ROMA - Storia, urbanistica, architettura (secoli 12° - 14°)
Secolo 12°. - L'inizio del secolo è segnato a R. dal perdurare della situazione di tensione tra papato e impero che aveva già caratterizzato la fine del secolo precedente e aveva visto contrapporsi papi e antipapi, fatto che si sarebbe ripetuto per tutto il periodo. Il primo papa del sec. 12°, Pasquale II (1099-1118), proseguì la politica di riforma della Chiesa e di lotta alle ingerenze laiche nella sfera ecclesiastica avviata dai suoi predecessori Gregorio VII (1073-1085), Vittore III (1086-1087), al secolo Desiderio, abate di Montecassino, e Urbano II (1088-1099), ma di fatto la situazione conflittuale perdurò fino alla fine del secolo, trovando solo in Innocenzo III (1198-1216) il pontefice capace di attuare la stabilizzazione del potere, sia temporale, sia spirituale, della Chiesa.
I difficili rapporti tra papato e impero ebbero naturalmente esiti immediati sulla città, aggravati dalla turbolenza e litigiosità delle famiglie nobili romane, schierate a fianco alternativamente di papi e antipapi, ben dieci, contrapposti nel corso del 12° secolo. Altro polo di questa situazione di equilibri complessi, spesso disgregati, fu il Comune, fondato nel 1143 dai cittadini romani in opposizione a Innocenzo II (1130-1143): i richiami classici che improntarono la renovatio senatus non nascondono la dura tensione che, fin dall'origine dell'istituzione, caratterizzò i rapporti tra senatus e papato. Essa è ben esemplificata dall'episodio della morte di Lucio II (1144-1145), colpito da una sassata, mentre a capo delle sue truppe marciava contro il Campidoglio e il partito senatoriale, guidato dai Pierleoni, famiglia dell'antipapa Anacleto II (1130-1138), che si era opposto a Innocenzo II. Il clima di tensione, che vedeva i possessi ecclesiastici depredati, i pellegrini assaliti e le case dei cardinali saccheggiate trova echi altissimi nel celebre trattato di s. Bernardo di Chiaravalle indirizzato al suo antico discepolo e confratello Bernardo Paganelli, già abate delle Tre Fontane, assurto al trono pontificio con il nome di Eugenio III (1145-1153): "gens insueta paci, tumultui assueta, gens immitis et intractabilis usque adhuc, subdi nescia, nisi cum non valet resistere" (De consideratione ad Eugenium papam, IV, II, 2).L'architettura romana degli inizi del sec. 12° è segnata dalla grande committenza di Pasquale II, già monaco benedettino, che nel suo tormentato pontificato cercò di imporre l'esigenza di recuperare l'identità di una Chiesa povera e libera dai vincoli della politica. Le vie percorse dall'architettura appaiono del tutto originali, autonome rispetto alla grande stagione linguistica del Romanico padano e alle sue vie di diffusione: carattere distintivo è infatti quello della renovatio, traduzione nel linguaggio dell'architettura (e delle arti figurative) dell'impegno politico e culturale di dimostrare il primato della Chiesa sulle altre strutture di potere. Esso si affidò a raffinati sistemi simbolici che del recupero dell'Antico, sia quello classico sia quello tardoantico e paleocristiano, si valsero per affermare e confermare le radici imperiali della Chiesa di R. (Toubert, 1970; Kitzinger, 1972; 1982; Stroll, 1991).Il pontificato di Pasquale II, segnato dallo straordinario impegno nel rimodellare antiche strutture e costituirne di nuove, dà il via alla renovatio in campo architettonico, proponendo insieme una tipologia precipuamente romana; si tratta per lo più di impianti basilicali, scanditi da colonne e arcature, talora con l'inserzione di pilastri in funzione di precise scansioni dello spazio interno, coincidendo con la posizione della schola cantorum e dell'attacco del presbiterio, che si presenta monoabsidato e di poco rialzato (Parlato, Romano 1992). La scansione interna era talora evidenziata da archi diaframma, come a S. Prassede e a S. Pudenziana, dove però la situazione è oggi solo ricostruibile (Krautheimer, Frankl, Corbett, 1937-1976, III).
L'arredo liturgico interno (schola cantorum, amboni, ciborio, candelabro pasquale, cattedra) è funzionale alle esigenze della riforma e diventa perciò un insieme di elementi costante nell'architettura del periodo; la schola cantorum, destinata alla celebrazione dell'officio quotidiano, era resa obbligatoria dalle nuove normative della vita religiosa.
