Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Seicento le esigenze di un recupero d’immagine per la città capitale della Controriforma cedono il campo, su iniziativa dei pontefici, a un progetto grandioso di instauratio Urbis che dà un impulso decisivo al mecenatismo papale. Un salto di qualità si registra con Urbano VIII. La nomina di Bernini a responsabile unico delle committenze papali sancisce la piena convergenza fra il mecenatismo ufficiale e le più aggiornate tendenze dell’arte romana, e pone le premesse per l’affermazione a livello europeo dell’arte barocca, espressione dell’assolutismo monarchico.
Già alla fine del Cinquecento, con il breve ma determinante pontificato di Sisto V, si verificano le condizioni perché la Chiesa, superato il momento più critico delle lotte religiose, concluso il concilio di Trento e arginata la preponderante influenza spagnola in Italia, possa avviare un’imponente opera di recupero e consolidamento della propria autorità, attraverso un rinnovato impegno politico e diplomatico, l’affermazione capillare dei nuovi ordini religiosi e, non ultimo, il rilancio d’immagine di Roma come capitale del cattolicesimo.
Con Sisto V riprende quota la figura del pontefice promotore di grandi iniziative edilizie nella migliore tradizione umanistica. E in effetti l’opera, avviata almeno dal secolo precedente, di razionalizzazione della rete viaria ancora medievale della città, si compie ora attraverso l’imponente piano sistino di ristrutturazione urbanistica (la piazza stellare di Santa Maria Maggiore), con l’apertura di nuove vie (la “strada Felice” fra il Laterano e piazza del Popolo), l’erezione di obelischi, la costruzione di fontane, il restauro delle basiliche. Non si tratta più, come ai tempi di Sisto IV o di Giulio II, di rendere visibile nel tessuto stesso della città comunale quella sovranità pontificia da più parti messa ancora in discussione. Appianati da tempo i contrasti con le ultime resistenze municipali, la Roma “restaurata” di Sisto V deve piuttosto identificarsi con la capitale della Controriforma, secondo l’ideologia tridentina della Ecclesia Triumphans e in vista della scadenza doppiamente simbolica del Giubileo del 1600, anno santo e giro di boa per il nuovo secolo.
Il papa del Giubileo è però Clemente VIII Aldobrandini, cui tocca anche il compito di ultimare o di proseguire i grandi cantieri sistini: la basilica di San Pietro con la copertura della cupola e la decorazione interna (altare delle Confessioni), il Palazzo Nuovo Vaticano (dove è portata a termine la Sala Clementina), il Palazzo del Quirinale. Per quanto direttore di tutte le fabbriche papali sia ora Giacomo della Porta, in luogo dell’architetto prediletto da Sisto V, Domenico Fontana, gli orientamenti artistici di Clemente VIII e della sua corte (al cui interno si segnalano personalità di primo piano come i cardinali Bellarmino e Baronio) si muovono nel solco tracciato dal predecessore.
Sono così gli artisti dell’ultima generazione manieristica, primo fra tutti il pittore Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino e lo scultore Nicolas Cordier, a mantenere il monopolio delle commissioni ufficiali.
E questo nonostante negli stessi anni si segnalino le affermazioni pubbliche di Caravaggio e di Annibale Carracci e che apertamente filobolognesi (per influenza del segretario, monsignor Agucchi, fervente ammiratore di Annibale) siano gli interessi artistici del potente Pietro Aldobrandini, nipote del papa e grande collezionista.
Il fasto grandioso ma funzionale, la predilezione quasi neomedievale per i materiali preziosi, il bronzo, gli intarsi marmorei, le accese policromie che avevano caratterizzato il cosiddetto “stile sistino” si trovano così riproposti nella cappella eretta da Clemente VIII per i propri familiari in Santa Maria sopra Minerva e ancora condizionano le scelte artistiche di Paolo V Borghese, salito al soglio pontificio nel 1605, il quale, non a caso, si farà erigere una imponente cappella-mausoleo in Santa Maria Maggiore, di fronte a quella a suo tempo voluta da Sisto V.
