PIO, Rodolfo
PIO, Rodolfo. – Nacque a Carpi nel 1500, figlio primogenito di Leonello, fratello dell’ultimo signore di Carpi Alberto III, e di Maria Martinengo. Stando all’iscrizione posta sulla sua tomba, la data di nascita può essere fissata intorno al 24 febbraio.
Precocemente avviato alla carriera ecclesiastica, nel 1516 era membro dell’Ordine gerosolimitano e godeva della commenda di S. Lorenzo di Colorno, cui il 6 marzo 1517 aggiunse la rettoria della chiesa della Ss. Trinità di Ferrara. Le nozze di Alberto III con Cecilia Orsini, figlia del cardinale Franciotto di Monterotondo (13 febbraio 1518), offrirono a Pio importanti contatti con la Curia romana presso cui lo stesso Alberto rivestiva l’incarico di ambasciatore cesareo. È verosimile che in quel periodo, dopo avere terminato gli studi di filosofia e teologia a Padova, Pio trovasse ospitalità nel palazzo in rione Ponte, dimora dello zio, che si legò a lui come a un figlio. Nel 1523 Clemente VII lo nominò maggiordomo segreto, dando inizio alla sua ascesa nei ranghi curiali. Negli anni Venti si avvicinò agli ambienti farnesiani, in particolare al cardinale Alessandro, divenuto papa nel 1534 con il nome di Paolo III. A quello stesso periodo risalgono le sue relazioni con esponenti della cultura prossima al profetismo cinquecentesco, come Pietro Galatino, che gli dedicò il trattato De vera theologia. Il 13 novembre 1528, in una Roma ancora sconvolta dal sacco dell’anno precedente, venne designato vescovo di Faenza, diocesi che governò tramite vicari scelti nella cerchia degli uomini fedeli alla sua famiglia. Durante il suo episcopato, pur non risiedendo, promosse una riforma del clero attraverso la celebrazione di un sinodo e la promulgazione a stampa, nel 1533, delle relative costituzioni (Constitutione et ordinatione synodale della citate et diocese Faventina di comissione del reverendissimo et illustrissimo signore el s. Rodolpho Pio... celebrate per el reverendo miser Matheo Mengario faventino in temporale et spirituale vicario..., Ferrara 1533).
Poco dopo la nomina vescovile, cominciò un’intensa attività diplomatica per conto del pontefice: nell’autunno-inverno del 1529 si trovava a Firenze con un incarico non del tutto chiaro, forse per trattare con Malatesta Baglioni, difensore della Repubblica fiorentina, poi suo traditore. In seguito, dal 16 luglio al 28 novembre 1530, fu inviato in Francia per perorare una pacificazione dell’area italiana. Di lì a breve un duro colpo gli sarebbe venuto dalla scomparsa dello zio, morto a Parigi l’8 gennaio 1531 dopo avere perso il dominio su Carpi. L’eredità che ne derivò fu in parte destinata a lui: oltre alle collezioni artistiche e antiquarie («omnia signa et tabellas et monimenta antiquitatis», Svalduz, 1999, p. 479), gli fu affidata la preziosa raccolta di libri e codici che, nelle intenzioni di Alberto, sarebbe dovuta tornare a Carpi alla ricostituzione (mai avvenuta) del feudo di famiglia.
Il 27 maggio 1533 Pio fu designato nunzio presso il duca di Savoia Carlo III allo scopo, non raggiunto, di ottenere la concessione temporanea della roccaforte di Nizza come luogo di incontro tra il papa e il re di Francia. Nel gennaio 1535 per volontà del nuovo pontefice Paolo III tornò Oltralpe, assumendo la nunziatura francese in sostituzione di Cesare Trivulzio, accusato di eccessiva cedevolezza nei confronti della Corona. L’abilità nell’aggirare l’ostilità incontrata e la capacità di trovare accordi equilibrati valsero al trentaseienne Pio la porpora. Nel concistoro del 22 dicembre 1536 fu creato cardinale presbitero, ricevendo il 23 luglio seguente il titolo di S. Pudenziana (poi lasciato per quello di S. Prisca). Ai tempi dell’ingresso nel S. Collegio risale l’affitto di palazzo di Firenze (già dei Cardelli) in campo Marzio, che sancì simbolicamente la sua affermazione nella gerarchia romana. Dieci anni dopo si sarebbe trasferito nel palazzo Pallavicini, sempre in campo Marzio, che assieme con la vigna suburbana di Montecavallo, acquistata nel 1549, avrebbe costituito lo scenario delle sue straordinarie collezioni antiquarie.
