CARACCIOLO, Roccantonio
Nacque nell'aprile 1749 a Scilla (Reggio Calabria), in una famiglia borghese di recente e discreta fortuna, da Michelangelo, "dottore dell'una e dell'altra legge", e da Gerolama Vita, "proprietaria".
Aveva quattro fratelli: Felice, "cherico", Tommaso, "studente", Francesco Antonio, Innocenzo, questi ultimi poi associati alla sua attività. La famiglia aveva possessi fondiari verso sud-est, in tenimento di Fiumara di Muro, coltivati a gelsi, vite, fichi, agrumi; legami in quel di Seminara: di parentela con altra famiglia di ceto borghese professionistico in ascesa, gli Anile, aggregati nel 1793 all'antica nobiltà locale, e di amicizia con un ben noto ceppo di "riformatori" i marchesi Grimaldi.
Educato a Napoli, il C. fu avviato alla carriera burocratica nel ramo finanziario, esercitando a Cosenza, "con puntualità ed esattezza", l'amministrazione del R. Lotti dal 1771 al 1778, incrementandone il gettito sino a renderne però conveniente l'appalto, che per lui significò la perdita dell'impiego; passò allora a coadiuvare l'anziano titolare dell'ufficio doganale di Monteleone, ma senza riconoscimento formale del servizio, che chiese invano nel 1780; concorse poi senza successo sia all'attribuzione dell'amministrazione doganale di Calabria Citra (gli fu preferito F. S. De Leon), sia a quella del locale ripartimento dell'arrendamento del "ducato a soma d'olio", sia ancora nel 1786 al suddetto ufficio doganale finalmente vacato a Monteleone: ma dovrà cedere, come già per l'olio, di fronte alla canditatura di un altro barone, il marchese di Vinchiaturo.
Queglianni non furono peraltro sterili per la sua formazione e per il rafforzamento delle basi economiche familiari. A Cosenza aveva stretto amicizia con Giuseppe Spiriti, e dalla consuetudine con lui e con Domenico Grimaldi, come dallo stesso inserimento del fratello Francesco nell'amministrazione centrale a Napoli, non solo era immesso in un circuito d'idee più ampio, ma soprattutto veniva acquisendo un tipo di cultura che guardava alla lezione genovesiana in termini di polemica contro il privilegio e di apertura alle sperimentazioni tecniche. Benché la leggenda, che lo vuole in quegli anni in giro per l'Europa osservatore dei miglioramenti in atto nelle manifatture tessili, non sia suffragata dalle fonti storiche, è indubbio un allargamento dell'ottica sua e del fratello Innocenzo, che si riflette nel loro andar oltre la semplice querimonia impotente di fronte all'angheria di un feudatario come il Ruffo di Scilla, il quale pretende dai piccoli produttori di seta la consegna a basso prezzo ovvero opprime, secondo un'inveterata abitudine, i tanti negozianti scillesi. Dopo il terremoto dell'83, "fuggendo il rumore delle società corrotte", come ricorderà l'amico Spiriti, essi scelgono di spostare il centro della loro attività, per allora soprattutto commerciale, nella zona della bassa valle della flumara di Catona, in quella parte del versante calabrese dello stretto chera detta la "Fossa", cui furono essi ad aggiungere "S. Giovanni" dal nome della chiesa che vi fecero erigere, così intitolata in onore del loro nonno, Giovan Battista Caracciolo.
La località si sviluppò notevolmente proprio grazie all'iniziativa del C., passando dalle 236 anime del 1777 ai 1804 abitanti del 1811, e staccandosi progressivamente dall'Università di Fiumara: i Caracciolo riuscirono ad ottenere già nel 1791 il mutamento della denominazione in quella di Villa San Giovanni, nel '98 l'elezione di un proprio sindaco (e la famiglia Caracciolo avrà sempre parte di rilievo nella locale amministrazione), nel 1805 l'erezione formale a comune autonomo.
Dietro la richiesta di autonomia amministrativa, motivata dalla necessità di una migliore organizzazione dell'annona, stavano i Caracciolo, che rinsaldavano in quegli anni la loro posizione nella vita economica locale, da un lato appunto come partitari dell'annona, provvedendo all'approvvigionamento non solo dell'entroterra della Fossa ma sino a Bagnara e alla piana di Seminara, dall'altro assumendo un ruolo crescente nella commercializzazione via Messina dell'olio e della seta (della quale erano anche produttori), le derrate fondamentali della zona. La stessa calamità sismica e gli scarsi raccolti del 1784-85 favorirono in fondo la fortuna dei Caracciolo ponendo la Calabria al centro dell'attenzione del governo borbonico. Anche l'istituzione della Cassa sacra consentì al C., che ottenne l'amministrazione di alcuni luoghi pii, di rinverdire le sue caratteristiche propensioni verso una complementarità tra potere amministrativo e intrapresa economica.
