Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il discorso sui rapporti tra moda e rock ha spesso inteso la prima come sinonimo di conformismo, il secondo come spazio di sperimentazione di nuove e originali identità visive. Esistono, però, scambi, complicità reciproche e forme di collaborazione diretta tra questi due ambiti della produzione culturale. Rock e moda presentano, infatti, comune attenzione per la centralità dell’immagine, la sperimentazione stilistica e il culto delle celebrità.
Nel descrivere la vicenda del rock è difficile separare gli elementi visivi da quelli sonori. I gesti, la mimica, la drammaturgia e la scenografia hanno un ruolo determinante nella dimensione performativa del concerto e, più recentemente, del videoclip. Gli abiti plasmano l’io visibile delle rockstar e continuano ad agire oltre la sfera pubblica del concerto, delle fotografie di scena e delle copertine dei dischi. Fin dal secondo dopoguerra – quando il rock è codificato come genere musicale – la sua storia può essere intesa come un percorso che parte dalla musica e coinvolge la moda o viceversa. È quest’ultimo il caso dei teddy boys, giovani inglesi della working class che ancora prima di ascoltare il rock’n’roll di provenienza statunitense vestono aristocratici completi rétro in stile edoardiano. All’inizio degli anni Cinquanta, essere teddy boys o teds (diminutivo di Edward VII, monarca del Regno Unito dal 1901 al 1910) significa soprattutto commissionare costosi vestiti ai sarti londinesi di Savile Row, ieri come oggi sinonimo di sartorialità britannica. Lo stile neo-edoardiano – con le sue giacche lunghe a doppio petto, i colli e i polsini di velluto e i panciotti fantasia – è così sfarzoso da apparire come oltraggiosa risposta giovanile al razionamento dei generi di abbigliamento, politica attuata dal governo inglese durante il secondo conflitto e ancora vigente nei primi anni Cinquanta. Per il collegamento dei teds al rock’n’roll bisogna attendere almeno il 1955, anno in cui il film statunitense Blackboard Jungle trasforma il brano Rock Around the Clock di Bill Haley in un successo internazionale. I completi con collo a scialle e giacche lunghe in tartan – indossati nel 1957 dallo stesso Haley e dai suoi Comets in occasione della prima apparizione londinese – combinano gusto neo-edoardiano e recupero dello stile afro-americano zoot-suit degli anni Quaranta. Alla costruzione dell’identità visiva della prima generazione del rock partecipano anche le gonne a ruota con romantici sottogonna spumeggianti, ispirate alla linea di haute couture parigina new look lanciata da Christian Dior nel 1947. Un’altra icona degli anni Cinquanta è la “banana”, acconciatura-costruzione lucida e iperbolica come le linee aerodinamiche del design americano e le pinne cromate delle Cadillac. Tra America ed Europa, ci sono i capelli impomatati degli statunitensi Elvis Presley e Little Richard, ma anche quelli dei francesi Jessé Garon e Isidore Isou (il fondatore del lettrismo) e degli italiani Little Tony e Bobby Solo.
Dall’inizio degli anni Ottanta, il tema dei rapporti tra rock e moda ha suscitato una grande attenzione soprattutto in coincidenza con l’emergere di concetti quali sottocultura e street-style, che hanno esaltato l’antagonismo con la moda ufficiale di sartorie, stilisti e riviste patinate. I discorsi sulle sottoculture hanno messo in luce il rock come portatore di valori sociali ed estetici positivi quali libertà, ribellione, autenticità e originalità stilistica, riducendo invece la moda a una forma equivoca di commercializzazione e sfruttamento di tali valori. Così, per esempio, l’antropologo Ted Polhemus (Street Style, 1994) intende l’uso frequente del giubbotto nero e zippato da motociclista come bisogno di garantire l’autenticità del musicista, a cominciare da rockstar come Gene Vincent, passando per Jim Morrison, Lou Reed, The Clash fino a Bruce Springsteen e George Michael. Al contrario, Polhemus presenta la traduzione dello stesso giubbotto da parte di stilisti quali Katharine Hamnett, Pam Hogg, Jean-Paul Gaultier, Claude Montana, Thierry Mugler, Gianni Versace e John Richmond come dimostrazione dell’inautenticità di una moda che imita spesso gli stili di strada e l’apparenza delle rockstar.
