ROMA - Pittura
La perdita degli apparati decorativi dei grandi cantieri romani del sec. 4°, solo in parte risarcita dalla sopravvivenza di un episodio semiprivato come il mausoleo di Costanza, rende esclusivamente congetturale la ricostruzione della fase formativa di una tradizione figurativa che nei secoli successivi si qualificò come romana e cristiana al tempo stesso. Plausibilmente, alla definizione di prototipi iconografici e di strutture semantiche proprie contribuirono in primo luogo i catini absidali dei due principali santuari, dove le originarie campiture aniconiche vennero, nei decenni successivi, sostituite dalla Traditio legis nella basilica martiriale sul Vaticano e da una composizione a sette figure nella cattedrale Lateranense, inaugurando uno schema che divenne quasi normativo nella città e nelle aree da questa influenzate.Si trattava in ogni caso di fabbriche portate avanti grazie a quella munificenza imperiale destinata a esaurirsi con il secolo per lasciare il posto al mecenatismo di personaggi di antico o recente lignaggio e dei primi 'pontefici-sovrani', attestato dalle imprese musive di S. Sabina, del battistero Lateranense, di S. Maria Maggiore, di S. Pietro in Vaticano e di S. Paolo f.l.m., nonché dai cicli testamentari dipinti, su iniziativa di Leone Magno (440-461), nelle basiliche consacrate ai principi degli apostoli.La deposizione di Romolo Augustolo nel 476 e il definitivo trasferimento delle insegne a Costantinopoli - assurto nella storiografia ottocentesca a spartiacque simbolico tra Antichità e Medioevo - non dovettero costituire un evento di accentuata drammaticità, collocandosi al termine di un graduale percorso di disaffezione degli imperatori nei confronti dell'Urbe, ormai sostituita nell'immaginario dalla nuova R. sorta sulle colline del Bosforo.È dunque significativo delle mutate condizioni politiche e sociali che in questi stessi anni le principali decorazioni monumentali fossero dovute a due esponenti del nuovo ceto emergente di ascendenza gota, Flavio Ricimero e Flavio Valila Teodosio, i quali legarono il loro nome alle decorazioni di S. Agata dei Goti, un luogo di culto ariano probabilmente dedicato al Salvatore (Cartocci, 1993), e di S. Andrea Catabarbara, entrambe impreziosite nei catini absidali da mosaici, realizzati rispettivamente tra il 462 e il 470 e tra il 468 e il 483. La perdita degli originali, dovuta nel primo caso alle modernizzazioni post-tridentine e nel secondo all'abbandono dell'antica basilica di Giunio Basso (Enking, 1964), è parzialmente sanabile grazie alle copie antiquarie (Waetzoldt, 1964, figg. 1-12, 15), che documentano scelte iconografiche e compositive di segno teofanico, attestando la diffusione di un linguaggio figurativo che finalmente desse forma a quel 'contenuto trascendente' nel quale è stata riconosciuta (Matthiae, 1965, p. 67) la principale caratteristica di una produzione ormai a pieno titolo medievale, in accordo a una linea di sviluppo che raggiunse il culmine nel secolo successivo.La presenza di Felice IV all'estremità sinistra del catino consente infatti di collocare negli anni del suo pontificato (526-530) la trasformazione nella chiesa dedicata ai ss. Cosma e Damiano di un'aula ricavata nelle strutture dell'antico foro della Pace, un'iniziativa che sovvertì la consolidata prassi che suggeriva, per la fondazione di edifici di culto cristiano, di evitare il centro monumentale della città antica, ancora ricco di memorie pagane. Elemento qualificante nella consacrazione di questo ambiente, sontuosamente decorato nelle pareti di intarsi marmorei, fu senza dubbio la realizzazione dello straordinario mosaico absidale. Al centro dell'ampia calotta è il Cristo barbuto, che si staglia sul blu intenso di un cielo percorso da nuvolette rosso acceso, venate da tessere bianche; più in basso i ss. Pietro e Paolo introducono i due santi titolari seguiti da s. Teodoro e dal papa committente, la cui figura è tuttavia frutto di un ripristino seicentesco. I personaggi insistono su un coloratissimo manto erboso, movimentato da arbusti e piccole rocce, su cui proiettano le proprie ombre, realizzate con grande sapienza prospettica. Nella fascia sottostante la presenza degli apostoli è evocata dalla teoria di agnelli. L'elevata qualità esecutiva, osservabile fin nei più minuti dettagli, suggerisce il raggiungimento di un punto di equilibrio tra le emergenti tendenze all'astrazione delle forme - sostenute anche da violenti accostamenti cromatici di gusto quasi fauve (Andaloro, 1992, p. 590) - e la tradizionale resa plastico-volumetrica della figura, esplicitata dalla monumentalità statuaria dei due apostoli: una straordinaria sintesi resa possibile, in anni di profondi rivolgimenti politici e culturali, oltre che dalla persistenza di una consolidata tradizione locale, anche dalle strettissime relazioni intrattenute con Ravenna, sia durante il regno di Teodorico, conclusosi proprio nel 526, sia durante la breve reggenza di Amalasunta (m. nel 535), che promosse una politica di riconciliazione con il vescovo di Roma. Di queste relazioni rimane traccia anche nel titulus posto sotto il catino, contenente un'esaltazione della luce, di sensibilità affine al suggestivo testo dispiegato nella cappella arcivescovile di Ravenna (Février, 1994). L'interesse per l'iscrizione musiva tuttavia non è riducibile al mero valore testuale, ma si estende alle elevate qualità formali, raggiunte mediante l'adozione di artificiosi caratteri mutuati dall'epigrafia romana che, nell'accentuato contrasto tra pieni e filetti e nelle reiterazioni di tratti ornamentali alle terminazioni, richiamano la scrittura del c.d. Virgilio augusteo, un codice di grande pregio realizzato a R. negli stessi anni (Roma, BAV, Vat. lat. 3256; Berlino, Staatsbibl., 2°.416; Petrucci, 1973).Alcuni indizi segnalano inoltre la possibilità di un maggior coinvolgimento della corte gota nella cristianizzazione dell'edificio, esplicitato dal ritrovamento di bolli doliari con il nome di Teodorico e dalla possibilità che la presenza di s. Teodoro contenga un'allusione onomastica al sovrano appena defunto (Belting-Ihm, 1994).Per quanto riguarda l'arcone absidale con la tradizionale composizione apocalittica, qui decurtata dalle trasformazioni seicentesche delle schiere dei vegliardi, vanno segnalati consistenti elementi di differenziazione tecnica e formale rispetto al catino sottostante, forse giustificabili dalla varietà e dalla complessa articolazione dei modi artistici nella R. dell'epoca. La contemporaneità delle due parti della decorazione è stata infatti sostenuta in maniera pressoché unanime, a eccezione di Matthiae (1967), che propose un completamento o un rifacimento dell'arco sullo scorcio del sec. 7°, una proposta che andrebbe riconsiderata sulla scorta dei risultati del restauro appena concluso.La ricchezza d'indirizzi formali nei primi decenni del sec. 6° è d'altronde confermata dalle pitture rinvenute sui pilastri del titulus di Equizio, contiguo alla chiesa di S. Martino ai Monti, dove i richiami alla produzione ravennate di età teodoriciana - per es. la lunetta con l'Annuncio del tradimento di Pietro - convivono con esiti ancora compendiari, testimoniati dall'arcangelo dell'Annunciazione, mentre le tracce d'intessitura musiva raffigurante probabilmente S. Silvestro offrono, oltre a riscontri prettamente cittadini, la possibilità d'intravedere tangenze ancora inesplorate con Napoli, teatro negli stessi anni di una vivace stagione figurativa (Davis-Weyer, Emerick, 1984). All'orizzonte partenopeo rimanderebbe infatti anche il pannello con la Vergine in trono tra i ss. Felice e Adautto e la donatrice Turtura nella catacomba di Commodilla (Russo, 1979-1981; Andaloro, 1992), dove si conserva anche una Traditio clavium ascrivibile al pontificato di Giovanni I (523-526).Di nuovo alla luce dei fittissimi rapporti tra R. e Ravenna agli inizi del sec. 6° sarebbero da considerare la Madonna in trono tra angeli e i Tre giovani nella fornace della basilica inferiore di S. Crisogono (Melograni, 1990) e le figure dei Ss. Marcellino, Pollione e Pietro nel cimitero di Ponziano, caratterizzati da una resa semplificata e monumentale al tempo stesso.Malgrado la limitatezza delle opere superstiti, la produzione romana conferma dunque il polarizzarsi, nel corso dei primi decenni del sec. 6°, di stimoli formali e iconografici eterogenei, a fondamento di una stagione fervida di promesse, bruscamente interrotta dalla rovinosa guerra greco-gotica, che causò il collasso delle strutture produttive, una forte contrazione demografica e un diffuso impoverimento. Tale cesura si protrasse ben oltre la durata degli scontri, durante i quali non è documentabile alcun intervento di decoro monumentale, almeno fino all'ultimo quarto del sec. 6°, quando due opere musive testimoniano efficacemente il mutato clima culturale e la forte apertura a Oriente seguita alla riconquista bizantina della città. La prima è contestuale alla consacrazione al culto di S. Teodoro di una rotonda posta alle pendici occidentali del Palatino, dove si conserva una modesta abside raffigurante il Cristo sul globo affiancato dai ss. Pietro e Paolo, mentre alle due estremità il titolare dell'edificio, S. Teodoro lo Stratelita, trova corrispondenza in una figura identificata congetturalmente da Matthiae (1967) con S. Teodoro di Tiro. Fortemente manomessa e qualitativamente non eccelsa, la composizione propone una versione semplificata del prototipo dei Ss. Cosma e Damiano, da cui cita apertamente brani delle figure degli apostoli e di s. Teodoro, rivelando tuttavia - nella scelta per il fondo di una campitura dorata dalla quale è stato soppresso qualunque spunto paesistico - a che punto di non ritorno fosse giunto a R. il processo di irrigidimento e di astrazione formale avviato un secolo prima.Nella basilica che Pelagio II (579-590) fece edificare sulla tomba del martire s. Lorenzo lungo la via Tiburtina, la decorazione dell'originario arco di trionfo, occultata dal mutato orientamento dell'od. edificio di culto, sviluppa invece un tema teofanico fino ad allora riservato ai catini absidali. Al centro è infatti il Redentore assiso sul globo, accompagnato dai principi degli apostoli, dai diaconi Stefano e Lorenzo, da s. Ippolito, al quale era dedicato un vicino cimitero, e dal papa committente, mentre a un registro inferiore, in corrispondenza delle finestre, si trovano le vedute di Gerusalemme e Betlemme. Malgrado la limitata estensione del complesso, le stesure musive propongono un campionario assai variato di declinazioni stilistiche, da attribuire - più che a una netta differenziazione di mani - alla pluralità dei riferimenti, nonché a modelli appartenenti a generi distinti, come i volti di s. Ippolito e di Pelagio II, nei quali la marcata attitudine ritrattistica ha suggerito l'ipotesi di una trasposizione su scala monumentale di pitture da cavalletto (Bertelli, 1983; 1994).La morte di papa Pelagio II portò all'elezione di Gregorio I Magno (v.), un personaggio che influì radicalmente sul volto, non solo monumentale, della città, definito da Krautheimer (1980, trad. it. p. 77) il fondatore della R. medievale. Appartenente a una stirpe aristocratica di antica tradizione, quella degli Anici, il nuovo pontefice possedeva una cultura classica e una sensibilità decisamente 'moderna', che lo supportarono nell'esercizio di un potere che oramai non era soltanto di natura spirituale. Malgrado i principali sforzi fossero rivolti a opere di urbanizzazione primaria, come il ripristino della rete viaria, dell'approvvigionamento idrico e del circuito murario, la sua azione fu del tutto priva di enfasi nostalgiche nei confronti della perduta grandezza, come dimostrano i ripetuti accenni nelle Omelie e nei Dialoghi al disfacimento dei monumenti antichi quale segno inequivocabile della vacuità del mondo che essi rappresentavano.Anche la produzione figurativa risentì della dicotomia tra un'attitudine a concepire l'esistente e la sua rappresentazione in senso esclusivamente cristiano e radici formali antiche, riscontrabili nella raffinata tradizione intuibile nella figura del santo seduto, forse Agostino, pertinente agli scarsi e rovinatissimi resti dalla decorazione pittorica dell'antica biblioteca del Laterano, istituzione nella quale è stata ipoteticamente individuata la sede dello scriptorium che, per l'ultima volta nel corso del Medioevo, rese R. un centro di produzione e diffusione di materiale librario. Una traccia di questa produzione è riscontrabile nell'Evangeliario di s. Agostino di Canterbury (Cambridge, C.C.C., 286), che nella monumentale figura di S. Luca (c. 129v) e in particolare nelle Storie neotestamentarie riflette i cicli delle basiliche cittadine, propagandone l'eco nella lontana Inghilterra, dove il santo missionario fu inviato da Gregorio I Magno in persona.L'orizzonte culturale romano, di raffinatezza antica e modernità linguistica, si è arricchito della proposta di ricondurvi la celeberrima icona di S. Pietro conservata nel monastero di S. Caterina sul Monte Sinai (Mus.), più probabilmente prodotta a Costantinopoli (Falla Castelfranchi, 1995), nella quale sono stati riconosciuti punti di tangenza con alcune raffigurazioni romane dell'apostolo, quali quella dell'abside di S. Teodoro.Sebbene fosse proprio a ridosso del papato di Gregorio I Magno (590-604) che il cristianesimo fece il suo trionfale ingresso nelle aree monumentali dismesse, dedicando a culti orientali i santuari nella zona tra il Palatino e i fori, la politica di fondazioni ecclesiastiche promosse dal pontefice conferma l'antica diffidenza nei confronti delle tracce materiali del passato pagano. Non fu quindi casuale che la sua più nota istituzione - il monastero di S. Andrea sul Celio - nascesse dalla ristrutturazione della dimora avita, in accordo a una concezione ancora quasi domestica dei luoghi di culto e a una cautela nei confronti degli edifici pubblici che, almeno nominalmente, rimanevano di proprietà imperiale. Le esigenze di una progressiva riappropriazione del disabitato determinarono tuttavia una massiccia opera di consacrazione dello spazio urbano, attestata dalla tradizione iconografica di Gregorio I Magno impegnato a scacciare i demoni dai templi così come dalla conversione al cattolicesimo, anch'essa preceduta da un esorcismo, dell'antica sede ariana di S. Agata dei Goti.Questo processo si concluse però solo nel 609, dopo la morte del papa, con l'autorizzazione concessa dall'imperatore Foca, su richiesta di Bonifacio IV, a trasformare in una chiesa dedicata a Maria e ai martiri il simbolo pagano per eccellenza, il Pantheon, dove è conservata l'icona della Madonna Odighítria probabilmente riconducibile proprio alla storica occasione, secondo una datazione che sembrerebbe supportata da elementi formali come la modellazione della testa del Bambino.Se l'ancoraggio a un evento di portata straordinaria consente una plausibile contestualizzazione dell'icona di S. Maria ad Martyres, estremamente controversa rimane la c.d. Madonna della Clemenza, una tavola conservata a S. Maria in Trastevere, con la Vergine in trono tra angeli, ricondotta da Bertelli (1961) a Giovanni VII (705-707); diversamente Andaloro (Aggiornamento, 1987, pp. 255-256) ha ritenuto più plausibile una datazione sullo scorcio del 6° secolo. In un arco cronologico pressoché coincidente si dispongono inoltre le proposte per la Theotókos attualmente conservata in S. Maria Nova, che sembrerebbe costituire il prototipo, almeno in ambito romano, di questo tipo iconico.Durante il regno di Giustino II (565-578), negli ambienti che costituivano il monumentale accesso agli antichi palazzi imperiali, venne istituita la chiesa di S. Maria Antiqua, decorata a più riprese fino all'847, quando l'edificio fu sommerso dalla frana che trascinò le macerie delle soprastanti costruzioni. Le difficoltà dello sterro in una città prostrata dalle scorrerie saracene determinarono l'abbandono del sito e il trasferimento di tutti i privilegi, nonché della veneratissima icona della Vergine, alla