Eco delle discussioni allora ferventi e delle aspettative del C. in particolare è la sua Memoria intorno i bisogni generali della provincia di Calabria Ultra (s.n.t., ma Napoli 1783) che proponeva un doppio prestito, gratuito il primo finalizzato alla ricostruzione delle zone colpite, a basso interesse il secondo volto al finanziamento soprattutto del settore oleario, nel presupposto che, a seguito del peggioramento delle ragioni di scambio delle derrate calabresi, "la vera piaga" si rivelava essere "la totale deficienza del danaro". Una fresca immissione di esso, ben più di una sospensione dei tributi, avrebbe dovuto avere l'effetto di rafforzare quel ceto di "benestanti", di "tanti laboriosi proprietari" esposti all'usura dei contratti alla voce gestiti dai "monopoaisti": quel ceto che altrimenti la crisi rischiava di schiacciare in un sistema basato sui "vincoli dell'alleanza tra gli uomini pecuniosi di detta provincia, e la capitale" (p. 28). L'accento era tutto sull'esigenza di liquidità e il contesto della richiesta di un bon prix restava decisamente diverso da quello fisiocratico.
Nel 1784 il Grimaldi, divenuto influente assessore del Supremo Consiglio delle finanze, nominò il C. "delegato", accanto al lionese Renaud, alla direzione della "scuola" per la tiratura della seta secondo il metodo piemontese, che egli era riuscito a far impiantare a Reggio. Lo considerava persona "di esperimentata probità nel commercio, istruito nella materia economica ed animato dal nobile zelo del pubblico bene".
Si trattava di una delle tante iniziative che erano patrocinate dal Grimaldi, tendenti ad una certa liberalizzazione, ma soprattutto all'ammodernamento della struttura produttiva in Calabria, e in un settore in cui una crisi di vecchia data e di svariate ragioni dilagava ormai nel "paraggio" di Reggio al punto da indurre i produttori all'abbandono della piantagione di gelsi. Nella filanda operarono per un anno col C. alcune maestre genovesi e parecchie di Messina; si introdusse l'uso del mangano "corto" che migliorava in nettezza e regolarità il prodotto; si fece mostra di veli e drappi al re e a Maria Carolina, che pare se ne compiacesse alquanto. Eppure solo un anno dopo, il 17 maggio 1785, essa chiudeva i battenti, con limitati effetti diffusivi e senza alcuna incidenza sulla crisi generale del settore.
Frattanto la casa dei Caracciolo, situata caratteristicamente sulle pendici di Villa, cominciava a diventare quel "tempio delle arti e del genio" che si presenterà di lì a poco agli occhi dello Spiriti. I fratelli vi raccolgono materiali d'ogni genere, frutto di una esperienza che andavano accumulando nelle tecnologie più svariate: viticoltura ed enologia, olivicoltura e raffinazione dell'olio, macinatura del grano e fermentazione della farina, disegni e scritti su macchine ("procurate dagli olandesi") filatrici del calamo, della canapa, del lino, in particolare della seta "raffinate al di là dei piemontesi". Sul piano pratico, si pongono il problema dell'approvvigionamento idrico e lo risolvono, pur fra contrasti municipalistici, garantendosi un quarto della intera fornitura più tutto lo scolo; ampliano i "magazeni" per la conservazione del grano e del vino, facendo in seguito costruire, da "maestri" napoletani, una grandiosa cantina distinta in due gallerie. Con quest'ultima, per la quale chiedevano alla corte nel maggio del 1786 un prestito di ducati 15.000, si proponevano di istituire una vera e propria "fabrica de' vini ad uso di Borgogna" seguendo anche qui il consiglio del Grimaldi: ma anche questa iniziativa non ebbe successo, giacché il cosiddetto "vino del terremoto" che vi si produceva non riuscì mai ad affermarsi.
