ROBUSTI, Jacopo (Jacomo, Giacomo)
, detto Tintoretto. – Primogenito di Battista, tintore di seta, nacque a Venezia nel 1519, come risulta dall’atto di morte del 31 maggio 1594 che lo indica di settantacinque anni. Della madre non si conosce il nome, mentre l’unico fratello al quale rimase legato da consuetudine sembra essere stato Domenico.
Questi, secondo la testimonianza di Anton Francesco Doni (1553, 1998, p. 41), intorno al 1552 si stabilì a Mantova dove frequentò la corte gonzaghesca, probabilmente in qualità di musicista.
Le informazioni sulla vita di Jacopo sono molte, sia per quelle riportate dalle fonti, sia per la copiosa documentazione (L. Borean, in Tintoretto, 2007, pp. 417-450). Eppure, a parte qualche supplica e un biglietto al cardinale Ercole Gonzaga datato 9 maggio 1562, non si conserva alcuna lettera privata.
Da una Genealogia apocrifa della sua famiglia se ne apprendono le origini bresciane e il vero cognome, Comin (Checa Cremades, 2004, pp. 204 s.). Il padre, con il fratello Antonio, partì da Brescia nel 1509 per combattere al fianco dei veneziani durante l’assedio di Padova; la forza dimostrata in battaglia valse ai due fratelli l’appellativo di Robusti, assunto poi come cognome ufficiale dopo il trasferimento a Venezia.
Dalla professione del padre Jacopo derivò il nome d’arte, e come «tentor» firmò i primi quadri; così compare nell’epistolario di Pietro Aretino e nell’elenco dei «valenti pittori» viventi che Paolo Pino inserì nel suo Dialogo di pittura (1548, 1946). Forse il diminutivo Tintoretto fu coniato dagli amici per la sua statura minuta che, insieme alla pungente personalità, gli valse l’epiteto di «granelo de pevere» (grano di pepe), come lo definì Andrea Calmo (1547-1556, 1888, p. 132) in una lettera del 1548.
Con pochi tocchi il commediografo veneziano restituì in maniera pronta e affettuosa la figura fisica e morale di Jacopo, dimostrando di condividerne l’attualità del linguaggio; caratteristica che dovette sembrargli quasi una traduzione pittorica di quella parlata ‘pluridialettale’ (un misto di veneziano, pavano, bergamasco e dalmatino) con cui l’autore si cimentò nella scrittura delle sue commedie e dell’epistolario.
Dal sesto decennio in poi il soprannome divenne ufficiale e come Tintoretto, o Tintorello, venne citato dall’editore Francesco Marcolini in una lettera del 1551, da Anton Francesco Doni nei Tre libri di Lettere (1552) e da Ortensio Lando nel suo catalogo dei pittori moderni (1552).
Definito da Giorgio Vasari «il più terribile cervello che abbia avuto mai la pittura» (1568, 1984, p. 468), Jacopo rimase per tutta la vita legato a Venezia, città dalla quale si allontanò raramente. Frequentò letterati, architetti e musicisti e, a voler credere alle fonti, egli stesso era in grado di suonare più strumenti.
Attraverso le sue opere prese parte al dibattito sul primato delle arti, tenendo sempre alto il confronto con la cultura centro-italiana; frequentò gli ambienti legati all’Accademia Pellegrina (Masi, 1999, p. 54) e nel 1553 Doni gli dedicò le Rime del Burchiello, per ricambiare l’omaggio del suo ritratto, oggi perduto.
Alla luce della «condition de decima» presentata dal patrizio Urbano Bollani il 30 gennaio 1538 (1537 more veneto) si apprende che Tintoretto, appena diciottenne, avviò la sua carriera autonoma d’artista affittando per 20 ducati all’anno una casa con bottega nella contrada di S. Cassiano (Mancini, 2003, p. 198). Da un atto di testimonianza del 22 maggio 1539 risulta abitare nella stessa dimora, così come in un documento del 1544 sottoscritto insieme all’editore Francesco Marcolini. Intorno al 1554 nacque la figlia Maria, detta Marietta (di cui v. la voce in questo Dizionario), frutto di una relazione con una donna tedesca al di fuori del matrimonio, e dal 1555 Jacopo risulta già pagare un affitto di 42 ducati annui per una casa a S. Marziale. Sullo scadere del sesto decennio sposò Faustina Episcopi, figlia di Marco Episcopi, anch’egli originario di Brescia e «guardian da matin» della Scuola grande di S. Marco al tempo della committenza del Miracolo dello schiavo (Krischel, 1994). Alla costituzione della dote di Faustina contribuì il procuratore Giulio Contarini, che nel 1552 aveva ingaggiato Tintoretto per la decorazione dell’organo di S. Maria del Giglio e di cui Marco Episcopi fu una sorta di segretario. Nel novembre del 1560 nacque Domenico (di cui v. la voce in questo Dizionario), e a seguire Marco, Gierolima, Zuan Battista, Ottavio, Lucrezia Sara Monica e Ottavia. Nel 1574 comprò un palazzetto alle Fondamenta dei Mori, dove trasferì famiglia e bottega e rimase fino alla morte. L’ultima figlia, Laura, nacque dopo il 1584 (Mazzucco, 2009).