vicina S. Maria Nova (od. S. Francesca Romana). La catastrofe sigillò dunque tre secoli di pittura altomedievale che apparvero in tutta la loro eccezionalità agli scopritori di inizio Novecento, anche se la zona presbiteriale era già venuta alla luce nel 1702, quando la decorazione dell'abside fu copiata in un acquarello di Valesio e immediatamente ricoperta (Roma, Arch. Storico Capitolino; Rushforth, 1902; De Grüneisen, 1911).A logo di questa straordinaria pinacoteca è assurta nella storia degli studi la c.d. parete palinsesto, un riquadro collocato sulla spalla destra dell'arco absidale, dove si sovrappongono quattro stesure pittoriche di epoche differenti. Lo strato più antico celebra la Madonna Regina affiancata da angeli e risale probabilmente a una data anteriore alla trasformazione in chiesa dell'ambiente, allora pertinente al corpo di guardia alla residenza imperiale, divenuta sede del rappresentante bizantino nella città. Il pannello, decurtato nella parte sinistra dalla successiva apertura dell'abside, sembrerebbe richiamare nella ieraticità della composizione e nelle sontuose vesti della Vergine il cerimoniale di corte, ma la rigida frontalità e la matrice fortemente astrattizzante dell'insieme rendono complessa la ricerca di riscontri nella produzione orientale e la definizione cronologica, che potrebbe oscillare tra il 536 e il 550 (Andaloro, 1992; Kitzinger, 1992).Dimensionalmente compatibile con le modifiche apportate alla parete risulta invece l'Annunciazione dipinta sul secondo intonaco, per la quale si suggerisce una datazione a ridosso della consacrazione dell'aula. La qualità dei brani superstiti, tra cui il famoso 'angelo bello', denota una notevole attitudine alla morbidezza del tratto e una spiccata sensibilità cromatica, alimentando il dibattito sul momento in cui questa apertura in senso ellenistico si sia manifestata a R. e a Costantinopoli e inducendo Lazarev (1967, p. 70) e Kitzinger (1977, p. 131) a posticiparne l'esecuzione all'inizio del 7° secolo.A uno strato successivo appartengono le figure dei Ss. Giovanni Crisostomo e Basilio che recano i cartigli con i testi citati nel concilio lateranense del 649 (Nordhagen, 1978), fornendo un prezioso termine post quem alla serie dei Padri della Chiesa orientale completata sul lato opposto dell'arco, che dovrebbe dunque risalire al pontificato di Martino I (649-655).La quarta e più tarda fase sovrapposta sulla parete è rappresentata da un S. Gregorio Nazianzeno ricondotto al pontificato di Giovanni VII, quando la decorazione della zona presbiteriale venne diffusamente aggiornata; una serie di lacerti documenta tuttavia gli interventi precedenti alla campagna giovannea, che si succedettero durante l'intero sec. 7°: si tratta di riquadri votivi, più che di veri e propri cicli, di cui il gruppo più compatto e significativo si polarizza intorno alla scena di Salomone e dei figli Maccabei, avvicinata in più occasioni sia all'Annunciazione sia ai santi orientali del secondo e terzo intonaco del palinsesto. Nella scelta di un tema inconsueto, come quello di Salomone, Bertelli (1994, p. 210) ha colto un riferimento alla persecuzione di Martino I e un'allusione alla Chiesa come madre di martiri, una lettura che rinforzerebbe la datazione di poco successiva alla metà del secolo. Al di là del dibattito sulla cronologia, che in ogni caso non potrebbe oscillare di molto, vanno rilevate le straordinarie qualità formali del testo pittorico, il quale alla ripresa di tecniche compendiarie coniuga una sensibilità coloristica, una volumetria e un ritmo dei panneggi che lo indicano come prodotto di genuina cultura ellenistica. La lezione fu immediatamente raccolta come un innesto vivificante e rielaborata, malgrado alcuni impacci, nelle figure di S. Anna e di S. Barbara, rispettivamente sulla parete destra del presbiterio e su un pilastro della navata, nonché nell'effigie dai panni ispessiti di S. Demetrio, e propagata in una versione irrigidita nei Tre giovani nella fornace, nella Déesis e nel pannello frammentario con tre santi.La crescente importanza dell'edificio in questi anni è attestata dalla continua opera di aggiornamento della decorazione, esemplificabile nelle due scene di Annunciazione sovrapposte in rapida successione su di un pilastro della navata centrale, la più antica delle quali conferma, per la composizione salda e il panneggio fluido dell'angelo, la comprensione della maniera dei Maccabei, con cui sembrerebbe coincidere cronologicamente. La stesura successiva - le cui proposte di datazione si scalano tra gli ultimi decenni del sec. 7° e gli inizi del successivo - tradisce invece nella monumentalità dell'angelo l'adozione di uno stile veloce e saldo al tempo stesso, non privo di consapevolezza della pittura antica (Kitzinger, 1936; Aggiornamento, 1987).L'atrio della chiesa si affacciava sulla via Nova, il cui tracciato, in un momento imprecisato, venne ostruito dall'erezione dell'oratorio dei Quaranta martiri di Sebaste, che conserva tracce di pitture sulle pareti, variamente riferite ai secc. 7°-8°, e, nel cilindro absidale, un'animata rappresentazione della Strage dei titolari, in condizioni diffuse di degrado, la cui datazione è stata recentemente anticipata tra la fine del sec. 6° e l'inizio del successivo, quasi a ridosso della trasformazione in chiesa di S. Maria Antiqua (Bertelli, 1994, p. 211).Fuori dal santuario palatino è il mosaico che connota nella prima metà del secolo le iniziative papali nel campo della decorazione monumentale, come dimostra l'abside della basilica che Onorio I (625-638) fece costruire lungo la via Nomentana sulla tomba di s. Agnese, ancora leggibile malgrado gli estesi restauri (Delfini Filippi, 1989). Al centro, in accordo alla tradizione dei santuari orientali, è l'immagine frontale della giovane martire, affiancata dal pontefice che offre il modellino dell'edificio e da un altro personaggio identificabile con Simmaco (498-514), che aveva promosso una campagna di monumentalizzazione del complesso cimiteriale (Matthiae, 1967): una scelta essenziale nella cui icasticità si può riconoscere quasi un vertice di quel processo di smaterializzazione e di astrazione già in corso da secoli, enfatizzato qui dalla composizione assiale, dai riferimenti minimali ai supplizi patiti e dalla frontalità dei personaggi, oltre che naturalmente dal fondo d'oro.Pochi anni più tardi Giovanni IV (640-642), preoccupato per le continue scorrerie cui erano esposte la Dalmazia e l'Istria, promosse la traslazione delle reliquie di alcuni martiri locali, che vennero collocate in un oratorio, adiacente il battistero Lateranense, dedicato a s. Venanzio, un martire salonense cui il pontefice era personalmente devoto, essendo l'eponimo del padre. L'iniziativa di Giovanni IV manifesta un deciso interesse alla valorizzazione dei culti della propria terra d'origine, confermato non solo dalla significatività del luogo prescelto, ma anche dalla ricca decorazione musiva, che il titulus dichiara 'splendente come le acque del sacro fonte', una metafora poetica che rinsalda il legame ideale con l'ambiente attiguo. I lavori dovettero tuttavia protrarsi oltre il limite del breve pontificato e furono portati a termine da Teodoro I (642-649), gerosolimitano di nascita e greco di educazione, in una vicenda efficacemente visualizzata dalla presenza nel catino di entrambi i papi, l'uno recante il modellino, l'altro un libro, secondo una soluzione che trova un unico, parziale, riscontro nell'abside di S. Agnese f.l.m. (Curzi, 1998). La successione dei committenti sembrerebbe inoltre confermata dal carattere composito del complesso, dove è riscontrabile una sorta di dicotomia di modelli iconografici. Nell'arco infatti, al di sotto di un registro con i simboli degli evangelisti e le città di Betlemme e Gerusalemme - il cui accentuato vedutismo esula dalle stereotipate riproduzioni urbiche dispiegate in precedenza nelle chiese romane -, si trovano due gruppi di quattro santi dalmati che, nella rigida paratassi della loro disposizione, riproporrebbero, secondo Bovini (1971), la decorazione dell'antica memoria nell'anfiteatro di Salona in Dalmazia, dal quale provenivano alcune reliquie. Una cesura semantica percorre però anche il catino con la parte superiore, occupata da due arcangeli ai lati di un monumentale busto di Cristo, cui fa riscontro nella fascia sottostante, in posizione assiale, Maria orante affiancata da otto figure.L'assemblamento di soggetti canonici - quali le città sante e il Tetramorfo - con la celebrazione della teoria dei martiri entro uno schema originale, riscontrabile nell'arco, diviene dunque nel catino vera e propria contaminazione di generi, nella riproposizione nel blocco centrale del tema dell'Ascensione, cui fanno cornice, in luogo delle consuete schiere apostoliche, le coppie dei Ss. Pietro e Paolo, Giovanni Battista e Giovanni Evangelista, Venanzio e Domnione e dei pontefici Giovanni IV e Teodoro I, secondo una corrispondenza che richiama il romanissimo schema a sette figure.La riduzione a semplici busti dei protagonisti dell'Ascensione sembrerebbe invece accordarsi a una tradizione iconografica di etimo gerosolimitano, che potrebbe costituire il principale contributo alla struttura compositiva dato da Teodoro I, il quale non si sarebbe in questo frangente discostato da quella consuetudine di introdurre elementi formali o contenutistici orientali, riconosciuta da Andaloro (1992) come caratteristica dei committenti romani di cultura greca. Tale dinamica troverebbe d'altronde riscontro nell'altra opera musiva attribuibile con certezza al medesimo pontefice, il catino della cappella dedicata ai ss. Primo e Feliciano in S. Stefano Rotondo (Davis-Weyer, 1989).L'occasione fu ancora una volta offerta da una traslazione di reliquie, questa volta da un cimitero extraurbano, e si distingue per l'adozione di un elemento come la croce gemmata sormontata dal busto di Cristo, riscontrabile in numerose ampolle provenienti dalla Terra Santa, dove ricorre tra due angeli, sostituiti nell'abside romana dai titolari. Il tema della Croce assumeva d'altronde proprio in quegli anni una drammatica attualizzazione in seguito al miracoloso rinvenimento della Vera Croce da parte di Eraclio I (610-641) e al suo trasferimento a Costantinopoli, che la salvaguardò dalla conquista araba di Gerusalemme, città natale di Teodoro I. Il recente intervento di restauro (Basile, 1993) ha permesso inoltre di apprezzare quest'opera anche per i suoi valori formali, oltre che per la singolarità iconografica; nelle pochissime parti integre traspaiono infatti una raffinata sensibilità coloristica e una resa dei volti che potrebbe aver accolto echi dall'arco di S. Lorenzo fuori le mura.Dalla fine del sec. 6°, l'evoluzione della cultura figurativa romana sembrerebbe dunque polarizzarsi intorno a due tradizioni apparentemente inconciliabili, quali quella proveniente da Bisanzio e quella consolidatasi nella città attraverso un percorso lento e ormai malamente documentabile. Da questa realtà eterogenea scaturì, più che una sintesi unitaria, una pluralità di linguaggi quasi sempre riconoscibili come romani, anche se differenziati dalla momentanea oscillazione del baricentro culturale tra Costantinopoli, la Palestina o la stessa Roma.La rapida assimilazione di stimoli non sempre riconducibili a una rigida categorizzazione riflette dunque il continuo afflusso di oggetti devozionali e manufatti suntuari, tra cui preziosi tessuti (Osborne, 1992), nonché la diversificazione sociale, politica ed etnica delle presenze. Alla ricorrente elezione di pontefici greci, spesso fautori di episodi di committenza ben determinabili, si sovrappone infatti la proliferazione di comunità monastiche orientali (Ferrari, 1957; Sansterre, 1988) in coincidenza, ma non solo, con l'avanzata araba nelle regioni cristiane del Mediterraneo.Questo fenomeno ebbe conseguenze di portata amplissima nell'orizzonte figurativo romano, come documenta il caso della controversa decorazione dei vani sottostanti la chiesa di S. Maria in via Lata, nei quali si sviluppò l'antica diaconia, menzionata per la prima volta durante il pontificato di Leone III (795-816), ma attiva da ca. due secoli quale centro di culto e di assistenza, come confermerebbe l'articolazione del suo corredo pittorico. Quando negli anni Sessanta le pessime condizioni ambientali della struttura ipogea determinarono lo stacco degli affreschi con le Storie di s. Erasmo (Roma, Ist. Centrale per il Restauro) - tradizionalmente datati alla metà del sec. 8° - venne infatti rinvenuto un pannello raffigurante l'episodio dei Sette dormienti di Efeso, che, insieme al Giudizio di Salomone, a un motivo a rosette e ad altre figure frammentarie, attesterebbe una fase di frequentazione estremamente precoce. La straordinaria agilità di questi brani, la scioltezza delle figure e la qualità del tocco, oltre che i caratteri greci delle iscrizioni, hanno indotto Andaloro (1992) a ritenerli prodotti squisitamente bizantini e, accogliendo la proposta di Righetti Tosti-Croce (1989), a confermare una datazione intorno alla fine del sec. 6°; diversamente Bertelli ha sostenuto e recentemente ribadito (Bertelli, Galassi Paluzzi, 1971; Bertelli, 1994) anche per queste pitture una contestualità con la presenza di monaci greci nella diaconia, che difficilmente potrebbe essere anticipata oltre la metà del 7° secolo. Notevoli difficoltà d'inquadramento cronologico e linguistico permangono anche per l'Orazione nell'orto nell'arcosolio del terzo vano e per un palinsesto a tre strati nel quinto vano, che appaiono ormai in uno stato di compromessa leggibilità.Probabilmente in seguito alla caduta di Gerusalemme (ca. 638), sul Piccolo Aventino si stabilì un gruppo di monaci che trasferì al nuovo insediamento la dedicazione a s. Saba, originariamente pertinente al cenobio della Giudea da cui essi provenivano. Le strutture preesistenti furono riadattate alle esigenze della nuova comunità e l'oratorio con il sottostante complesso sepolcrale rimase in funzione fino al sec. 12°, quando venne inglobato nelle fondazioni della navata centrale della nuova chiesa cluniacense.A partire dagli inizi del Novecento, le campagne di scavo portarono alla luce numerosi frammenti d'intonaco dipinto, scalabili entro un arco temporale particolarmente esteso. Il gruppo più omogeneo e consistente, riconducibile alla decorazione più antica, è costituito dai resti di un ciclo cristologico e da alcune figure di santi che su registri sovrapposti dovevano occupare le pareti laterali del luogo di culto. L'ambientazione spaziosa e la narrazione fluida e dinamica delle parti meglio conservate, quali la Guarigione del paralitico, hanno indotto Gandolfo (1989) ad anticipare di ca. un secolo la datazione tradizionale alla metà sec. 8° delle scene neotestamentarie, ritenendole esito di quel processo di accentuazione linearistica individuato da Weitzmann (1974) nella produzione palestinese della prima metà del 7° secolo. Più complessa si rivela invece la ricerca di riscontri per le figure dei santi, che, almeno nel tipo iconico, trovano un aggancio nella monumentale icona a mosaico con S. Sebastiano, conservata in S. Pietro in Vincoli, probabilmente connessa, visto il valore profilattico attribuito al santo, alla pestilenza che sconvolse la città nel 680.Alla ricostruzione delle coordinate del panorama della seconda metà del sec. 7° contribuiscono inoltre il Cristo tra quattro santi nella catacomba di Generosa, eseguito anteriormente al 683 e ormai apprezzabile solo attraverso le fotografie di fine Ottocento, nonché la figura dell'evangelista Luca nella catacomba di Commodilla, datata al 684 da un'iscrizione. Il quadro, lacunoso, si arricchisce poi dell'arretramento di mezzo secolo del frammentario ciclo cristologico nella catacomba di S. Valentino (Andaloro, 1992, p. 602), nel frattempo ulteriormente deterioratosi, nel quale era stato riconosciuto in prima istanza (Osborne, 1981) l'eco dei cantieri di Giovanni VII.Per quanto riguarda le opere mobili, solo una generica attribuzione al