DE MATTEI, Rodolfo
Nato a Catania da Eugenio e da Maria Sciuto Patti il 1ºgenn. 1899, e laureatosi in giurisprudenza nel 1922 nell'università catanese, fu il primo a conse, guire la libera docenza (1927) ed a vincere il concorso a cattedra in storia delle dottrine e delle istituzioni politiche. Dal 1934 insegnò nelle università di Cagliari, Firenze ("Cesare Alfieri"), Pisa, Chieti ("Gabriele D'Annunzio"), e dal 1949 al 1975 nella facoltà di scienze politiche dell'università di Roma.
Cospicuo l'elenco dei riconoscimenti: socio corrispondente (1966) dei Lincei e benemerito dell'Istituto di studi romani, è stato rappresentante italiano all'UNESCO e presidente dell'Associazione di scienze politiche e sociali. Dottore honoris causa dell'Académie des sciences et lettres di Montpellier e della Real Academia de la historia di Madrid, vinse nel 1972 il premio del ministero della Pubblica Istruzione per la storia e geografia storica e antropica.
Secondo il D., la storia delle dottrine politiche, sorta nel nostro paese come disciplina autonoma agli inizi dei passato secolo, è "storia delle varie riflessioni sul problema generale dei rapporti tra la realtà e l'attività politica, sociale e istituzionale". Considerata in questo modo, essa acquista un'autonomia sia rispetto alla filosofia dei diritto sia rispetto alla dottrina dello Stato, delle quali per tanto tempo è stata considerata un capitolo.
Contrariamente alla tradizione storiografica dominante, secondo la quale non poteva darsi dottrina politica se non basata su rigorosi fondamenti filosofici, il D. testimoniava sin dalle sue prime prove un'attenzione verso il "politico" di autori non direttamente definibili come politici (letterati, giuristi, teologi, economisti), senza per questo naturalmente pensare che ogni testo contenente qualche accenno alla politica, possa e debba considerarsi pensiero politico. Appartengono al tempo dell'esordio, sicuramente influenzato dall'attenta lettura di Ahistory of Medioeval political theory in the West dei fratelli Carlyle, le sue ricerche su Dante e Savonarola (1937), sulla politica nel teatro romano (1937) ed il volume Ilsentimento politico del Petrarca (Firenze 1944).
I saggi giovanili teorizzavano anche la necessità di una rivalutazione degli autori cosiddetti "minori" (vuoi per le caratteristiche asistematiche del pensiero, vuoi per appartenenza ad aree geografiche periferiche, vuoi infine per la scarsa fortuna storiografica ricevuta), che invece, proprio o a causa delle loro marginalità, meglio di altri potevano rappresentare un'epoca, ovvero intuire un passaggio. In questa direzione vanno i saggi sul pensiero politico siciliano e ligure. Alla stessa scelta metodologica, certamente mutuata dalla critica antiparlamentare del Mosca conservatore, appartengono i saggi dedicati all'Ottocento postrisorgimentale e cioè al Problema della democrazia dopo l'Unità (Roma 1934), al passaggio Dal trasformismo al socialismo (Firenze 1941), alla Questione sociale (Milano 1941) e a La rivoluzione parlamentare del 1876 (in Studi politici, III[1954], pp. 398-407).
Estraneo sia allo storicismo crociano sia all'attualismo gentiliano, il D. fu in primo luogo contrario all'"esagerato filosofare" della cultura italiana degli anni TrentaQuaranta. Il punto di vista era articolato nel saggio Sul metodo, contenuto e scopo di una Storiadelle dottrine politiche (in Arch. di studi corporativi, IX [1938], pp. 200-36), laddove veniva condotta un'aspra polemica nei confronti delle teorizzazioni compiute e delle ipostasi esercitate due anni prima da Felice Battaglia nei Lineamenti di storia delle dottrine politiche.
In contrasto con una cultura dominante che, tra la fine degli anni Trenta e gli inizi dei Quaranta, andava sempre più distinguendo una filosofia della politica da una scienza empirica della politica e tutt'e due dalle tendenze pratiche e dagli esiti pragmatici della stessa politica, egli fu apertamente critico anche dei positivisti tardottocenteschi, per i quali lo studio delle dottrine politiche avrebbe potuto e dovuto produrre "tabelle matematiche" di norme e una casistica della condotta politica al fine di individuare le soluzioni più opportune ed efficaci. Tra idealismo e positivismo egli cercò il punto centrale per considerare costantemente aperti i canali di collegamento tra il pensiero e l'azione, l'ideologia e la realtà, la teoria e la prassi, la filosofia e la storia.
Attento lettore di R. Michels, oltre che di Mosca e Pareto, collega ed estimatore di C. Morandi, il D. inaugurò uno Scandaglio scientifico in cui primaria restava la ricostruzione-valutazione dell'ambiente storico (in tutte le sue sfumature), onde evitare una storia delle idee sganciate dai fatti, oppure una storia delle teorie in nulla dipendente dai programmi che, invece, debbono essere direttamente considerati, dallo storico, fonti "principali e genuine".