La storia della sua formazione rimane oscura e imbastita di aneddoti romanzeschi. In questa tipologia di fonti rientra la notizia tramandata da Carlo Ridolfi (1642; 1648, 1914) di un apprendistato nella bottega di Tiziano, durato appena dieci giorni a causa della gelosia del maestro nei confronti del giovane allievo. Costretto a cercare fortuna in provincia, Tintoretto si aggregò prima ai muratori incaricati di restaurare il duomo di Cittadella, nel Padovano, poi a quei pittori di «minor fortuna» che dipingevano «le banche» sotto le arcate di piazza S. Marco, come il dalmata Andrea Meldola, detto Schiavone (Ridolfi, 1648, 1914, p. 15). Di questa attività si conservano le sei tavole del Kunsthistorisches Museum di Vienna (1543-44) con scene bibliche – forse dossali di cassoni – già ritenute di Schiavone prima che Detlev Freiherr von Hadeln (1922) le restituisse a Jacopo. Lo stesso impianto narrativo e paesistico, realizzato con una grafia corsiva – tale da ricordare certe cadenze neobizantine –, si riscontra nelle quattro piccole tavole con storie del Vecchio Testamento conservate a Verona nel Museo di Castelvecchio.
Non è possibile spiegare l’orientamento del gusto di Tintoretto senza tener conto della cultura manierista di importazione toscoromana ed emiliana che, tra il quarto e il quinto decennio del secolo – complice una frangia del patriziato di orientamento filoromano – investì Venezia. La cosiddetta «crisi manieristica» (Coletti, 1941) offrì ai pittori della laguna i mezzi per superare la tradizione giorgionesca e adattarsi ai nuovi orientamenti della committenza. Tra i primi a reagire fu Giovanni Antonio de’ Sacchis, detto il Pordenone, le cui intemperanze stilistiche dovettero turbare non poco il giovane Robusti; mentre impulsi più profondi, provenienti dai cantieri mantovani di Giulio Romano, misero in crisi l’integrità della forma tizianesca già nel quarto decennio. Dal linguaggio parmigianinesco, agevolato in area veneta dalla circolazione di stampe e disegni, e di cui Schiavone fu il mediatore principale, Jacopo derivò una tecnica di tocco fluido e sciolto, connessa a una rappresentazione della figura allungata e sinuosa. Altrettanto decisivo fu l’avvento dei cosiddetti «demoni etruschi» (Longhi, 1946, p. 23): Francesco Salviati, Giuseppe Porta e Vasari, giunti a Venezia tra il 1539 e il 1541 (Pallucchini, 1950).
Raffaello Borghini (1584, 1967) riferisce che fin dagli inizi della sua carriera Jacopo «prese per principal maestro l’opera del divino Michelangelo […] ma nel colorito dice di aver imitato la natura e poi particolarmente Tiziano» (p. 551). I due poli opposti rappresentati da Buonarroti e da Vecellio erano gli stessi che Pino aveva indicato come essenziali per la formazione dell’artista ideale; un presupposto sul quale Ridolfi (1648, 1914) elaborò il fortunato mito dell’insegna che Tintoretto avrebbe posto nella sua bottega: «Il disegno di Michelangelo e ’l colorito di Tiziano» (p. 14). L’utilizzo di calchi inviati da Daniele da Volterra, «cavati dalle figure delle Sepolture de’ Medici […] cioè l’Aurora, il Crepuscolo, la Notte, e il Giorno, sopra quali fece studio particolare, traendone infiniti disegni a lume di lucerna, per comporre, mediante quelle ombre gagliarde che fanno que’ lumi, una maniera forte e rilevata» (ibid.), trova conferma in molti disegni autografi e negli esercizi da diversi punti di vista del Sansone che lotta con un filisteo (Rossi, 1975).
Non solo, per ricavare lumi e ombre «Esercitavasi ancora nel far piccioli modelli di cera e di creta, vestendoli di cenci, ricavandone accuratamente con le pieghe de’ panni le parti delle membra, quali divisava ancora entro picciole case e prospettive composte di asse e di cartoni accomodandovi lumicini per le fenestre» (Ridolfi, 1648, 1914, p. 15).