sec. 7° è avanzabile per le due icone mariane dell'oratorio del Rosario (già in S. Maria de Tempulo) - di precoce provenienza orientale - e della cappella Borghese in S. Maria Maggiore, il cui riferimento cronologico altomedievale va limitato alla composizione, replicata nelle successive stesure pittoriche, mentre un'innegabile suggestione è esercitata dal riconoscimento della 'romanità' della Risurrezione di Lazzaro e dei Ss. Girolamo, Agostino e Gregorio dipinti sul verso delle due valve del dittico di Boezio (Brescia, Civ. Mus. Cristiano), accostati alla decorazione di S. Maria in via Lata (Bertelli, 1983, p. 58; Lomartire, 1994, p. 48).Gli affreschi del Tempietto del Clitunno presso Spoleto (I dipinti, 1987), considerati solitamente un testo di pittura romana extra muros, continuano, dopo i restauri degli anni Ottanta, a essere al centro di un articolato dibattito critico che coinvolge sia le qualità stilistiche della decorazione parietale sia l'ostentato classicismo dell'edificio che li contiene. La datazione oscilla dalla seconda metà del sec. 7° alla fine dell'8°, anche se alla luce delle tangenze romane sembrerebbe più plausibile assumere il pontificato di Giovanni VII come termine ante quem. È infatti proprio in quella attitudine monumentale che dai Ss. Cosma e Damiano, attraverso l'arco di S. Lorenzo f.l.m. e l'oratorio di S. Venanzio percorre oltre un secolo, che si possono cogliere i riscontri più felici per i tipi iconici del Tempietto del Clitunno.Il breve pontificato di Giovanni VII (v.) si qualifica dunque come una sorta di discrimine nella produzione artistica della città. Figlio del curator della residenza del rappresentante imperiale, è celebrato dal Lib. Pont. (I, 1886, p. 385) come uomo di nazionalità greca e di grande erudizione in una biografia particolarmente prodiga di informazioni sulla sua attività di committente, concentrata in due luoghi di devozione mariana: la chiesa di S. Maria Antiqua e lo scomparso oratorio dedicato alla Vergine eretto a ridosso della controfacciata di S. Pietro in Vaticano. Lo stile raffinatissimo e fortemente ellenizzante delle decorazioni, sia di quelle musive del santuario vaticano sia di quelle pittoriche della chiesa palatina, ha alimentato un ormai quasi secolare dibattito sulla matrice culturale e la provenienza geografica delle maestranze impiegate, ritenute, su base quasi esclusivamente qualitativa, di origine costantinopolitana. La scarsità delle testimonianze fuori da R. rende quasi impossibile la ricerca di termini di riscontro non solo nella capitale, ma anche in quelle regioni dove potevano essere sopravvissute tendenze classiciste; vanno tuttavia rilevate, in particolare nei mosaici, una sensibilità lineare estranea alla superstite produzione bizantina e una differenziazione tra le due imprese giovannee che probabilmente esulano dal medium tecnico impiegato.Nei primi decenni del sec. 8° si assiste al consolidamento del prestigio politico del papato, divenuto nella penisola un potere alternativo alla sempre più nominale amministrazione imperiale, riconosciuto dagli stessi principi longobardi, come dimostra la deposizione da parte di Liutprando (712-744) delle insegne regali davanti alla confessione di S. Pietro (Noble, 1984). Anche i contrasti in materia dottrinale, già manifestatisi nel secolo precedente, si acuirono giungendo a una frattura insanabile nel 726, quando l'imperatore Leone III Isaurico contestò la liceità del culto delle immagini, aprendo una crisi che, con alterne vicende, si protrasse per ca. centoventi anni.L'antica ostilità dei pontefici nei confronti della consuetudine degli imperatori orientali a deliberare in ambito teologico si trasformò in un'irremovibile condanna dell'iconoclastia, una posizione inconciliabile con la prassi della Chiesa d'Occidente, che, in accordo a una tradizione paleocristiana ripresa già da Gregorio I Magno, attribuiva alle decorazioni figurate una funzione complementare e una dignità pari a quella della parola scritta, cui spesso venivano associate nell'illustrazione e nella divulgazione dottrinale.R. era inoltre una città piena di immagini, dai grandi cicli di età leonina dei santuari maggiori - spesso replicati negli oggetti, nei codici o nei più modesti luoghi di culto -, alle rutilanti teofanie a mosaico dei catini absidali, alle numerose e veneratissime icone conservate in chiese e monasteri. Questo vastissimo patrimonio, motivo di orgoglio e di reddito, nonché meta di pellegrinaggio al pari delle tombe dei martiri, era a sua volta parte dell'immagine stessa della città, della sua ricchezza e santità, nonché fonte di auctoritas per la propria antichità, vera o presunta che fosse.In questi anni dunque il contrasto prese in maniera crescente le forme della produzione artistica all'interno di una politica tesa all'emulazione di opere e strutture liturgico-simboliche mutuate da Costantinopoli, proprio nel momento in cui la capitale dell'impero compiva una scelta eterodossa, il meccanismo di appropriazione ideale di un apparato significativo, come quello di una corte teocratica, aveva infatti l'ambizione di riproporre il tema della supremazia della sede romana quale centro dell'ortodossia e arbitro delle dispute politiche e religiose.Questa scelta di campo venne evidenziata dal perduto ciclo dei Sei concili ecumenici significativamente inserito nella basilica vaticana - il quale, oltre che nella materia iconografica, poteva rimandare anche per qualità formali al celebre prototipo costantinopolitano - e ribadita dalla progressiva assimilazione del Patriarchio lateranense ai palazzi imperiali (Verzone, 1976), che si spinse alla disposizione dei corpi di fabbrica, alla riproposizione della toponomastica, fino alla replica di venerate icone, come l'immagine del Salvatore sopra la porta d'accesso.Perduta questa produzione politica con la distruzione dei luoghi stessi del potere, rimangono alcuni brani di decorazioni pertinenti a edifici religiosi, quali quelli databili al pontificato di Gregorio III (731-741) nella navata della chiesa inferiore di S. Crisogono (Melograni, 1990). Oltre ai frammenti di un rovinatissimo ciclo cristologico e a un motivo a velario nella parte basamentale, le pareti longitudinali conservano una serie di santi entro clipei che per l'elegante impianto chiaroscurale e le qualità pittoriche sembrerebbe riecheggiare, malgrado un accentuato frontalismo, gli esiti della produzione giovannea.Negli stessi anni uno sforzo di modellazione plastica attraverso la gradazione del colore è rilevabile nei santi a figura intera rinvenuti in una cappella presso l'abside di S. Lorenzo f.l.m., che forniscono eccezionalmente oltre al nome del committente anche quello dell'esecutore, definitosi nell'iscrizione "Crescentius infelix pictor".Il maggior contributo alla ricostruzione della cultura artistica romana del sec. 8° è tuttavia ancora una volta apportato dal complesso di S. Maria Antiqua, dove, a sinistra dell'abside, un vano con probabile funzione di protesi restituisce nel suo contesto la decorazione di una cappella altomedievale legata a un patronato familiare (Belting, 1987). Promotore dell'intervento pittorico, ascrivibile al pontificato di Zaccaria I (741-752), fu il primicerius Teodoto, che si fece ritrarre in atteggiamenti devoti nella parete di fondo con il papa sedente e i ss. Pietro e Paolo ai lati di una Maria Regina, nella parete destra insieme ai propri congiunti e infine nella controfacciata inginocchiato ai piedi dei ss. Quirico e Giulitta, cui era dedicato l'ambiente (Teteriatnikov, 1993). Si tratta di una celebrazione personale ribadita dall'accuratezza con cui vennero eseguiti i ritratti di Zaccaria e Teodoto, che insistono su di un sottile strato di scialbo sovrapposto a una prima sbozzatura dei volti, confermando ancora una volta come a R. un'attenzione agli esiti ritrattistici, almeno per i committenti, non sia mai del tutto venuta meno.Oltre a un pannello con quattro santi di cui - come recita l'iscrizione - solo Dio sa il nome, al lato dell'accesso, e alla solenne Crocifissione, comprendente Longino con il pilo, il centurione con la spugna, Maria e S. Giovanni Evangelista, in una nicchia circondata originariamente da motivi geometrici e dai simboli degli evangelisti nella parete di fondo, va ricordato il dettagliato racconto agiografico del Martirio dei titolari sui muri laterali, caratterizzato da un vivace gusto per la narrazione, che si avvale di composizioni animate da gesti teatrali, resi con una linea salda ed essenziale.Definitivamente chiarita da Ladner (1984) la questione cronologica, rimane aperto il dibattito sulla paternità culturale e formale, indirizzato da Weitzmann (1974) verso la Palestina, la regione che a questa data sembrerebbe mantenere un rapporto più stretto con la città, come confermerebbero dati iconografici e stilistici quali l'impianto compositivo della Crocifissione o la sigla del panneggio a doppia linea, inseriti tuttavia in un contesto liturgico e cultuale in via di romanizzazione.A questa data, la presenza di elementi lessicali di etimo palestinese è inoltre rintracciabile nel marcato linearismo e nei netti passaggi cromatici che caratterizzano le Storie di s. Erasmo, le quali, corredate da scritte in latino, decoravano il quarto vano di S. Maria in via Lata (Roma, Ist. Centrale per il Restauro).Malgrado un mito storiografico venato di romanticismo si sia alimentato della visione di schiere di artisti orientali, profughi dai territori già arabizzati o percorsi da fremiti iconoclasti, le relazioni tra R., la Palestina e le altre aree eccentriche dell'impero andrebbero più correttamente riportate entro una fitta rete di contatti che per tutto l'Alto Medioevo collegò realtà culturali vivacissime - tra cui la stessa R. - che mantennero sempre autonomia e originalità, aprendosi a influssi esterni, i quali tuttavia non travalicarono mai le dimensioni dello scambio. Non va inoltre dimenticata, a tale proposito, l'ipotesi di Cavallo (1988; Nordhagen, 1988) di cogliere nei rapporti privilegiati di R. con le province piuttosto che con Costantinopoli, più che un boicottaggio della capitale iconoclasta, il riconoscimento di realtà locali più colte e stimolanti.Al pontificato di Paolo I (757-767) è riferibile il rinnovamento pittorico, ormai in condizioni di scarsa leggibilità, dell'abside di S. Maria Antiqua, dove Maria con un gesto premuroso presentava il committente a un gigantesco Cristo maiestatico. Più controversi sono invece il ciclo veterotestamentario e quello cristologico e mariano sulle pareti delle navatelle, caratterizzati da un tratto non eccelso cui fa riscontro, in particolare in alcuni episodi della Genesi, una felice vena narrativa. Alla tradizionale datazione al sec. 9° si è infatti recentemente contrapposta una plausibile attribuzione (Aggiornamento, 1987) agli anni di Paolo I o del suo successore Stefano IV (768-772).L'elezione di Adriano I (772-795), nipote dell'intraprendente Teodoto, che oltre alla cappella di S. Maria Antiqua aveva promosso la costruzione della chiesa di S. Angelo in Pescheria, inaugurò un lungo pontificato che pose le premesse di una rigenerazione dell'immagine di R., che, fino alla metà del sec. 9°, tornò a esercitare il ruolo di centro di attrazione e irradiazione di cultura figurativa. Anche in questo caso i primi interventi interessarono il riassetto dei territori del patrimonio della Chiesa, nonché il tessuto urbanistico della città, deterioratosi in decenni di travaglio politico. Particolarmente funeste furono infatti le conseguenze dell'alluvione del 791, che determinò il crollo di molti edifici antichi, indeboliti dall'asportazione di grappe e giunture metalliche, autorizzata a partire dall'imperatore Costante II (641-668). Oltre che nella ricostruzione degli argini, il Lib. Pont. (I, 1886, p. 507) restituisce l'immagine di un pontefice attivamente impegnato nell'edilizia chiesastica, come nell'episodio in cui diede personalmente fuoco a una catasta di legname per demolire un edificio antico che impediva l'ampliamento di S. Maria in Cosmedin. Lo sforzo di restituire dignità al volto monumentale della città non dovette tuttavia prescindere dalla decorazione pittorica, documentata purtroppo con certezza solo dall'affresco della Madonna in trono con santi staccato da S. Maria Antiqua, dove Adriano compare in piedi con il nimbo quadrato e il libro, recuperando una consuetudine di sobrietà ed equilibrio, rispetto all'enfasi con cui Paolo I si era fatto ritrarre in adorazione di una sovradimensionata icona della divinità: compostezza da allineare forse con il momentaneo abbandono a Costantinopoli dell'iconoclastia. Il quadro si è però recentemente arricchito dell'interessante ritrovamento di numerosi frammenti di decorazione pittorica nella chiesa di S. Susanna (Andaloro, in corso di stampa).Alla seconda metà del sec. 8° sembrerebbero inoltre risalire la Madonna Regina della chiesa di S. Clemente, i Ss. Giovanni e Paolo tra il quarto e il quinto vano di S. Maria in via Lata (Roma, Ist. Centrale per il Restauro), il pannello con cinque santi di S. Passera (Manacorda, 1994) e i frammenti staccati dalla chiesa di S. Adriano al Foro.Proprio in questo periodo il flusso di pellegrinaggi, che non si era mai arrestato nemmeno nei momenti più critici della storia europea (Birch, 1998), conobbe un forte incremento, rinsaldando nell'immaginario cristiano la centralità dell'Urbe, attestata dalla dedicazione a martiri romani di numerose chiese europee. Tale fervore ripropose la questione delle contrastanti esigenze di fruizione e conservazione delle reliquie - in particolare di quelle legate a memorie extraurbane e dunque più vulnerabili -, risolta, malgrado l'iniziale cautela, con massicce traslazioni entro i santuari cittadini. Significativa a tale proposito è la devozione da parte dei Franchi a s. Petronilla, ritenuta figlia dell'apostolo Pietro, il cui corpo venne rimosso dal cimitero sull'Ardeatina per essere solennemente collocato in una delle rotonde del sec. 5°, adiacenti il fianco sinistro della basilica vaticana, che venne completamente ridecorata, malgrado fosse già ricca di mosaici, divenendo in seguito la cappella dei dinasti carolingi.Diversamente dal suo predecessore, Leone III non proveniva da una delle grandi famiglie dell'aristocrazia cittadina, ma da un cursus interno al Patriarchio, dove era gradualmente asceso alle più alte gerarchie. Malgrado ciò, o forse proprio per questo, il suo pontificato si caratterizzò per un vastissimo programma di edilizia monumentale, di cantieri decorativi (Davis-Weyer, 1968) e di dotazioni di arredi e suppellettili, puntualmente riportate dalla sua biografia. In particolare la lista dei donativi dell'806 fa sfoggio di una munificenza senza precedenti (Geertmann, 1975), estesa dalle grandi basiliche ai più modesti luoghi di culto del disabitato, motivata forse dalla volontà di ricucire, in una fase particolarmente critica, il suo controverso rapporto con le fazioni cittadine.