Altro elemento nuovo, che in questo momento diviene pressoché costante, è la torre campanaria; la capillare diffusione dei campanili - la pianta di R. di Antonio Tempesta del 1593 ne attesta un centinaio (Parlato, Romano, 1992) - trova, secondo de Blaauw (1993), ragioni nel ruolo di modello assunto, anche per questa struttura, dalla basilica di S. Pietro. La turris, eretta nel sec. 8° per ospitare le tre campane donate da Stefano II (752-757; Lib. Pont., I, 1886, p. 97), dovette acquisire lo stesso valore di modello della basilica costantiniana, tanto da costituirsi come il prototipo della turris monumentale con relative campane eretta, intorno al 1100, durante il pontificato di Pasquale II, presso la basilica lateranense (Lib. Pont., II, 1892, p. 301). L'altro elemento che è sicuramente alla base della diffusione di torri campanarie è l'influsso dell'architettura monastica: per il Lazio il riferimento immediato è ai monasteri di Farfa e di Subiaco, che intorno al 1050 vennero dotati di torri, o meglio di campanile o campanarium (de Blaauw, 1993), nonché alla nuova chiesa abbaziale di Montecassino.Il modello di campanile che si afferma a Roma è quello di una slanciata struttura in laterizio, scandita in livelli finestrati con bifore, trifore o quadrifore, divisi da fasce di laterizi disposti orizzontalmente emergenti dal filo della parete, alternate a una o più linee degli stessi elementi, tagliati obliquamente e disposti a denti di sega e a file di beccatelli in marmo bianco. Specchiature marmoree e bacini in ceramica si inseriscono spesso nelle pareti intorno alle aperture per rendere cromaticamente ancora più vivaci queste strutture, i cui elementi lessicali, sia pure impaginati con varianti, rimangono immutati per oltre due secoli fino al trecentesco campanile di S. Maria Maggiore. Gli studi di Serafini (1927) e Priester (1990), pur divergendo notevolmente sulla datazione delle singole strutture, che secondo Priester non comparirebbero nell'architettura romana anteriormente al primo quarto del sec. 12°, forniscono la documentazione completa delle torri campanarie romane esistenti o solo testimoniate dalle fonti.Edificio di transizione, cronologicamente pertinente al sec. 11°, ma già presago dei caratteri del secolo successivo, è S. Maria in Cappella (S. Maria ad pineam); consacrata, come attesta una lapide in controfacciata, nel 1090, la chiesa si presenta oggi nella veste falso-medievale della metà del secolo scorso, ma ne è ben leggibile la struttura a tre navate con colonne architravate, secondo una soluzione che, con rapporti spaziali ben diversi, fu ripresa a S. Crisogono e a S. Maria in Trastevere. Il piccolo campanile a due ordini è riferito da Serafini (1927) alla stessa data di consacrazione della chiesa.Il cantiere di S. Clemente apre significativamente il sec. 12°; le trasformazioni della basilica paleocristiana avevano avuto inizio già tra il 1080 e il 1099, quando ne era cardinale titolare Raniero di Bieda, eletto papa con il nome di Pasquale II nel 1099, nel conclave organizzato nella stessa chiesa. Gli interventi sull'edificio paleocristiano, oggi chiesa inferiore, avevano fatto forse seguito ai danni provocati nel 1084 dalle truppe di Roberto il Guiscardo entrate in R. a sostegno di Gregorio VII: si trattò essenzialmente di lavori di tipo statico. A Pasquale II va riferito il nuovo intervento sul suo titolo cardinalizio, consistente nell'interramento della basilica paleocristiana e nella costruzione del nuovo edificio, consacrato nel 1118, che sfruttò come fondazioni le strutture paleocristiane (Barclay Lloyd, 1989). Preceduta da un protiro e da un quadriportico molto alterato e affiancata da un campanile (ne restano le fondazioni), la chiesa si articola in tre navate scandite da file di colonne, interrotte al centro da pilastri; la distinzione della chiesa in due spazi è segnalata anche dai differenti materiali usati per le colonne (granito e marmo scanalato verso il presbiterio, granito verso l'ingresso). L'interruzione con i pilastri coincide con l'inizio della schola cantorum ed è soluzione che aveva fatto la sua apparizione a R. già al tempo di Gregorio VII nella distrutta chiesa di S. Maria in Portico (Barclay Lloyd, 1981; 1989). La distinzione in due spazi dell'interno della chiesa non era solo strutturale, ma anche luminosa; mentre la prima metà della navata era illuminata solo da monofore che si aprivano nel cleristorio, procedendo verso il presbiterio alle finestre si aggiungevano degli oculi, che vennero però tamponati già all'inizio del sec. 13° (Barclay Lloyd, 1989). I caratteri di classica misura che improntano l'architettura sono sintetizzati nel mosaico della conca absidale, chiaramente