Rom e Sinti
Un uomo saggio ride quando può. Sa bene che ci sarà molto da piangere nella vita
(Proverbio rom)
Rom e Sinti in Italia: minoranza senza territorio
di
La storia travagliata di una popolazione composita
Va chiarito in premessa che le persone che nel linguaggio corrente sono definite ‘zingari’ rifiutano questo appellativo, ritenendolo dispregiativo, e si definiscono invece Rom oppure Sinti (nel caso siano storicamente insediati nelle regioni dell’Italia settentrionale). Sono membri di una minoranza etnica priva di territorio (la più numerosa, complessivamente, dell’Unione Europea), che ha mantenuto nei secoli alcune peculiarità distintive, rappresentate in modo particolare dalla lingua, il romanés, pur suddividendosi in gruppi e sottogruppi. In realtà, è difficile persino parlare di una popolazione omogenea e lo stesso romanés comprende circa 60 dialetti soltanto in Europa. Ci troviamo di fronte a un mosaico di gruppi sociali, tra loro diversi per nazionalità, religione, data di arrivo, pratiche insediative. Anche il trattamento giuridico concorre a istituire categorie diverse, con una dotazione diseguale di diritti, in modo particolare per quanto concerne la cittadinanza e la possibilità di risiedere sul territorio, producendo differenziazioni e divisioni. Incontriamo infatti cittadini italiani, cittadini dell’Europa comunitaria, stranieri in possesso di permesso di soggiorno, rifugiati, richiedenti asilo, immigrati in condizione irregolare e altri casi ancora, talvolta insediati negli stessi luoghi o legati da rapporti di parentela. Vi è anche un certo numero di apolidi: per esempio cittadini dell’ex Iugoslavia che, con il dissolvimento del vecchio Stato di appartenenza, hanno perduto la nazionalità che possedevano, senza riuscire ad acquisirne un’altra. In questo, come in altri frangenti, sono i minori a pagare un prezzo particolarmente alto all’ambiguità e alla reticenza delle norme giuridiche, nonché alle applicazioni discrezionali e restrittive del loro dettato: quasi tutti nati in Italia, non di rado sono privi di uno status di cittadinanza definito, al di là del documento di registrazione della nascita. Limitandoci alle principali componenti presenti oggi in Italia, possiamo distinguere in questo composito arcipelago: i Sinti, un gruppo antico e da tempo italianizzato, occupato tradizionalmente soprattutto nello spettacolo viaggiante, che assumono denominazioni territoriali legate alle regioni di insediamento: piemontesi, lombardi, veneti ecc.; i Rom dell’Italia centro-meridionale, arrivati nel 15° secolo, distinti a loro volta in abruzzesi, napoletani, calabresi; i Rom Harvati, provenienti dalle zone settentrionali dell’ex Iugoslavia in seguito alle due guerre mondiali; i Rom Kalderasha, Lovara e Churara, provenienti dalla Moldavia e dalla Valacchia, arrivati in più ondate a partire dalla fine dell’Ottocento; i Rom Khorakhané e Dasikhané, a loro volta distinti all’interno in sottogruppi, di arrivo più recente (dalla seconda metà degli anni 1960) dall’ex Iugoslavia (Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati 2001, p. 686). Grazie soprattutto alle ricerche dei linguisti, si ritiene che queste popolazioni siano originarie dell’India e che siano migrate verso Occidente a partire forse dal 5° secolo d.C. Due opere di area persiana del 10° secolo (la Storia dei re di Persia di Hamzah d’Isfahan e Il Libro dei Re di Firdusi) ne attestano il passaggio. Le tracce successive si rinvengono in Armenia, nelle regioni orientali dell’Impero Bizantino, quindi in Grecia, con diverse attestazioni nel 14° secolo e la fondazione di numerosi insediamenti nel Peloponneso, oltre a una Baronia degli Zingari a Corfù, verso il 1340, riconosciuta dalla Repubblica di Venezia (Argiropoulos 2005).
Nei Balcani, Rom e Sinti divennero stanziali ma, forse a motivo della loro abilità nella lavorazione dei metalli, furono ridotti in schiavitù dai principi locali (nel 1370 in Valacchia): una condizione che in Romania sarà abolita soltanto dopo la metà dell’Ottocento. Queste vessazioni, insieme alle invasioni turche, furono probabilmente le ragioni che li spinsero a mettersi nuovamente in marcia verso Occidente. In Italia le prime segnalazioni del loro passaggio risalgono alla prima metà del Quattrocento (1422 a Bologna). Inizialmente si presentarono come pellegrini diretti a Roma, suscitando curiosità nelle popolazioni locali e fruendo della tradizionale ospitalità, religiosamente motivata, nei confronti dei pellegrini diretti verso i Luoghi Santi.
Ben presto però la benevolenza si mutò in ostilità e cominciò una storia secolare di decreti di espulsione, deportazioni, violenze, tentativi di assimilazione e sedentarizzazione forzata, che non riuscirono mai a distruggere questa minoranza, ma ebbero l’indubbio effetto di rafforzare la diffidenza reciproca tra maggioranze stanziali e minoranze marginali e itineranti. L’apice di questa dolorosa vicenda è stato raggiunto dal genocidio nazista, il porrajmos delle minoranze rom e sinte, a cui tuttavia gli Atti del processo di Norimberga dedicano un solo paragrafo e la storia successiva non ha ancora reso giustizia.
Stime e pregiudizi
Mancano dati ufficiali circa la consistenza numerica delle minoranze rom e sinte, o perché le leggi nazionali non prevedono (o addirittura vietano) di raccogliere dati circa l’appartenenza etnico-culturale delle persone, o perché i singoli preferiscono sfuggire a un’etichettatura stigmatizzante, o anche perché i processi di assimilazione conducono effettivamente ad abbandonare l’identificazione minoritaria. Secondo la stima di Caritas-Migrantes 2006, in Europa vivono all’incirca 9 milioni di Rom e Sinti, di cui meno di 2 milioni nell’Europa occidentale. Per l’Italia, i dati si attestano intorno alla cifra di 120.000-150.000 unità, che hanno presumibilmente conosciuto di recente un incremento significativo in seguito all’ingresso nell’Unione dei nuovi paesi membri (Bulgaria e Romania). Vale la pena di ricordare che, secondo la stessa fonte, la consistenza della popolazione rom e sinta raggiungerebbe una cifra compresa tra le 650.000 e le 800.000 unità in Spagna, tra 280.000 e 340.000 in Francia, tra 160.000 e 200.000 in Grecia. Per vari paesi dell’area balcanica, storico territorio di insediamento delle minoranze qui analizzate, si verificano consistenti scarti tra dati ufficiali e stime di esperti e Organizzazioni non governative: per la Romania si oscilla tra i 400.000 dei dati ufficiali e 1,4 o addirittura 2,5 milioni delle fonti indipendenti. Per la Bulgaria, da 360.000 a 600-750.000; per l’Ungheria, da 190.000 a 600-800.000; per la Slovacchia da 90.000 a 480-520.000; per la Repubblica Ceca da soli 11.000 ufficialmente censiti a cifre stimate comprese tra 160.000 e 300.000. Già queste vistose incongruenze tra dati ufficiali e stime ufficiose indicano una questione irrisolta: essere definiti e catalogati come Rom (o Sinti) comporta una stigmatizzazione gravida di conseguenze, che molti degli interessati cercano di evitare.