Ma la moda è una realtà complessa, dinamica e non riducibile a un processo di imitazione. La sua storia è fatta anche di scambi, di forme di complicità e di collaborazione con le altre espressioni culturali. Dagli anni Sessanta, le nuove mode si codificano nel fenomeno delle boutique, i cui gestori sono spesso trend setter, animatori culturali, manager e image maker di musicisti e band emergenti. In altri casi i ruoli si invertono: al culmine del successo, i Beatles aprono a Londra la Apple Boutique, mentre il gruppo Equipe 84 inaugura a Milano il primo Equipe 84 Bazaar nel 1967, cui seguiranno altri 43 negozi in franchising diffusi su tutto il territorio italiano. In quel decennio Londra è il punto di riferimento per le nuove mode, le nuove band musicali e le nuove boutique. Barbara Hulanicki, nella sua autobiografia From A to Biba (1983), spiega l’importanza della musica nella vita di una boutique di quegli anni. Parlando della sua Biba, afferma con orgoglio che “il negozio aveva la musica migliore della città, scelta da Elly e Irene. Quando eravamo stanchi, ecco che arrivava Leader of the Pack delle Shangri-Las”. Nella psichedelica Swinging London dei Pink Floyd le boutique di culto sono Granny Takes a Trip, I Was Lord Kitchener’s Valet e Lord John. Il cambio di scena degli anni Settanta non scardina il connubio tra negozi, produzione di mode e di musica perché, come spiega Malcom McLaren, “la moda sembrava essere il luogo d’incontro di musica e l’arte”. Lo stesso McLaren – protagonista della scena punk-rock inglese della seconda metà degli anni Settanta quale manager e image-maker dei Sex Pistols – esordisce a Londra come creatore di abiti e gestore di un negozio di abbigliamento. Nel 1971 McLaren e l’allora compagna Vivienne Westwood (poi divenuta stilista di fama internazionale) si insediano al numero 430 di King’s Road, dove il loro negozio dall’identità camaleontica cambierà spesso nome: Paradise Garage, Let it Rock, Too Fast To Live Too Young To Die e, nel 1974, Sex. Specializzato nella vendita di “rubberwear, glamourwear & stagewear” – recita un annuncio pubblicitario dell’epoca – Sex diventa centro di elaborazione dell’estetica punk. Vi si trovano in vendita maschere sado-maso di gomma, golfini di mohair in colori pop, catene, giubbotti zippati e t-shirt con una contraddittoria iconografia politica che va dal radicalismo anarchico alle svastiche naziste. Nonostante il caso emblematico McLaren e Westwood nel ruolo di stilisti, le resistenze ad accettare la relazione tra punk e moda sono ancora oggi diffuse. Complice di queste resistenze è la promozione, da parte dei media, dell’immagine del punk come puro oltraggio a tutte le norme musicali e sartoriali. Un’interpretazione, questa, condivisa allora dal teorico delle sottoculture Dick Hebdige nel suo fondamentale Subcultures. The Meaning of Style (1979), sebbene lo stesso autore abbia ritrattato questa interpretazione già alla fine degli anni Ottanta, considerandola troppo semplicistica poiché in realtà “le iperboli visuali e musicali del punk aiutarono a far prosperare le industrie inglesi della moda”.
Il rock e la moda creano e alimentano un immaginario contemporaneo popolato di celebrities. Nel suo New Society (1967), la scrittrice Angela Carter racconta gli esiti mediatici del processo per droga ai Rolling Stones: “un elegante scontro di simbolismi sartoriali” tra il giudice in toga e parrucca e i “bellissimi ragazzi in fronzoli, abbigliati nelle tinte del tramonto”. Carter evidenzia l’uso strategico del vestire da parte degli Stones che “hanno sempre usato le armi sartoriali – dagli inizi relativamente sobri (capelli lunghi e sporcizia) al famoso paginone centrale del Daily Mirror in superdrag”.
Le relazioni tra rock e moda sono lunghe e proficue ed è nel contesto della cultura popolare che elaborano un comune progetto di rottura con le convenzioni visive, di nobilitazione della marginalità sociale e di sperimentazione delle identità multiple fino alla provocazione del cross-dressing. Dopo i Rolling Stones in superdrag, è la volta del glam rock degli anni Settanta con Marc Bolan in abiti di lamé e David Bowie vestito da Ziggy Stardust con piume e lustrini. Grace Jones e Annie Lennox divengono icone glamour degli anni Ottanta indossando completi da maschio dominante, mentre Kurt Cobain in abiti da ragazzina fa parte dell’immaginario più dimesso del grunge dei primi anni Novanta. Nel corso degli ultimi cinquant’anni le star del pop-rock emergono come potenti agenti provocatori di nuove mode, testimonial delle mode stesse e promotori di firme dello stilismo. A volte la consanguineità tra moda e musica è particolarmente evidente, come nel caso della fashion designer inglese Stella McCartney, figlia dell’ex Beatles Paul McCartney.
La moda contribuisce a creare un’aura divina intorno alle rockstar contemporanee e Rock and Royalty (1996) di Gianni Versace si basa sulla convinzione che le rockstar siano oggi i nuovi reali. In questo libro fotografico – che si apre con la doppia dedica dello stilista italiano a Lady Diana “che ha reso glamour i reali” e a Elton John “che è diventato un ’sovrano’ del rock” – sfilano le immagini di Tina Turner, Sting, Prince, Madonna, Elton John e Jon Bon Jovi, tutti interpreti delle collezioni Versace dei primi anni Novanta. Le rockstar continuano a essere protagoniste della scena mediatica, anche se a volte in modo più profano, come nella campagna pubblicitaria primavera-estate 2000 del marchio d’abbigliamento italiano Diesel. Concepita come parodia di un giornale scandalistico intitolato ironicamente It’s Real, la campagna segue in modo ossessivo una finta country rockstar di nome Joanna, restituendone la vita “Day by day. Minute by minute”.