strutturato sul modello del mosaico absidale dell'atrio del battistero lateranense ed esempio primario di quel renouveau du paléochrétien (Toubert, 1970) che impronta anche tutta l'architettura.Al polito e compatto semicilindro esterno dell'abside di S. Clemente si contrappone l'abside di S. Maria in Trastevere, scandita da allungate arcature profilate da paraste, riverberi di esperienze padane; nell'interno, nella struttura trabeata del colonnato, simile per impostazione a quello elaborato nel sec. 5° a S. Maria Maggiore, e nel transetto sopraelevato e passante, derivato dal S. Pietro con il tramite dell'abbazia di Montecassino, tornano però netti i caratteri del renouveau du paléochrétien. Gli anni del rifacimento della chiesa trasteverina, che aveva origini paleocristiane, sono discussi. Da una parte vari elementi vedono un forte interessamento alla chiesa durante il pontificato di Callisto II (1119-1124), quando il titolo cardinalizio di S. Maria in Trastevere fu affidato a Pietro Pierleoni, cardinale appartenente a una potente famiglia di origine ebraica, poi eletto con il nome di Anacleto II antipapa di Innocenzo II. In quel momento la chiesa fu interessata dall'attribuzione dell'importante festività della Circoncisione, precedentemente privilegio di S. Maria ad Martyres, e strettamente connessa con la festività del Presepe che si festeggiava a S. Maria Maggiore: non è un caso che questa basilica assuma il valore di modello per parti come il colonnato trabeato della chiesa trasteverina. Il legame tra Anacleto II e S. Maria in Trastevere è attestato anche dal fatto che negli affreschi della cappella di S. Nicola nel patriarchio lateranense, da lui commissionati, comparisse tra le immagini di Callisto II e dello stesso Anacleto l'effigie della Madonna della Clemenza, l'icona venerata nella basilica trasteverina (Parlato, Romano, 1992). D'altro canto però due importanti testimonianze costituite dal Necrologio di S. Maria Maggiore e dal Liber politicus di Benedetto Canonico, datato al 1143, concordano nel riferire l'impresa di rinnovamento della chiesa a Innocenzo II che "novis muris funditus restauravit et absidem aureis metallis decoravit" (Kinney, 1975). Altre testimonianze, come l'epitaffio del pontefice, lapide murata nel portico della stessa basilica, gli riferiscono ugualmente la ricostruzione dell'edificio, i cui lavori, secondo quest'ultimo documento iniziati nel 1140, si sarebbero conclusi nel 1148, cinque anni dopo la morte di Innocenzo II (Kinney, 1975), forse a cura del fratello Pietro Papareschi, dal 1142 vescovo di Albano. Krautheimer (1980) ipotizza invece che i lavori di ricostruzione fossero già stati iniziati al tempo di Anacleto; essi avrebbero potuto essere stati portati a termine da Innocenzo II, della potente famiglia trasteverina dei Papareschi, che ne avrebbe fatto monumento del suo trionfo al momento del suo ritorno a R. dopo la morte di Anacleto (Parlato, Romano, 1992).Agli anni di Pasquale II va invece ancora riferito l'intervento nella chiesa monastica dei Ss. Quattro Coronati, edificio carolingio incendiato durante le devastazioni del 1084 delle truppe di Roberto il Guiscardo. La consacrazione della nuova chiesa avvenne nel gennaio 1116; la grande basilica carolingia, forse per l'impossibilità di trovare le lunghe travi necessarie per ricoprire l'ampia luce dello spazio centrale, fu decisamente rimaneggiata (Krautheimer, Frankl, Corbett, 1937-1976, IV; Krautheimer, 1980): la nuova chiesa a tre navate con transetto occupa infatti solo lo spazio terminale della primitiva navata centrale. Le tre navate furono segnate da cinque arcate su capitelli e colonne di spoglio; su di esse di impostano due trifore più piccole, separate da un pilastro, che diedero vita a una galleria non praticabile. Sul fianco sinistro della chiesa, nella stessa campagna di lavori, si eresse il monastero, dove alcuni elementi architettonici, come i piccoli oculi ora tamponati del fianco ovest, attestano significative vicinanze con gli analoghi elementi già presenti nella navata di S. Clemente (Krautheimer, Frankl, Corbett, 1937-1976, IV; Krautheimer, 1980). Il piccolo chiostro, restaurato con numerose integrazioni da Muñoz (1914), è stato riferito dallo stesso Muñoz ai primi decenni del Duecento e attribuito a quel Pietro de Maria che lasciò la sua firma nel quadriportico dell'abbazia di Sassovivo, ipotesi recentemente accolta anche da Claussen (1987): nel 1138 Innocenzo II aveva affidato il monastero dei Ss. Quattro Coronati ai benedettini di Sassovivo, i quali avevano stipulato un contratto di lavoro 'in esclusiva' con il marmoraro romano, impegnandolo a lavorare solo per l'abbazia umbra o per la sua dipendenza romana.