Al fine di ottenere una corretta veduta delle figure scorciate, inoltre, sospendeva con fili alcuni modelli alle travature, «componendo in tali modi bizzarre invenzioni» (ibid.).
Questa complessità progettuale, basata sul disegno e sullo studio dei modelli dal vivo, dovette giocare un ruolo fondamentale anche nella maturazione di quella autentica sensibilità per l’elemento scenico e teatrale che Tintoretto risolse in chiave luministica «lasciando le bozze per finite, e tanto a fatica sgrossate» (Armenini, 1586, 1988, p. 134).
Alcuni frammenti di affresco provenienti da Ca’ Soranzo, le fonti letterarie e soprattutto le incisioni di Anton Maria Zanetti (1760), documentano una precoce attività di frescante, dalla quale Jacopo apprese una certa ‘facilità’ di esecuzione e la capacità di organizzare il lavoro in giornate. A questa occupazione deve riferirsi anche una lettera datata 22 aprile 1541, con la quale Girolamo Quirini raccomandò Jacopo al giurista Marco Mantova Benavides, in cerca di artisti per decorare la sua villa a Padova.
Emblematica del periodo giovanile – per molti aspetti ancora controverso, dal punto di vista sia dell’attribuzione del catalogo sia della cronologia di molte opere (Echols, 1995; R. Echols - F. Ilchman, in Jacopo Tintoretto, 2009, pp. 91-150) – è la Sacra Famiglia con s. Marco e il donatore Girolamo Marcello (1537 circa) di collezione privata.
I caratteri stilistici del dipinto risentono ancora di suggestioni pordenoniane, non solo nel plasticismo delle figure, ma anche nella capacità del maestro di articolarne le attitudini con scioltezza, per mezzo di un linguaggio che appare già indipendente.
Altrettanto significativa è la Madonna con il Bambino e sei santi Wildenstein, firmata e datata 1540, un’opera con forti richiami a Michelangelo e alle Sacre Conversazioni di Bonifacio de’ Pitati, in quegli anni a capo di una fiorente bottega in cui, forse, fu impegnato lo stesso Tintoretto (Cottrell, 1997). Nel contempo i quattordici ottagoni con storie tratte dalle Metamorfosi di Ovidio della Galleria Estense di Modena, commissionati negli stessi anni da Vettor Pisani per un soffitto del suo palazzo a S. Paternian, denunciano rimandi così puntuali alle istanze di Giulio Romano nella sala di Psiche a palazzo Te da rendere verosimile l’ipotesi di un sopralluogo di Jacopo a Mantova a ridosso della loro esecuzione (Pallucchini, 1969, p. 5). Di poco successiva è la Conversione di s. Paolo (1544 circa, Washington, National Gallery of art), per la quale Tintoretto si rivolse al cartone raffaellesco con la Caduta di s. Paolo per uno degli arazzi della Sistina, presente a Venezia nella collezione di Domenico Grimani. Sono questi gli anni in cui l’incontro con Schiavone assunse un peso determinante nella storia del pittore, non solo nel genere decorativo per mobilio, come si è detto, o dei dipinti di piccolo formato, ma anche in opere di maggiore impegno, quali la Disputa di Gesù al Tempio del Museo del Duomo di Milano, la Cena in Emmaus dello Szépművészeti Múzeum di Budapest e la pala della Presentazione di Gesù al Tempio della chiesa di S. Maria dei Carmini, già creduta da Vasari opera del collega dalmata.
Sul finire del 1544 Aretino commissionò a Robusti due dipinti con soggetti mitologici per il soffitto di una camera, uno dei quali identificato con la Contesa di Apollo e Marsia del Wadsworth Atheneum di Hartford, negli Stati Uniti. Nella lettera di ringraziamento del gennaio del 1545, lo scrittore si fece primo banditore del talentuoso giovane, le cui immagini gli sembrarono «belle, e pronte, e vive» (P. Aretino, Lettere, a cura di P. Procaccioli, III, 1999, p. 167). Allo stesso tempo ne mise in luce i limiti dovuti alla «brevità del fare» (la velocità di esecuzione), affermazione con cui istituì un topos letterario che non avrebbe mai più abbandonato Jacopo, nel bene e nel male. Queste riserve, infatti, affiorarono nella letteratura contemporanea, trasformandosi in capriccio o bizzarria negli scritti di Francesco Sansovino (1561) e Vasari (1568), in dileggio nel Dialogo della pittura intitolato l’Aretino (1557), dove Lodovico Dolce, pur omettendo il nome del «cattivo maestro», riferì in che modo Tintoretto mostrò «di aver bene avuto poca considerazione alora ch’ei dipinse la Santa Margherita a cavallo del serpente» (1557, 1960, p. 170). Dolce si riferisce alla tela con S. Giorgio, la principessa e s. Ludovico (1551-52), che i provisores salis Giorgio Venier e Alvise Foscarini commissionarono a Jacopo per il palazzo dei Camerlenghi, oggi nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia (Cottrell, 2000). E non è la sola allusione, poiché, discorrendo del decoro delle invenzioni, il letterato giudica sconveniente anche il telero ducale con la Scomunica di Federico Barbarossa da parte del papa Alessandro III, consegnato nel 1553 e oggi perduto.