Malgrado le incertezze connaturate ai conteggi e nonostante gli arrivi dai Balcani a partire dagli anni 1990, vi sono pochi dubbi sul fatto che buona parte (poco meno della metà, probabilmente) delle persone ascrivibili a queste minoranze e oggi residenti nel nostro paese sia di nazionalità italiana, talvolta acquisita ormai da decenni o addirittura da parecchi secoli. Lo scarto tra quadro giuridico, riferito alla regolazione delle migrazioni internazionali, e condizioni di insediamento delle minoranze rom e sinte risalta nettamente proprio quando si considera che si tratta di popolazioni per la maggioranza non più nomadi, composte anche di cittadini italiani e pertanto non immigrate, ma tali da formare una minoranza interna senza territorio, senza riconoscimento e senza tutela.
Semmai, gli arrivi degli anni recenti hanno contribuito a un processo volto a ridefinire ed etichettare come ‘stranieri’ coloro che sono sempre stati considerati per eccellenza gli estranei, ed estranei pericolosi, da parte della componente maggioritaria della popolazione. Come ricorda uno studioso della questione, «il potere di definire è uno strumento fondamentale nelle mani di chi detiene il potere per razionalizzare e gestire coloro che sono percepiti come estranei/stranieri/diversi; allo stesso tempo, le etichette tracciano i confini all’interno dei quali coloro che sono etichettati possono giocare la loro partita politica e costruire le loro domande e le loro chances di promozione sociale» (Sigona 2005, p. 281).
I Rom rappresentano dunque il caso estremo dell’alterità percepita come minacciosa da parte di comunità locali che si autodefiniscono come ordinate, pacifiche, rispettose delle leggi. Il ‘normale’ immigrato, specialmente quando lavora, non si immischia in attività illegali, non avanza rivendicazioni scomode, ha potuto godere nel tempo di una qualche forma di legittimazione, benché stentata e fragile, essendo sempre più chiaro che il nostro sistema economico (e le nostre famiglie) ne hanno bisogno (Ambrosini 2005). Invece, le persone identificate come rom (e sinte) restano al di fuori del perimetro della pur precaria accettazione economica dell’immigrato, interamente consegnate a una visione patologica del loro rapporto con la società maggioritaria. Entrano in azione nei loro confronti, in modo emblematico, i meccanismi del pregiudizio: la definizione in forma collettiva della minoranza etichettata, senza riguardo per le articolazioni interne e le differenze individuali; l’applicazione di denominazioni spregiative; la netta separazione tra ‘noi’ e ‘loro’; il confinamento ai margini della società, in luoghi possibilmente lontani e invisibili; la radicata persuasione che i Rom ‘siano così per natura’, o come oggi si preferisce dire, ‘per cultura’, sempre però supposta come rigida e immodificabile. Più ancora, nel caso dei Rom e Sinti circolano ‘leggende nere’, come quella molto radicata secondo cui ‘rubano i bambini’; si producono i tipici circoli viziosi dell’esclusione, per i quali a essi è pressoché precluso l’accesso a un lavoro ‘normale’, e nello stesso tempo si rimprovera loro di vivere di espedienti, rifiutando il lavoro.
Anche la definizione di ‘nomadi’ mal si attaglia alle minoranze di cui ci occupiamo. Secondo le stime disponibili, solo una frazione, di entità compresa fra il 15% e il 30%, conduce ancora una vita itinerante, gli altri sono ormai sedentarizzati o in via di sedentarizzazione. I Rom arrivati dai Balcani provengono da secoli di insediamento stabile, anche se in condizioni di discriminazione e marginalità, e sono stati resi mobili da guerre, pulizie etniche, sconvolgimenti economici e sociali. La reiterazione dell’etichetta di ‘nomadi’ suona dunque a sua volta come un espediente retorico per ribadire l’alterità di questa popolazione, la sua irriducibile diversità rispetto agli stili di vita e alle pratiche sociali della maggioranza stabilmente insediata.
Va dunque ribadito che la ricorrente tentazione di fare appello a categorie ‘culturali’ etnicizzate, supposte come fissate e immodificabili, è una facile scorciatoia per attribuire agli stessi Rom e Sinti la ‘colpa’ della loro mancata integrazione, occultando le responsabilità della società maggioritaria e delle sue istituzioni.
I campi nomadi: da soluzione a problema
Anche politiche inizialmente animate da buone intenzioni, come quelle dei ‘campi nomadi’, hanno generato effetti perversi. Di fatto, le pratiche di gestione della ‘diversità’ rappresentata dalle popolazioni rom e sinte attraverso l’allestimento di campi di sosta o altre soluzioni all’insegna della precarietà e insieme della rigida regolamentazione delle pratiche abitative hanno contribuito in maniera decisiva ad aggravare il problema dei cosiddetti ‘nomadi’. I campi sono nello stesso tempo la principale risposta fornita istituzionalmente alla domanda abitativa delle minoranze rom e l’oggetto principale delle tensioni con i cittadini residenti: «i campi nomadi occupano un ruolo centrale nella gestione del problema. In quanto luoghi di controllo sociale, ma anche di smistamento della carità istituzionale e non, essi mantengono e salvaguardano i confini, evitano l’incontro, tengono gli zingari in un nessun luogo che in ultima analisi consente il mantenimento dello status quo» (Sigona 2005, p. 270). I campi, oltre a controllare e a mantenere ai margini i cosiddetti nomadi, rappresentano uno strumento di assimilazione, che tende a ‘normalizzare’ le popolazioni previamente definite come itineranti, costringendole di fatto a una situazione di stabilità insediativa, benché in condizioni di precarietà e di degrado, a causa del crescente affollamento, della carente manutenzione, dei difficili rapporti con le società locali. Proprio l’organizzazione degli insediamenti ‘temporanei’, con la parallela difficoltà a trovare altre aree di sosta, tende a far diventare permanenti soluzioni che dovrebbero essere provvisorie, istituisce in parecchi casi grandi contenitori difficili da controllare e gestire, obbliga alla convivenza forzata famiglie e gruppi fra loro ostili: «Attualmente, uno degli aspetti più complessi della gestione delle aree di sosta da parte di quartieri e Comuni è proprio la convivenza forzata di un numero elevato di famiglie che, non potendo spostarsi per motivi legati al rilascio delle autorizzazioni in aree diverse da quelle in cui risultano residenti, organizzano il poco spazio a disposizione in modo da evitare il più possibile il contatto con altre famiglie vissute come ostili» (Santoro 2004, p. 32). Contenere, controllare, isolare, alloggiare, dare ricovero: questi e altri sono i significati associabili ai campi, tutti all’insegna però di una separazione tra i destinatari delle misure insediative e i ‘normali’ residenti, tra le zone marginali in cui sorgono i campi e il tessuto urbano, tra i circuiti di socialità della maggioranza e quelli delle minoranze lì alloggiate.