Al periodo di Pasquale II sono assegnati numerosi altri interventi che, sia pure in molti casi stravolti in tutto o in parte da interventi successivi, attestano la qualità e l'impegno costruttivo che caratterizzarono i primi decenni del 12° secolo. Intorno al 1100 le reliquie di s. Prisca furono trasferite dalle antiche strutture del titulus eponimo al nuovo edificio, un'ampia basilica che oggi, dopo i restauri seicenteschi, si presenta notevolmente ridotta di lunghezza. L'edificio di Pasquale II era una basilica trinave con colonne, di cui sopravvive, oltre all'impianto generale, l'abside in opera listata mista di laterizi e peperino.Anche l'antico titulus di S. Lorenzo in Lucina fu coinvolto in questo intenso programma di intervento sulle strutture paleocristiane: i vandalismi normanni del 1084 avevano toccato anche questo edificio del Campo Marzio, dove si veneravano importanti reliquie del protomartire romano. Nel 1112 la graticola e le ampolle con il sangue del martire furono oggetto di ricognizione e forse da quel momento prese il via l'intervento architettonico che portò alla consacrazione del 1130 a opera dell'antipapa Anacleto II; nel 1196 Celestino III, forse al termine della campagna costruttiva del portico e del campanile, consacrò nuovamente la chiesa. Anche qui una serie di interventi cinque-seicenteschi ha alterato gli spazi, ripristinati nel 1858 secondo presunti modelli medievali dall'architetto Andrea Busiri Vici, autore anche dell'interpretazione medievale di S. Maria in Cappella. Le ricerche di Krautheimer (Krautheimer, Frankl, Corbett, 1937-1976, II) consentono di recuperare il volto della chiesa del sec. 12°, una basilica trinave con arcate su pilastri desinente in un'abside rialzata. L'analisi condotta sulla parte alta esterna delle navate ha permesso a Krautheimer di attribuire all'intervento del sec. 12° il piano delle monofore incorniciate da ampie arcate cieche; questa sottile modulazione della parete, rinvenibile a R. solo nell'abside di S. Maria in Trastevere, se ha portato lo studioso a riferimenti alla contemporanea architettura ravennate, ha correttamente richiamato anche esperienze romanico-lombarde (Parlato, Romano, 1992).Il nome di Pasquale II è legato anche alla consacrazione di S. Maria in Monticelli, che ebbe però una seconda consacrazione nel 1143 alla presenza di Innocenzo II; questa data segnerebbe il via di un radicale rinnovamento dell'edificio, della cui facies medievale, una struttura a tre navate divise da arcate su colonne con abside mosaicata, facciata porticata e campanile, sopravvive solo quest'ultimo, riferito al tempo di Pasquale II da Priester (1990), non senza difficoltà (Parlato, Romano, 1992). Il presbitero Teobaldo, cardinale dei Ss. Giovanni e Paolo durante il pontificato di Pasquale II, promosse interventi di ammodernamento nella basilica di cui era titolare, anche in questo caso una struttura che affondava le sue radici nei primissimi tempi della cristianità romana: si trattava infatti del titulus Pammachii. Prandi (1953) ha riferito all'intervento di Teobaldo il primo nucleo del monastero e i primi due ordini della torre campanaria. Al cantiere concluso nel 1157, promosso dal cardinale Giovanni dei conti di Sutri, cardinale della basilica a partire dal 1145 al 1178, sono invece da riferire, secondo Prandi (1953), le trasformazioni della struttura paleocristiana, che vide ridotte le finestre sia della facciata sia delle navate, la costruzione del portico architravato, nonché il completamento del campanile, prossimo per forme decorative a quelli di S. Maria Nova (Serafini, 1927), di S. Maria in Trastevere e di S. Croce in Gerusalemme (Priester, 1990). Una terza campagna di lavori, tra il 1199 e il 1216, va poi riferita a Cencio Savelli, il futuro Onorio III (1216-1227): essa interessò sia la zona presbiteriale, con il rifacimento della parte superiore esterna dell'abside, coronata da una galleria ad arcatelle di netta matrice romanico-lombarda, sia la facciata, con la sovrapposizione al portico della galleria di collegamento tra il monastero e la chiesa.