Nel tempo, questi giudizi si sono intrecciati con il dibattito teorico intorno alla posizione di Dolce nei confronti della maniera moderna, così come emerse nel testo del 1557, ma già in fase germinale nella seconda metà del quinto decennio (Grosso, 2013). Assimilate le censure nei confronti dell’opera di Buonarroti che Aretino espresse nella feroce lettera-invettiva del 1545, e accolte quelle di Doni verso i michelangioleschi, che secondo il suo parere avevano storpiato le loro figure «muscolandole e ricercandole di soverchio e fuor di luogo» (Doni, 1549, 1970, c. 8v), queste considerazioni negative segnarono il definitivo distacco di Lodovico da una posizione iniziale che pure doveva apparire favorevole a Michelangelo e per riflesso anche a Pordenone. È significativo che l’apice di queste ‘schermaglie critiche’ abbia coinciso con un episodio nodale nel processo di trasformazione della cultura artistica veneziana provocato dagli apporti manieristici toscoromani e da cui Tintoretto fu escluso: la decorazione del soffitto della Libreria Marciana (1556-57). All’impresa presero parte Battista Franco, Giulio Licinio, Schiavone, Giuseppe Porta, Giovanni de Mio e i veronesi Giovanni Battista Zelotti e Paolo Caliari, detto il Veronese, al quale ultimo toccò il premio della catena d’oro decretato da Tiziano e da Iacopo Tatti, detto il Sansovino.
Fin dagli inizi la carriera di Robusti fu scandita da un’intensa attività ritrattistica, attraverso la quale il pittore rispose alle esigenze di rappresentanza del patriziato veneziano. Infatti Ridolfi (1648, 1914) ricorda che tra le prime opere che il pittore espose in Merceria vi erano anche «due ritratti, di se stesso con un rilievo in mano e di un suo fratello, che suonava la cetra, finti di notte, con sì terribile maniera, che fece stupire ogn’uno» (p. 16). Alla fine degli anni Quaranta Jacopo aveva già ritratto il doge Francesco Donà, e con l’elezione di Girolamo Priuli (1559) assunse il compito di ritrattista dogale della Serenissima, ruolo che fino a quel momento era stato ricoperto da Tiziano con esiti altissimi.
Pur essendo debitore del più anziano maestro, da cui apprese la fondamentale lezione della fusione tra luce e colore e una certa morbidezza di incarnati, Tintoretto ne rifiutò sempre la componente epico-eroica, preferendo una messa in scena meno aulica eppure di impatto, così da rendere immediata la percezione visiva della fisica esistenza dell’effigiato (Rossi, 1974).
Ai molti ritratti singoli o a quelli inseriti in contesti familiari, ne alternò altrettanti in composizioni religiose, di carattere votivo o storico, come quelli «molto ben fatti» ricordati da Vasari nella citata Scomunica. Tra i primi esempi, datati entro il 1545-46, si ricordano il Ritratto di gentiluomo venticinquenne di Hampton Court, Royal Collection, e l’acuto Autoritratto giovanile del Museum of art di Philadelphia. Dalla bottega di Jacopo uscì una serie impressionante di ritratti di procuratori, senatori e magistrati, generalmente rappresentati al culmine della carriera, dove l’abito d’ufficio compensa l’assenza di eclatanti gesti retorici; a volte ad accompagnare l’effigiato sono aperture sul paesaggio o elementi architettonici, quali colonne e balaustre: si vedano il Ritratto di Nicolò Priuli alla Ca’ d’oro (1549 circa) o quello dell’ultraottantenne Jacopo Soranzo (1550 circa) delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, dove la cappa di velluto, luministicamente panneggiata, fa da contrappunto al volto scavato dal tempo. Altre volte a rivolgersi a Tintoretto fu una committenza borghese costituita da mercanti, artisti e uomini di lettere, con i quali il pittore instaurò un dialogo diretto, semplicemente umano, che rivela una diversa posizione dell’artista di fronte all’individuo. Valga come esempio il gruppo di ritratti degli anni Cinquanta, cui appartengono prove di sorprendente qualità e impegno, come il Ritratto virile della Fundación Museo Cerralbo di Madrid, quello di Lorenzo Soranzo del Kunsthistorisches Museum di Vienna e il Gentiluomo con la catena d’oro del Museo nacional del Prado, a Madrid; o ancora, più avanti nel tempo, il Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, detto «delle anticaglie» del Museo di belle arti di Gand (1561), il Ritratto di vecchio con giovinetto di Vienna (Kunsthistorisches Museum) e quello di Iacopo Sansovino in età avanzata della Galleria degli Uffizi, entrambi della seconda metà del settimo decennio. Tra i ritratti femminili, più rari rispetto ai maschili, varrà la pena di ricordare quello di Giovane vedova della Gemäldegalerie Alte Meister di Dresda, in estrema sobrietà d’abito, e quello perduto di Veronica Franco, di cui restano le parole che la cortigiana poetessa indirizzò al pittore: «quando ho veduto il mio ritratto, opera della vostra divina mano, io sono stata un pezzo in forse se ei fosse pittura o pur fantasima innanzi a me comparita per diabolico inganno» (1580, 1998, pp. 68-70).