Accanto ai campi-sosta autorizzati si sono sviluppate, spesso spontaneamente, altre soluzioni abitative, in genere all’insegna della precarietà o anche dell’abusivismo: parcheggio di roulotte in terreni di proprietà, costruzioni spontanee, insediamenti non autorizzati su aree pubbliche ecc. Anche quando queste pratiche riescono a evolvere verso costruzioni stabili e dignitose, per esempio con la costruzione di case in muratura su terreni agricoli di proprietà, devono fare i conti con il problema delle norme edilizie, che non consentono neppure l’installazione di roulotte o case mobili su terreni non adibiti a usi residenziali (Vivere ai margini 2007)
Le condizioni insediative, con le loro prevalenti caratteristiche di precarietà, determinano in ogni caso in modo decisivo le opportunità di vita in generale e la possibilità di percorsi lavorativi, di tutela della salute, di inserimento scolastico, di accesso ai servizi.
Nel 2007, nell’area milanese e in altre città italiane, hanno occupato il centro della scena le resistenze e le mobilitazioni poste in atto da una parte della popolazione maggioritaria contro gli insediamenti destinati a popolazioni rom e sinte, con l’appoggio di forze politiche che hanno alimentato le proteste. Si è tuttavia manifestata in questi conflitti urbani una strisciante contraddizione dello schema che inquadra le minoranze scomode come una minaccia collettiva per le società maggioritarie: una volta che questi gruppi sono stati definiti come pericolosi, non si trovano più residenti disposti ad averli come vicini di casa, neppure ai margini del quartiere, e gli insediamenti collettivi diventano ancora più segregati e difficili da realizzare, lasciando di fatto altro spazio agli insediamenti abusivi. Le ripetute demolizioni di questi ultimi compromettono inoltre i tentativi di integrazione e di tutela sociale, anche sotto il profilo dei diritti umani basilari, come l’istruzione per chi ne ha diritto, aggravando la marginalità delle persone e dei gruppi sociali che li subiscono: scuola per i minori, lavoro per gli adulti, tutela sanitaria per tutti, per non parlare della disponibilità di un’abitazione, diventano più difficili da garantire. La spirale dell’esclusione rischia di diventare inarrestabile (Ambrosini-Tosi 2008).
Come confermano queste vicende, paura e diffidenza salgono dal basso, si formano per dinamiche spontanee e incontrollabili. Mostrano i loro effetti perniciosi le dinamiche psicosociali della categorizzazione, secondo modalità collettive e omogenee, di gruppi sociali internamente differenziati, stratificati, di diversa origine e condizione giuridica, oltre che composti di individui irriducibili all’etichetta collettiva, per i quali la caratterizzazione ‘etnica’ è solo uno degli aspetti dell’identità sociale. Come mostra una ricerca condotta nel Mezzogiorno, i Rom calabresi, insediati nella regione da secoli, occupati come muratori od operatori ecologici, alloggiati in molti casi in appartamenti, con figli che in alcuni casi hanno conseguito un diploma della scuola superiore, sono assimilati con i Rom arrivati a Messina da pochi anni in seguito alle guerre balcaniche, avendo lasciato alle spalle una casa e un lavoro, considerati a loro volta zingari e non rifugiati: «Loro non si vedono uguali. Ma noi li etichettiamo, li rendiamo uguali per poterli meglio emarginare» (Rom e Romnì 2004, p. 10). La polemica che si concentra intorno alla realizzazione di nuovi campi, in termini di accettazione o rifiuto, appare dunque in larga misura fuorviante. Il conflitto apparentemente insolubile tra popolazione maggioritaria e installazione di gruppi rom e sinti in appositi ‘campi’ richiede di spostare la discussione su un altro piano, ponendo a tema il superamento o almeno la flessibilizzazione della forma-campo, inteso come insediamento eterodiretto, numeroso, istituzionalmente controllato, di fatto permanente, collocato ai margini dei contesti urbani, scollegato da interventi adeguati di integrazione e promozione sociale. Come è stato osservato, «mentre molti Sinti chiedono aree residenziali attrezzate dove vivere in piccoli gruppi, i Rom stranieri chiedono un impegno serio verso soluzioni abitative sostenibili e dignitose che superino l’eterna precarietà rappresentata dai campi nomadi e cercano politiche di sostegno e supporto all’inserimento lavorativo e alla regolarizzazione dello status giuridico» (Sigona 2007, p. 29). Non solo: più volte, anche le istituzioni internazionali attive nel settore, come la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI, European Commission against Racism and Intolerance) hanno formulato critiche sulla politica dei campi-sosta praticata nel nostro paese, rilevando «il fatto che tale situazione di segregazione effettiva dei rom/zingari in Italia sembra riflettere l’atteggiamento generale delle autorità italiane che tendono a considerare i rom/zingari come nomadi, desiderosi di vivere in accampamenti». Più o meno negli stessi termini, il Comitato delle Nazioni Unite sull’eliminazione della discriminazione razziale (CERD, Committee on the Elimination of Racial Discrimination), aveva notato nel 1999: «In aggiunta alla frequente mancanza dei servizi di base, l’abitare nei campi porta non solo alla segregazione fisica della comunità rom dalla società italiana, ma anche all’isolamento politico, economico e culturale». Oltre al nomadismo e al desiderio di vivere in campi-sosta precari e affollati, un altro luogo comune che incide sulle rappresentazioni delle minoranze rom e sinte concerne i rapporti di genere. La società rom, come molte società tradizionali, è dipinta di solito come un sistema sociale rigidamente maschilista, che non solo tiene le donne in una condizione di subalternità, ma ne limita le possibilità di parola, di lavoro, di rapporto con la società maggioritaria. La realtà documentata dalle ricerche è molto più frastagliata e complessa (Vivere ai margini 2007; Ambrosini-Tosi 2008). È vero che le figure più in vista, quantomeno nei rapporti esterni, sono generalmente maschili: l’ideale tipo del capo rom sembra rimanere, nell’immaginario e nelle attese degli interessati, quello di un uomo, anziano, alla testa di una numerosa famiglia. Così pure, alcuni aspetti della vita pubblica che ricoprono agli occhi degli interessati una cospicua valenza simbolica, come concludere compravendite, vedono gli uomini in primo piano. Di fatto però le donne sono il vero anello forte dell’organizzazione sociale, sono coloro che tengono insieme le famiglie, presiedono alla vita quotidiana, amministrano in modo oculato le risorse disponibili. Non di rado, lavorano o cercano lavoro all’esterno; altre volte, esercitano qualche attività all’interno degli insediamenti, come la gestione del bar o le pulizie negli spazi comuni. Spesso sono loro a rivolgersi alle istituzioni, a intrattenere rapporti con le organizzazioni solidaristiche che operano in loco, a fare da tramite con la società esterna.