L'iscrizione sul portale di S. Bartolomeo all'Isola data al 1113 l'interesse di Pasquale II per questo edificio, rimodellato con segni di novità rispetto ai consueti assetti romani: la conclusione è triabsidata su presbiterio rialzato di cinque gradini rispetto alle navate, separate da arcate su colonne di spoglio. Pertinente alla precedente storia dell'edificio è invece la cripta sottostante al presbiterio. I lavori dovettero però protrarsi, se una visita apostolica del 1701 (Claussen, 1987) menzionava una lapide, ora scomparsa, che datava la conclusione dei lavori al 1180 a opera del marmoraro Nicolò d'Angelo; a quel momento è da riferire il campanile.
Attribuita sempre al periodo di Pasquale II per confronti con i primi due ordini del campanile dei Ss. Giovanni e Paolo è poi l'analoga struttura di S. Cecilia (Priester, 1990), dove gli interventi sull'edificio carolingio di Pasquale I (817-824) videro, nel corso del sec. 12°, l'anteporsi alla facciata del portico, decorato da una fascia mosaicata con figure di santi, affiancato dal campanile, nonché l'inserzione del chiostro, oggi molto alterato e riferibile alla metà del secolo (Parlato, Romano, 1992).Nel fervore di imprese architettoniche che segnò i primi decenni del secolo, un ruolo di primo piano è assunto dal cantiere di S. Maria in Cosmedin, concluso con la consacrazione nel 1123 da parte di Callisto II. L'antica diaconia, interessata già in periodo carolingio da un intervento di ampliamento, deve la sua nuova veste a uno dei protagonisti del rinnovamento classicistico dell'architettura romana, il camerario Alfano, la cui tomba nel portico della chiesa e la relativa iscrizione testimoniano la ricchezza di riferimenti classici della sua cultura (Stroll, 1991). Nonostante il restauro operato alla fine del secolo scorso da Giovanni Battista Giovenale abbia pesantemente connotato gli spazi della chiesa dell'interpretazione ottocentesca del Medioevo, quando non addirittura della sua reinvenzione, è ancora possibile leggere la qualità dell'intervento di Alfano, che aveva firmato il cantiere, lasciando testimonianza del suo nome sulla cattedra episcopale, sul pavimento e sull'altare. Si creò uno spazio basilicale, scandito da arcate su colonne alternate a pilastri, nel rapporto di 3:1, secondo la soluzione di S. Clemente e dei Ss. Quattro Coronati, ma caratterizzato, rispetto a quest'ultimo, dalla rinuncia all'articolazione della parte superiore delle pareti della navata centrale in favore della creazione di ampie superfici da destinare alla decorazione pittorica. Ciò avvenne murando le gallerie della navata centrale inserite dall'ampliamento carolingio delle strutture dell'antica diaconia. Più volumetricamente articolata appare la soluzione della parte occidentale dell'edificio, dove le preesistenze tardoantiche, inglobate forse nel sec. 6° nella diaconia e definite da Krautheimer (Krautheimer, Frankl, Corbett, 1937-1976, II) come 'la loggia', furono inserite in un nartece a due piani, preceduto da un protiro su quattro colonne. Lo slanciato campanile è frutto invece di un intervento successivo, ma comunque sempre definibile all'interno del sec. 12° (Poeschke, 1988). Il 1123, che aveva visto la consacrazione di S. Maria in Cosmedin, data anche la conclusione degli interventi di Callisto II in S. Agnese in Agone; pesantemente segnato nelle fasi costruttive della soprastante chiesa borrominiana, lo spazio di questa sorta di cripta rivela ancora la presenza di campate scandite da colonne e pilastri.