È tuttavia nelle monumentali superfici a mosaico, tecnica che ridiventò in questi anni la modalità esecutiva privilegiata, che si coglie il progetto politico di Leone III, permeato di una visione teocratica che non poteva prescindere da un rinnovamento dei fasti di R. e dalla riaffermazione del primato rispetto a Costantinopoli e ad Aquisgrana, la nuova capitale del giovane e scomodo alleato. L'ambizioso progetto trova il suo manifesto visivo nel programma iconografico del triclinio annesso ai palazzi lateranensi (Belting, 1976), nella cui abside centrale si trovava Cristo sul monte del paradiso, affiancato dagli apostoli: lo scarto dinamico di S. Pietro e il titulus sottostante hanno consentito di riconoscere nella scena il momento della missio apostolorum (Davis-Weyer, 1968). Il messaggio del catino era adeguatamente completato dalle due scene di investitura sui pennacchi dell'arco: a sinistra infatti Cristo in trono trasmetteva simultaneamente le chiavi a s. Pietro, o a s. Silvestro, e il vessillo imperiale a Costantino, mentre a destra, in perfetta corrispondenza, s. Pietro insigniva Leone III del pallio e Carlo Magno del vessillo. Dall'integrazione dei tre nuclei tematici in un'unica composizione scaturiva con grande evidenza la subordinazione al potere spirituale di quello temporale, proveniente da quell'autorità divina di cui la Chiesa era vicaria; entrambi dovevano poi concorrere all'evangelizzazione delle genti che la nuova organizzazione statale avrebbe favorito, così come la pax augusta aveva agevolato l'opera degli apostoli all'interno dell'Impero romano. Il valore di un simile pronunciamento pochi mesi prima della controversa incoronazione di Carlo Magno (Llewellyn, 1990) venne colto anche a secoli di distanza, trasformando il mosaico in una sorta di testo normativo e di immagine politica romana per eccellenza.Questo successo fu dimostrato dalla stessa storia materiale del complesso, danneggiato dalla costruzione alla fine del sec. 16° del nuovo Laterano e ripristinato nel 1625 da Giovanni Battista Calandra su commissione di Francesco Barberini, basandosi su una documentazione grafica di dichiarata attendibilità (Iacobini, 1989; Herklotz, 1995). Intorno al 1730 l'abside leoniana venne definitivamente demolita e ricostruita con la copia musiva di Pier Leone Ghezzi ai margini di piazza S. Giovanni, dove tuttora si trova. Attraverso questa travagliata e significativa vicenda conservativa, dell'opera originaria è pervenuta solo una testa di apostolo (Roma, BAV, Mus. Sacro; Davis-Weyer, 1974).Di pari magnificenza e maggiori dimensioni doveva essere, sempre nel Patriarchio, la c.d. aula concilii (Belting, 1978), splendente di marmi e mosaici, e nota, così come l'abside di S. Susanna, solo attraverso testimonianze narrative e grafiche (Davis-Weyer, 1965), mentre del triclinio di Acoli, presso S. Pietro, e della sua decorazione non rimane che la notizia della passata esistenza.La chiesa dei Ss. Nereo e Achilleo, ricostruita da Leone III, conserva invece, all'interno di un contesto spaziale sostanzialmente inalterato, buona parte del mosaico dell'arco, con la Trasfigurazione affiancata dall'Annunciazione e dalla Theotókos assistita da un angelo. La composizione absidale, perduta nei restauri promossi da Cesare Baronio nel 1596, ma ricostruibile grazie a una dettagliata copia, era organizzata intorno a una grande croce gemmata su un drappo purpureo, verso cui si volgevano sei agnelli in adorazione. La decorazione, realizzata dopo l'814, costituiva nel suo complesso una riaffermazione della duplice natura di Cristo e trovava giustificazione nell'acceso dibattito dottrinale che caratterizzò i primi due decenni del secolo (Curzi, 1993). La varietà e la novità delle soluzioni iconografiche adottate nei cantieri leoniani rivelano dunque un uso strumentale del mezzo figurativo, spesso utilizzato in luoghi connotati simbolicamente, e confermano la complessità e l'abilità di questo pontefice, descritto dagli storiografi ottocenteschi come un uomo cinico e spregiudicato.Dopo il breve interregno di Stefano V (816-817), al soglio di Pietro ascese Pasquale I (817-824; Marazzi, 1996), che dovette gestire una fase molto delicata dei rapporti con la corte carolingia, deterioratisi a causa dell'intransigenza del predecessore. La crisi politico-istituzionale seguita alla morte di Carlo Magno aveva infatti rivelato la fragilità del progetto egemonico della Chiesa romana, basato su di un'Europa pacificata dalla nuova autorità imperiale. Anche gli splendidi cicli musivi realizzati da Pasquale I, confermando la svolta già manifestatasi ai Ss. Nereo e Achilleo, risentono di questo passaggio storico e si caratterizzano per scelte iconografiche ricche di contenuti escatologici.Malgrado l'esatta successione delle fabbriche pascaliane non sia stata ancora stabilita, sembrerebbe da collocare ai primi anni di pontificato la decorazione della chiesa celimontana di S. Maria in Domnica, che offre notevoli punti di contatto tecnico-esecutivi e formali con l'arco dei Ss. Nereo e Achilleo. Anche la singolare scelta compositiva potrebbe trovare una logica contestualizzazione in un momento immediatamente a ridosso della ripresa della disputa iconoclasta. Al centro dell'abside campeggia infatti una gigantesca icona della Madonna con il Bambino, ai cui piedi Pasquale I si inginocchia in adorazione. Verso il trono della Vergine convergono su di un fondo blu intenso le schiere angeliche, secondo una disposizione che sembrerebbe citare l'Adorazione della croce di S. Maria Antiqua, dove nel pannello di Teodoto con i ss. Quirico e Giulitta si trova anche un riscontro formale alla posa del pontefice. Nell'arco invece Cristo riceve l'omaggio degli apostoli introdotti da due angeli, mentre la presenza di Mosè ed Elia nei peducci, richiamando la Trasfigurazione, rinforza il valore teofanico della figura di Cristo.Scelte iconografiche più composte e tradizionali, indirizzate verso la ripresa della monumentale decorazione dei Ss. Cosma e Damiano o di un suo prototipo oggi scomparso (Nordhagen, 1976), connotano le composizioni degli archi e dei catini absidali di S. Prassede (Wisskirchen, 1990) e di S. Cecilia in Trastevere; nella basilica transtiberina tuttavia, perduto l'arco, rimane solo l'abside, che, a seguito del restauro, ha riacquistato la ricchezza e la varietà cromatica delle tessere.La struttura architettonica di S. Prassede, riproponendo in scala ridotta l'assetto dell'antica basilica di S. Pietro in Vaticano, antepone alla zona presbiteriale anche un arco di trionfo, dove campeggia un'originalissima rappresentazione musiva della Gerusalemme celeste, ispirata forse alla tradizione manoscritta illustrata dell'Apocalisse, non priva di riferimenti liturgici (Mauck, 1987). Al corpo longitudinale è invece annesso il sacello dedicato a s. Zenone, interamente ricoperto da mosaici sia all'interno sia nella parete contenente il monumentale accesso aperto nella navatella destra; la complessa organizzazione spaziale e compositiva alterna temi tradizionali, citazioni paleocristiane (Mackie, 1995) e scelte iconografiche caratteristiche del sec. 9°, come l'Anastasi (Davis-Weyer, 1976) e la Trasfigurazione, svolgendo un articolato programma teofanico ed escatologico (Mackie, 1989; Wisskirchen, 1991a), venato di elementi di celebrazione familiare; la cappella contiene infatti un'effigie di Teodora, madre del pontefice, cui è riferito il singolare titolo di episcopa.In poco meno di tre decenni si concentra dunque una serie straordinaria di decorazioni a mosaico che mostrano nel loro susseguirsi un percorso evolutivo e una graduale conquista di mezzi tecnici ed espressivi. Le radici di questa produzione tuttavia non possono essere ricercate fuori dalla città, dove una tradizione pressoché ininterrotta è attestata, almeno su base documentale, per tutto l'Alto Medioevo. Anche nel corso del sec. 8°, infatti, a colmare la cesura tra Giovanni VII e Leone III intervengono le segnalazioni di cicli musivi eseguiti durante i pontificati di Zaccaria I, Paolo I e Adriano I (Andaloro, 1976), che probabilmente costituirono le tappe formative di quella maniera che nel triclinio appare già matura e originale. La possibilità di ricostruire un percorso coerente dalla testa di apostolo (Roma, BAV, Mus. Sacro), ai Ss. Nereo e Achilleo, fino ai raffinati manierismi di alcuni brani dei cicli pascaliani, non esclude tuttavia l'intervento di influssi diversificati, che certamente non difettarono né da Oriente né da Occidente, vista la collocazione della città. Gli apporti più significativi potrebbero però essere colti nella stessa R., nei suoi grandi complessi basilicali, sulle cui pareti si trovava una sorta di repertorio della produzione figurativa paleocristiana. In questi anni si ha infatti notizia di consistenti opere di restauro dei principali santuari, che in alcuni casi poterono estendersi al risarcimento di brani perduti degli apparati decorativi (Alexander, 1977), secondo una prassi che da un lato si ammantava di valenze simboliche, inserendosi in un percorso di recupero del passato, non solo di motivi ma anche di tematiche, e dall'altro consentiva un avvicinamento fisico alle fonti di quell'Antico cristiano cui idealmente si aspirava (Elbern, 1989). Nell'ambito di un'intensificazione dei rapporti tra le due città, una certa suggestione poterono esercitare, a livello di modelli, anche le grandi superfici musive ravennati, come quelle di S. Apollinare in Classe, dove il rifacimento della copertura venne finanziato da Leone III, o della cappella di S. Andrea e del battistero degli Ortodossi, delle quali sono state rintracciate citazioni o rielaborazioni ai Ss. Nereo e Achilleo e a S. Zenone (Wisskirchen, 1991b; Mackie, 1995).Oltre alle scelte programmatiche, ciò che fa dei mosaici romani di età carolingia un gruppo omogeneo sono senza dubbio la comunanza linguistica e l'analogia tecnico-esecutiva, il cui esito più evidente è una sensibilità coloristica di natura quasi 'espressionista', ottenuta avvalendosi di accostamenti cromatici a macchia e ombreggiature a scacchiera e rifiutando i graduali trapassi che avevano caratterizzato un secolo prima la produzione di Giovanni VII. Tutte le linee guida sono infatti eseguite mediante un uso indistinto delle varie tonalità del colore prescelto, secondo una sorta di 'principio di mescolanza', mentre gli incarnati contengono vivaci rialzi di arancio e carmigno. L'esito è ricercato non solo a livello coloristico ma anche materico, come attesta l'uso consapevole di espedienti tecnici quali lo scarso e irregolare allettamento nella malta di tessere di dimensioni variabili - opacizzate tramite un procedimento di rifusione - che contribuiscono a trattenere la luce, restituendo un caratteristico effetto di pastosità (Davis-Weyer, 1974). Al contrario, in questi stessi anni la produzione pittorica difficilmente riesce a rivaleggiare con la qualità e l'aulicità delle committenze musive e gli scarsi resti documentano l'impiego di tale tecnica quasi esclusivamente per illustrare leggende agiografiche, oltre che, naturalmente, nei pannelli votivi.Per il pontificato di Leone III, ai santi effigiati nella catacomba di S. Callisto, alla testa barbuta proveniente dallo strato più antico di S. Lucia in Settizonio (Romano, 1976) e al Redentore molto ridipinto di S. Pellegrino in Naumachia (Osborne, 1994) si può forse aggiungere l'esteso ciclo, recentemente rinvenuto in pessime condizioni, nel pastoforio destro della chiesa dei Ss. Nereo e Achilleo (Bresciani, Sacchi, 1987), che i motivi delle cornici, il rapporto tra figure e architetture e l'uso di una pesante linea di contorno, che evidenzia membra sproporzionate, accomunano al martirologio affrescato nel transetto sinistro di S. Prassede, pertinente, almeno in parte, alla fase pascaliana della chiesa. Si tratta degli esiti di quel filone 'antiellenico' di gusto popolaresco, le cui radici affondano nel secolo precedente, caratterizzato da un racconto semplice e incisivo, riscontrabile anche negli scarsissimi resti del ciclo della Passione nel c.d. oratorio del SS. Salvatore, ricavato in un vano della domus sottostante la basilica dei Ss. Giovanni e Paolo sul Celio (Curzi, in corso di stampa).Echi delle monumentali decorazioni a mosaico si possono invece cogliere nella Madonna Regina e nel Cristo fra santi che costituiscono i resti più significativi di una vasta campagna eseguita nella chiesa di S. Martino ai Monti (Davis-Weyer, Emerick, 1984), probabilmente sotto Gregorio IV (827-844), cui spettano forse anche il santo della seconda stesura del palinsesto di S. Lucia in Settizonio (Righetti, 1976) e certamente il rivestimento a mosaico dell'arco e dell'abside della basilica di S. Marco, dove il pontefice compare in veste di committente. Malgrado la composizione nelle sue linee essenziali richiami l'impianto tradizionale con lo schema a sette figure nel catino, il busto di Cristo affiancato dai simboli degli evangelisti nell'arco e la processione degli agnelli nel fascione, si assiste all'inserzione di varianti iconografiche e compositive, quali i Ss. Pietro e Paolo nei pennacchi dell'arco e l'aggiunta di piedistalli e immagini clipeate. Se dunque la tradizione storiografica colloca i mosaici marciani al termine della parabola della scuola romana, epigoni dei fasti di Pasquale I, va però segnalato, accanto a elementi e sigle grafiche usuali, l'intervento di un linearismo più accentuato (Davis-Weyer, 1994), di un colorismo più acido e, in alcuni passaggi, di una diversa resa della figura, a suggerire una possibile evoluzione della maniera locale e un'apertura verso nuove esperienze linguistiche, interrotte dalle devastazioni arrecate dal passaggio dei saraceni nell'846 e dal terremoto dell'anno successivo, che determinarono una brusca contrazione della produzione monumentale.Per quanto le risorse finanziarie negli anni successivi venissero principalmente rivolte alla fortificazione del Vaticano (Herbes, 1996), al pontificato di Leone IV (847-855) va ricondotta la perduta decorazione absidale di S. Martino ai Monti e forse il Cristo, molto rimaneggiato, della nicchia dei Pallii a S. Pietro in Vaticano. Sul versante della pittura murale, oltre ad alcuni lacerti, in gran parte ridipinti, nella cappella di S. Barbara ai Ss. Quattro Coronati (Thunø, 1996), resta il ciclo cristologico in S. Clemente (Tronzo, 1987), donato da un omonimo presbitero Leone (Osborne, 1984), dove la tradizione romana sembra aggiornarsi sulla lezione monumentale della produzione musiva, avvalendosi anche di una linea sinuosa e costruttiva di derivazione carolingia, in una sintesi che potrebbe fornire un riscontro anche alla figura di Gregorio I Magno in un codice della Regula pastoralis (Roma, BAV, S. Maria Maggiore 43, c. 1).Già sullo scorcio del sec. 8° R. ritornò, grazie ai buoni rapporti di Adriano I con la corte franca, al centro dei flussi di circolazione libraria, con scambi che proseguirono per tutto il secolo successivo, come attesta la straordinaria Bibbia donata da Carlo il Calvo alla basilica di S. Paolo f.l.m. (Bibl. dell'abbazia). I pochi codici prodotti nella città evidenziano tuttavia una certa resistenza alle novità d'Oltralpe, sia a livello grafico (Supino Martini, Petrucci, 1978) sia di apparato ornamentale (Osborne, 1990) e di corredo illustrativo. Molto interessante al riguardo è il codice di Gioveniano (v.; Roma, Vallicell., B.252), risalente ai primi decenni del sec. 9°, dove accanto a un impianto scrittorio tradizionale e a due miniature tabellari accostabili alla contemporanea pittura monumentale, si riscontra una figura di evangelista copiata da un prototipo carolingio. Una Collectio canonum (Roma, Vallicell., A. 5; Bertelli, 1994, p. 221) rivela invece una completa apertura agli esiti della scuola di Reims, malgrado la qualità dell'esecuzione non sia adeguata all'ambizione del modello prescelto.In attesa di una verifica della pertinenza ai lavori promossi da Niccolò I (858-867) dei tratti più antichi delle pitture di S. Maria in Cosmedin, la seconda metà del secolo rimane scarsamente documentabile, anche se alcuni testi indiziano il successo di un gusto per figure vigorose, ottenute attraverso linee spesse e marcate che suggeriscono il movimento, riscontrabile nella Discesa al limbo, posteriore all'869, a lato dell'abside di S. Clemente (Aggiornamento, 1987).Questa maniera sembra evolvere in senso plastico-volumetrico nel ciclo della Vergine (Lafontaine-Dosogne, 1989) che accompagnò, durante il pontificato di Giovanni VIII (872-882), la trasformazione del tempio c.d. della Fortuna virile in una chiesa intitolata S. Maria de Gradellis; la stesura pittorica, ormai quasi scomparsa, è stata convincentemente accostata (Lafontaine, 1959) ad alcune miniature del Giobbe vaticano (Roma, BAV, Vat. gr. 747), un codice impreziosito da uno straordinario apparato illustrativo, realizzato da mani diverse forse a R. pochi anni prima (Bertelli, 1983; 1994). A conferma della vitalità e del pluralismo linguistico che caratterizzarono la realtà cittadina durante il sec. 9° si colloca la proposta (Grabar, 1972) di ricondurre in ambito romano