Ma l'intrapresa più significativa fu certamente l'impianto di due filande di seta. Esso rappresentò il tentativo, fondato pressoché esclusivamente sul favore con cui a corte lo si guardò, di frenare il processo di decadenza di un settore merce l'estensione alla provincia di quei casi isolati di protezione accordata nei dintorni della capitale. Il 12 giugno 1789 vennero concesse ai fratelli Roccantonio e Innocenzo Caracciolo le grazie richieste per l'impresa: maggior libertà nell'acquisto della materia prima nei distretti di Reggio e di Monteleone, spostando il momento del pagamento del dazio dalla nascita alla estrazione, possibilità di cavare il filo coi mangani più opportuni senza essere costretti a servirsi di quelli "pubblici", facilitazioni nel trasporto della materia prima e del prodotto (significativo che nell'aprile del 1791 da Messina si chiedesse al centro se i vini e le sete del C. dovessero pagare i diritti di portofranco e dogana). Sin da quel momento però l'impresa veniva posta sotto il controllo del Supremo Consiglio delle finanze, che peraltro lasciava i Caracciolo titolari di un'impresa, protetta dallo Stato ma di loro rischio e conto, con proprietà (anche se ipotecata a garanzia) e amministrazione sostanzialmente privata.
Riusciti i primi saggi nel maggio 1790, fatti venire da Trieste l'anno appresso a cura e a spese della corte i primi ordigni e maestri filatori, costruiti fornelli "all'uso inglese" che consentivano risparmio di legna, portata l'acqua a Villa superando l'ostilità del feudatario, le "Scuole Reali delle sete" vennero ufficialmente erette dal r. disp. 8 marzo 1792. Con esso, la concessione del titolo di "fabbrica reale" veniva sostanziata da un prestito di ducati 30.000 da restituirsi in rate di 2.000 a partire dal quinto anno di attività e da erogarsi dall'Azienda di educazione e dal Monte frumentario istituito in Catanzaro, mentre la Cassa sacra avrebbe solo garantito il pagamento dell'interesse a scalare al 4%. Un "delegato protettore" fu nei primi anni il governatore della piazza di Messina, in seguito quello di Reggio.
L'iniziativa va inquadrata nelle risultanze di un travagliato dibattito che aveva investito le sfere governative in rapporto all'aggravarsi della crisi del settore a seguito del calo della domanda estera di seta grezza napoletana. Da una più che decennale polemica contro il sistema vessatorio della produzione fondato sull'arrendamento e sui "regi compratori", si era pervenuti al riconoscimento unanime della sproporzione tra redditività del settore e gravezza di un dazio pagato per di più a peso, trascurando ogni differenza di qualità del prodotto, che si presentava dunque notevolmente deteriorata: da ciò l'ulteriore restringersi del mercato. Ma le posizioni emerse dal dibattito non concordavano invece riguardo alle vie d'uscita, al punto che la Giunta creata nel 1789 "per l'abolizione del dazio" aveva finito per passar la mano nel '91 ad un'altra, ridimensionata nei componenti e negli obiettivi, la Giunta "per la perfetta tiratura", con "primo membro" Francesco Caracciolo, che vi esprimeva istanze e progetti maturati in Calabria.
In quello che è forse il suo scritto migliore (Necessità di supprimersi il dazio sulle sete del Regno col metodo per rimpiazzarlo che si propone, Napoli 1785) due sono i motivi fondamentali della decadenza dell'"industria" della seta nel Regno felicemente individuati dal C.: la carenza nella "educazione" del lavoro, che è quella che fa il "valore delle nazioni", e la diminuzione del consumo. A rimanere nettamente privilegiato era però il primo punto: "tolti i vizi della tiratura", diffondendo (magari con incentivi fiscali), Come in quegli anni da più parti si progettava, la trattura a mangano piccolo introdotta a San Leucio, il valore del prodotto sarebbe aumentat facendo crescere i profitti sia per il proprietario dei bozzoli sia per l'industriante, consentendo altresì alle stesse manifatture regnicole, convenientemente protette, di contendere a quelle estere il mercato nazionale. Come sarà per la seconda Giunta, quella che elaborerà i nuovi "regolamenti" del '92, patrocinando una serie di sperimentazioni dalla bachicoltura sino alla tintura, e che in pratica costituirà il grosso appoggio all'impresa di Villa San Giovanni; così anche dal C. un affidamento quasi esclusivo è riposto nei miglioramenti tecnici: "basta farsi perfettamente istruire nell'arte", e un radioso futuro attende l'industria anche nel Mezzogiorno (pp. 63 s.). Se questa fiducia si affievolirà man mano nel C., è da notare che nel 1785 il discorso tecnologico gli richiama subito la necessità di modificare l'intero sistema di percezione del dazio sulla produzione della seta, quel sistema dell'arrendamento che per tema del contrabbando costringeva a svolgersi all'aperto e sotto i