Questo protagonismo femminile può verificarsi per vari motivi. Per necessità, perché molti uomini sono stati incarcerati e non possono più svolgere determinate funzioni, e allora si constata che alle donne non mancano le risorse per prendere il loro posto. Per convenienza, perché la società maggioritaria è più disposta a dare retta e a concedere qualcosa alle donne, mentre teme o rifiuta gli uomini. Per una evoluzione spontanea, perché le donne si rivelano più capaci e intraprendenti. In ogni caso il maschilismo dei Rom, se non finito, appare intaccato e circoscritto ad aspetti che lo confermano simbolicamente, ma lo svuotano nella sostanza. Di converso, la sottomissione delle donne, benché possa trovare conferme formali, appare contraddetta da una molteplicità di pratiche e comportamenti effettivi.
Economia della sopravvivenza e servizi di welfare
Anche una lettura più approfondita delle modalità di reperimento delle risorse per sopravvivere consente di circoscrivere e problematizzare alcuni dei più radicati pregiudizi sulle popolazioni rom e sinte.
Sotto il profilo economico, Rom e Sinti sono in un certo senso dei sopravvissuti. Sopravvissuti alle guerre balcaniche, alle pulizie etniche, agli sconvolgimenti politici e sociali dell’Europa orientale che, dopo averli resi sedentari anche contro la loro volontà, li hanno costretti a un nuovo nomadismo forzato. Sopravvissuti alla fine delle attività artigianali e commerciali itineranti, complementari alla vita sedentaria del mondo agricolo, che costituivano la nicchia economica in cui potevano ritagliarsi un ruolo utile e legittimato: arrotini, calderai, commercianti di cavalli ecc. Sopravvissuti al declino dello spettacolo viaggiante, che fino a pochi anni fa rappresentava il principale sbocco lavorativo dei Sinti italiani.
Più che di distanza volontaria dal lavoro e di propensione ‘naturale’ verso le attività illegali, sarebbe più appropriato dunque parlare di una difficile riconversione e di un adattamento problematico ai ritmi e alle regole della società industriale e postindustriale. In questa cornice strutturale si inseriscono poi almeno due fattori di difficoltà più specifici: la mancanza di documenti che autorizzino soggiorno e lavoro, per i Rom arrivati di recente dall’area balcanica, e il pregiudizio che le società sedentarie nutrono nei confronti dei cosiddetti ‘nomadi’. Anche datori di lavoro bisognosi di manodopera, quando vedono che i candidati provengono da un campo nomadi, molte volte ritirano precipitosamente l’offerta. Sovente i medesimi protagonisti evitano di definirsi come rom e se possibile di spiegare con precisione dove abitano.
Non vi è da stupirsi dunque se i livelli di disoccupazione tra le minoranze rom e sinte ‘visibili’ sono elevati, anche tra i maschi adulti. Tuttavia, è anche vero che molti fra di essi in vario modo lavorano e cercano lavoro, benché spesso in forme precarie, stagionali, irregolari: per esempio in edilizia, in agricoltura, in attività pericolose come la bonifica dell’amianto. Un tipico sbocco, che dà luogo a forme embrionali di micro-imprenditorialità, è la raccolta e il recupero di ferro, metalli e altri rifiuti riciclabili, che trae vantaggio, non di rado, dall’ubicazione degli insediamenti, irregolari e anche regolari, in prossimità di discariche. In questi casi un problema ricorrente consiste nella corretta gestione amministrativa e fiscale dell’attività. Un’altra forma di lavoro autonomo, incoraggiata da progetti e iniziative solidaristiche, riguarda la formazione di gruppi musicali che propongono, in occasione di feste e trattenimenti, musiche tratte dal ricco repertorio tradizionale delle minoranze rom e sinte.
Anche le donne spesso cercano lavoro, nel settore delle pulizie o in altre attività di servizio accessibili; si dedicano alla vendita ambulante; a volte vengono formate e assunte come mediatrici culturali o accompagnatrici sugli scuolabus, nell’ambito di progetti sociali ad hoc. L’idea di un’ostilità culturale di principio nei confronti del lavoro va dunque catalogata fra i tanti pregiudizi a carico di Rom e Sinti.
Il lavoro è un mezzo per procurarsi quanto è necessario per vivere, ma la lotta per la sopravvivenza comporta uno sfruttamento oculato e a suo modo razionale delle risorse che l’ambiente offre. Possiamo distinguere al riguardo altre fonti di reddito (Vivere ai margini 2007): a) le attività svolte al servizio della vita collettiva dell’insediamento o richieste dalle altre famiglie residenti (bar, spacci di generi alimentari e prodotti per la casa, forni per il pane, servizi di pulizie e raccolta dei rifiuti, lavori di manutenzione, a volte guida dello scuolabus); b) la ricerca dell’elemosina (manghel), affidata soprattutto a donne e bambini, quando possibile presentata però nella forma di un embrionale scambio economico, come per esempio richiesta di denaro in cambio di un intermezzo musicale durante il tragitto in metropolitana, lavaggio dei vetri delle auto agli incroci, vendita ambulante di qualche articolo di scarso valore ecc.; c) il ricorso alle magre possibilità di assistenza che gli enti pubblici devono in alcuni frangenti assicurare, quantomeno ai cittadini italiani e talvolta agli stranieri provvisti di regolari documenti (è il caso per esempio delle sovvenzioni per le madri non coniugate con figli a carico); d) la richiesta di aiuti alle organizzazioni caritative (Caritas locali, parrocchie, alcune associazioni), oppure anche a singoli e famiglie con cui Rom e Sinti sono riusciti ad allacciare rapporti; e) gli scambi di aiuto e di ospitalità tra familiari e parenti, in cui rientrano i prestiti intrafamiliari, provenienti anche dall’estero e legati alla dispersione dei reticoli familiari per tutta Europa; f) le attività illegali, che rappresentano però solo una delle fonti di entrata tra le altre, con visibili differenze tra gruppi e insediamenti. Di questo atteggiamento a suo modo razionale fa parte anche un rapporto apparentemente distorto con il sistema del welfare e dei diritti sociali. Per esempio, accade non di rado che la scolarizzazione dei figli non sia avvertita come un valore in sé, ma che possa essere apprezzata come una risorsa da scambiare per conseguire un vantaggio per l’intera famiglia: se può dar luogo alla concessione di un permesso di soggiorno per cure parentali, allora serve; se fornisce anche un servizio di mensa ai bambini e li accudisce al caldo per un certo numero di ore della giornata, allora può avere un senso. Se è soltanto fonte di umiliazioni e reprimende – e per di più distoglie i figli dal partecipare alla lotta per procurarsi di che vivere – allora non serve, è un pedaggio imposto dalla società maggioritaria, a cui sottrarsi appena possibile. Anche la cura della salute, compresa quella delle madri incinte e dei neonati, se comporta dei costi, è mal compresa, trascurata, spesso percepita come una spesa di cui fare a meno o da cui stare distanti per motivi scaramantici.