anche un manoscritto, più probabilmente palestinese, come i Sacra Parallela di Giovanni Damasceno (Parigi, BN, gr. 923).Gli ultimi anni di questo secolo e gran parte del successivo offrono un panorama inconsueto per R., la cui cultura figurativa sembra risentire di quella diffusa crisi economica e sociale che, unita a un mito storiografico di stampo ottocentesco, ha contribuito alla cattiva fama del 'secolo di ferro' (Arnaldi, 1991). Per la prima volta infatti neanche la documentazione del perduto sarebbe in grado di restituire una continuità produttiva che nella città non si era fino a questo momento mai del tutto arrestata. Certamente il vuoto di potere creatosi tra il crepuscolo degli ultimi Carolingi e l'ascesa della dinastia ottoniana favorì il radicamento di antiche fazioni e l'ascesa di nuovi clan, apertamente in lotta tra loro, inaugurando nella città un clima diffuso di incertezza e violenze. Il susseguirsi di faide, aggressioni e forzati esili condizionò il potere del papato, che venne rapidamente meno al suo ruolo di committente, anche se alcune fonti (Kessler, 1989, p. 49) attestano che Formoso (891-896) prima della tragica fine avesse trovato i mezzi per restaurare il ciclo della navata di S. Pietro in Vaticano, che aveva forse subìto ben più significativi interventi già durante il pontificato di Leone IV.All'interno dell'oligarchia di gruppi familiari che controllavano l'amministrazione pubblica e le proprietà della Chiesa emerse nei primi decenni del secolo quello di Teofilatto, acquartierato presso S. Maria in via Lata, nella quale promosse un intervento di ristrutturazione comprendente anche brani di decorazione parietale, oggi praticamente scomparsi (Llewellyn, 1971, p. 297), riferiti anche all'iniziativa di Alberico (Bertelli, 1994).La situazione mutò radicalmente sullo scorcio del secolo grazie alla ritrovata centralità di R. nel progetto politico dei nuovi imperatori: se infatti Ottone II vi morì nel 983 - trovando nel quadriportico di S. Pietro una monumentale sepoltura, di cui doveva far parte il pannello musivo conservato nelle grotte -, il figlio Ottone III (983-1002) vi risiedette lungamente, ricevendo l'insegnamento di Gerberto di Aurillac, che divenuto papa scelse significativamente il nome di Silvestro II (999-1003). Purtroppo non rimangono testimonianze pittoriche consistenti di questo clima di restauratio, ma due testi figurativi come l'icona dei Ss. Bonifacio e Alessio - copia della Haghiosorítissa del monastero di Tempulo - e la testa di Cristo a mosaico di S. Bartolomeo all'Isola sembrerebbero suggerire un'apertura verso Bisanzio (Matthiae, 1967; Aggiornamento, 1987; Bertelli, 1994). Il quadro è dunque ancora gravemente lacunoso e le sue coordinate potrebbero essere meglio precisate dalla riconsiderazione di alcuni frammenti nella chiesa inferiore di S. Clemente (Osborne, 1984), arricchitasi di una recentissima scoperta (Guidobaldi, 1997), e dalla Madonna con il Bambino in una nicchia del tempio del divo Romolo, antistante l'aula dei Ss. Cosma e Damiano (Mangia Renda, 1985-1986).La latitanza di iniziative papali si protrasse fino alla fine del secolo, che si chiuse con l'impresa di un laico, quel Pietro medico che tra il 973 e il 999 legò il proprio nome e quello della moglie Giovanna alla vasta decorazione parietale di S. Maria in Pallara (od. S. Sebastiano al Palatino). Scomparsi i racconti cristologici e agiografici nel rifacimento seicentesco della navata, noti dalle copie di Antonio Eclissi (Waetzold, 1964, pp. 75-76), rimane nel catino il Redentore con i ss. Sebastiano, Zotico, Lorenzo e Stefano, mentre nel cilindro absidale la figura centrale di Maria orante è affiancata dagli arcangeli e da quattro sante. Nell'arco, oltre alle figure dei due coniugi committenti, al di sotto dei vegliardi dell'Apocalisse, compare l'inconsueto tema degli apostoli sulle spalle dei profeti. Il complesso pittorico è di notevole interesse e, sia nella ripresa di iconografie paleocristiane nella teofania absidale e nelle scene neotestamentarie, sia nel gusto per i partiti ornamentali, sia nel tratto stilistico, sembra anticipare gli indirizzi della produzione del secolo successivo. Bibl.: G.B. De Rossi, Musaici cristiani e saggi dei pavimenti delle chiese di Roma anteriori al secolo XV, Roma 1872-1892; G.M. Rushforth, The Church of S. Maria Antiqua, PBSR 1, 1902, pp. 1-123; W. De Grüneisen, Sainte-Marie-Antique, Roma 1911; J. Wilpert, Die römischen Mosaiken und Malereien der kirchlichen Bauten vom 4. bis 13. Jahrhundert, IV, Freiburg im Brsg. 1917; E. Kitzinger, Römische Malerei vom Beginn des 7. bis zur Mitte des 8. Jahrhunderts, München [1936]; G. 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G. Curzi
Secoli 11°-14°. - La produzione pittorica romana del sec. 11° è caratterizzata da alcuni importanti episodi precorritori di quella tendenza di ritorno all'Antico, che avrà nel secolo successivo un più compiuto e assai articolato sviluppo. Da questo punto di vista, è ancora argomento aperto di dibattito l'esistenza di una rete di relazioni, a partire dalla metà ca. del secolo, tra R. e l'abbazia di Montecassino (v.), che, sotto il governo dell'abate Desiderio, dell'Urbe fu interlocutore privilegiato, non solo dal punto di vista religioso.L'esiguità delle testimonianze figurative superstiti non consente purtroppo di precisare nel dettaglio gli aspetti di queste relazioni; se cioè il recupero di temi iconografici e stilistici di origine tardoantica e/o paleocristiana fu, a R., riflesso delle opere fatte eseguire a Montecassino da Desiderio, il quale vi fece giungere mosaicisti da Costantinopoli, o se, viceversa, furono le opere commissionate dai pontefici romani a determinare in qualche modo la svolta classicheggiante della pittura cassinese. Certo è che una 'vocazione' all'Antico non può, per quest'epoca, essere considerata un fenomeno nuovo, essendo essa elemento ideologicamente fondante dell'arte romana sin dai primissimi secoli del Medioevo. Per contro, se Desiderio fu costretto a ricorrere ad artisti costantinopolitani per eseguire il mosaico della nuova chiesa abbaziale cassinese, è altamente probabile che nella città di R. mancassero maestranze in grado di progettare ed eseguire una decorazione ritenuta aderente ai prototipi paleocristiani, nello spirito delle tendenze antichizzanti manifestatesi e ben presto affermatesi a partire dalla metà del secolo.Da questo punto di vista, uno dei più interessanti gruppi di affreschi del primo sec. 11° è quello di S. Urbano alla Caffarella, chiesa ricavata dalla trasformazione - in età non precisabile - di un edificio romano del sec. 2° dopo Cristo. Il complesso decorativo comprende un ciclo cristologico e una serie di scene agiografiche relativi al santo eponimo, a s. Cecilia, a s. Lorenzo e ad altri martiri. La data di esecuzione è collocabile intorno al 1011, grazie a un'iscrizione posta al di sotto della Crocifissione - ai piedi della quale appare anche un committente laico - che recita: "Bonizzo fri a.XPI MXI". Appare invece poco probabile un'ipotizzata modifica della data in occasione dei restauri del 1634, che sarebbe da correggere in 1090 (Williamson, 1987).La scelta e la disposizione delle scene affrescate - disposte su due registri, all'interno di incorniciature a finte colonne marmoree che sottolineano le strutture architettoniche - rimandano con evidenza ai murali dell'antica basilica vaticana (Aggiornamento scientifico, 1988; Kessler, 1994). Lo stile, per quanto assai poco leggibile a causa dei pesanti rifacimenti, mostra decisi i segni - non solo iconografici - della crescente tendenza antichizzante che di lì a poco trionfò a Roma. Vi si riscontrano anche singolari echi di marca lombarda, presenti a R. pure nei pressoché coevi dipinti dell'oratorio di S. Andrea al Clivo di Scauro, già messi in relazione con quelli del battistero di Novara, del S. Georg a Oberzell e di S. Vincenzo a Galliano (Bertelli, 1983, pp. 117-118; Aggiornamento scientifico, 1988, pp. 251-253).Agli anni immediatamente successivi alla metà del secolo appartengono con tutta probabilità gli affreschi della navata meridionale della basilica inferiore di S. Crisogono in Trastevere, raffiguranti Storie di s. Benedetto e in precedenza riferiti al 10° secolo. Essi sono stati correttamente posti in diretto collegamento con la pittura cassinese, anche attraverso la figura dell'abate Federico di Montecassino (1057-1058), che fu anche cardinale arciprete di S. Crisogono. Brenk (1984) ha anche sottolineato i rapporti tra questi affreschi e le scelte iconografiche di alcune delle miniature del famoso Lezionario dell'abate Desiderio (Roma, BAV, Vat. lat. 1202), eseguito poco dopo il 1071, anno di consacrazione della nuova chiesa abbaziale di Montecassino (1° ottobre).Allo stesso giro di anni e a una somigliante costellazione stilistica sembrano appartenere gli affreschi del campanile dell'abbazia di Farfa, la cui esecuzione è da porre in relazione forse con la consacrazione, nel 1060, di due altari nel Westwerk della chiesa (Aggiornamento scientifico, 1988).L'ultimo quarto del secolo è segnato dal pontificato di Gregorio VII (1073-1085), promotore di una riforma religiosa il cui influsso sulla produzione figurativa è stato oggetto di approfondite ricerche (Toubert, 1970; 1990; Kitzinger, 1972), che ne hanno sottolineato la consapevole e voluta intonazione anticheggiante e il recupero di temi iconografici paleocristiani.Un interessante esempio di questa tendenza è costituito dagli affreschi dell'oratorio di S. Maria in S. Pudenziana, raffiguranti scene della Vita delle ss. Pudenziana e Prassede e una Madonna in trono con il Bambino, affiancata dalle stesse sante, che Gandolfo (in Aggiornamento scientifico, 1988, pp. 254-255) propone di datare al 1080, sulla base dell'interpretazione di un'epigrafe collocata sulla fronte di un altare e di confronti istituibili con la Bibbia di S. Cecilia (Roma, BAV, Barb. lat. 587), databile ante 1097.Ma il complesso che più ampiamente testimonia della ricchezza e originalità del panorama pittorico di quegli anni è senza dubbio costituito dagli affreschi della basilica inferiore di S. Clemente, con Storie del santo eponimo e di s. Alessio, la cui esecuzione è da porre agli ultimi due decenni del secolo. I murali furono commissionati dai laici Beno di Rapiza e Maria Macellaria, identificati da un'iscrizione e raffigurati nel registro inferiore della scena con il Miracolo del tempietto, vicino a s. Clemente insieme ai figli Clemente e Altilia; si tratta di una presenza di notevole interesse, che testimonia dell'ingresso nel panorama della committenza artistica di nuovi soggetti sociali.Le altre scene del ciclo, dislocate nel nartece e nella navata, raffigurano la Traslazione delle reliquie di s. Clemente, la Messa di s. Clemente, il Miracolo della colonna, Cristo in trono tra gli arcangeli Gabriele e Michele e i Ss. Clemente e Nicola, S. Clemente in trono. Vi sono anche due episodi della Vita di s. Alessio e varie figure di santi e profeti, a cui si aggiunge - scoperta in un vano di passaggio, a seguito di scavi eseguiti tra il 1993 e il 1995 (Guidobaldi, 1997) - una nuova immagine raffigurante la Vergine in trono con il Bambino, affiancata da s. Clemente e altri santi, che sembra riferibile al sec. 11° avanzato e che si trova su un precedente affresco di analogo soggetto, databile forse al secolo precedente (Guidobaldi, 1997, pp. 475-476).Le Storie di s. Clemente e di s. Alessio sono caratterizzate da una vivacità e immediatezza narrativa che segnano un preciso punto di svolta in questa fase della pittura romana. Se da un lato sono state segnalate alcune tangenze con la pittura e la miniatura cassinese (Toubert, 1976), dall'altro è innegabile una diretta ispirazione di questi affreschi alla pittura paleocristiana e, più in generale, tardoantica. Tale riferimento si manifesta anzitutto negli elementi compositivi e costruttivi dello spazio pittorico, come i vela, le inquadrature architettoniche o gli edifici stessi presenti in diversi episodi, ma che pure trova espressione in certi spunti di schietto naturalismo, per es. nella sorprendente varietà delle specie ittiche presenti nel Miracolo del tempietto o nella vivida rappresentazione dei manigoldi nel Miracolo della colonna, dove compare, com'è noto, una serie di scritte da considerare tra le più antiche testimonianze della lingua volgare ("fili de le pute traite", ecc.).Al repertorio ornamentale tardoantico e paleocristiano attingono ampiamente i murali, assai deperiti, nella navata centrale di S. Maria in Cosmedin, datati 1123 e in origine forse raffiguranti scene dell'Antico e del Nuovo Testamento (Giovenale, 1927); qui una serie di elementi decorativi a girali vegetali e vela, eroti danzanti, clipei con mascheroni, candelabre, cornucopie, testimoniano di una fase di vero e proprio studio, da parte delle botteghe pittoriche romane, dei modelli classici, come ampiamente evidenziato dalle ricerche di Toubert (1970). Partiti decorativi antichizzanti si ritrovano pure negli scarsi resti di affreschi conservati tra il catino absidale e il sottotetto della chiesa dei Ss. Quattro Coronati, eseguiti dai pittori Gregorio e Petrolino tra il 1111 e il 1116 (Aggiornamento scientifico, 1988), nell'ambito dei lavori di ricostruzione della chiesa promossi da Pasquale II (1099-1118).Ma la più compiuta espressione di questo revival si ha nel mosaico absidale della chiesa superiore di S. Clemente, verosimilmente databile al terzo decennio del secolo (Aggiornamento scientifico, 1988). Qui, la scelta stessa del medium tecnico testimonia il recupero della tradizione tardoantica: da secoli, infatti, a R. non si eseguivano mosaici di dimensioni monumentali e, con tutta probabilità, erano conseguentemente venute meno anche le strutture in grado di produrre i materiali necessari. È quindi tuttora oggetto di dibattito la definizione della provenienza delle maestranze che eseguirono la decorazione dell'abside di S. Clemente, visto il notevole livello qualitativo dell'esecuzione. Superate le ipotesi che spaziavano da esiti tardi del cantiere desideriano di Montecassino a influssi di quello della cattedrale di Salerno con il suo mosaico absidale, si può supporre un arrivo a R., nel terzo decennio del secolo, di maestranze sì campane ma portatrici di più aggiornati stilemi bizantini, vicini a quelli elaborati nello scriptorium cassinese al tempo dell'abate Oderisio.Ma è la struttura iconografica del mosaico di S. Clemente a evidenziare, sopra ogni altra cosa, i legami con la cultura figurativa paleocristiana. Una croce con il Cristo morto, affiancata da Maria e s. Giovanni Evangelista, è circondata da fitti girali di acanto, abitati da una multiforme popolazione di personaggi, religiosi e non, genietti, pastori, animali di ogni specie e scene di genere; il tutto riconducibile a modelli della pittura catacombale dei primi secoli del cristianesimo, come pure alle opere della pittura monumentale dei secc. 4° e 5° (Toubert, 1970). La decorazione acantiforme dell'abside di S. Clemente ha come ideale precedente il girale dell'atrio del battistero Lateranense, ritenuto tradizionalmente opera del sec. 5°, ma che potrebbe anche essere del 12°, secondo l'ipotesi di Pelliccioni (1973), basata sull'analisi delle murature dell'ambiente in cui esso si trova.Nello stesso giro di anni e, soprattutto, nello stesso milieu figurativo (Toubert, 1970; Aggiornamento scientifico, 1988; Iacobini, 1989) si collocano gli scarsi ma significativi resti della decorazione affrescata già nella cripta di S. Nicola in Carcere, di cui rimangono clipei con profeti, il Battesimo di Cristo e alcuni frammenti dell'apparato decorativo, con animali entro motivi vegetali, sempre di schietta derivazione paleocristiana (Roma, Mus. Vaticani, Pinacoteca).La linea tracciata dai maestri attivi a S. Clemente trova una sua ideale continuazione nel mosaico absidale di S. Maria in Trastevere, opera che trova la sua corretta collocazione cronologica al tempo del pontificato di Innocenzo II (1130-1143). Qui, al centro della