Tra il 1546 e il 1548 prese avvio una nuova fase dello stile di Tintoretto, caratterizzata da accelerazioni chiaroscurali e dalla predilezione per uno spazio costruito in diagonale, così come Sebastiano Serlio lo aveva teorizzato nel suo trattato di architettura. L’Adultera della Gemäldegalerie Alte Meister di Dresda, in cui Jacopo mette a fuoco un tema caro in questi anni, l’Ultima Cena per S. Marcuola (1547) e lo Svenimento di Ester davanti ad Assuero (London, The Royal Collection) ne rappresentano il vertice e allo stesso tempo l’antefatto per la realizzazione del capolavoro della vita, il Miracolo dello schiavo (1548, Venezia, Gallerie dell’Accademia). Con quest’opera, destinata alla sala capitolare della Scuola grande di S. Marco, Tintoretto raggiunse un equilibrio cromatico-plastico fino ad allora inedito, dimostrando di aver acquisito la nozione michelangiolesca secondo cui la pittura è tanto più buona quanto più tende al rilievo.
Per l’impostazione generale della scena, dominata dall’arrivo improvviso del santo che precipita sulla folla, l’artista ripropose l’interpretazione del tema che Sansovino aveva offerto in un bassorilievo bronzeo per uno dei pergoli della basilica di S. Marco. L’omaggio all’architetto ufficiale della Serenissima venne calato da Jacopo in una dimensione spaziale molto più complessa, dove il gusto pittorico per la traduzione cromatica della materia, la varietà di moti negli aggruppamenti di figure e i riferimenti alla decorazione monumentale romana sono così stringenti che hanno alimentato l’ipotesi di un viaggio di studio nell’Urbe. L’originalità della composizione dovette suscitare un certo ‘disparere’ tra i confratelli e la conseguente irritazione di Robusti, che dopo la consegna si riportò il dipinto in bottega, salvo riconsegnarlo dietro sollecitazioni dei suoi sostenitori. Nel commento a caldo di Aretino è possibile leggere l’eco dei consensi e dissensi che lo travolsero: «i suoi colori [della figura dello schiavo] son carne, il suo lineamento ritondo, e il suo corpo vivo, talché vi giuro per il bene ch’io vi voglio, che le cere, l’arie, e le vite de le turbe che la circondano, sono tanto simili agli effetti ch’esse fanno in tale opra, che lo spettacolo pare più tosto vero che finto […]. E beato il nome vostro, se reduceste la prestezza del fatto in la pazienza del fare» (P. Aretino, Lettere, cit., IV, 2000, n. 429, p. 266).
I documenti datati 1548-50 chiariscono la cronologia di una lista di quadri che il «praticon de man» (Boschini, 1660, 1966, p. 84) eseguì a un ritmo incalzante. Si tratta di grandi teleri, perlopiù di formato orizzontale, dove Tintoretto sviluppò nuovi rapporti prospettici tra architettura e figura. Fra questi la Lavanda dei piedi per S. Marcuola (1548-49), ora al Museo del Prado, e il S. Rocco risana gli appestati (1549), il primo dei due quadri che decorano le pareti presbiteriali dell’omonima chiesa veneziana.
Nella tela di S. Marcuola la novità della messa in scena sta nell’invenzione del porticato che suddivide lo spazio in due parti: quello dell’azione vera e propria dove si muovono Cristo e gli apostoli, e quello della città fantastica desunta dalle tavole di Serlio, con i suoi edifici all’antica che costeggiano le acque di un canale. Protagonista della tela di S. Rocco, invece, è la suggestiva ambientazione notturna rotta da lumi artificiali, una soluzione che negli stessi anni anche Tiziano stava sperimentando nel Martirio di s. Lorenzo per la chiesa dei Crociferi (oggi ai Gesuiti). Qui Tintoretto sovvertì le regole del rapporto rinascimentale tra luce e spazio, suscitando l’entusiasmo manierista di Vasari, che lodò il dipinto come una delle migliori opere dell’artista: «In uno finse una prospettiva come d’uno spedale di letta e di infermi in varia attitudine […] e fra questi sono alcuni ignudi ben intesi, ed un morto in iscorto che è bellissimo» (Vasari, 1568, 1984, p. 469).