Questi atteggiamenti rimandano altresì a una radicata diffidenza nei confronti della società maggioritaria, speculare al pregiudizio delle popolazioni stanziali nei confronti dei veri o presunti ‘nomadi’: «gli zingari si rivolgono ai gagè se hanno domande e bisogni precisi, ma senza avere mai una completa fiducia nel non zingaro» (Santoro 2004, pp. 33-34).
La frequenza scolastica rappresenta tuttora un punto dolente per gran parte dei minori degli insediamenti. Le situazioni più diffuse riguardano un rapporto in molti casi positivo con le scuole elementari, che tende a incrinarsi già alle medie, comportando bocciature e abbandoni, e raramente prosegue nell’istruzione superiore. Il più delle volte, due resistenze si incontrano: da parte delle famiglie rom e sinte, è considerato sufficiente che i figli imparino a leggere, scrivere, far di conto; da parte delle scuole, molte volte si cerca con vari mezzi di scoraggiare o dirottare altrove le domande di iscrizione di alunni rom e sinti. Anche laddove la situazione risulta comparativamente migliore, si osserva di frequente che l’importanza della scuola è comunque lontana dall’essere interiorizzata, e i risultati ottenuti sono tributari dell’attività di mediazione tra famiglie rom e istituzione scolastica, da parte di operatori, insegnanti volontari, organizzazioni solidaristiche. Le difficoltà derivano anche dall’ubicazione marginale degli insediamenti nello spazio urbano e nella mancanza di collegamenti: se i Comuni non attivano servizi di scuolabus fin dall’inizio dell’anno scolastico, la frequenza viene subito scoraggiata. Per gli alunni delle scuole medie, non essendo previsto il servizio di trasporto, il problema diventa strutturale e talvolta insolubile.
Conclusioni
La questione dell’integrazione delle minoranze rom e sinte è storicamente stratificata e intreccia diversi fattori critici, come pregiudizi reciproci, nodi dello status giuridico, politiche sociali sbagliate o carenti, deficit di consenso verso interventi sociali visibili e dedicati. Cercando di guardare agli spazi del fattibile, l’accento va posto su soluzioni che vedano attivamente coinvolti i destinatari, li rendano protagonisti, li responsabilizzino nel rispondere alle proprie esigenze, a partire da quelle abitative. I gruppi rom e sinti analizzati hanno dimostrato di essere tutt’altro che in una posizione di mera attesa di interventi pubblici di assistenza, e neppure inclini a un nomadismo senza meta. Ove possibile, la realizzazione di piccoli insediamenti a base familiare o parentale, anche risolvendo il problema della conversione dei terreni agricoli in suoli parzialmente edificabili, almeno a titolo precario, potrebbe rispondere alle esigenze abitative senza creare grandi campi che suscitano allarme e rifiuto tra i residenti e fomentano conflitti da convivenza forzata tra i destinatari. Accompagnamento, mediazione, rassicurazione dei residenti sono comunque investimenti necessari, giacché il nodo dell’accettazione e della convivenza con la popolazione maggioritaria resta un terreno molto critico.
Un aspetto che merita attenzione, anche per le potenzialità che può sviluppare sul terreno cruciale del miglioramento dell’immagine delle minoranze rom e sinte e del rasserenamento dei rapporti con la popolazione maggioritaria, concerne la valorizzazione e la divulgazione delle espressioni culturali della loro tradizione. Dal circo alla musica, il patrimonio culturale rom e sinto è ricco e affascinante. Promuoverlo avrebbe un significato esemplare per il riconoscimento della dignità di queste minoranze. Il 2008, anno europeo contro le discriminazioni, potrebbe offrire occasioni preziose per muovere in questa direzione.
repertorio
L’universo rom
Definizione
Si indica con il termine Rom (in lingua romanés «uomo, essere umano»), o Sinti (da Sindh, regione del Pakistan occidentale, attraversata dal fiume Indo, dalla quale probabilmente ebbero origine), o con quello più comune di zingari (da Atsigan e più tardi Tsigan, adattamento del greco medievale ’Athígganos, propriamente «intoccabile», che, al plurale, designava una setta di manichei provenienti dalla Frigia) un insieme di gruppi migranti e nomadi diffusi in tutto il continente europeo e nelle Americhe.
Il problema della loro definizione ‘etnica’ è estremamente complesso, essendo legato da un lato all’ambiguità del concetto stesso di etnia e dall’altro al carattere particolarmente fluido, in termini sia sociali sia culturali, dei diversi gruppi caratterizzati come rom. Alla fine del 18° secolo risale l’ipotesi che essi costituiscano un gruppo etnico omogeneo, parlante una lingua neoindiana, il romanés (o romani), di cui furono evidenziate le somiglianze con alcune lingue dell’India. Nel corso del 19° secolo, a partire dalla scoperta di questa parentela linguistica, si costituì una specifica disciplina, la ziganologia, avente come fine quello di classificare e, in ultima analisi, controllare gli ‘zingari’. L’ideologia ‘indianista’ elaborata dagli ziganologi venne fatta propria da istituti e organizzazioni di protezione dei Rom e propugnata, dalla seconda metà del 20° secolo, da intellettuali che ne fecero uno strumento, spesso utile, di lotta politica e culturale. Tuttavia, da un punto di vista antropologico, tale teoria crea notevoli problemi, come l’individuazione delle sedi indiane d’origine, di volta in volta diverse, e lo studio delle migrazioni.