La Cappella Paolina in Santa Maria Maggiore, alla cui decorazione si lavora per oltre un decennio (1605-1616), dà pienamente l’idea degli orientamenti artistici di un’età che a ragione è stata definita di transizione, dove vecchio e nuovo trovano modo di convivere senza apparenti contrasti e testimonia, in sostanza, della via di compromesso seguita dalla committenza pontificia negli anni in cui i dibattiti fra manieristi, classicisti e naturalisti sono ormai usciti allo scoperto. Sono gli anni in cui, più degli scandali provocati da ogni apparizione pubblica dei dipinti di Caravaggio, è la galleria dipinta entro il 1603 da Annibale Carracci nel palazzo del potente cardinale Odoardo Farnese, a imporsi, oltre che come manifesto delle tendenze classiciste, come nuovo e confacente modello di arte ufficiale.
Progettata da Flaminio Ponzio, architetto prediletto dai Borghese, e decorata sotto la direzione dell’immancabile Cavalier d’Arpino, la Cappella Paolina chiama così a raccolta, secondo la tradizionale pratica del cantiere collettivo, gran parte degli artisti attivi a Roma in quegli anni: scultori già affermati ed esponenti dell’ultima stagione manierista, come Mariani, Cordier, Pietro Bernini e scultori più giovani come Stefano Maderno e Francesco Mochi; accanto al Cavalier d’Arpino, pittori fiorentini “riformati” come il Cigoli e il Passignano (che lavora nell’adiacente sacrestia) e, per la prima volta, due giovani allievi di Annibale Carracci: Guido Reni e Giovanni Lanfranco.
Il gusto eclettico di Paolo V o, se si vuole, l’illuminata disponibilità del pontefice verso le diverse tendenze artistiche che a Roma tengono il campo (evidente anche nella decorazione, di poco successiva, della nuova ala del Palazzo del Quirinale da parte di Reni, Lanfranco, Agostino Tassi, Saraceni, un seguace, quest’ultimo di Caravaggio), ha nella contemporanea attività di mecenate e collezionista del cardinal nipote Scipione Borghese il più diretto referente.
La fortuna e l’incondizionato appoggio incontrati sotto il pontificato paolino da Scipione Borghese, uomo dalla “vita molto dedita a’ piaceri et passatempi” (secondo le parole di un contemporaneo), sono il segno evidente di un mutamento di clima. Riprende quota, in sostanza, quel processo di secolarizzazione del papato e della gerarchia ecclesiastica che i passati rigori tridentini avevano solo momentaneamente interrotto e di cui, ovviamente, il nepotismo era l’aspetto più caratteristico.
D’ora in avanti anche la politica culturale ed artistica dei “sovrani-pontefici” (Prodi) intreccerà legami sempre più stretti con quella dei propri familiari, ecclesiastici o laici, chiamati a ricoprire le più importanti cariche di governo e a contribuire, sul modello delle altre monarchie europee, a una gestione personalistica del potere, e all’illusione di una possibile continuità dinastica che, immancabilmente, ogni nuovo conclave dovrà annullare.
La disponibilità pressoché illimitata di mezzi finanziari consente a Scipione Borghese di mettere insieme una delle più ragguardevoli collezioni d’arte del suo tempo, comprendente opere di Raffaello, Tiziano, Dosso, Veronese. Per quanto sia fra i primi ammiratori di Caravaggio (di cui fra l’altro acquista la Madonna dei Palafrenieri allorché essa viene rifiutata dai fabbricieri di San Pietro) e, poco più tardi, il vero scopritore di Gian Lorenzo Bernini, nei suoi interessi collezionistici Scipione Borghese sa muoversi a tutto campo, raccogliendo anche opere del Cavalier d’Arpino, di Passignano, Cigoli, Barocci, Domenichino, Lanfranco, Reni. Tutte le tendenze della pittura contemporanea si trovano così rappresentate nelle sue raccolte, a misura di una spregiudicatezza e di una libertà di giudizio che è facile riconoscere, negli stessi anni, anche al mecenatismo (forse solo più sbilanciato sul versante caravaggesco) del marchese Vincenzo Giustiniani.