calotta sono raffigurati il Cristo e la Vergine regina e sponsa Christi assisi su un unico trono gemmato; una novità per quanto riguarda i programmi absidali romani, derivata da un'interpretazione di un passo del Cantico dei Cantici (Verdier, 1976; 1980). In quest'opera sembrano manifestarsi due tendenze stilistiche in parte divergenti: una, più vicina al modello antichizzante di S. Clemente, caratterizza l'arcone absidale, l'altra, dal ductus più rigido e linearistico, è presente nella decorazione della calotta, in particolare nelle figure dei santi che affiancano il Cristo e la Vergine in trono (Aggiornamento scientifico, 1988). Va infine ricordato che Kitzinger (1980) ha ritenuto di poter identificare nei volti dei protagonisti divini della composizione di S. Maria in Trastevere una citazione quasi letterale - anche a livello stilistico - delle due più venerate icone romane, il Salvatore del Sancta Sanctorum e la Vergine in S. Maria Nova.Proprio in quest'ultima chiesa, nell'abside, fu eseguito un mosaico raffigurante, entro arcature di gusto classico, la Vergine in trono con il Bambino, affiancata da quattro santi. La cronologia dell'opera è da agganciarsi con buona probabilità alla consacrazione della chiesa, avvenuta nel 1161, da considerarsi un ante quem (Aggiornamento scientifico, 1988), e del resto esso trova un'adeguata collocazione nel filone iniziatosi con il mosaico di S. Clemente e proseguito con quello di S. Maria in Trastevere - cui maggiormente si avvicina - caratterizzato dallo stesso gusto antichizzante e stilisticamente segnato da evidenti predilezioni linearistiche e da altrettanto evidenti semplificazioni nella costruzione delle figure. A questa linea stilistica bene si può accostare il frammento musivo della facciata di S. Bartolomeo all'Isola raffigurante il busto di Cristo (Aggiornamento scientifico, 1988, p. 265), la cui pertinenza al sec. 12° è stata messa in dubbio a favore del 10° (Bertelli, 1983, p. 120).I tre mosaici di S. Clemente, S. Maria in Trastevere e S. Maria Nova sono collegati non solo dall'evidenza stilistica, ma anche da nessi riguardanti le vicende politico-religiose romane tra il 1130 e il 1161, come bene evidenziato da Gandolfo (in Aggiornamento scientifico, 1988, p. 266 ss.), il quale ipotizza che nei tre mosaici sia stata attiva un'unica bottega, di provenienza campana, che nel corso degli anni fece proprio il lessico figurativo della R. paleocristiana, dando il via a quella fase di recupero antichizzante che trovò nel secolo successivo un'ulteriore fase di elaborazione e approfondimento.Decisamente lontana dalle tendenze espresse dalle opere di cui sin qui si è trattato è la decorazione a fresco della basilica di Santa Croce in Gerusalemme, databile verosimilmente tra il terzo e il quarto decennio del sec. 12°, dovuta all'intervento di papa Lucio II (1144-1145), che della basilica era stato cardinale titolare sin dal 1125; appare quindi verosimile che già ancor prima della sua elezione al soglio pontificio egli possa aver commissionato lavori nell'edificio. Il ciclo affrescato - frammentario e oggi in gran parte staccato e conservato in loco - comprendeva nella navata centrale una serie di tondi con figure di Patriarchi e un complesso fregio decorativo (non vi è peraltro modo di stabilire se il programma iconografico comprendesse anche una parte narrativa vetero e/o neotestamentaria); sull'arco trionfale, ormai quasi completamente illeggibili, altri murali raffigurano un clipeo entro cui doveva essere o un busto di Cristo o l'Agnello mistico, affiancato dal tetramorfo e dai sette candelabri. Opera di almeno tre pittori diversi, gli affreschi di Santa Croce testimoniano della penetrazione in area romana, prima della metà del secolo, di stilemi bizantini di schietta marca veneta, confrontabili con i murali della cripta della basilica di Aquileia (Gandolfo, 1989; Morganti, 1993).Per ciò che riguarda la pittura su tavola, le icone nelle chiese di S. Angelo in Pescheria - firmata dai pictores Pietro di Belizo e Belluomo (Toesca, 1969) -, del SS. Nome di Maria e quella conservata nella coll. Magnani di Reggio Emilia sembrano appartenere al medesimo milieu stilistico se non alla stessa bottega (Toesca, 1971); esse mostrano convincenti tangenze stilistiche con gli affreschi di S. Nicola in Carcere e quindi un importante aggancio cronologico intorno alla fine del terzo decennio del sec. 12° (Aggiornamento scientifico, 1988).Nell'ultimo decennio del secolo si colloca la realizzazione di uno dei più importanti - e di più difficile valutazione - complessi pittorici romani. Si tratta del ciclo vetero e neotestamentario della basilica di S. Giovanni a Porta Latina affrescato lungo le pareti della navata centrale, a cui si aggiunge un'immagine apocalittica sull'arco absidale, con angeli dalle mani velate che presentano il libro, affiancati dai simboli dei quattro evangelisti. Altri affreschi si trovano in fondo alla navata destra e sono stati riconosciuti come Storie di s. Elisabetta (Matthiae, 1965-1966), mentre sulla controfacciata si trovano Storie dei ss. Anna e Gioacchino (Parlato, Romano, 1992, p. 105ss.). Sulle pareti del coro sono raffigurati i ventiquattro seniori dell'Apocalisse e i quattro evangelisti. La datazione degli affreschi si collega tradizionalmente al 1190, anno di dedicazione della chiesa, attestato da un'iscrizione già in controfacciata e ora malamente inserita in un leggio moderno. Il ciclo di S. Giovanni a Porta Latina è l'unico a R. giunto in condizioni di relativa integrità, più sul piano compositivo che stilistico, essendo andate perdute quasi completamente le velature finali (Matthiae, 1965-1966). Si tratta di un complesso di singolare connotazione, pur presentando anch'esso quei caratteri di recupero paleocristiano che segnano la maggior parte delle esperienze pittoriche del sec 12°; è infatti abbastanza arduo sia individuare il modello iconografico a cui ricondurre il ciclo sia definire l'origine linguistica dei frescanti attivi nella basilica romana. Sono stati proposti confronti, non del tutto soddisfacenti, con il ciclo di Ferentillo (Demus, 1968) e con quello di Marcellina (Aggiornamento scientifico, 1988) e, soprattutto dal punto di vista iconografico, con le bibbie atlantiche umbro-romane. Certo è che negli affreschi di S. Giovanni a Porta Latina si fondono equilibratamente i riferimenti alla tradizione bizantina locale e, più latamente, centroitaliana e le innovative tendenze espresse dai cantieri musivi e pittorici romani del secolo.Con l'elezione al soglio pontificio, nel 1198, del cardinale Lotario dei Conti di Segni, papa con il nome di Innocenzo III (m. nel 1216), prese avvio un momento di particolare sviluppo della produzione pittorica monumentale, che ebbe nelle basiliche di S. Pietro in Vaticano e di S. Paolo f.l.m. i punti di massima focalizzazione.Nell'ambito di un ampio programma di intervento nell'antica basilica costantiniana del Vaticano, Innocenzo III promosse il rifacimento del mosaico absidale paleocristiano. Il nuovo mosaico fu visibile fino al 1592, quando, nel corso dei lavori di ampliamento della fabbrica petriana, venne completamente distrutto; l'opera, comunque, fu diligentemente copiata negli Instrumenta autentica di Giacomo Grimaldi (Roma, BAV, Barb. lat. 2733).Il nuovo mosaico, probabilmente terminato verso il 1209-1212, presentava al centro il Cristo in trono, affiancato dalle figure stanti di S. Pietro e S. Paolo, sullo sfondo di un classico paesaggio nilotico che sovrastava il monticello paradisiaco con i cervi e i quattro fiumi. Nel fascione sottostante, al centro, erano il trono e l'Agnus Dei, affiancati dai dodici agnelli che convergevano verso di essi, uscendo dalle mura di Gerusalemme e Betlemme. Ai lati del trono si trovavano l'Ecclesia Romana - che reggeva un vessillo - e lo stesso pontefice committente; sono proprio i busti di queste ultime due figure le uniche parti superstiti dell'opera, insieme a un clipeo con una fenice (Roma, Mus. di Roma e Gall. Com. d'Arte Moderna). Dal punto di vista iconografico il mosaico dell'abside petriana costituiva una precisa riaffermazione sia dell'auctoritas papale come discendente direttamente da Dio sia dell'importanza della basilica vaticana nei confronti di S. Giovanni in Laterano, da secoli con essa in concorrenza per il primato di chiesa più importante della cristianità occidentale. Dal punto di vista stilistico, gli esigui frammenti superstiti sembrano il prodotto della diffusione in Italia centrale dell'influenza dei mosaici siciliani attraverso botteghe itineranti come quella, per es., che nell'abbazia di Grottaferrata eseguì il mosaico con la Discesa dello Spirito Santo.L'altra grande opera prevista dal programma della committenza innocenziana doveva essere la ridecorazione dell'abside della basilica di S. Paolo fuori le mura. L'opera venne però effettivamente intrapresa da Onorio III (1216-1227), il quale fece giungere da Venezia - richiedendoli al doge Pietro Ziani (1205-1229) - alcuni mosaicisti, per far loro eseguire una grande composizione musiva. L'opera subì gravi danni nel corso del disastroso incendio che nel 1823 devastò la basilica e a seguito del quale essa, a partire dal 1836, fu quasi integralmente sostituita da una replica che ne riprendeva fedelmente l'iconografia originale, incorporando comunque alcune parti della tessitura musiva antica risparmiate dall'incendio. Al centro dell'abside campeggia il Cristo in trono, affiancato sulla destra da s. Pietro e s. Andrea e sulla sinistra da s. Paolo e s. Luca stanti su una fascia di terreno fiorito popolato da numerosi animali. Nel registro inferiore sono raffigurati gli altri apostoli, insieme ai due evangelisti non apostoli e a s. Barnaba. Al centro, tra queste figure, è l'Etimasia, affiancata dagli strumenti della passione di Cristo. Al di sotto del trono sono poi raffigurati i cinque santi innocenti, le cui reliquie erano custodite nella basilica. Altri tre personaggi, identificati da iscrizioni, completano la composizione: si tratta del pontefice Onorio III, prosternato presso il piede destro di Cristo, il sacrista Adinolfo e l'abate Giovanni Caetani, che portò a compimento l'opera secondo quanto attesta l' iscrizione dedicatoria trascritta prima del 1823. Quest'ultima parte del mosaico appare eseguita in un momento di poco successivo rispetto alla zona superiore e da un diverso artefice, già attivo forse nel cantiere innocenziano di S. Pietro. Altri frammenti staccati del mosaico sono inoltre conservati presso l'antisacrestia: raffigurano le teste di s. Pietro e di altri due apostoli e quattro uccelli originariamente situati nella fascia di terreno al margine inferiore della conca absidale. L'influsso esercitato dal mosaico ostiense fu elemento determinante del rinnovamento del linguaggio figurativo romano di primo Duecento, che nei decenni successivi si manifestò in opere di grande respiro come gli affreschi dell'oratorio di S. Silvestro presso i Ss. Quattro Coronati o quelli del Maestro Ornatista nella cripta del duomo di Anagni.Altre opere di minore respiro monumentale ma di notevole interesse si collocano in quello stesso giro di anni. È perduto, anche se conosciuto nelle sue linee compositive attraverso copie seicentesche (Roma, BAV, Barb. lat. 4405, cc. 42, 49), l'unico ciclo affrescato di questo periodo datato con certezza, quello della cappella di S. Silvestro nel convento di S. Martino ai Monti, eseguito tra il 1219 e il 1227 su probabile committenza del cardinale Guala Bicchieri, che prese possesso del titolo di S. Martino nel 1211 (Iacobini, 1991).Vanno anche ricordati un'icona musiva con la Vergine e il Bambino nella cappella del SS. Sacramento della stessa basilica ostiense, il cui stile richiama solo genericamente quello dei mosaici dell'abside, l'affresco della cappella destra del transetto di S. Bartolomeo all'Isola, quelli dell'oratorio presso la Platonia di S. Sebastiano (Iacobini, 1991) e quelli dell'arco di Carlo Magno nell'abbazia cistercense delle Tre Fontane sulla via Laurentina.Quest'ultimo ciclo merita particolare attenzione, stante il tema iconografico 'storico' in esso svolto, un vero e proprio unicum nel panorama duecentesco romano. Si compone infatti di due lunettoni su cui si dispiegano con vivace freschezza narrativa le vicende leggendarie e apocrife della presa di Ansedonia da parte di Carlo Magno grazie all'intervento della miracolosa reliquia delle Tre Fontane, il capo di s. Anastasio, e della successiva donazione della città conquistata al cenobio cistercense (Aggiornamento scientifico, 1988; Iacobini, 1991). Esso sembra trovare la sua più probabile collocazione cronologica nell'ambito del primo ventennio del Duecento.Al pontificato di Gregorio IX (1227-1241) risale un'altra importante impresa musiva: il mosaico di facciata della basilica vaticana che andò a sostituire l'antica decorazione risalente alla metà del 5° secolo. Eseguito da maestranze locali verosimilmente influenzate dai mosaicisti veneziani attivi a S. Paolo f.l.m., è anch'esso noto, dal punto di vista stilistico, solo per frammenti, mentre da quello iconografico attraverso le consuete copie seicentesche (Roma, BAV, Arch. S. Pietro, A.64 ter, c. 10). Esso svolgeva un tema apocalittico - che nella tradizione romana compariva solitamente all'interno degli edifici religiosi - formato da un'immagine del Cristo in trono, affiancato dai simboli degli evangelisti, dalla Vergine e da s. Pietro; più in basso era la figura inginocchiata del papa committente. Il registro inferiore presentava le immagini degli evangelisti, mentre ancora più in basso erano raffigurati i ventiquattro seniori dell'Apocalisse, con gli agnelli uscenti dalle mura di Gerusalemme e Betlemme. Dell'opera sono stati identificati, in tempi recenti, due nuovi frammenti, dopo che per decenni ne era conosciuto un solo lacerto, per di più assai guasto da pesanti integrazioni del tessuto musivo, raffigurante il volto del papa Gregorio IX (Roma, Mus. di Roma e Gall. Com. d'Arte Moderna). I due frammenti mostrano i volti di s. Luca (Roma, Mus. Vaticani, Pinacoteca; Ghidoli, 1989) e della Vergine (Mosca, Gosudarstvennyj Muz. izobrazitel'nych iskusstv im. A.S. Puškina; Andaloro, 1989; Etinhof, 1991) e sono caratterizzati da una grande nobiltà di esecuzione, i cui accenti stilistici sembrano anch'essi derivare dal cantiere dell'abside di S. Paolo fuori le mura.Lo scenario storico del quinto decennio del Duecento è dominato dalla lotta tra papato e impero; Innocenzo IV (1243-1254) e Federico II (1220 -1250) si fronteggiano non solo sul piano politico-religioso, ma anche su quello militare. L'Urbe è minacciata dalle truppe imperiali e il pontefice nel 1244 si rifugia a Lione, sotto la protezione del re di Francia, da dove nel 1245 promulga la bolla di scomunica dell'imperatore svevo. A R., Stefano Conti, vicarius urbis e cardinale titolare di S. Maria in Trastevere, fa fortificare il monastero dei Ss. Quattro Coronati, sul Celio, quale possibile luogo di rifugio, in caso di attacco da parte delle truppe di Federico. Qui, come afferma un'epigrafe marmorea murata nella parete meridionale, il venerdì precedente la domenica delle Palme del 1246 viene consacrata da Rinaldo, vescovo di Ostia, una cappella dedicata a s. Silvestro papa. L'interno è ornato da un ciclo di affreschi raffiguranti Storie di s. Silvestro e dell'imperatore Costantino. In essi tutto sottolinea la subordinazione del potere imperiale a quello divino e quindi all'autorità del papa, che di Dio è vicario sulla terra; completano il ciclo scene della Vita del santo e un Giudizio universale al di sopra della porta d'ingresso alla cappella. Dal punto di vista stilistico, gli affreschi mostrano di derivare stilemi e formule compositive dai mosaici del duomo di Monreale, ma è possibile riscontrare di nuovo influssi provenienti dall'opera dei mosaicisti veneziani attivi a S. Paolo f.m.l. ca. un ventennio prima, soprattutto nel trattamento dei panneggi. Allo stesso milieu stilistico appartengono gli affreschi di un ambiente posto al termine della navata