Appare inoltre arbitrario ridurre a unità gruppi tra loro diversi per storia, cultura e società e di contro ritenere diversi, sulla base di alcuni parametri, gruppi tra loro simili. Per quanto, per esempio, molti di questi parlino una qualche variante del romanés (come i Rom Kalderasha, presenti nell’Italia centro-meridionale, o i Khorakhané, dell’Italia nordorientale, per i quali, come per gli altri Rom, è possibile pensare a un legame linguistico e culturale con l’India), altri, pure considerati Rom (come i Minceir, o Travellers, irlandesi, o i Rudari, rumeni), parlano lingue diverse. Nemmeno la mobilità sembra poter costituire un tratto di definizione comune: i Rom Kalderasha e i Rudari sono sedentari, mentre i Travellers e gli Khorakhané vivono da nomadi.
Gli stessi tratti appena considerati non possono intendersi come qualità essenziali, intrinsecamente ascritte all’identità dei numerosi gruppi che compongono l’universo rom. Infatti gli uomini e le comunità possono mutare lingua o forma di insediamento nel corso del tempo: gruppi che sicuramente in passato parlavano dialetti del romanés, in seguito sembrano aver abbandonato tale lingua, mentre i Khorakhané, nomadi in Italia, erano invece sedentari nella ex Iugoslavia.
Cenni di storia
Le cronache bizantine riportano che nell’835 gruppi rom si trovavano nella città di Anazarbos, in Cilicia. Dall’Asia Minore si diffusero in Egitto e nell’Africa settentrionale, dalla quale passarono in Spagna in gran numero (dove vennero chiamati gitani). Un’altra colonia si diresse verso l’Europa centrale stanziandosi in Boemia. La loro presenza è segnalata sporadicamente in Grecia e nell’isola di Corfù prima del 1326. Nel 1348 il re serbo Stefano Dusan assegnò dei Rom a un monastero, al quale essi dovevano dare un certo numero annuo di ferri da cavallo; nel 1370 comparvero in Valacchia dove nel 1387 Mircea il Grande donò al convento di Tismana 40 famiglie rom, in condizione di schiavitù.
Alberto Krantius nella sua opera Saxonia (XI, 2) riporta che nell’anno 1417 apparve in Germania un popolo strano: bruno di pelle, sudicio, barbaro, dedito alla truffa e al furto. Erano gli zingari che, divisi in vari gruppi, fra il 1417 e il 1430 si diffusero, attraverso la Germania, in Svizzera, nella Francia meridionale e in Italia, dove nel 1422, passando per Bologna e Forlì sotto la guida di un leggendario duca Andrea, si spinsero sino a Roma; in Inghilterra, invece, non sono segnalati se non dal 16° secolo.
In principio i Rom, dando a intendere che erano poveri pellegrini egiziani diretti in Terra Santa, godettero di grandi favori presso i popoli che li ospitavano e ricevettero ricchi doni dietro promessa, quando fossero giunti a Gerusalemme, di pregare per la salvezza del donatore. Per accrescere l’illusione, portavano vesti da pellegrini e alla fine del 15° secolo beneficiarono pure della protezione papale. I capi delle bande di Rom, muniti di vari privilegi, riuscivano a esercitare una grande influenza sulla vita politica.
Non sembra che in quel tempo i Rom, almeno quelli che si propagarono nell’Europa centrale e occidentale, esercitassero i mestieri di calderaio, ramaio, stagnaio, maniscalco, che divennero più tardi loro abituali. Erano indovini e chiromanti, specialmente le donne; manipolavano polveri e decotti per ogni sorta di mali: per le partorienti, per le mestruanti, per vincere l’impotenza maschile; spacciavano filtri d’amore e ricette e amuleti contro il malocchio e la iettatura o per avere figli; facevano scongiuri per liberare gl’indemoniati ecc. Tutte queste pratiche, il loro aspetto, il loro modo di vivere e, forse, qualche misfatto, fecero sorgere sospetti e circolare la voce che fossero in comunicazione con il demonio e in segreto consumassero riti tremendi. Furono accusati di rapire i bambini per sacrificarli in certe loro ricorrenze, di cibarsi di carne umana e di altre usanze efferate. In quasi tutti i paesi d’Europa a partire dalla fine del 16° secolo e sino al 18° si emanarono leggi severissime che davano loro lo sfratto sotto pena di morte. Non pochi furono in quei tempi i processi intentati contro Rom o nei quali furono coinvolti sotto l’accusa di magia o satanismo o cannibalismo. Non di rado tali processi finivano con condanne all’impiccagione e al rogo.
Nella seconda metà del 17° secolo, ma con maggiore incidenza nel 18°, di fronte al fallimento dei tentativi di liberarsi definitivamente della presenza di queste comunità, le autorità iniziarono a cambiare le politiche repressive. Non si cercò più di ottenere l’auspicata scomparsa di Rom e Sinti prevalentemente attraverso i bandi, cioè la negazione geografica, quanto piuttosto attraverso l’imprigionamento, il frazionamento del gruppo, l’assimilazione forzata, cioè la negazione sociale. Le politiche di espulsione, si capì allora, non potevano essere risolutive, dal momento che, adottate da Stati confinanti, non facevano che spostare il problema da un paese all’altro.
Nel Settecento, nel secolo dei Lumi, si instaurò la politica dell’assimilazione dei diversi, e dunque anche degli zingari, che non dovevano più essere discriminati a patto però di diventare cittadini come tutti gli altri. Maria Teresa d’Austria e suo figlio Giuseppe II proibirono agli zingari di usare il loro nome, la loro lingua, di vivere secondo la loro tradizione. In Austria i bambini sinti e rom, all’età di quattro anni, dovevano essere tolti alle famiglie e dati in affidamento a contadini che li crescessero ‘come buoni cristiani’.
La situazione cominciò a migliorare dalla fine del 18° secolo: nei paesi dove molti Rom avevano perduto la libertà personale ed erano stati vincolati al suolo, come in Ungheria, Transilvania e Moldavia, l’abolizione della servitù della gleba restituì loro la libertà; quasi dovunque venne loro concessa, a certe condizioni, la facoltà di muoversi liberamente e di esercitare i loro mestieri, purché, naturalmente, non violassero le leggi.
Nuovi argomenti sorsero a sostegno del pregiudizio contro queste genti con il positivismo e con la sua pretesa di scientificità. Nel 1879, Cesare Lombroso, in una delle sue più celebri opere di antropologia criminale, L’uomo delinquente, descrive gli ‘zingari’ come «… l’immagine viva di una razza intera di delinquenti […]. Hanno in orrore […] tutto ciò che richiede il minimo grado di applicazione; sopportano la fame e la miseria piuttosto che sottoporsi ad un piccolo lavoro continuato […]. Amanti dell’orgia, del rumore, dei mercati fanno grandi schiamazzi; feroci, assassinano senza rimorso, a scopo di lucro».