più assurdi controlli le operazioni della filatura (e, in pratica, tutto l'iter produttivo), impedendo virtualmente ogni miglioramento, preoccupato solo della quantità e non della qualità del prodotto. "Giusta il presente piano, dee il proprietario della seta essere assoluto padrone di venderla quando, e dove gli piace, senza che l'arrendamento vi avesse più la menoma influenza" (p. 60), rivendicava il C. presentando la sua proposta di sostituite al dazio un'imposizione a carico delle Università proporzionata al valore delle fronde di gelso coltivate nel rispettivo territorio: una volta corrisposta, il proprietario avrebbe potuto disporre liberamente del suo prodotto, senz'esser più obbligato fra l'altro, come per lo più avveniva, a fargli prendere la via della capitale. In fondo, egli ragionava fiducioso, teoria ed esperienza degli Stati più avanzati mostrano che "l'avvilimento d'una nazione nasce meno dall'eccessiva massa de' pubblici pesi, che dalla mancanza di circolazione, e dall'esser distribuiti senza proporzione, fuor di luogo, ed in modo che invece di accrescere diminuiscono le forze dello Stato" (pp. 69 s.). La sua soluzione, caldeggiata anche dal Grimaldi, dallo Spiriti e in parte dal Palmieri, non ebbe seguito, anche per l'opposizione di alcune Università. Nonostante la preoccupazione, comune al C. e a tutti i partecipanti alla discussione, di salvaguardare gl'interessi dell'erario e in ultima analisi anche della rendita parassitaria che stava dietro l'arrendamento, l'immobilismo governativo ebbe modo di manifestarsi nuovamente, come già era avvenuto sulla questione più generale della revisione della tariffa doganale del Regno.
In questo quadro, puntare sui miglioramenti temici favorendo la localizzazione di qualche industria anche alla periferia acquistava il significato di scelta di ripiego. Non a caso, la polemica condotta dal C. nell'85 nei confronti del sistema dell'arrendamento, della venalità degli impieghi, dello storico arricchimento nel Regno di ceti speculatori sarà lasciata cadere. In effetti, quel tanto di sviluppo che la sua impresa poté registrare tra 1792 e 1797, utilizzò proprio la preesistente struttura coattiva dell'arrendamento, cercando di finalizzarla ad una certa concentrazione produttiva e al miglioramento tecnico: venivano obbligati i possessori di bozzoli prima del territorio di Fiumara, nel '93 anche quelli reggini di Sambatello e Calanna, a convogliare nella filanda di Villa che veniva a sostituire tutti i tradizionali "posti" pubblici della trattura; il Supremo Consiglio confermava, contro le perplessità da più parti manifestate, il suo appoggio all'iniziativa, passando anche, auspice il Codronchi, a prevedere l'impianto nella zona al massimo di quattro unità produttive: a Villa appunto, a Reggio (che fu l'unica altra del piano a trovare attuazione: e fu la "colonia de' Giunchi ad uso delle R. Scuole di Villa" del 1797) verso la Motta e a Brancaleone; veniva rinnovata con qualche aggiunta la prammatica del 1751. Il prezzo della seta tirata ora col mangano di palmi 5 veniva fissato a 1 carlino a libbra in più delle tradizionali sete "lunghe". Auspice Francesco Caracciolo, si esentava da ogni dazio l'immissione in Napoli dei cascami di seta ("bavella"), la cui filatura anche era stata introdotta a Villa al fine di far "argine a quel torrente di stranieri lavori che tende a sommergere qualunque industria nazionale".
Mercé questa protezione, e l'iniziale finanziamento, lo sforzo a livello tecnico operato dal C. appariva notevole. Esso andava dalla sostituzione delle varie specie di gelsi bianchi ai neri e di un nuovo seme a quello comune, all'adozione della potatura alla Castellet, alla stufa "alla tedesca" per la separazione delle crisalidi dai bozzoli; dalla filatura alla tintoria con due caldaie per la tinta del nero, alla tessitura con qualche telaio per stoffe e per calze. In particolare, la filatura era strutturata in due distinte filande: l'una lunga 508 palmi allineava 66 mangani impiegando a pieno ritmo 132 donne in grado di produrre 70 libbre al giorno di seta "alla piemontese" e cioè l'organzino; l'altra, in due braccia ciascuno lungo palmi 272, impiegava 126 uomini su 42 mangani, ed era destinata alla filatura detta "alla Sangiovanni", anch'essa migliorata. Una ruota di 32 palmi "mossa da due uomini" azionava due filatoi. L'ovale oltre che a torcere serviva anche a filare. S'era introdotto l'uso dell'"assaggiatore". Pervenuti nonostante l'opposizione dei negozianti all'intento principale, ch'era quello di discriminare il calibro del filo, cioè fissare gli standard, si riusciva a smerciare il prodotto, pur tra le difficoltà della congiuntura, non solo a Napoli ma direttamente a Lione, via Messina-Marsiglia. Pochi i manufatti, per lo più lisci, adatti allo scarso consumo locale.