Quanto all'autonomia della politica, essa non gli parve né minimamente ipotizzabile né fruttuosamente praticabile: dall'angolazione di un riconoscimento del suo necessario intrecciarsi con la morale, egli recuperava le tesi esposte dallo janet nell'Histoire de la philosophie morale et politique (Paris1858).
Lo storico delle dottrine politiche diventava così l'indagatore del rapporto politico in tutte le sue metamorfosi: individuo-Stato, autorità-libertà, morale-azione, giustizia-violenza. A questo rapporto che secondo il D. andava individuato "dovunque e comunque": nel pensiero sistematico ma anche nei propositi, nelle idee organiche ma anche nelle intuizioni, nelle teorie ma anche nei sentimenti, nei razionalismi ma anche nelle utopie, nei fallimenti come nei miti, negli ideali come negli interessi concreti.
Avendo la storia delle dottrine politiche un valore teorico e pratico ad un tempo, per il D. era impossibile sostenere o illudersi di essere imparziale: leggere significa infatti interpretare, come scrivere vuol dire rivivere: atti nobili, ma non per questo meno soggettivi. Lo storico può al massimo ambire a dare al proprio giudizio critico il carattere di sincerità.
Rigorosamente ancorato ai testi analizzati (mai strumentalizzati per confermare una tesi precostituita, o per supportare un discorso esterno), il D. era rappresentante del metodo espositivo: un metodo che si limita a raccontare un autore attraverso lo stesso autore, anche a costo di identificare il proprio scritto con un accumulo di citazioni testuali. Convinto forse in questo modo di poter eliminare o almeno ridurre il momento soggettivo di un'interpretazione.
La vocazione metodologica per la ricerca analitica, circoscritta, specifica e rigorosamente limitata si espresse nella sua preferenza verso i saggi, i "frammenti" (così chiamava i propri lavori) rispetto ai libri e alle opere organiche. Le sue indagini si sono rivolte a numerosi temi della storia del pensiero politico dall'antichità classica all'età contemporanea attraverso il Medioevo, l'Umanesimo ed il Rinascimento, le rivoluzioni borghesi e gli Stati nazionali. Molti di questi saggi sono ora consultabili nei due volumi Aspetti di storia del pensiero politico (Milano 1980-82).
Per quanto frammentario, esiste comunque un nucleo forte della ricerca storiografica dematteiana: essa è la problematica connessa ai secoli XVI-XVII. Un lungo lavoro critico (e ancor prima, bibliografico) teso a confutare l'assunto del De Sanctis su quell'epoca storica definita "vuota di passione e di coscienza" .
La genesi e lo sviluppo del dibattito condotto in quei secoli sulla "ragion di Stato" (durante il quale sono intervenuti scrittori e pensatori come Machiavelli e Guicciardini, mons. Della Casa e Botero, Ammirato e Zuccolo), hanno costituito un crinale di riferimento costante. L'approdo dematteiano su tali tematiche è ora consultabile nei volumi Il problema della "Ragion di Stato" nell'età della Controriforma (Milano-Napoli 1979), e Il pensiero politico italiano nell'età della Controriforma (Milano-Napoli 1982).
Alcuni dei risultati contenuti nei citati volumi ricciardiani, specialmente per quanto attiene alla storia del machiavellismo, erano stati preordinati in Dal pre-machiavellismo all'antimachiavellismo (Firenze 1969). In questo fortunato lavoro, oltre alla storia della fortuna-sfortuna dell'opera machiavelliana e delle sue anticipazioni, era stata definitivamente sancita la distinzione - in sede di antimachiavellismo - tra confutatori critici o eruditi e censori preconcetti o tendenziosi.
Non solo interessato a cogliere il nesso ideologico e la valenza politica del testo filosofico, letterario, giuridico, il D. è stato elzevirista e letterato in proprio. Inserito fin dalla giovinezza nell'ambiente letterario (pendolante fra Catania e Roma) dei Quasimodo, Brancati Patti e Lanza, ha pubblicato diversi volumi di letteratura e di giornalismo letterario, fra cui Compagni di ventura (Milano 1928), Viaggi in libreria (Firenze 1941), Isola segreta (Milano 1942) e Ritratti di antenati (Firenze 1944).
Alla capitale ha dedicato diverse ricerche erudite, tra le quali Polvere di Roma (Roma 1935) e Labirinto romano (ibid. 1954).
Morì a Roma il 19 luglio 1981.
Bibl.: S. Testoni, La storia delle dottrine politiche in un dibattito ancora attuale, in Il Pensiero politico, IV (1971), pp. 305-80; L. Russi, R. D. e la storia delle dottrine politiche, in Trimestre, XIII (1980), pp. 127-34; A.M. Battista, R. D., ibid., XVII (1984), pp. 121-26.