Libertà di giudizio che di qui a poco riceverà anche una prima legittimazione teorica e critica nelle pagine dell’erudito e “dilettante d’arte” Giulio Mancini in Considerazioni sulla Pittura del 1620 circa o nel ben noto Discorso sopra la Pittura dello stesso Giustiniani.
Dei molti edifici voluti da Scipione Borghese, la villa al Pincio, costruita in forme tardomanieristiche fra il 1613 e il 1615 dal Vasanzio, rende al meglio gli stessi ideali di vita raffinata e mondana del committente; le nuove facciate di Santa Maria della Vittoria, di San Gregorio Magno (entrambe affidate all’architetto Giovanni Battista Soria) nonché il restauro di San Sebastiano fuori le Mura sono invece il contributo del Borghese all’impegnativa opera di rinnovamento edilizio della città contemporaneamente condotta da Paolo V.
Sin dai primi anni di pontificato Paolo V sceglie infatti di muoversi nel solco di Sisto V e, accanto alle imprese volte a dar lustro alla propria casata la (cappella funeraria, il Palazzo Borghese, ristrutturato dal Ponzio sul modello del Palazzo Farnese), dà impulso a molti cantieri cittadini e opere di pubblica utilità, in particolare nel campo dell’approvvigionamento idrico con il restauro dell’acquedotto traianeo e la costruzione di innumerevoli fontane (fra cui quella monumentale al Gianicolo).
Ma è soprattutto la fabbrica della nuova basilica di San Pietro a ricevere l’impronta determinante del pontificato paolino.
Si deve infatti a Paolo V la decisione di abbandonare il progetto a pianta centrale di Michelangelo a favore di quello a sviluppo longitudinale e basilicale, caldeggiato dall’architetto Carlo Maderno che viene nominato direttore della fabbrica e che celermente, fra il 1607 e il 1612, dà compimento alla facciata. L’allungamento della navata annulla così l’effetto previsto da Michelangelo di visione globale, dal prospetto, dell’organismo architettonico (cupola compresa), anche se Maderno si preoccupa di conferire alla nuova facciata il massimo sviluppo e articolazione in larghezza anziché in altezza, avendo particolare riguardo per lo spazio antistante della basilica e preparando così la soluzione urbanistica della piazza realizzata più tardi da Bernini.
Per quanto con l’opera innovativa di Maderno, a partire dalla facciata di Santa Susanna (1603), “l’architettura si mettesse al passo con gli avvenimenti rivoluzionari della pittura” (Wittkower) è a quest’ultima che il nuovo papa Gregorio XV Ludovisi, eletto nel 1621, guarda con più interesse. La decisione di nominare il Domenichino architetto generale della Camera Apostolica dà la misura di come il tradizionale appoggio concesso dai pontefici agli artisti provenienti dalla loro stessa regione d’origine divenga, per il bolognese Gregorio XV e per il cardinal nipote Ludovico Ludovisi, anche una precisa scelta di campo a favore del partito classicista e degli allievi di Annibale Carracci, la cui ascesa, nel corso del pontificato paolino, era stata peraltro irresistibile.
La brevità del pontificato di Gregorio XV (morto nel 1623) rende altrettanto effimero il trionfo della pittura bolognese; ma è sufficiente al cardinale Ludovico Ludovisi per porre le basi di una solida fortuna e per iniziare il restauro e la ristrutturazione di numerose ville (a Roma, a Frascati) affidandone la decorazione a Domenichino e al Guercino, il cui breve soggiorno nell’Urbe è totalmente monopolizzato dai Ludovisi (Aurora nel Casino sul Pincio, pala con la sepoltura di Santa Petronilla per San Pietro).