Pochi anni dopo un'altra antica chiesa romana, S. Crisogono, fu oggetto di un intervento simile a quello di S. Clemente: le strutture del sec. 5° furono interrate sotto il nuovo edificio, che in questo caso mantenne le dimensioni di quelle sottostanti. Promotore ne fu Giovanni da Crema, un altro protagonista della riforma: l'altare fu dedicato nel 1127 e i lavori si conclusero nel 1129, come attesta la lunga epigrafe posta nel transetto, che ricorda la committenza di Giovanni da Crema non solo nella fase costruttiva, ma anche in quella di decorazione della basilica, di cui era stato nominato titolare da Pasquale II. Tre navate con colonne architravate si connettono tramite due preziose colonne di porfido al transetto e al presbiterio, entrambi rialzati, ricalcando, anche nel particolare delle colonne di porfido, il modello dell'abbazia di Montecassino, a sua volta improntata alla paleocristiana S. Paolo f.l.m. (Poeschke, 1988). Il portico architravato, documentato dall'incisione del 1588 di Girolamo Francino, fu completamente trasformato nel corso dei restauri di Giovanni Battista Soria (1620-1626) che interessarono anche la facciata. La pertinenza del campanile alla fase dei lavori promossi da Giovanni da Crema (Poeschke, 1988) è discussa da Priester (1990), che ne ipotizza per contro una datazione ai primi del Duecento. Al primo quarto del secolo viene anche riferito l'intervento sulla chiesa di S. Benedetto in Piscinula, mentre al 1141 un'epigrafe pone la consacrazione della chiesa dei Ss. Michele e Magno alla presenza di Innocenzo II.In questo contesto culturale, sostanzialmente e omogeneamente improntato dallo spirito della renovatio, l'evento Tre Fontane appare quasi deflagrante. Nel sito presso la via Laurentina i Cistercensi arrivarono nel 1140, chiamati a R. da Innocenzo II, dando origine "all'unica abbazia di san Bernardo fondata contro la volontà di san Bernardo" (Romanini, 1994). Mai infatti egli avrebbe voluto per i suoi monaci un insediamento alle porte di quella spelunca latronum, centro di corruzione dalla quale veniva messo in guardia il già ricordato Bernardo Paganelli, divenuto papa Eugenio III. Lo studio di Romanini (1994) si è fondato su un completo riesame delle strutture murarie e sull'indagine di scavo in punti chiave della struttura, potendo così, non solo confermare ipotesi precedentemente avanzate (Romanini, 1975; 1982), ma acquisire anche molti nuovi dati. Si sono potute leggere con chiarezza sia le preesistenze riferibili all'insediamento del sec. 7° dei monaci ciliciani sia tutta la serie di interventi predisposti da Innocenzo II per ospitare la nuova comunità, strutture sulle quali i nuovi arrivati, fedeli fino all'integralismo all'estetica bernardina, applicarono con assoluta fedeltà il modello architettonico elaborato a Clairvaux, potando radicalmente quanto poteva anche minimamente non rientrare in esso (v. Cistercensi), ma non riuscendo però a evitare qualche evidente anomalia della costruzione, particolarmente evidente nel disassamento tra gli edifici monastici del lato orientale e la contigua parte della chiesa. Il manifesto di questo conflitto è rappresentato dalla parete settentrionale del transetto, segnata per tutta la sua altezza dal contrasto nettissimo di due diverse strutture murarie, una in opus listatum, corrispondente agli edifici riattati da Innocenzo II in vista dell'arrivo dei Cistercensi, l'altra in laterizio, relativa alla prima fase edilizia dell'abbazia secondo le norme del progetto bernardino. In questa fase, con accenti assolutamente borgognoni, totalmente estranei alla lingua romana, fu eretto con laterizi di spoglio un classico capocroce bernardino di 'tipo piccolo' (due cappelle per parte ai lati del coro). La serie di interventi che ha segnato le cappelle che affiancano il coro a S rende impossibile ogni loro lettura architettonica; tutt'altra è la situazione delle cappelle che affiancano il coro a N, coperte da volte a botte longitudinale, purissime testimonianze delle fase bernardina dell'architettura cistercense.Lo studio di Romanini (1994) ha scandito i tempi di crescita della chiesa e del monastero, lenti e faticosi nella prima durissima fase di vita nel luogo, più spediti in seguito, fino alla consacrazione della chiesa nel 1221. Al blocco del capocroce e dei contigui edifici monastici, venne agganciata, nella seconda fase dei lavori, tra il 1153 e il 1161, la lunga navata dalle lisce pareti in cotto, coperta da una volta a botte che dovette ben presto crollare, non molto al di là della fine del sec. 12°, e fu sostituita dalla copertura a tetto, soluzione che ancora oggi qualifica l'alto spazio della navata. Anche il blocco degli edifici monastici è segnato dalla stessa lentissima crescita: dalla costruzione del primo nucleo necessario alla vita dei primi monaci, dalla prima sala capitolare al dormitorio al braccio orientale del chiostro, fino al completamento di tutte le strutture specifiche di un impianto monastico cistercense, all'ampliamento, nella terza fase costruttiva, tra il 1185/1191 e il 1221, delle prime strutture (sala capitolare e dormitorio) per le necessità di una comunità che, superate le enormi difficoltà degli inizi, si era poi stabilizzata e ampliata, inserendosi nell'alveo della struttura politico-sociale e culturale romana. Segno di questo definitivo inurbamento è il portico anteposto nei primi decenni del sec. 13° alla facciata e di netta impronta romana: i raffronti vanno da S. Giorgio in Velabro a S. Lorenzo fuori le mura. I confronti con le parti più antiche - il braccio nord del transetto e le due cappelle che vi prospettano - documentano in pietra la storia della comunità, dall'iniziale radicale, ostentato e certo difficilissimo rifiuto all'adeguamento consapevole e quasi compiaciuto delle strutture appunto del portico. I capitelli, modellati su tipologie antiche dalle botteghe di marmorari romani, e simili a decine di altri capitelli del primo Duecento, sono l'assoluta alterità rispetto a quelli della prima sala capitolare che, come ha indicato Romanini (1975; 1982; 1994), rappresentano il confronto tra i modelli della R. classica e la ratio cistercense che agisce sulle strutture formali del modello, potandole dell'inessenziale e modificandole secondo un rigido modello geometrico.I due poli culturali, Cistercensi e R., sembrano dunque essere rimasti sostanzialmente reciprocamente impermeabili fino ai primi decenni del Duecento, anche se maestranze romane dovettero lavorare sui ponteggi della navata delle Tre Fontane (Romanini, 1994). L'architettura romana sembra guardare al cantiere cistercense solo nei primi decenni del sec. 13°, derivandone elementi elaborati quasi un secolo prima, come la volta a botte spezzata delle cappelle laterali del transetto nord, che viene adottata nella cappella di S. Silvestro, eretta a partire dal quarto decennio nel Duecento nel palazzo che il cardinale Stefano Conti si era fatto costruire nel complesso dei Ss. Quattro Coronati.La chiamata a Roma di ordini religiosi stranieri, come i Cistercensi, si estese nel 1145 ai Cluniacensi, che si stanziarono in città nell'antico monastero di S. Saba, lasciato da una comunità greca. L'oratorio a navata unica fu ampliato e trasformato, pur mantenendo in parte le murature della chiesa precedente, in una chiesa a tre navate; il portico dell'antico edificio fu successivamente chiuso e ne fu ricavata la c.d. quarta navata, una sorta di allungata cappella laterale. I lavori dovettero protrarsi a lungo, se nel 1205 Iacobus, figlio di Lorenzo, firmava il portale e forse, secondo Claussen (1987), anche il portico, rimaneggiato poi a partire dal Quattrocento.Il riuso di straordinari spolia classici caratterizza ormai alla soglia del nuovo secolo il restauro dell'edificio carolingio di S. Stefano degli Abissini; pesanti interventi seriori hanno interessato l'edificio, rendendo tutt'altro che piana la sua analisi architettonica (Krautheimer, Frankl, Corbett, 1937-1976, IV). Alla chiesa era anteposto un portico su colonne; nel portale ancora in situ gli stipiti e l'architrave sono realizzati con lastre classiche rilavorate e riscolpite, con un