Dalla seconda metà del 19° secolo la trasformazione dei confini degli Stati europei, in particolare la ridefinizione del neonato Stato tedesco, le guerre franco-prussiane, l’emancipazione dalla schiavitù in Romania a partire dal 1855 e, in seguito, il crollo e lo smembramento dell’impero asburgico incentivarono la mobilità delle comunità zingare. Una grande migrazione fu diretta verso la Russia, la Bulgaria, la Serbia, l’Ungheria, l’Europa centro-occidentale, ma anche verso le terre d’oltremare. Il fenomeno delle migrazioni intercontinentali (verso gli Stati Uniti, il Messico e l’America latina, in particolare Brasile e Argentina), già attivo nel 19° secolo, andò intensificandosi raggiungendo punte elevate dopo la Prima guerra mondiale, in seguito allo sfacelo dell’impero austroungarico, e durante la Seconda guerra mondiale, per sfuggire alle persecuzioni naziste.
Il nazismo, infatti, riservò a Rom e Sinti lo stesso trattamento degli ebrei: nel 1939, con il Decreto di stabilizzazione, furono obbligati a non abbandonare il luogo allora occupato e l’anno successivo ne fu ordinata la deportazione in Polonia. Il 16 dicembre 1942 fu infine promulgato il Decreto di Auschwitz: tutti i Rom dovevano essere internati senza alcuna considerazione né del grado di purezza razziale (essendo di origine indiana, erano sicuramente ariani), né del paese di provenienza. I Rom furono perseguitati, imprigionati, seviziati, sterilizzati, utilizzati per esperimenti medici; ciò non avvenne solo in Germania, ma anche in Italia, Iugoslavia, Francia, Belgio, Olanda, Polonia: circa 500.000 di essi trovarono la morte durante il barò porrajmos (in lingua romanés: «grande distruzione»).
Con la fine della Seconda guerra mondiale i Rom si rimisero in movimento. Nel dopoguerra Rom Kalderasha, Lovara e Churara si spostarono dalla Iugoslavia, dall’Ungheria e dalla Turchia verso l’Europa occidentale, mentre altri affluirono dalla Carelia verso la Finlandia. In tempi più recenti, con la guerra nei paesi della ex Iugoslavia, il flusso verso l’Europa occidentale è considerevolmente aumentato.
Usi e costumi
Gli studi antropologici sui Rom hanno fatto emergere la presenza di alcuni tratti che, pur non caratterizzando il loro intero universo, denotano comunque la vita di molti gruppi. Tra questi vanno ricordati i complessi rituali e le credenze legati alla morte; la presenza di particolari forme di amministrazione della giustizia e di regolamentazione del conflitto; l’organizzazione sociale fondata su un parentado bilaterale e non, come ritenuto dall’ideologia tardo-romantica di molti ziganologi, su una mai dimostrata matrilinearità; la tendenza a svolgere attività economiche che sfruttino sia la sovrapproduzione delle società con le quali i gruppi interagiscono, sia alcuni disservizi e disfunzionalità dei sistemi economici delle società stesse. Da quest’ultimo tratto deriva la capacità dei diversi gruppi di sfruttare il territorio urbano attraverso l’elemosina e la divinazione, attività prevalentemente femminili, o di praticare commerci, come per esempio quello dei rottami, ritenuti poco redditizi e quindi non esercitati dai gruppi non rom. Allo stesso modo può essere spiegata la specializzazione di numerosi Rom europei e nordamericani nel commercio ambulante o in attività come quelle di stagnaio o di calderaio.
Precise regole rituali sono volte a definire, in termini simbolici di purità e impurità, i rapporti tra interno ed esterno, tra comunità rom e mondo dei gagè (i non Rom). La comunità zingara è immaginata al centro di un universo esterno ostile, impuro, sporco, costituito dal mondo dei gagè. Dato, però, che proprio in questo esterno impuro e ostile i Rom devono comunque guadagnarsi da vivere, numerose comunità hanno messo a punto cerimoniali di purificazione cui devono sottoporsi i membri più esposti alla relazione con l’esterno (di solito le donne) prima di rientrare a contatto con la parte più intima e pura (quella maschile) del proprio mondo.
I Rom nomadi vivono in tribù guidate da un capo; esse sono frammentate in piccoli gruppi, i cui membri sono più volte imparentati fra loro. Il capo eletto da questi raggruppamenti familiari funge da giudice, sacerdote e rappresentante della tribù di fronte alle autorità. Decide la direzione da seguire e indica ai singoli gruppi familiari un ben delimitato campo di spostamento. Prevalgono le forme matriarcali: l’uomo, appena sposato, deve unirsi alla famiglia o alla banda della moglie, a cui apparterranno anche i figli nati da questo matrimonio. Lo sposo riceve dalla moglie una dote (un tempo l’intero arredamento per una casa: tenda, carro, cavallo, strumenti da lavoro ecc.), e i parenti della moglie vigilano affinché il patrimonio non venga dissipato. La massima pena che possa colpire un Rom è la sua esclusione dalla schiatta, comminata in caso di adulterio.
In alcuni gruppi esiste ancora la Kris, che in romanés significa «giudizio», organo che mantiene l’ordine e il rispetto per le tradizioni; viene convocata tutte le volte che succedono gravi controversie all’interno del gruppo (ripartizione di beni e guadagni, infrazioni alle tradizioni del gruppo, solidarietà nei momenti difficili, osservanza delle promesse fatte, lealtà, fedeltà nel matrimonio, rispetto reciproco, furto all’interno del gruppo, rottura del fidanzamento, vendetta tra i gruppi, aborto ecc.). La Kris, che è composta da alcuni capi della famiglia con il ruolo di giudici, più una persona ‘influente’ che funge da presidente, emette un verdetto inappellabile: qualsiasi decisione presa tale rimane e c’è per questo un certo timore nel convocarla. Si tende perciò a risolvere i vari conflitti ufficiosamente, attraverso il cosiddetto ‘divano’, dove le famiglie si radunano e discutono. Nei tempi passati, allo zingaro ritenuto colpevole, venivano inflitte pene violente: taglio della mano e delle orecchie; se la colpa era grave, vi era l’espulsione dal gruppo che poteva avere carattere temporaneo o perpetuo. Adesso le punizioni consistono nel pagamento di un indennizzo per risarcire i danni alla famiglia offesa.
La musica
Del patrimonio culturale rom, la musica è la manifestazione più nota. Esempio classico della loro creatività in questo campo è il flamenco, espressione musicale tipica dei gitani, cioè dei Rom di Spagna. Caratteristici del flamenco, in cui predomina la vena malinconica, sono i ritmi ondeggianti e le insistenti inflessioni cromatiche, che presentano affinità con la musica araba. Il cuadro flamenco (chitarra, danza, canto e battito delle mani) è diventato famoso in tutto il mondo. I Rom, inoltre, sono sempre stati considerati esecutori ‘virtuosi’ (una testimonianza attesta che nel 1430, alla corte dell’imperatore Sigismondo, suonava una orchestra zingara) e abili nella produzione di strumenti musicali.