Il 3 aprile 1537 il neocardinale venne richiamato a Roma dalla Francia per la preparazione del concilio ecumenico che si sarebbe dovuto tenere a Mantova (poi passato a Trento). Nel concistoro del 19 dicembre 1537 fu nominato legato presso il re di Francia, al fine di convincerlo ad appoggiare la convocazione dell’assise e ad accettare un incontro con l’imperatore Carlo V a Nizza per ristabilire la pace. L’accoglienza riservata a Pio non fu delle migliori: per affossarne la missione, si sparsero voci infamanti sul suo conto e accuse di macchinazioni antifrancesi. Fu questo probabilmente il momento che segnò la definitiva rottura tra Pio e la Corona di Francia, marcando il suo progressivo avvicinamento alla fazione imperiale. Nell’aprile 1538, assieme con il cardinale Cristoforo Giacobazzi, era nuovamente in missione presso Carlo III di Savoia con il fine di ottenere la città di Nizza per l’agognato incontro tra Carlo V e Francesco I alla presenza del papa. A differenza di quanto accaduto cinque anni prima, la sopraggiunta debolezza del ducato consigliò a Carlo III di scendere a patti e, ancorché nei sobborghi della città, i colloqui poterono svolgersi.
Il 21 aprile 1539 giunse un incarico interno all’amministrazione dello Stato pontificio: Pio divenne legato della Marca, dove fu chiamato ad affrontare questioni delicate, dal governo della città di Ancona, che aveva goduto fino a non molti anni prima di una certa autonomia, alle incursioni del Turco, aggravate dalla carestia che si abbatté sull’area marchigiana tra il 1539 e il 1542. Sulla base dell’esperienza accumulata in quelle circostanze, riformò le antiche costituzioni egidiane – riforma che il pontefice approvò nel 1544 – cercando di trovare un giusto equilibrio tra esigenze di centralizzazione e antiche autonomie che caratterizzavano il territorio papale. Dal 14 settembre 1542 e fino alla morte, subentrò a Gasparo Contarini come cardinale protettore della S. Casa di Loreto, per cui si adoperò attivamente: commissionò la cappella del Ss. Sacramento della basilica, partecipò alle sedute del consiglio cittadino e favorì l’impiego di artisti e architetti provenienti dagli ambienti culturali carpigiani, come Galasso Alghisi, soprastante alle fabbriche pontificie lauretane (1549-55), o Giovanni Boccalino da Carpi, architetto delle medesime in un periodo di poco successivo (1555-80). Sotto la sua protezione raggiunse Loreto anche Lorenzo Lotto, che vi trascorse gli ultimi anni di vita e di attività. A rimarcare il legame con la S. Casa, nel suo testamento Pio le destinò, simbolicamente, il suo berretto cardinalizio e i suoi preziosi piviali.
Poco prima di terminare la legazione nella Marca, Pio ricevette dal segretario e nipote di Paolo III, Alessandro Farnese, una Instruttione... per le cose d’Ancona (22 gennaio 1542), dietro la quale non è da escludere si celassero tensioni e dissapori tra il legato e le magistrature anconetane. La fiducia del papa, tuttavia, non venne meno: nel 1543, in procinto di recarsi a Busseto per incontrare l’imperatore, il pontefice affidava a Pio la legazione della città di Roma, come già era accaduto nell’agosto 1541 in occasione dei colloqui tra Paolo III e Carlo V a Lucca. Il solido legame di stima che quelle scelte palesavano non impedì a Pio di pronunciarsi contro il progetto di uno Stato farnesiano per il figlio del pontefice, di cui si era discusso proprio a Busseto.
Il 24 settembre 1543 Pio assunse il titolo cardinalizio di S. Clemente; il 17 ottobre 1544 optò per quello di S. Maria in Trastevere. Vari furono gli Stati di cui divenne protettore, dal regno di Scozia (1538-49) all’Irlanda (1545-54), al Ducato di Mantova, ai territori tedeschi di cui, dal 1554, fu viceprotettore per volontà di Carlo V. Il suo prestigio all’interno del S. Collegio lo coinvolse inoltre in alcune tra le più rilevanti questioni religiose dell’epoca. Dal 1541 fu protettore dell’Ordine francescano, per il quale profuse notevoli energie. Attraverso i contatti con i vari rami della famiglia francescana, creò una trama di clientele che seguì e coltivò grazie a una segreteria efficientemente organizzata. Fu così in grado di influenzare nomine e carriere di esponenti dell’Ordine come quella di Felice Peretti, suo consulente e teologo personale, destinato a salire al soglio pontificio con il nome di Sisto V. Talora coadiuvato da altri importanti esponenti della gerarchia cattolica come Marcello Cervini, esercitò incisivamente il suo ruolo di protettore, impegnandosi su vari fronti: nel 1542, all’indomani della clamorosa fuga a Ginevra del generale dei cappuccini Bernardino Ochino, fu incaricato da Paolo III di verificare la diffusione di dottrine eterodosse tra i frati. Allo scopo gli furono conferite speciali facoltà per intervenire disciplinarmente sull’Ordine, senza consultazione previa del pontefice. Nonostante fossero precauzionalmente interdetti dalla predicazione per tre anni (1542-45), i cappuccini ne uscirono riabilitati. A partire dal 1546, Pio incoraggiò anche una riforma del terz’ordine francescano, dotato di nuovi statuti. Negli anni Cinquanta sollecitò un rinnovamento dei minori conventuali e, nel 1556, partecipò alla congregazione che, su impulso di Paolo IV, si occupò della vita dei regolari. La sua opera proseguì nel decennio successivo, con un decisivo influsso sulla designazione dei vertici dell’Ordine e interventi volti a mantenere un equilibrio tra i vari rami della famiglia francescana. Il suo interessamento si estese poi alla Compagnia di Gesù, di cui fu primo e unico cardinale protettore.