A questo periodo, che a ben ragione è stato definito in continuo movimento, secondo un percorso «spiralico» (Coletti, 1940, p. 3), appartengono alcune pale d’altare destinate alle chiese di Venezia, ma anche della terraferma. Fra queste il S. Marziale in gloria tra i ss. Pietro e Paolo per la chiesa di S. Marziale e il S. Agostino risana gli sciancati, commissionato dalla famiglia vicentina dei Godi per l’altare della loro cappella nella chiesa di S. Michele e oggi alla Pinacoteca di palazzo Chiericati a Vicenza.
All’aprirsi del sesto decennio, ad alimentare l’ispirazione figurativa di Tintoretto intervenne un «nuovo senso panico della natura» (Pallucchini, 1950, p. 132), che le Storie della Genesi provenienti dalla Scuola della Ss. Trinità – eseguite a prosecuzione del ciclo iniziato da Francesco Torbido nel 1547 – aiutano a spiegare: la Creazione degli animali, il Peccato originale e l’Uccisione di Abele, conservati a Venezia nelle Gallerie dell’Accademia, e un frammento della Proibizione del pomo agli Uffizi. La quinta tela, con la Creazione di Eva, è andata perduta.
In questo caso Robusti si cimentò in più sottili prove di pittoricismo, che rimandano ancora a certi esiti formali desunti dalla maniera di Francesco Mazzola, detto il Parmigianino, e di Schiavone; mentre la cornice paesistica, privata di ogni intenzione lirica per mezzo di direttrici oblique che scavano profonde voragini all’orizzonte, si colora dello stato d’animo degli attori del racconto.
Le portelle d’organo per la chiesa della Madonna dell’Orto, le prime tre tele per il magistrato del Sale, la decorazione dell’organo della chiesa di S. Maria del Giglio, insieme ai primi lavori per le Procuratie di S. Marco, sono solo alcune delle opere che Tintoretto realizzò entro la metà del decennio, e attraverso le quali chiarì al mondo le sue aspirazioni. Allo stesso tempo il confronto con Paolo Veronese, affermatosi in Palazzo ducale, si fece più pressante. Il racconto di Ridolfi a proposito della commissione dell’Assunta per i Crociferi (oggi Gesuiti), che Jacopo riuscì a sottrarre al collega attraverso una sorta di ‘contraffazione’ stilistica, è sintomatico del gusto per un colorismo schiarito e timbrico che si manifestò intorno al 1555. Da questa fase, definita ‘veronesiana’, uscirono il fiabesco S. Giorgio e il drago della National Gallery di Londra e la Susanna e i vecchioni del Kunsthistorisches Museum di Vienna.
Con quest’ultima opera Tintoretto diede la prova più alta del suo intendimento luministico e cromatico applicato al nudo femminile e, allo stesso tempo, attraverso una resa pittorica elegante e unita, di essere in grado di controllare quel «furioso entusiasmo» (Zanetti, 1771, 1972, p. 129) che contraddistinse ogni stagione della sua maturità.
Il decennio si chiuse con un’altra opera per S. Rocco, la Probatica piscina (1559). Secondo Ridolfi (1648, 1914) il dipinto, destinato a decorare gli sportelli di un armadio per le argenterie sacre, sarebbe stato realizzato «in concorrenza del Pordenone, che un simile nel dirimpetto aveva dipinto» (p. 26). Il riferimento è alle tavole con i Ss. Martino e Cristoforo eseguite dal friulano circa trent’anni prima, a cui si rifà l’impaginazione architettonica del colonnato con il soffitto a cassettoni di scorcio.
Tintoretto andò oltre e sviluppò il tema in chiave illusionistica attraverso l’affollarsi dei personaggi che franano sul primo piano, fino a superare la cornice stessa del dipinto e conquistare lo spazio reale della navata.
Ormai consapevole della propria cifra stilistica, l’artista inaugurò gli anni Sessanta con l’eco festosa e popolaresca delle Nozze di Cana per i Crociferi (ora a S. Maria della Salute) e con i monumentali teleri per il presbiterio della Madonna dell’Orto (1559-60 circa): l’Adorazione del vitello d’oro (a sinistra) e il Giudizio Universale (a destra). Con i loro oltre quattordici metri di altezza, Tintoretto sfidò l’architettura gotica della chiesa, dando prova di non temere il confronto con lo spazio vorticoso del Giudizio sistino e di sapere affrontare i testi sacri con estrema libertà e convinzione.