Nonostante l'impiego di tutte le loro sostanze (si arrivò a un totale di 85.000 ducati) e il fervore posto nell'impresa dal C., dal fratello Innocenzo, dalla moglie Gerolama Anile, il destino di essa poteva dirsi segnato in partenza. Al condizionamento tipico dell'imprenditore in età preindustriale (da un lato congiuntura commerciale, negativa, dall'altro offerta di capitale, insufficiente una volta esaurito il prestito governativo) si aggiungevano fattori strutturali ed ambientali propri del Regno meridionale. Il compromesso con l'arrendamento doveva molto presto rivelarsi fragile, troppo contrastanti essendo gli interessi di quella struttura e del nuovo industrialismo. Vie d'uscita come la creazione di un effettivo mercato e la valorizzazione del capitale erano improponibili, non solo di fatto ma probabilmente anche alla stessa mentalità e cultura egonomica dei Caracciolo.
Se essi ci si presentano entusiasti del "canone ricavato dalla storia del commercio degli inglesi: cioè che il vero fonte della ricchezza nazionale nasce dal perfezionare e raffinare in tutto la man d'opera", aggiungendo subito peraltro "perché così viene ad attirarsi più danaro nel paese" (Memoria istorica, p. 171), non sembrano né partecipi della lezione smithiana sul ruolo giuocato dalla divisione del lavoro, né inclini ad una logica e ad una prassi che non siano quelle tipicamente mercantiliste. Certo, avvertivano esplicitamente la superiorità di una situazione in cui "l'industria di allevare i bachi termina colla vendita de' folleri, essendo un'industria ed un'arte totalmente separata quella di trame la seta nelle filande", ma vedevano lo sviluppo legato soprattutto all'industria disseminata, dichiarando di adottare il piccolo filatoio ovale "perché quando i rami delle scuole saranno estesi può molto convenire a famiglie numerose..., provvedersene uno simile in casa propria e guadagnarsi un onesto pane" (R. e I. Caracciolo, Relazione intorno le filande di seta del passato anno 1794 delle Reali Scuole di Villa Sangiovanni, Napoli 1795, pp. 30 s.).
In pratica sin dalla loro fondazione, le "scuole" di Villa avevano dovuto fare i conti con quella che il Galiani aveva messo al primo posto tra i mali della Calabria: "la prepotenza de' baroni". La opposizione sorda della duchessa di Bagnara, del principe di Scilla, di quello della Roccella, e forse ancor più dei loro amministratori ed "erari" in combutta coi negozianti, all'introduzione e al progresso della filanda vide le sue manifestazioni più clamorose nel mandato di carcerazione per contrabbando spiccato nel maggio del 1794 a carico del C.; nella accesa disputa solo apparentemente "tecnica" col marchese di Fuscaldo nel 1796; nel sequestro dei beni e della contabilità dell'impresa eseguito in circostanze drammatiche il 10 maggio 1799. Quest'ultimo avvenimento doveva rappresentare un colpo mortale per l'impresa: esso si collegava con la reazione politica in atto in Calabria e in particolare nel Reggino, e sfruttava la probabile appartenenza del C. alla loggia massonica di cui facevano parte il fratello Francesco, il Grimaldi, e quel piemontese Francesco Bal che aveva assunto un ruolo di direzione tecnica nella filanda di Villa, imparentandosi fra l'altro coi Caracciolo.