sinistra della basilica dei Ss. Giovanni e Paolo di ca. un decennio posteriori a quelli della cappella di S. Silvestro e di questi meno originali e vividi nella monotona esecuzione delle figure di santi, inserite entro semplici archeggiature.Un'icona raffigurante la Vergine che allatta il Bambino - la c.d. Madonna della Catena (Roma, S. Silvestro al Quirinale) - presenta qualche punto di tangenza stilistica con gli affreschi nella cappella silvestrina ai Ss. Quattro Coronati. Altri due dipinti su tavola, che una fonte seicentesca riferisce presenti nell'oratorio di S. Gregorio Nazianzeno presso il monastero di S. Maria in Campo Marzio, sembrano influenzati da esiti della pittura tardocomnena: si tratta della Madonna Advocata di Palazzo Barberini (Roma, Gall. Naz. d'Arte Antica) e della tavola con il Giudizio universale firmata dai pittori Nicola e Giovanni (Roma, Mus. Vaticani, Pinacoteca).Dopo il ciclo silvestrino dei Ss. Quattro Coronati, comunque, la produzione pittorica a R. non sembra registrare, per ca. un quarto di secolo, opere di altrettanto ampia dimensione monumentale. Si conservano però alcune testimonianze che dimostrano il perdurare di certe tradizioni figurative e l'esistenza di una committenza tutto sommato abbastanza attiva. Tra queste è un pannello musivo proveniente da un tabernacolo commissionato nel 1256 da Giovanni Giacomo Capocci e da sua moglie Vinia, già nella basilica di S. Maria Maggiore e oggi conservato nella parrocchiale di Vico nel Lazio (prov. Frosinone), che mostra al centro la Vergine in trono con il Bambino, alla quale i donatori presentano il modellino del tabernacolo. Opera quasi certamente di una bottega di marmorari cosmateschi, abituati alla realizzazione di opere a mosaico e padroni delle relative tecniche di produzione ed esecuzione, presenta soluzioni cromatiche e di stesura delle tessere che sembrano echeggiare motivi presenti nell'icona musiva raffigurante la Madonna con il Bambino nella cappella del SS. Sacramento a S. Paolo f.l.m., databile intorno al terzo decennio del secolo.Nel 1277 ascese al soglio pontificio Giovanni Gaetano Orsini (v.), assumendo il nome di Niccolò III (m. nel 1280). Nell'area lateranense la committenza di questo papa diede forma a uno dei complessi più significativi della pittura romana del Duecento: gli affreschi e i mosaici del Sancta Sanctorum. Egli fece infatti ricostruire ex novo e ridecorare l'antica cappella dei palazzi lateranensi, dedicata a s. Lorenzo ed esistente almeno dall'8° secolo. In questo luogo venivano da secoli custodite le più venerate reliquie della cristianità, insieme a un'antica e miracolosa immagine acheropita del Salvatore. Per la decorazione furono scelte ambedue le tecniche della pittura monumentale, il mosaico e l'affresco. La piccola volta musiva sopra l'altare segna senza dubbio un momento fondamentale per gli ulteriori sviluppi di questa tecnica, che a R. da parecchi decenni non era più stata applicata a opere di respiro monumentale, dopo le absidi vaticana e ostiense. Tale ripresa si configura peraltro in termini sostanzialmente romani e in una chiave decisamente antichizzante.La volta del presbiterio reca al centro, su fondo d'oro, il busto del Salvatore entro un clipeo multicolore sorretto da quattro angeli a figura intera; nelle lunette mosaicate delle pareti sono invece raffigurati busti di santi. L'imago clipeata del Cristo colpisce per la sua fisionomia arcaica, nel volto scavato e ieratico così come nella fissità dello sguardo e nella frontalità della rappresentazione, quasi certamente ispirata ai tratti della sottostante icona acheropita. Dal punto di vista tecnico e stilistico, il mosaico mostra alcune specificità di grande interesse; una delle cifre formali più particolari è costituita dai filari di tessere arancioni e rosse, modulati in toni differenti e usati come linee di contorno per volti, mani, braccia, orecchie, ma anche come lumeggiature sparse, per creare un certo risalto plastico e, forse, per aumentare la rifrangenza generale della composizione, posta in un ambiente dove la luce giungeva in quantità ridotta.La decorazione della cappella è stata, in varie riprese, messa in relazione, più o meno diretta, con il soggiorno romano di Cimabue. Il maestro fiorentino compare infatti a R. come testimone in un atto notarile datato 1272 (Roma, S. Maria Maggiore, Arch., perg. A 45); nulla però si è conservato a livello figurativo di questo soggiorno, e anche i pittori impegnati nell'esecuzione sia dei mosaici sia degli affreschi del Sancta Sanctorum sembrano non risentire in modo particolare del suo influsso.Le scene dipinte sulle pareti al di sopra della galleria raffigurano Niccolò III, tra i ss. Pietro e Paolo, che offre il modello del Sancta Sanctorum a Cristo in trono, la Crocifissione di s. Pietro, la Decapitazione di s. Paolo, la Lapidazione di s. Stefano, il Martirio di s. Lorenzo, il Martirio di s. Agnese, il Miracolo di s. Nicola. In alto, le semilunette di risulta sono occupate da due figure di angeli per parete, disposte simmetricamente ai lati delle finestre. Sulla volta a crociera che copre il vano principale della cappella sono raffigurati i simboli dei quattro evangelisti, su uno sfondo di cielo stellato. La scelta dei soggetti iconografici, concentrata sulle scene di martirio dei santi, sottolinea con evidenza la volontà da parte del pontefice di riaffermare l'importanza della tradizione apostolica quale indiscutibile fondamento dell'autorità papale. Dal punto di vista stilistico va sottolineata l'importanza di questo cantiere, vera e propria miniera di recuperi classicheggianti, nel cui ambito si elaborarono i temi - anche iconografici - che in seguito dominarono la scena figurativa romana dell'ultimo quarto del secolo, estendendo la loro influenza anche al cantiere della basilica superiore di S. Francesco ad Assisi.Alla stessa temperie culturale sembra essere appartenuta un'opera di cui sono giunti solo due esigui - anche se altissimi - frammenti; si tratta del ciclo con Storie dei ss. Pietro e Paolo che decorava la fronte del portico dell'antica basilica vaticana, distrutto nel 1606 durante i lavori di costruzione della nuova facciata. I frammenti (Roma, S. Pietro in Vaticano, Reverenda Fabbrica) facevano parte della scena con l'Apparizione in sogno a Costantino dei ss. Pietro e Paolo, e raffigurano le teste dei due principi degli apostoli. Il ciclo, ricordato da Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 89ss.) come opera di Margarito d'Arezzo, eseguito sotto il pontificato di Urbano IV (1261-1264), era costituito da almeno sedici scene, riprodotte nell'album di Domenico Tasselli da Lugo (Roma, BAV, Arch. S. Pietro, A64 ter). I due frammenti, riferiti in passato a un ambito genericamente torritiano, trovano la loro ideale collocazione storica accanto agli affreschi del Sancta Sanctorum, con una datazione intorno alla fine dell'ottavo decennio del Duecento, per la solenne e consapevolmente antichizzante monumentalità e anche per l'impostazione generale del complesso, assolutamente in sintonia con le linee guida della committenza di Niccolò III (Tomei, 1989). Altre importanti opere di pittura sono da collegarsi a questo pontefice: tra esse, le serie dei ritratti clipeati dei pontefici fatte eseguire nelle basiliche di S. Pietro, S. Giovanni in Laterano e S. Paolo fuori le mura. In quest'ultima, il papa dovette commissionare un vero e proprio restauro di almeno una parte degli affreschi della navata, affidandone la cura all'abate Giovanni (1278-1279). Purtroppo, l'incendio del 1823 causò la scomparsa pressoché totale di queste opere, documentate tuttavia da fonti grafiche (Roma, BAV, Barb. lat. 4406) che ne riproducono fedelmente l'aspetto iconografico, ma non certo quello stilistico. Secondo Ghiberti (Commentari; ed. a cura di J. von Schlosser, Berlin 1912, I, p. 39), a Cavallini sarebbe da riferire l'esecuzione di questi lavori, ma appare oggi assai difficile esprimere un giudizio certo su tale attribuzione, stante la quasi totale scomparsa delle opere. Sono infatti scampati alla distruzione solo quattro ritratti di papi, uno dei quali, recentemente restaurato, si è rivelato opera di altissima qualità (Roma, Mus. della Basilica di S. Paolo): testimonianza di una tendenza della pittura romana volta a fondere in un'originale soluzione cadenze stilistiche bizantine con un linguaggio occidentale tutto intriso di citazioni classicheggianti e già aperto a talune soluzioni linearistiche di tipo gotico; comunque non assimilabile in alcun modo allo stile cavalliniano (Romano, 1989).Dopo la morte di Niccolò III altre figure di primissimo piano lasciarono il proprio segno nella cultura figurativa della città, rendendola un vero e proprio crocevia di idee e artisti, dove uomini e linguaggi figurativi di diversa origine si incontravano e interagivano, diffondendo poi per l'Italia e l'Europa i risultati di questa intensa attività di scambio.L'elezione al soglio pontificio di fra' Girolamo Masci da Lisciano con il nome di Niccolò IV (1288-1292) costituì un evento particolarmente significativo per la storia del papato medievale. Il nuovo eletto proveniva infatti dall'Ordine francescano e fu il primo tra i seguaci del santo di Assisi ad ascendere al trono di Pietro. Se dal punto di vista storico la vicenda ebbe grande importanza poiché la scelta operata dal conclave cadde non su un membro di una delle grandi famiglie romane, bensì su un rappresentante dell'ordine religioso che in quegli anni incarnava l'esigenza di un rinnovamento spirituale della Chiesa romana, altrettanto può dirsi dal punto di vista della storia delle arti. Infatti, i quattro anni di questo pontificato furono caratterizzati dalla progettazione ed esecuzione di alcune tra le più importanti imprese artistiche, non solo romane, promosse in gran parte direttamente dal papa, ma anche sostenute dai cardinali della curia.Niccolò IV non era comunque nuovo a imprese del genere. Tra il 1274 e il 1279 aveva infatti retto l'Ordine francescano come Generale, per poi essere elevato alla porpora cardinalizia da Niccolò III; e proprio come rappresentante del papa in loco fra' Girolamo doveva aver seguito da presso i lavori di affrescatura del transetto della basilica superiore di S. Francesco ad Assisi (v.), eseguiti da Cimabue e bottega. Peraltro, subito dopo la sua elezione lo stesso Niccolò IV diede nuovo impulso alla prosecuzione dei lavori nel cantiere assisiate, curando la ripresa della decorazione nella navata, con le Storie dell'Antico e del Nuovo Testamento. Venne incaricato dei lavori il pittore cui il papa, negli anni immediatamente seguenti, affidò le sue più importanti committenze romane, quello Jacopo Torriti (v.) che lasciò la sua firma nelle rinnovate absidi delle basiliche di S. Giovanni in Laterano e S. Maria Maggiore.A S. Giovanni in Laterano venne restaurata la struttura muraria dell'abside e del relativo deambulatorio, il c.d. portico leoniano. La decorazione musiva absidale, di vastissime dimensioni fu portata a termine nel 1291 e firmata, oltre che da Torriti, anche da fra' Jacopo da Camerino, socius magistri operis. Fu conservata e inserita nella nuova composizione un'immagine musiva a mezzo busto del Cristo - risalente con tutta probabilità al sec. 5° - che una tradizione plurisecolare voleva apparsa miracolosamente nella basilica. Essa fu collocata al di sopra di una grande croce gemmata affiancata dalla Vergine e dal Battista, e dai ss. Pietro, Paolo, Giovanni Evangelista e Andrea; a essi si aggiungono le due figure, in dimensioni minori, di S. Francesco e S. Antonio da Padova.Purtroppo, l'abside di S. Giovanni in Laterano quale oggi si presenta è solo una replica tardo-ottocentesca del mosaico torritiano, essendo infatti stata oggetto, tra il 1883 e il 1884, di stravolgenti lavori di restauro.A S. Maria Maggiore, Niccolò IV promosse la costruzione di un transetto a conclusione delle navate dell'antica basilica di Sisto III (432-440), il cui arcone absidale divenne arco trionfale della nuova area presbiteriale, e la completa edificazione di una nuova abside. Questa fu decorata da un mosaico portato a termine nel 1296, dopo la morte di Niccolò IV, con il sostegno del cardinale Jacopo Colonna, arciprete della basilica. La nuova abside fu ornata con un programma iconografico di glorificazione della Vergine; al centro della composizione, entro un clipeo con lo sfondo a cielo stellato, fu posta l'Incoronazione di Maria da parte del Figlio, con a fianco i nove cori angelici; ai lati sono presenti i ss. Pietro, Paolo, Francesco, Giovanni Battista, Giovanni Evangelista e Antonio da Padova. Anche qui, come a S. Giovanni in Laterano, è raffigurato Niccolò IV inginocchiato; simmetricamente al pontefice, sul lato opposto, vi è anche la figura del cardinale Colonna, come riconoscimento per aver condotto a termine l'impresa. Nell'emiciclo absidale, tra le finestre, si svolgono cinque scene della Vita della Vergine. Completano il programma una visione apocalittica con i ventiquattro seniori e due pannelli raffiguranti la Predica di Mattia agli ebrei e S. Girolamo con Paola ed Eustochio. Del tutto innovativa fu l'introduzione nell'abside di una basilica romana del sec. 5° di un tema desunto dal repertorio della scultura monumentale delle cattedrali gotiche, dove l'Incoronazione della Vergine era particolarmente diffusa sino a partire dalla fine del 12° secolo. A fianco di questa iconografia di marca nettamente settentrionale, la decorazione a girali abitati mostra una consapevole e raffinata ripresa di elementi classici e paleocristiani.L'edificio divenne comunque in quegli anni un cantiere nel quale furono impegnati alcuni tra gli artisti più importanti del tempo: verso il 1290 Arnolfo di Cambio (v.) eseguì su incarico del papa la cappella del Presepe; forse poco più tardi Filippo Rusuti (v.) diede il via alla decorazione musiva della facciata, mentre un'ignota ma nobilissima mano eseguì nel transetto sinistro alcuni affreschi di grande qualità figurativa che costituiscono un problema attributivo di assai difficile soluzione. Qui fu progettata una decorazione, mai portata a termine, che, per quanto è dato dedurre da ciò che fu parzialmente eseguito, doveva prevedere un ciclo veterotestamentario nel transetto sinistro e le corrispondenti scene neotestamentarie in quello destro; in alto, corre una fascia decorativa con grandi clipei che racchiudono figure di profeti, intervallati da girali vegetali e incorniciati da motivi architettonici dipinti, con archetti cassettonati su mensole. Solo nel transetto sinistro i lavori di affrescatura furono parzialmente eseguiti; in quello destro probabilmente non cominciarono mai, non essendo stata trovata sulle murature alcuna traccia di intonaco. Delle scene previste nel transetto sinistro rimane solo la figura dell'Eterno nella prima scena della Creazione, mentre fu eseguita la fascia decorativa con i profeti.La ragione dell'interruzione dei lavori deve quasi certamente attribuirsi alle vicende storiche che ebbero per protagonisti la famiglia Colonna, tradizionalmente legata al patronato della basilica, e papa Bonifacio VIII, suo acerrimo avversario. Dopo la morte di Niccolò IV (4 aprile 1292), l'elezione e la rinuncia di Celestino V (5 luglio e 13 dicembre 1294), il 24 dicembre dello stesso 1294 fu eletto a Napoli Benedetto Caetani, che il 23 gennaio dell'anno successivo venne consacrato a R. con il nome di Bonifacio VIII (m. nel 1303). Ebbe allora ben presto inizio una lunga serie di attriti tra il papa e i Colonna, culminata nella loro scomunica del 1297, nella messa al bando, nella privazione dei titoli e dei beni, e, infine, in vere e proprie azioni militari contro i castelli della famiglia. Nulla di più probabile, quindi, che l'affrescatura del transetto di S. Maria Maggiore, iniziata verosimilmente quando stava per essere concluso il mosaico absidale - cioè verso il 1296 -, venisse interrotta a causa della caduta in disgrazia dei Colonna. Ciò che fu eseguito mostra comunque l'intervento di un grande pittore, per il quale la critica