Nel 1562 il «guardian grande» della Scuola di S. Marco, il medico e filosofo ravennate Tommaso Rangone, lo convocò per fargli dipingere altri tre quadri con i miracoli del santo protettore, che nel 1566 Vasari vide già portati a termine: i Miracoli di s. Marco della Pinacoteca di Brera a Milano (noto anche come il Ritrovamento del corpo di s. Marco), il Trafugamento del corpo di s. Marco e il Miracolo del saraceno delle Gallerie veneziane.
L’intuizione prospettico-luministica, lungamente ricercata nel decennio precedente, raggiunse in queste tele brani di profondo pathos religioso. Nella prima scena Tintoretto affidò la rivelazione dell’evento miracoloso ai lumi delle torce che, attraverso un violento chiaroscuro, commentano i profili architettonici della navata basilicale e la fuga delle arche sospese. Nelle altre due, giocate sul contrasto tra il plasticismo dei gruppi di figure in primo piano e la corsività pittorica degli sfondi, la rivelazione del divino è suggerita dalla luce dei fulmini, che rendono l’atmosfera elettrica e gli attori del dramma simili a «larve fosforescenti» (Bianchini, 1964, p. n.n.).
Giocando d’anticipo sui colleghi Giuseppe Porta, Federico Zuccari e Veronese, chiamati dai preposti alla Scuola di S. Rocco a presentare un disegno per il soffitto della sala dell’Albergo, nel 1564 Tintoretto se ne aggiudicò la commessa offrendo l’ovale con la Gloria del santo titolare già pronto per essere collocato. Per questa via ottenne anche la decorazione delle pareti con il ciclo della Passione (1565-67) e, in breve, di tutto l’edificio, a partire dal soffitto della sala superiore. A celebrazione dell’istituto caritatevole della Scuola e a protezione dalla peste che nel 1576 si portò via anche Tiziano, Tintoretto scelse di avviare l’impresa con il tema dell’Erezione del serpente di bronzo, cui poco dopo affiancò altri due scomparti rettangolari con la Raccolta della manna e Mosè fa scaturire l’acqua. Avvantaggiato dall’esperienza nel dominare in tempi brevi composizioni grandiose e affollate, come nella potente Crocifissione per la sala dell’Albergo, con una lettera del 27 novembre 1577 indirizzata alla «bancha e zonta» della Scuola, Jacopo si impegnò a decorare anche le pareti della sala superiore con storie della vita di Cristo; in cambio chiese un compenso di soli 100 ducati l’anno.
Sostenuta da una pratica manuale abilissima, l’attività nel campo religioso non conobbe tregua. Oltre al pretesto di sperimentare nuove soluzioni luministico-spaziali, la committenza ecclesiastica offrì a Tintoretto la possibilità di approfondire molti temi a lui cari. È il caso dei dipinti per la cappella del Ss. Sacramento di S. Trovaso, la Lavanda dei piedi ora alla National Gallery di Londra e l’Ultima Cena rimasta in loco (1565 circa), o della coeva Crocifissione della chiesa di S. Severo conservata alle Gallerie dell’Accademia. Con lo stesso gusto popolaresco, nutrito di fiducia incondizionata nell’intervento divino per la salvezza dell’uomo, Jacopo affrontò le tele absidali della chiesa di S. Cassiano, dipinte nel 1565-68: la Resurrezione di Cristo per l’altare maggiore e i due teleri laterali con la Crocifissione e il Cristo al Limbo. Per trasmettere la complessità dei significati teologici, Jacopo fece ricorso alla lettura della Bibbia in volgare, come quella del domenicano Santi Marmochino che rappresentò poggiata sul basamento del sarcofago nell’Assunta della Obere Pfarrkirke di Bamberga (Weddigen, 1988), ma anche alla tradizione agiografica medievale e alla letteratura contemporanea, in particolare agli scritti religiosi di Aretino e al Libro del Monte Calvario (1555) di Antonio de Guevara (Gentili, 2009).
Nel settimo decennio, anche l’attività per la Serenissima iniziò ad assumere proporzioni notevoli. Verso il 1564 Tintoretto rientrò a Palazzo ducale per realizzare la decorazione soffittale dell’atrio quadrato con l’ottagono centrale raffigurante il Doge Nicolò Priuli presentato da s. Marco alla Giustizia e alla Pace, e in sequenza: il soffitto della saletta degli Inquisitori, il telero con il Giudizio Universale e quello della Battaglia di Lepanto per la sala dello Scrutinio, entrambi distrutti nell’incendio del 1577. In breve divenne responsabile di un gusto celebrativo che dilagò negli anni del dogado di Alvise Mocenigo e venne subito echeggiato da quei pittori delle «Sette maniere» boschiniane capeggiati da Jacopo Palma il Giovane. Il Paradiso, posto nella sala del Maggior Consiglio nel 1592, con il suo spazio dilatato ad infinitum (7×22 m), ne è la prova più ambiziosa. Jacopo ne ottenne la commissione a seguito di una «novella elettione», di cui fa cenno Ridolfi, probabilmente indetta dopo la morte di Veronese che, insieme a Francesco Bassano, aveva avuto in precedenza l’incarico (Il Paradiso, 2006).