Nel 1544 venne nominato dall’imperatore amministratore della sede vescovile di Agrigento (10 ottobre), titolo che avrebbe conservato fino alla morte e a cui, nel 1558, Filippo II avrebbe aggiunto 10.000 scudi di rendita annua, anche per rafforzare la fedeltà di Pio al partito imperiale. In seguito a quella nomina, Pio consegnò la diocesi faentina al fratello Teodoro, riservandosi una cospicua porzione dei benefici e il diritto di regresso. La scelta del nuovo vescovo non fu tuttavia delle più felici e suscitò l’opposizione del capitolo della cattedrale e del patriziato locale, che di fatto costrinsero Teodoro a ritirarsi nel feudo di Meldola. Più accorta fu invece la successiva designazione di Giovanni Battista Sighicelli (18 marzo 1562), uomo fedele a Pio e già vicario della diocesi.
Nel 1550 assunse il governatorato perpetuo di Alatri (21 febbraio) e poco dopo fu incaricato di una missione di pace presso Carlo V, cui però dovette rinunciare per questioni di salute. Nel 1551 divenne governatore del Patrimonio; due anni più tardi fu nominato cardinale vescovo di Albano (29 novembre), passando quindi alla sede di Frascati (11 dicembre) e, il 29 maggio 1555, a quella di Porto. Nel frattempo, perseguì un’accorta politica familiare, perorando il matrimonio tra sua cugina Caterina, figlia di Alberto III e Cecilia Orsini, e il duca di Sermoneta Bonifacio Caietani.
Un capitolo fondamentale della biografia di Pio fu poi l’appartenenza al S. Uffizio romano, sorto nel 1542 per contrastare l’emergenza protestante. A quanto egli stesso riferì, cominciò a prendervi parte poco dopo l’elezione di Giulio III (1550), come confermano anche i verbali della congregazione in cui il suo nome compare a partire dal 1° luglio 1550. Da quel momento venne a conoscenza delle gravi accuse contro esponenti del S. Collegio – in primo luogo Giovanni Morone e Reginald Pole –, assestandosi su posizioni intransigenti vicine a quelle di Gian Pietro Carafa. Una dimostrazione di come il lavoro inquisitoriale modificò profondamente il suo comportamento si ebbe nel conclave del 1555. Pio, che figurava tra i candidati graditi a Carlo V assieme con Juan Álvarez de Toledo, Morone, Pole e Pietro Bertano, dichiarò di non poter votare Pole o Morone perché «la conscientia gli repugnava» (Firpo, 2005, p. 357). Lo sfaldamento del partito imperiale portò all’elezione del cardinale Carafa, pontefice con il nome di Paolo IV, che nel 1557 fece arrestare lo stesso Morone, scatenando contro di lui un lungo processo inquisitoriale. Come membro del sacro tribunale, Pio ebbe modo di accedere agli atti processuali prodotti in quell’occasione, custodendone ‘segretissimamente’ una copia. Sebbene poi il nuovo papa Pio IV assolvesse Morone e decretasse la distruzione delle copie del procedimento, egli riuscì a preservarne un esemplare per servirsene in conclave. A quanto pare, intorno al 1564 quella doveva essere l’ultima copia sopravvissuta, con la sola eccezione delle carte consegnate a suo tempo all’imputato. Nell’imminenza della morte di Pio, la documentazione sarebbe passata a Michele Ghislieri che, tenendola «nella sacchozza», avrebbe ottenuto la tiara nel 1566.