Se con Gregorio XV si chiude la fase delle difficili mediazioni fra vecchio e nuovo, un effettivo mutamento nella politica culturale e artistica dei papi si registra con l’avvento di Urbano VIII Barberini e con l’ascesa del giovane Gian Lorenzo Bernini immediatamente elevato al ruolo di primo artista di corte. La celebre frase che, subito dopo la sua elezione (1623), il pontefice avrebbe rivolto allo scultore (“È gran fortuna la vostra, o cavaliere, di veder papa il cardinal Maffeo Barberini; ma assai maggiore è la nostra che il cavalier Bernino viva nel nostro pontificato”) dà l’idea dell’importanza attribuita da Urbano VIII alle arti figurative nel quadro dei propri programmi di governo; ma anche delle straordinarie opportunità che, come ai tempi di Giulio II e di Leone X, si aprono ora all’artista chiamato a tradurre in opere monumentali i grandiosi progetti del pontefice, la sua volontà di celebrazione della chiesa romana cattolica e, soprattutto, della sua ambiziosa famiglia.
Primo banco di prova per Bernini è il compimento, commissionatogli nel 1624, del nuovo baldacchino per San Pietro: opera di nuovissima concezione, ma anche visualizzazione di un ardito programma iconografico all’interno del quale gli emblemi dinastici del pontefice (le api, l’alloro, il sole) ottengono inedito rilievo. Bernini sa armonizzarli, col massimo di artificio e di naturalezza possibili, alla restante decorazione scultorea. Le api dei Barberini, da motivo araldico diventano così reali, brulicanti presenze al sommo del fastigio, i rami di alloro finiscono quasi per intaccare la struttura delle colonne tortili, sostituendosi alla vite evangelica. Il sole viene assunto a esclusivo motivo decorativo dei capitelli. La prima, trionfale affermazione dell’arte barocca nel luogo più simbolico della cristianità, la basilica e la tomba dell’apostolo Pietro, diviene così anche immagine inequivocabile dei progetti assolutistici del nuovo pontefice e della sua volontà di legare indissolubilmente le sorti della propria famiglia a quelle della Chiesa di Roma.
In linea con tale volontà autocelebrativa, Urbano VIII concentra i propri interventi in San Pietro nella zona dell’altare maggiore (decorazione dei pilastri della cupola) e nell’abside, dove sceglie di erigere il proprio monumento funebre, commissionato a Bernini nel 1626 ma ultimato soltanto dopo la sua morte. Senza precedenti è il numero di opere per San Pietro affidate, nel corso del suo pontificato, allo scultore, nominato dal 1629 anche architetto della fabbrica: oltre al monumento funebre, che inaugura un modello di tomba papale (al tempo stesso sepolcro e memoria celebrativa) cui si sarebbe guardato fino ai tempi di Canova, il San Longino per una delle nicchie dei pilastri della cupola, il rilievo col Pasce oves meas, la tomba di Matilde di Canossa incidono in modo determinante sull’assetto decorativo interno della basilica.
La protezione accordata da Urbano VIII a Bernini di cui il pontefice si assicura l’esclusiva professionale, segna una svolta decisiva nella stessa cultura artistica romana e il precoce esaurimento delle precedenti esperienze del classicismo bolognese e del naturalismo caravaggesco. In linea con i nuovi orientamenti del gusto della corte, il pittore dei Barberini è piuttosto Pietro da Cortona che, dopo una prima pubblica affermazione negli affreschi di Santa Bibiana, la basilica rinnovata da Bernini per il Giubileo del 1625, viene incaricato della decorazione del salone del nuovo palazzo di famiglia. Nell’affresco della volta con il Trionfo della Divina Provvidenza attraverso il potere spirituale e temporale del papato di Urbano VIII, realizzato dall’artista fra il 1633 e il 1639, i nuovi principi dell’arte barocca si accordano a un programma encomiastico senza precedenti. “Mai era stata tentata, nemmeno al tempo dei potenti e orgogliosi Farnese, una tale apologetica di sacro e profano a gloria di una famiglia, un colloquio a così alto livello fra i simboli della gloria terrena e quelli divini della religione cattolica” (Briganti); ma proprio la capacità di trasfigurazione poetica, in un affresco unitario e spettacolare di quello stesso programma, ad opera di Pietro da Cortona, pone le basi per la piena affermazione del barocco come interprete figurativo dell’assolutismo monarchico.