Oltre all’attività religiosa e di Stato – di cui dà conto Francesco Sansovino nella Venezia città nobilissima e singolare (1581) –, dalla fine dell’ottavo decennio se ne registrò una profana, per le corti italiane ed europee, altrettanto vivace. Da Guglielmo duca di Mantova nel 1578 arrivò la commissione dei Fasti gonzagheschi (Monaco, Alte Pinakothek), un ciclo di otto tele celebrative delle imprese militari dei Gonzaga con cui Jacopo sviluppò una tematica che tanta parte avrebbe avuto nella ricostruzione dei cicli di Palazzo ducale. Le prime quattro furono completate nel marzo del 1579 e collocate nella sala dei Marchesi del Palazzo ducale di Mantova; la commissione delle altre quattro arrivò il 1° ottobre. Nel settembre del 1580 lo stesso Tintoretto, con la moglie Faustina, si recò a Mantova per assistere personalmente al montaggio dei dipinti nella sala dei Duchi. Contemporaneamente dall’imperatore Rodolfo II d’Asburgo giunse la richiesta di quattro quadri mitologici, uno dei quali identificato nell’Origine della Via Lattea della National Gallery di Londra. Con quest’opera Tintoretto dimostrò il suo aggiornamento sulle infinite varianti linguistiche del cosiddetto manierismo internazionale, cui guardò anche per il Tarquinio e Lucrezia dell’Art Institute di Chicago e per le quattro allegorie mitologiche destinate alle pareti dell’atrio quadrato in Palazzo ducale a Venezia (1576-77), più tardi trasferite nella sala dell’Anticollegio (T. Pignatti, in Franzoi - Pignatti - Wolters, 1990, pp. 301 s.).
La mole di lavoro, che lo vide coinvolto anche nella realizzazione dei cartoni per i mosaici di S. Marco, e l’età avanzata indussero Tintoretto a delegare sempre più spesso l’esecuzione materiale delle opere ai collaboratori, membri della famiglia quali i figli Marietta, Domenico e Marco, o artisti italiani e fiamminghi come Antonio Aliense, Andrea Vicentino, Paolo Fiammingo, Maarten de Vos e Lodovico Pozzoserrato (in fiammingo Lodewijk Toeput). Tuttavia, con una «prestezza, ch’è una meraviglia vederlo operare» (Sorte, 1580, 1960, p. 300), il suo genio non mancò di sperimentare nuove formule narrative, capaci di dare vita a opere di grande impegno, come l’ultima impresa decorativa per la sala terrena della Scuola di S. Rocco (1582-87).
Grazie a una sapiente regia luministica unita a una personale interpretazione dei testi sacri, pur sempre fedele alle norme tridentine, Tintoretto riuscì a conferire al ciclo mariano un tono di spiritualità simile ai «fogli di una Biblia Pauperum» (de Tolnay, 1960. p. 370).
I brani più suggestivi, dove la critica intravede un maggiore grado di autografia, quali l’Adorazione dei Magi, che Marco Boschini (1660, 1966) paragonò a un «gran concerto» (p. 118), la Fuga in Egitto, la Strage degli Innocenti e i paesaggi notturni con S. Maria Egiziaca e S. Maria Maddalena, fecero di Robusti uno dei più genuini rappresentanti della Controriforma.
Gli ultimi anni furono scanditi dalla tragedia personale della scomparsa dei figli Marietta, nel 1590, e Zuan Battista, nel 1593, che l’anziano maestro sembrò trasfondere nelle ultime tele attraverso un luminismo quanto mai esasperato, quasi integrale: «è il rogo del colore» (Venturi, 1929, p. 614). L’Ultima Cena per il presbiterio di S. Giorgio Maggiore e l’estrema Deposizione nel sepolcro per la cappella dei Morti nella stessa chiesa benedettina ne assumono il valore di testamento spirituale.
Il 30 maggio 1594, dopo quattordici giorni di febbre, presago della morte Tintoretto dettò il suo testamento. Si spense il giorno seguente. Venne sepolto nella tomba del suocero alla Madonna dell’Orto, circondato da alcune delle sue opere più toccanti.
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