Come inquisitore, Pio seguì inoltre le travagliate vicende relative all’ordine dei barnabiti e accordò la sua protezione all’umanista modenese Ludovico Castelvetro, che, comparso a Roma nel 1560 per rispondere dell’accusa di eresia, preferì fuggire con grave imbarazzo dello stesso Pio.
Anche grazie al suo ruolo nel S. Uffizio, poté iniziare a progettare una possibile elezione al soglio pontificio. Essa parve a portata di mano nel conclave del 1559: il partito filospagnolo pensò inizialmente di poter promuovere Pio per via di acclamazione approfittando dell’esiguità numerica dei cardinali filofrancesi (5 settembre 1559). Il progetto di evitare votazioni e chiudere celermente il conclave fallì a causa delle fratture che, ancora una volta, percorsero lo schieramento spagnolo, e un accordo segreto tra il cardinale Guido Ascanio Sforza e Ippolito d’Este impedì l’elezione di Pio. La sua candidatura si riaffacciò in diverse occasioni, ma senza successo, da ultimo verso la metà di dicembre, quando in tutta l’aula risuonò il grido «Carpi, Carpi!». La tiara però toccò a Giovanni Angelo de’ Medici (Pio IV), eletto il giorno di Natale dello stesso anno.
Il 18 maggio 1562, in qualità di cardinale decano del S. Collegio, fu elevato alla sede di Ostia e Velletri. Dopo la conclusione del Concilio di Trento venne nominato tra i membri della congregazione del Concilio, ma non poté di fatto prendere parte ai lavori di riforma perché ormai gli restava poco da vivere.
Il 2 maggio 1564 la morte lo colse a Roma, troppo presto per garantire un futuro e la successione nel titolo cardinalizio al nipote Gianludovico.
Chiese e ottenne di essere sepolto nella cappella di S. Michele nella chiesa romana di Trinità dei Monti, dove riposava anche l’amata zia Cecilia Orsini che aveva accompagnato gli esordi della sua carriera romana. Pio V Ghislieri, probabilmente memore della copia del processo Morone cedutagli da Carpi, gli fece erigere un austero monumento funebre in cui se ne celebravano le doti di strenuo difensore dell’ortodossia.
Nel testamento, redatto il 24 aprile 1564, indicò tra i suoi esecutori lo stesso Ghislieri e, accanto a lui, i cardinali Alessandro e Ranuccio Farnese, Carlo Borromeo, Guido Ascanio Sforza, l’ambasciatore di Filippo II a Roma Luis de Requesens y Zúñiga e, nonostante la rivalità, Giovanni Morone. Nelle sue ultime volontà, designò erede delle sue «antigaglie e pitture» il fratello Alberto, cui veniva ingiunto di non poterle «né vender né alienare in qualsivoglia modo ma sempre stieno per li descendenti Pii» (Il testamento di Rodolfo Pio, 2004, p. 425).
Gli inventari dell’eredità consentono di ripercorrere la grandezza della collezione e, in certa misura, di ricostruirne l’allestimento. Essa annoverava centocinquanta teste e busti al naturale, una ventina di statue, reperti e sculture di varia dimensione, bronzi, arredi, vasi antichi e un importante corpus di iscrizioni. Accanto a essi, quadri e un gran numero di codici e libri, in parte provenienti dal lascito dello zio Alberto o risalenti alla committenza del padre di Rodolfo, Leonello. Tanta preziosità, che fece del «Museo Carpi» una delle più significative collezioni antiquarie del Cinquecento, dovette fare i conti con la dispersione che, nonostante le volontà di Pio, colpì le raccolte poco dopo la sua morte.
La sua grande sensibilità per le arti ebbe modo di affiorare anche in altri contesti: l’incarico come membro della Fabbrica di S. Pietro costituì per Pio occasione di confronto e discussione con Michelangelo, più volte esortato a dare completamento all’opera che aveva iniziato; né fu assente una specifica attenzione alla musica, come attestano i suoi rapporti con Giovanni Pierluigi da Palestrina, che gli dedicò i fortunatissimi Motecta festorum totius anni (1563). Celebre, infine, il ritratto di Pio realizzato da Francesco De Rossi, detto il Salviati, conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna.
Fonti e Bibl.: Un consistente nucleo di documenti e studi sulla famiglia Pio si trova nell’Archivio della famiglia Pio di Savoia e nell’Archivio Guaitoli presso l’Archivio storico del Comune di Carpi. Città del Vaticano, Archivio della congregazione per la Dottrina della Fede, Sanctum Officium, Decreta 1548-1558; Biblioteca apostolica Vaticana, Ottob. lat., 1111, cc. 205v-207r; Chig., Q.1.6, cc. 202r-203v: A. Farnese, Instruttione... per le cose d’Ancona.
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