ha proposto di volta in volta identificazioni le più diverse. Si sono fatti i nomi di Gaddo Gaddi, di Giotto, di Cavallini, di Rusuti, ma nessuna di queste ipotesi sembra aver mai raggiunto un sufficiente livello di dimostrabilità. Più praticabile sul piano del confronto stilistico appare il riconoscimento di una loro tangenza con le famose Storie di Isacco nella basilica superiore di S. Francesco ad Assisi. Gli affreschi del transetto di S. Maria Maggiore si caratterizzano anzitutto per una concezione volumetrica che sbalza le figure dal fondo e ne individua la collocazione nello spazio; il trattamento delle superfici è ad ampie campiture di colore attraversate da vivide lumeggiature e morbidamente chiaroscurate. I profeti, austeri e corrucciati, sono fortemente individualizzati nelle loro espressioni e nei tratti somatici segnati da contorni scuri, netti e marcati, per es. nelle rughe sulla fronte e attorno agli occhi. Nessun pittore attivo a R. nell'ultimo decennio del secolo di cui sia noto il nome presenta tali particolari modi espressivi, né Giotto, né Cavallini, né tanto meno Rusuti, cui anche questi affreschi sono stati sia pure dubitativamente riferiti (Bellosi, 1985, p. 120ss.).Ma ancora una grande opera doveva completare il piano di ridecorazione dell'antica basilica; un altro mosaico fu infatti realizzato sul cavetto di facciata da Filippo Rusuti, pittore formatosi verosimilmente nell'ambito della bottega torritiana. L'artista eseguì una composizione raffigurante il Cristo giudice entro un clipeo - sul bordo del quale appose la propria firma - con i simboli dei quattro evangelisti e affiancato dalla Vergine e santi.Al di sotto della fascia firmata da Rusuti vennero in seguito raffigurate quattro scene, poste simmetricamente ai lati del grande rosone centrale, relative alla storia della miracolosa fondazione dell'antica basilica, tradizionalmente riferita a papa Liberio, vissuto nella seconda metà del 4° secolo.In questi stessi anni è attivo in altri importanti cantieri nell'Urbe Pietro Cavallini (v.), senza dubbio il più importante pittore romano della seconda metà del Duecento. Gli affreschi con il Giudizio universale sulla controfacciata di S. Cecilia in Trastevere, riscoperti da Hermanin (1902), hanno segnato una radicale svolta nell'interpretazione della pittura romana di tardo Duecento. La straordinaria qualità di questi dipinti, il loro saldo e maturo plasticismo, il sapientissimo e calibrato chiaroscuro, la naturalezza delle fisionomie, misero subito in discussione la vieta immagine critica di una R. pittoricamente inceppata a un esausto tradizionalismo di stampo bizantineggiante. Ma ciò non poteva non investire anche la altrettanto consolidata opinione che Cavallini fosse scolaro di Giotto, com'è noto risalente a Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 185ss.), ansioso di far primeggiare la 'rinascita' della pittura fiorentina rispetto a quella romana.La grande composizione del Giudizio, che pure ripropone alcuni elementi iconografici della tradizione orientale, presenta infatti, dal punto di vista dello stile, una sostanziale rivoluzione nel modo di concepire la resa della figura umana. I corpi dei personaggi cavalliniani sono costruiti infatti con un'evidenza plastica assolutamente inedita per i tempi; la loro immanenza fisica è ottenuta per mezzo di un sapientissimo gioco chiaroscurale, tutto impostato sulla sottile variazione dei toni di colore che interagiscono con le splendenti lumeggiature, stese in ampie campiture. Ma gli affreschi in controfacciata non sono gli unici resti della decorazione di S. Cecilia; oltre ai già ricordati motivi architettonici, sulla parete destra della chiesa appaiono infatti brani di tre scene con le Storie di Isacco e Giacobbe, mentre sulla parete sinistra vi è parte di un'Annunciazione e una grande figura di S. Michele Arcangelo. Appare subito evidente che si è in presenza di più mani; del resto anche la parte inferiore del Giudizio presenta diversità stilistiche e tecniche piuttosto nette rispetto a quella superiore. Se l'Annunciazione mostra l'intervento di un maestro decisamente più impacciato e dal fare più approssimativo, il pittore che eseguì le Storie di Isacco e Giacobbe mostra una sicurezza di impianto e una originalità di ductus che lo collocano a un livello di vera eccellenza qualitativa. Come Cavallini, egli costruisce le sue figure per mezzo di ampie campiture di colore; vi sovrappone però vividi e nervosi guizzi di luce e le caratterizza con improvvisi scatti linearistici che lo allontanano dalla classica e pacata monumentalità dell'autore del Giudizio universale. La datazione del ciclo va agganciata a quella del ciborio là eseguito da Arnolfo di Cambio, datato 1293, evidentemente a conclusione di un'ampia campagna di ridecorazione dell'edificio (Romanini, 1981; Tomei, 1991).L'altra grande opera romana di Cavallini è il ciclo con le Storie della Vergine nell'abside di S. Maria in Trastevere, che si svolge nel catino absidale al di sotto del già ricordato mosaico innocenziano; i mosaici cavalliniani costituiscono un problematico pendant dell'analogo ciclo di Torriti a S. Maria Maggiore. Non è infatti per nulla agevole fissare una qualsivoglia priorità cronologica tra le due opere, anche se appare del tutto probabile che esse furono eseguite a brevissima distanza l'una dall'altra.Una parte consistente della critica ha riferito a Cavallini anche l'esecuzione dell'affresco absidale della chiesa di S. Giorgio in Velabro (ca. 1296); si tratta di un'opera assai rovinata, che comunque mostra strette assonanze sia con gli affreschi di S. Cecilia sia con i mosaici di S. Maria in Trastevere (Matthiae, 1972; Aggiornamento scientifico, 1988; Tomei, 1991).In un'altra importante chiesa romana, S. Maria in Aracoeli sul Campidoglio, il primo insediamento francescano nell'Urbe, Cavallini eseguì diverse opere, forse scaglionate nel corso di vari anni. La conclusione di questi interventi dovette coincidere con l'esecuzione dell'affresco per il monumento funebre del cardinale Matteo d'Acquasparta, morto nel 1302, che mostra la Vergine con il Bambino tra i ss. Matteo e Francesco che presenta il prelato defunto.Nella stessa Aracoeli, frammenti di affreschi nel sottotetto della cappella Savelli, con un agnello mistico sul trono, una figura aureolata e frammenti di incorniciature architettoniche con mensolette scorciate testimoniano di una fase di ridecorazione pittorica della chiesa coincidente, dal punto vista stilistico e cronologico, con la sua rielaborazione architettonico-plastica in senso gotico, diretta da Arnolfo di Cambio e databile ai primi anni novanta del Duecento.La produzione pittorica romana degli ultimi due decenni del Duecento, nonostante la scomparsa di gran parte di quello che si potrebbe definire il suo tessuto connettivo, il quale solo poteva far conoscere a fondo gli intrecci di influssi e rispondenze di una cultura figurativa così complessa, appare tuttavia ancora oggi, attraverso le opere conservatesi, caratterizzata da una troppo spesso misconosciuta o ignorata ricchezza di apporti culturali di varia origine.Lo attestano reperti preziosi come, per es., gli affreschi dell'abbazia delle Tre Fontane, quelli della c.d. quarta navata di S. Saba, la croce dipinta eseguita per S. Maria in Aracoeli (Roma, Mus. del Palazzo di Venezia), o i cicli affrescati già nella basilica di S. Agnese f.l.m., (Roma, Mus. Vaticani, Pinacoteca; Romano, 1989; 1992), e quello del portico di S. Lorenzo f.l.m. (Romano, 1992), per non citare che solo alcuni tra gli esempi più interessanti.Nell'antica sagrestia della chiesa abbaziale cistercense delle Tre Fontane, un pittore fortemente influenzato dal mosaico absidale di Torriti in S. Maria Maggiore affrescò in due lunette un'Incoronazione della Vergine e una Natività, desumendo dalla composizione torritiana tipologie e cadenze compositive. Non ne volle - o seppe - interpretare il classicismo a tutto campo e la grandiosa impostazione monumentale, mostrando un ductus calligrafico tutt'affatto diverso dal comporre largo e modulato caratteristico di Torriti. Nella stessa abbazia un altro gruppo di affreschi, con scene allegoriche della vita umana, presenta motivi di grande interesse, da un lato per le sue innegabili tangenze con alcune tra le opere romane più significative dell'ultimo decennio del Duecento, dall'altro per la sua apertura a esperienze figurative, e più in generale culturali, di respiro europeo, in particolare franco-inglesi (Bertelli, 1969b; Mihályi, 1991).La croce dipinta dell'Aracoeli, trasferita intorno alla metà del Quattrocento nella chiesetta di S. Tommaso de' Cenci, è uno dei pochi esemplari di questa particolare tipologia figurativa conservatisi a R., tra i quali va ricordato anche il ben più arcaico Crocifisso del convento di S. Alberto (Strinati, 1982). Ma è anche un testo assai importante per un tentativo di ricostruzione di quel tessuto figurativo del tardo Duecento romano, stante la grande qualità e originalità del suo stile, ancora percepibile nonostante la perdita di una parte sostanziale della sua materia pittorica. Pubblicata da Toesca (1966), con riferimenti all'ambiente assisiate, l'opera è stata in seguito accostata, sia pure sempre con molte incertezze, a Giotto o alla sua cerchia. Partendo dalla constatazione di una sua certa matrice romana, attestata dalla presenza di un'immagine del Salvatore nella cimasa tipologicamente derivante dall'Acheropita del Sancta Sanctorum, ma anche da particolari aspetti fisionomici del Cristo crocifisso, la croce dell'Aracoeli trova la sua ideale collocazione nella scia degli affreschi vetero e neotestamentari della basilica superiore di S. Francesco ad Assisi. Opere di questo tipo dovettero contribuire in modo non marginale alla formazione di Giotto (v.): in esse, infatti - che il giovane maestro fiorentino poté vedere nel loro massimo splendore nel corso dei suoi ripetuti soggiorni nell'Urbe - la cultura pittorica romana, in una fase di grande vivacità culturale contemporanea e successiva all'esperienza assisiate, mostra di aver assimilato e rielaborato alla luce del proprio intramontabile background classicistico e attraverso la determinante esperienza arnolfiana, le tendenze figurative più aggiornate (Romanini, 1987; 1989).Nel quadro culturale che si è fin qui delineato, l'elezione di Bonifacio VIII, la produzione figurativa legata alla corte papale e l'evento giubilare del 1300 costituiscono il momento di massima progressione della cultura artistica romana, le cui vicende vengono, come si è detto, proprio in questi anni a incrociarsi con l'arte di Giotto: il fervore che percorreva l'Urbe non poteva infatti non richiamare anche il maestro fiorentino, reduce dall'esecuzione delle Storie di s. Francesco nella basilica superiore di S. Francesco ad Assisi. Non è facile individuare le linee portanti della committenza di Bonifacio VIII, cui forse si deve la prima venuta di Giotto a R., stante l'apparente mancanza di sistematicità degli interventi da lui promossi.Una delle prime opere sicuramente commissionate da Bonifacio VIII fu il proprio monumento funebre (Roma, S. Pietro in Vaticano, Grotte), la cui progettazione ed esecuzione fu affidata ad Arnolfo di Cambio nel 1296, quando cioè il pontefice era ancora in vita, anzi eletto da poco più di un anno. Jacopo Torriti fu chiamato a eseguire un pannello a mosaico posto sul fondo del sacello, oggi perduto e del quale si conoscono due frammenti (Mosca, Gosudarstvennyj Muz. izobrazitel'nych iskusstv im. A.S. Puškina; New York, Brooklyn Mus.; Etinhof, 1991; Tomei, 1996). Vi erano raffigurati entro un clipeo la Vergine con il Bambino in braccio e alla sua sinistra S. Paolo, mentre sulla destra S. Pietro presentava il papa inginocchiato.La prima opera che la tradizione vuole eseguita a R. da Giotto è l'affresco frammentario detto del Giubileo, che oggi si trova murato sul terzo pilastro della navata destra della basilica di S. Giovanni in Laterano. Esso proviene dalla loggia delle Benedizioni fatta costruire da Bonifacio VIII sul fianco settentrionale dell'aula Concilii.L'altra opera romana che le fonti riferiscono al maestro fiorentino è il mosaico della Navicella, oggi quasi completamente perduto, già collocato nell'atrio dell'antica S. Pietro e commissionato dal cardinale Jacopo Stefaneschi. Dell'originale trecentesco si conservano oggi solo due clipei racchiudenti busti di angeli (Roma, S. Pietro in Vaticano, Grotte; Boville Ernica, S. Pietro Ispano). Le particolarità tecniche della loro esecuzione mostrano peraltro l'intervento di un mosaicista cui Giotto dovette affidare l'effettiva realizzazione dell'opera, dopo averne messo a punto le linee compositive generali e, probabilmente, dopo aver eseguito un cartone o un disegno preparatorio. Da questo punto di vista, colpisce la somiglianza, quasi un'identità, di tecnica esecutiva tra gli angeli della Navicella e i mosaici di Cavallini a S. Maria in Trastevere, anche se i risultati appaiono diversi sul piano stilistico.In seguito, allo stesso Giotto fu commissionato, ancora dal cardinale Stefaneschi, il grande trittico per la basilica di S. Pietro (Roma, Mus. Vaticani, Pinacoteca), opera con ampi interventi di bottega. In questo giro di anni lo stesso Giotto era verosimilmente impegnato, sempre per committenza del cardinale Stefaneschi, nell'esecuzione di affreschi nell'abside di S. Pietro, purtroppo completamente perduti, ma che si sa raffiguranti cinque scene della Vita di Cristo (Roma, Napoli, Avignone, 1996).Formalizzato nel 1309 da Clemente V (1305-1314), già vescovo di Bordeaux, il quale anche dopo l'elezione aveva di fatto continuato a risiedere in Francia, e conclusosi solo nel 1377, il trasferimento della corte papale ad Avignone fu realmente traumatico per la vita dell'Urbe e portò, ovviamente, a una drastica diminuzione della committenza artistica, fino ad allora praticamente monopolio dei cardinali e degli alti prelati della curia. Non si può certo parlare, però, di una vera e propria cessazione ex abrupto della produzione figurativa romana. La presenza di committenti come Stefaneschi, l'esecuzione di opere come quelle giottesche o il completamento del mosaico di facciata di S. Maria Maggiore, già ricordato, e l'affidamento a Cavallini di quello di S. Paolo f.l.m. nel 1325 (Aggiornamento scientifico, 1988; Roma, Napoli, Avignone, 1996) testimoniano della prosecuzione di alcune forme di committenza, a volte anche su scala decisamente monumentale.Tra il secondo e il quarto decennio del Trecento si contano a R. alcuni interessanti episodi figurativi: tra questi il ciclo con Storie cristologiche e mariane nella chiesa di S. Sisto Vecchio, eseguito da maestranze di estrazione cavalliniana, e le opere recentemente attribuite al pittore Lello da Orvieto - già attivo presso la corte di Napoli - come gli affreschi staccati con Storie di s. Benedetto già in S. Agnese f.l.m. (Roma, Mus. Vaticani, Pinacoteca) e le tavole raffiguranti S. Ludovico di Tolosa e S. Antonio Abate, di schietto gusto angioino, nel convento di S. Francesco a Ripa.Alla figura di Cola di Rienzo - e alla sua tumultuosa vicenda politica - si legano alcuni dipinti scomparsi, ma dettagliatamente descritti nella Cronica (1357-1358) dell'Anonimo Romano (XVIII, 64-132, 213-244; ed. a cura di G. Porta, Milano 1979, pp. 145-147, 150-151), fatti eseguire dal tribuno al Campidoglio e sulla facciata della chiesa di S. Angelo in Pescheria (Romano, 1995). Essi svolgevano in immagini allegoriche temi politici, alludenti alla disastrosa situazione di R. 'senza papa'.Rimangono da segnalare alcune immagini, perdute ma note da disegni seicenteschi, di papa Urbano V (1362-1370; Osborne, 1991) e il breve ciclo di affreschi che decoravano il nuovo ciborio di S. Giovanni in Laterano eseguito intorno al 1368; difficilmente giudicabile a causa delle estese ridipinture, esso è stato messo in relazione con il soggiorno romano di Giottino ricordato dalle fonti. Bibl.: J. Strzygowski, Cimabue und Rom. 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A. Tomei