Particolarmente legata ai Rom è la musica popolare ungherese, di cui essi sono stati più interpreti che autori, ma interpreti che giungono a una trasformazione stilistica tale da ridurre le musiche preesistenti a mero pretesto. La loro pratica, che si esercita specialmente sul violino e sullo zimbalon raggiungendo talvolta una sorprendente gamma di effetti virtuosistici ed espressivi, è riconoscibile per tratti improvvisatori: fioriture, coloriti, accelerandi e ritardandi, rubati, cromatismi ecc., oltreché per la tendenza a modificare la scala tonale in vari modi.
I Rom in Italia
Dati rilasciati dal Ministero dell’Interno nel 2007 stimano la popolazione rom e sinta in Italia complessivamente in circa 120.000 persone; secondo l’Opera nomadi, sarebbero in tutto 150.000, di cui poco meno della metà (70.000) con cittadinanza italiana da diverse generazioni e 80.000 provenienti dai Balcani (in costante aumento da Bulgaria e soprattutto Romania).
Storicamente i Rom sono arrivati in grandi ondate successive: la prima, che risale al 15° secolo, comprende le popolazioni zingare ormai sedentarizzate nelle diverse regioni (Rom abruzzesi e molisani, napoletani, campani, cilentani, lucani, calabresi, pugliesi e camminanti siciliani, un gruppo di cui non è nota l’origine), che assommano a oltre 30.000 unità; e i circensi/giostrai (Sinti dell’Italia centro-settentrionale), anch’essi intorno alle 30.000 presenze. La seconda ondata si ebbe dopo la Prima guerra mondiale e portò soprattutto Rom provenienti dall’Europa orientale: Harvati, Kalderasha, istriani e sloveni, riconosciuti anch’essi come cittadini italiani e stimati intorno alle 7000 presenze. Un terzo gruppo comprende quelli arrivati negli anni 1960 e 1970, in seguito a una grossa emigrazione dall’Est europeo verso i paesi più industrializzati: Khorakhané, musulmani provenienti dalla ex Iugoslavia meridionale, Dasikhané, cristiano-ortodossi di origine serba e rumena. Un altro importante esodo si è avuto dal 1989, in seguito al crollo dei regimi comunisti nei paesi dell’Est Europa e agli eventi bellici nella ex Iugoslavia. Dal 1992 al 2000 si stima ne siano arrivati in Italia circa 16.000, che si sono insediati in diverse aree del territorio nazionale. Negli anni successivi, e soprattutto dal 1° gennaio 2007, in seguito all’entrata della Romania nell’Unione Europea, è giunto un gran numero di Rom rumeni che ha portato la loro presenza a circa 50.000 unità; le più grandi comunità sono stanziate a Roma, Milano, Napoli, Bologna, Bari e Genova.
Secondo una ricerca presentata dall’ISPO (Istituto per gli studi sulla pubblica opinione) alla Conferenza europea sulla popolazione rom, tenuta a Roma il 22-23 gennaio 2008, solo il 6% degli italiani sa che i Rom nel nostro paese sono meno di 200.000 (la presenza è molto sovrastimata); il 24% che circa la metà di essi è italiana; il 16% che i Rom non sono più prevalentemente nomadi; il 37% che non sono un popolo omogeneo per cultura, lingua e provenienza. Nella mente negli italiani prevale l’avversione, rispetto all’immagine positiva, o anche folcloristica, di questo popolo: il 92% degli intervistati afferma che Rom e Sinti in molti casi sfruttano i minori e che vivono di espedienti o di furti; l’87% che essi restano chiusi verso chi non è zingaro e l’83% che abitano per loro scelta in campi, isolati dal resto della città. Il 65% degli intervistati ritiene che siano discriminati ma prevale, in generale, un ‘antiziganismo’ radicato, spesso diffuso e accentuato dai media. Secondo la maggior parte degli intervistati per una pacifica convivenza occorrerebbe che i Rom «rispettassero le nostre leggi», «smettessero di chiedere e iniziassero a fare qualcosa». Ovviamente, la centralità che il tema ha assunto appare in parte legata alla generalizzazione all’intera comunità di comportamenti devianti di singoli. Da qui un progressivo slittamento da questione eminentemente sociale a questione quasi esclusivamente di sicurezza.
Pure il tema del lavoro e della disoccupazione viene percepito come centrale, anche per le sue ricadute sulla sicurezza e la legalità. Esistono infatti connessioni molto forti tra questa questione e le altre, come conseguenza dello stigma di vivere nei campi, la bassa scolarizzazione, la difficoltà per alcuni di provare la regolarità. Infine, c’è il problema della cittadinanza per quanti ancora non l’hanno e quello del mancato riconoscimento come minoranza etnico-linguistica.
La legge 15 dicembre 1999, nr. 482 «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche» – che ha inteso attuare, in maniera compiuta, il dettato della Costituzione sull’eguaglianza di tutti i cittadini – riconosce e tutela 12 minoranze etnico-linguistiche storiche (albanese, catalana, croata, francese, franco-provenzale, friulana, germanica, greca, ladina, occitana, sarda e slovena). La legge tiene conto dei criteri etnico, linguistico e storico nonché della localizzazione in un territorio definito. I primi tre sono applicabili anche ai Rom di antico insediamento, e di fatto nel testo del disegno di legge tra le minoranze storiche era compresa anche quella zingara. L’approfondimento parlamentare pose l’accento, però, sul mancato ancoraggio della popolazione zingara a un territorio definito e si rimandò la questione ad altro specifico provvedimento, mai varato. Pertanto, allo stato attuale, non esiste nell’ordinamento italiano una norma che preveda e disciplini l’inclusione e il riconoscimento delle popolazioni rom nel concetto di minoranza etnico-linguistica. Solo tre regioni in Italia hanno elaborato dei disegni di legge e si sono date delle linee generali e programmatiche di intervento a tutela di Sinti e Rom: il Veneto, il Lazio e la Provincia autonoma di Trento.
Un tempo i Comuni italiani rifiutavano l’iscrizione anagrafica ai Rom e le scuole l’iscrizione ai loro figli, anche se cittadini italiani con diritto all’istruzione. Attualmente i Rom sono regolarmente iscritti, possono avere, anche se ancora trovano ostacoli burocratici, regolari licenze di commercio, di spettacolo viaggiante, di artigianato; frequentano la scuola; godono dell’assistenza sanitaria ordinaria.
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