Palazzo Barberini, del resto, eretto su disegno di Carlo Maderno ed ultimato da Bernini nel 1633 (con il marginale intervento di Francesco Borromini), con la sua nuova concezione scenografica, centrata sull’ampio e articolato prospetto, è esso stesso immagine del potere dinastico instaurato a Roma da Urbano VIII e, ovviamente, delle incalcolabili ricchezze che in quegli anni sono passate dalle casse pontificie a quelle dei familiari del pontefice.
Ricchezze che consentono ai tre nipoti Francesco, Taddeo e Antonio di svolgere un ruolo attivo nella promozione delle arti, proteggendo artisti della statura di Poussin, Vouet, Andrea Sacchi (al quale venne commissionato, nel palazzo, il grande affresco con l’Allegoria della Divina Sapienza).
All’ambiente dei Barberini appartiene anche Cassiano Dal Pozzo singolare figura di “dilettante”, erudito, collezionista e bibliofilo, ispiratore di un monumentale censimento grafico delle antichità romane (il Museum Cartaceum) sul quale si formerà la competenza antiquaria di molti artisti chiamati a realizzarlo, da Pietro Testa a Pietro da Cortona, all’artista favorito: Poussin.
Gli esiti rovinosi della politica estera condotta negli ultimi anni da Urbano VIII, le sopravvenute difficoltà economiche e, infine, la morte del pontefice segnano il tramonto inglorioso della Roma prodiga e fastosa dei Barberini.
Con essa tramonta anche, al momento, la dittatura artistica di Bernini, i cui privilegi a corte ben difficilmente potrebbero venire riconfermati dal nuovo papa, Innocenzo X Pamphilj, che in tutto, e dunque anche in campo artistico, intende differenziarsi dal predecessore.
La momentanea eclisse di Bernini sancisce la piena affermazione di Francesco Borromini e dello scultore Alessandro Algardi che proprio negli anni di Innocenzo X raccolgono le loro più importanti commissioni.
All’architetto viene affidata la radicale ristrutturazione di San Giovanni in Laterano in vista del Giubileo del 1650 e l’ampliamento del collegio gesuitico della Propaganda Fide. Contemporaneamente Algardi realizza per San Pietro la tomba di Leone XI e il monumentale rilievo con l’ Incontro di Attila e Leone Magno, prototipo, quest’ultimo, della pala d’altare marmorea destinato ad avere poi grande seguito nella Roma barocca.
Al pari dei suoi predecessori, Innocenzo X non si sottrae al dovere di munificare la propria famiglia e ancor più della villa fatta erigere sul Gianicolo (con le splendide decorazioni a stucco di Algardi), l’impronta del suo mecenatismo si rivela nella ristrutturazione del palazzo acquistato per il nipote Camillo Pamphilj (e per la madre di questi, la potente Olimpia Maidalchini) e nei lavori di riassetto urbanistico che coinvolgono l’intera piazza Navona, su cui l’edificio si affaccia.
In parallelo al palazzo, ampliato dall’architetto Girolamo Rainaldi, viene infatti avviata anche la ricostruzione della chiesa di Sant’Agnese, che nelle intenzioni del pontefice dovrebbe ospitare il proprio monumento funebre (oltre a quelli di tutti i membri della famiglia Pamphilj).
La chiesa è iniziata da Girolamo e Carlo Rainaldi, ma si deve a Borromini, subentrato nel 1653 alla direzione dei lavori, l’idea della facciata concava e dei due campanili laterali che, innestandosi direttamente nell’area occupata dai palazzi adiacenti, articolano in senso dinamico il perimetro obbligato della piazza cresciuta sul tracciato ellittico dell’antico stadio di Domiziano. La chiesa di Sant’Agnese, la nuova facciata del palazzo di famiglia e la grande Fontana dei Quattro Fiumi che il pontefice commissiona a Bernini (presto riaccreditato a corte) riconfigurano così in senso pienamente barocco piazza Navona, qualificandola come emergenza monumentale d’eccezione nel tessuto urbano della città, nonché, ovviamente, come cornice scenografica e trionfale per la stessa residenza dei Pamphilj.
