendio annuale di 400 scudi. Pare che le sue lezioni raccogliessero moltissimi uditori. Vi insegnò nove anni, fino a quando il granduca Ferdinando I de’ Medici lo volle allo Studio di Pisa come docente di belle lettere, rimasta vacante la relativa cattedra dopo che il predecessore, Baldassarre Ansidei, era stato chiamato alla corte di Roma da Sisto V. Il granduca e la moglie Cristina di Lorena usarono tutto il loro potere per liberarlo dall’impegno bolognese. Le trattative (non prive di latenti motivazioni politiche) furono condotte con grande abilità dall’umanista Curzio Picchena, segretario e diplomatico del granduca. Nonostante la sua riluttanza (pare che fosse molto soddisfatto della sua occupazione bolognese), Titi fu costretto ad accettare il pressante invito del sovrano. Gli venne offerto un compenso di 700 scudi, insieme a 100 scudi e altre comodità per il viaggio di trasferimento (tra le quali lettighe e carriaggio per lui e la sua famiglia). Lasciati i familiari a Scarperia (borgo nei pressi di Firenze), Titi fu accolto con grandi onori nella villa medicea di Caffaggiolo (presso Barberino del Mugello) dal granduca, dalla moglie e dal loro primogenito Cosimo. Nel breve periodo che precedette la sua morte,Titi fu assiduo commensale del granduca e della sua famiglia, conduttore di erudite discussioni con i membri della corte. A Pisa si impegnò con grande vigore a istruire i suoi studenti tenendo lezioni sui grandi autori latini e greci.
Nel 1609, durante un periodo di vacanza, tornò a Firenze dove si ammalò. Tornato a Pisa morì, lasciando la moglie e i figli in difficoltà economiche. Dei discendenti, le femmine entrarono nel convento di S. Bartolomeo sito nei pressi di Sansepolcro (oggi località Succastelli), mentre i maschi, a eccezione di uno che divenne frate cappuccino, dopo aver venduto l’intero patrimonio del padre (compresi i libri) si trasferirono in Polonia al seguito dei Falducci, nobili fiorentini che si erano dedicati ai commerci.
Opere. Titi compose e diede alle stampe molte opere e di generi diversi; esse possono essere distinte in componimenti letterari e studi filologico-eruditi. Del primo tipo sono i versi poetici di vari generi, sia in latino (egloghe, epigrammi, elegie) sia in volgare (sonetti e canzoni). Alcune poesie latine furono stampate nella raccolta del suo compatriota Pietro Gherardi (Petri Gherardi Burgensis carminum libri duo, Firenze 1571). Il Nereus Carmen (Firenze 1589) è un epitalamo per le nozze di Ferdinando de’ Medici e Cristina di Lorena. Compose panegirici e carmi latini in onore di papa Clemente VIII (In Clementem VIII Pont. opt. max. oratio et carmen, Bologna 1598). Le sue poesie volgari sono sparse in edizioni di altre opere, proprie e di altri autori.
Del secondo tipo si hanno discorsi, lettere e commenti su autori latini e volgari. Il già citato Locorum controversorum libri decem (Firenze 1583), dedicato a Muglioni (noto erudito e suo compaesano), che avviò la disputa con Scaligero, può considerarsi il capolavoro critico dell’autore. Nei dieci libri dello studio illustra numerosi luoghi controversi della tradizione testuale del mondo classico. Curò e commentò le edizioni dei bucolici minori (M. Aurelii Olympii Nemesiani et F. Calphurnii siculi Bucolica, novis commentariis exposita, Firenze 1590) e del De bello gallico di Cesare (Ad Caesaris commentarios de Bello gallico praelectiones quatuor, Firenze 1598). Sulla poesia volgare va ricordata l’edizione commentata del poema Le api di Giovanni Rucellai (Firenze 1590) e L’apologia di Dante contro il discorso di Rodolfo Castravilla (Ceffini, 1722, p. 208). A queste vanno aggiunte numerose edizioni postillate, scolii a opere latine e volgari, sia edite sia inedite (delle quali si ha testimonianza da Francesco Maria Ceffini, il docente a Pisa che ha raccolto la biblioteca di Roberto Titi e redatto la sua prima biografia nel 1684; ibid.). Vi sono inoltre molte raccolte di prolusioni a lezioni e corsi tenuti da Titi a Bologna e a Pisa su Virgilio, Catullo, Cesare e altri autori classici.
Fonti e Bibl.: La grande mole delle lettere (sia latine sia volgari), raccolta insieme al resto della biblioteca titiana da Ceffini, è in parte perduta; alcune di esse sono state pubblicate in edizioni miscellanee o riguardanti altri autori, corrispondenti di Titi (A. Bulifon, Lettere memorabili. Raccolta prima, Napoli 1693, pp. 123, 127, 132, 391, 394, 396; M. Ferrucci, Otto lettere di Curzio Picchena a Roberto Titi, Pisa 1876).
F.M. Ceffini, Vita di R. T., in Giornale de’ letterati d’Italia, t. XXXIII, Venezia 1722, pp. 177-233; Biografia universale antica e moderna, LVII, Venezia 1829, pp. 406 s.; F. Inghirami, Storia della Toscana, XIV, Fiesole 1844, p. 355; L. Coleschi, Storia della città di Sansepolcro, Città di Castello 1886, pp. 271 s.; E. Agnoletti, Personaggi illustri di Sansepolcro, Sansepolcro 1986, pp. 200-202, 205-207; A. Tifi, Immagine di Borgo San Sepolcro, Cortona 1994, p. 153.