Il sequestro verrà tolto solamente il 10 luglio 1800, ma ora la situazione dell'impresa era irrimediabilmente compromessa: il finanziamento governativo ormai esaurito, senza che i Caracciolo avessero neppure potuto iniziarne la restituzione; l'impossibilità di praticare più il sostegno del mercato qualificato, attraverso l'acquisto dai produttori della loro seta meglio filata nella stessa azienda; la produzione crollata dalle 16-18.000 libbre di seta (di cui, va notato, soltanto un quarto era costituito da organzino tirato alla piemontese) in media negli anni precedenti, alle 6-7.000 appena; la "ignominia di un generale discredito", infine, particolarmente dannoso per le relazioni commerciali. La demagogica "grazia" del Ruffo (1799), che liberalizzava il settore, aveva avuto l'effetto di allontanare i produttori dalla filanda dei Caracciolo, bloccandone lo sforzo di miglioramento tecnico. Eppure, ai primi dell'500 era ai filatoi adoperati a Villa che si guardava da Catanzaro, dove invece il settore aveva continuato a decadere. Ma col dispaccio del 20 marzo 1805, auspice quel Luigi de' Medici, cui gia all'epoca della sua missione calabrese certi progetti eran parsi simili a "brillanti pe' quali mancasse il metallo per incastrarli", si assisteva ad un radicale revirement di politica economica nei confronti della seta: il settore veniva totalmente liberalizzato, seccamente respinte le timide perplessità espresse in proposito dal C. che riproponeva l'applicazione rigidamente controllata dell'editto piemontese del 1724 (già più volte recepito nelle prammatiche del Regno), per quanto nella versione rivista del 1803. Intanto chiedeva la carica di amministratore delle dogane di Monteleone per recuperare credito negli affari. Egli ci sembra così non tanto espressione di una mentalità e di un'epoca ormai conclusa, quanto piuttosto di contraddizioni nuove nella società civile del Regno meridionale emergenti dall'impatto con le modificazioni del quadro economico e ideologico esterno ad esso.
Il sostanziale fallimento dell'impresa, che egli lucidamente attribuiva alla persecuzione baronale, e alla presenza di troppe "spese false" (ora diremmo diseconomie esterne) rovinarono la famiglia (il C. ebbe perlomeno sei figli, di cui i maschi Ferdinando, Francesco, Michelangelo, dediti comunque ad attività forensi ed amministrative). Nonostante il suo impegno, non riuscì al C. di operare il miracolo della ripresa della filanda, tanto che nel 1818 otterrà dal Consiglio di Stato, in considerazione delle "malagevoli circostanze" in cui versava lui che pure aveva operato per il "bene pubblico", la commutazione del vecchio debito ancora in piedi di ducati 32.000 in un rateo a favore dell'ospedale degli Incurabili in Napoli per soli complessivi ducati 6.000.
Morì a Villa San Giovanni l'11 novembre del 1820.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Finanze, fascio 1654: I. Caracciolo, Mem. istor. delle Reali Scuole di Villa Sangiovanni [c. 1900]; fasci 88, 1348, 1385, 1388, 1473, 2455, 2517, 2636; Ibid. Catasto Onciario. Scilla 6116; Fiumara 6044; Ibid., Cassa sacra 1034; Archivio di Stato di Reggio Calabria, Intendenza di Calabria Ultra, inv. III, fs. 229, fasc. 2; 232, fasc. 141; Napoli, Biblioteca nazionale, ms. XIII. B. 65, ff. 120 rv, 150; G. Spiriti, Riflessioni economiche-polit. d'un cittadino relative alle due provincie di Calabria, Napoli 1793, pp. 148 s.; A. Grimaldi, La Cassa sacra ovvero la soppress. della manomorta in Calabria nel sec. XVIII, Napoli 1863, pp. 90 s.; T. Fornari, Delle teorie econom. nelle provincie napolitane dal 1735 al 1830, Milano 1888, pp. 262 s., 394; Camera di Commercio ed Arti di Reggio Calabria, Le condizioni econom. della provincia di Reggio Calabria, Reggio Calabria 1900, pp. 54-65; R. Cotroneo, L'arte della seta e la scuola degli organzini a Reggio, in Riv. stor. calabrese, XII (1904), pp. 16-20, 117-20, 187-91, 318-24; L. Nostro, Notizie stor. e topografiche intorno a tutti i paesi del Cenideo..., Reggio Calabria 1923, pp. 96-106, 115, 118, 133-36, 145-47, 157; G. Tescione, L'arte della seta a Napoli e la colonia di S. Leucio, Napoli 1932, pp. 82-89; A. Basile, Un illuminista calabrese,Domenico Grimaldi di Seminara, in Arch. stor. per la Calabria e la Lucania, XIII (1943), pp. 80, 87, 145, 151-53; P. Chorley, Oil Silk and Enlightenment. Economic Problems in XVIIIth century Naples, Napoli 1965, pp. 232-43.