Anche sotto la guida di Innocenzo X che pure, come committente, non può competere col predecessore Urbano VIII, l’immagine di Roma capitale del cattolicesimo si sovrappone a quella trionfante della nuova capitale europea delle arti e del mecenatismo principesco. Entrambe le suggestioni, quella religiosa e quella culturale, si riconoscono del resto, in questi stessi anni, all’origine della sensazionale conversione al cattolicesimo di Cristina di Svezia che, dopo la rinuncia al trono, si trasferisce a Roma nel 1655, portando con sé una cospicua galleria di dipinti (opere di Raffaello, Tiziano, Veronese, Rubens), frutto, in gran parte, dei saccheggi compiuti dal padre Gustavo II Adolfo a Praga.
A Roma Cristina si distingue come grande animatrice culturale, trasformando la sua residenza, il Palazzo Riario alla Lungara, in uno dei più importanti cenacoli artistici e letterari della seconda metà del secolo.
Proprio quando i segnali della grave crisi economica, che di qui a poco investirà tutta l’economia italiana, si fanno evidenti anche all’interno dello Stato della Chiesa, Roma vive con Alessandro VII Chigi una delle sue più intense stagioni di rinnovamento architettonico e urbanistico. Bernini riconquista a corte la sua posizione di assoluto prestigio, al pari di Pietro da Cortona, impiegato sia come pittore e coordinatore di grandi imprese decorative (Galleria nel Palazzo del Quirinale), sia come architetto (facciata di Santa Maria in via Lata). Ma la munificenza del pontefice favorisce anche Borromini, che in questi anni può condurre a termine Sant’Ivo alla Sapienza, e Carlo Rainaldi cui è affidata la ricostruzione di Santa Maria in Campitelli e la sistemazione urbanistica di piazza del Popolo, con l’erezione delle due chiese gemelle di Santa Maria di Monte Saulo e di Santa Maria dei Miracoli (successivamente portate a termine su progetti di Bernini e di Carlo Fontana).
Ma è soprattutto Bernini l’artefice dei più ambiziosi progetti del papa, tornato nuovamente a privilegiare, come ai tempi dei Barberini, il cantiere sempre aperto di San Pietro. Lo scultore può così dar pieno corso agli sviluppi mistici e visionari del suo stile tardo, realizzando la gran macchina scenografica della Cattedra di san Pietro, collocata nell’abside, e il monumento funebre che, appena eletto, il pontefice gli aveva commissionato. In qualità di architetto della fabbrica, Bernini realizza il collegamento fra la basilica e i palazzi vaticani con la costruzione della Scala Santa e soprattutto cura la sistemazione monumentale della piazza con l’erezione del gigantesco colonnato.
Con la nuova e scenografica invenzione del colonnato libero (284 colonne, 88 pilastri, e un coronamento, completato in seguito di 140 statue) Bernini risolve in modo geniale il problema del difficile rapporto fra la piazza, il corpo della basilica con la cupola michelangiolesca e la facciata, le cui proporzioni monumentali erano state inevitabilmente compromesse dalla mancata erezione dei due campanili laterali (previsti nel progetto originario).
Ma soprattutto, con l’idea dei due bracci ellittici del colonnato protesi sulla piazza, Bernini trasforma l’ambientazione urbanistica della basilica, fulcro del cattolicesimo, in un’architettura “parlante”, dal chiaro significato simbolico: è l’abbraccio della Chiesa alla totalità dei fedeli, la visualizzazione più suggestiva di quella vocazione universalistica del papato che da Sisto V in poi aveva animato i progetti di restauratio Urbis dei pontefici, ma che, almeno sul piano politico, dopo la pace di Westfalia (1648), è ormai divenuta soltanto un mito anacronistico.
Dopo la morte di Alessandro VII, del resto, nessuno dei successori avrà la forza economica, o la volontà, di dare compimento a piazza San Pietro secondo il progetto originale di Bernini.
Con l’impresa ciclopica del colonnato si chiude, dunque, anche la stagione del grande mecenatismo papale nella Roma del Seicento.
La dilagante crisi economica italiana, lo stato disastroso delle finanze pontificie, il ridimensionamento politico del papato sulla scena internazionale (ormai dominata dalla Francia di Luigi XIV), determinano dopo la morte di Alessandro VII il rapido declino della committenza papale. Se Bernini può ancora chiudere la sua carriera con opere importanti quali la decorazione di Ponte Sant’Angelo, o l’altare del SS. Sacramento in San Pietro, indicativa del nuovo clima è piuttosto la decisione di Clemente X di abbandonare il progetto già accarezzato dal predecessore Clemente IX di ristrutturazione dell’antica basilica di Santa Maria Maggiore, riducendo il proprio intervento alla sola sistemazione dell’abside ad opera di Carlo Rainaldi.
Fra le imprese più importanti patrocinate da Clemente X Altieri si segnalano la decorazione della cappella di famiglia in Santa Maria sopra Minerva e l’erezione del palazzo per il cardinal nipote a lato della Chiesa del Gesù, alla cui decorazione sovrintende il pittore Carlo Maratta, indiscusso arbitro del gusto a Roma in questi anni.
Al fianco di Maratta lavorerà spesso l’architetto Carlo Fontana la cui opera verrà in particolare apprezzata, ormai sullo scorcio del secolo, da Innocenzo XIIPignatelli. Al Fontana sono in particolare affidati la trasformazione della cappella battesimale in San Pietro (1692), i lavori nel Palazzo del Quirinale e opere di pubblica utilità quali il grande Ospizio di San Michele a Ripa, notevole esempio di architettura funzionale.
In un momento in cui la cultura artistica romana appare in netto ripiegamento su se stessa, dopo decenni di straordinaria felicità creativa, acquistano particolare risalto anche gli atti dei pontefici volti a tutelare le opere d’arte esistenti, il patrimonio culturale sedimentato nei secoli.
L’editto promulgato da Clemente X a salvaguardia delle antichità romane, i restauri condotti da Maratta sugli affreschi di Raffaello nelle Stanze Vaticane e nella loggia della Farnesina sono in linea con gli orientamenti classicisti che contemporaneamente, sul fronte della critica d’arte, trovano in Bellori il portavoce più autorevole, o che ispirano la presenza culturale aRoma dell’Accademia di Francia, fondata da Colbert per consentire ai giovani artisti francesi più meritevoli di studiare dal vero le antichità (o i testi classici del Cinquecento).
Il declino della committenza pontificia e dunque la fine di quel regime di esclusivo monopolio nei confronti dell’operato degli artisti più affermati, esercitato per decenni da papi come Urbano VIII, Innocenzo X, Alessandro VII, lasciano ampi margini di azione al mecenatismo degli ordini religiosi e in particolare dei Gesuiti che, dal 1672 affidano la decorazione della loro chiesa madre a Giovan Battista Gaulli, il Baciccio. La libertà decorativa, lo spirito stesso del più trionfante barocco romano, così come l’idea berniniana di un illusionismo totale perseguito attraverso l’unità e varietà delle tecniche (accanto al Gaulli lavora per le parti di rilievo in stucco lo scultore Antonio Raggi) ispirano il monumentale affresco del soffitto col Trionfo del nome di Gesù.
A chiudere idealmente il secolo sarà però un’altra memorabile impresa gesuitica: il soffitto della Chiesa di Sant’Ignazio dipinto da Andrea Pozzo che con la sua nuova interpretazione scientifica e prospettica dell’illusionismo inciderà sensibilmente sugli sviluppi settecenteschi del genere e della decorazione ad affresco.