singolare effetto di sintesi tra ductus classico e linearismo medievale che si rivela a pieno nella figura dell'Agnus Dei al centro dell'architrave.Un'altrettanto interessante, anche se diversa, manipolazione di materiali classici è quella attuata nel portale dei Ss. Bonifacio e Alessio, dove materiali tardoantichi sono stati messi in opera integrati con una fascia cosmatesca a intarsi verde e viola. Della struttura della chiesa medievale è superstite solo la cripta a oratorio, legata agli avvenimenti che portarono intorno al 1217 al rinvenimento delle reliquie dei santi titolari, alla riconsacrazione della chiesa a opera di Onorio III e alla decorazione della cripta con il sacello dedicato a s. Tommaso Becket e con un ciclo di affreschi, commissionati dal cardinale benedettino Pelagio Calvani (Parlato, Romano, 1992).Gli interventi a S. Giorgio in Velabro e a S. Lorenzo f.l.m. si collocano entrambi al valico tra i secc. 12° e 13°: nel primo caso la chiesa, fondata nel sec. 7°, ebbe un intervento che in parte coinvolse sia le strutture murarie sia l'arredo liturgico, con la costruzione di un ciborio che siglava la ristrutturazione della zona dell'altare. L'esito più evidente dei nuovi lavori fu però la costruzione del campanile e del portico, entrambi riferibili agli inizi del Duecento, anche se a due fasi costruttive diverse. La costruzione del portico, come attesta l'epigrafe, fu promossa dal priore della chiesa Stefano, originario di Stella, una località campana che aveva visto interventi di Pietro Capuano, dal 1219 cardinale titolare di S. Giorgio in Velabro. A S. Lorenzo gli interventi erano già iniziati nel 1148 con la costruzione del ciborio dell'altare maggiore nella chiesa eretta da papa Pelagio I (556-561); tra il 1189 e il 1191 Clemente III aveva fatto costruire il complesso monastico, ma l'intervento, o meglio gli interventi che modificarono completamente l'assetto dell'antica chiesa vanno riferiti a Cencio Savelli, dal 1191 cancellarius della chiesa. Il progetto, realizzato entro il 1217, quando nella nuova chiesa fu incoronato re di Costantinopoli Pierre de Courtenay, prevedeva la trasformazione dell'antica basilica pelagiana in presbiterio con deambulatorio del nuovo edificio, un allungato spazio trinave su colonne di spoglio architravate. I capitelli ionici sono stilisticamente prossimi a quelli del portico, realizzato dai Vassalletto in date vicine quelle di costruzione della navata.Il portico anteposto a S. Giovanni in Laterano è riferito dall'iscrizione a Nicola d'Angelo in anni tra il 1187 e il 1198 (Herklotz, 1989); nelle testimonianze iconografiche pervenute, in particolare l'incisione di Ciampini (1693, tav. I), esso rivela caratteri maturi, prossimi alla decorazione vassallettiana del chiostro; ciò potrebbe confortare l'ipotesi della realizzazione dell'opera in fasi diverse e della sua conclusione intorno al secondo decennio del Duecento (Pistilli, 1991).
Secolo 13°. - Il passaggio verso il nuovo secolo è segnato dalla figura di Innocenzo III (1198-1216); puntuale descrizione degli eventi del suo pontificato e delle sue imprese è data dai Gesta Innocentii (PL, CCXIV), una biografia scritta nell'ambito della Curia romana per narrare le gesta di un papaimperatore (Iacobini, in corso di stampa). Già come cardinale Lotario dei conti di Segni si era impegnato nel restauro della chiesa dei Ss. Sergio e Bacco, di cui era stato nominato titolare nel 1190. L'aspetto esterno della chiesa, demolita intorno al 1560, è noto da disegni come quello eseguito nel 1535 da Marten van Heemskerck, che presentano una chiesa a navata unica preceduta da un portico architravato. I Gesta Innocentii riferiscono che i lavori si svolsero in due tempi, uno tra il 1190 e il 1192, il secondo dopo il 1198, dopo l'inizio del pontificato di Innocenzo III: nella prima fase si provvide a restaurare un edificio quasi in rovina, nella seconda vennero aggiunti il campanile e il portico, in forme simili a quello di poco successivo di S. Giorgio in Velabro, ma con elementi strutturali, quali la presenza della colonna tra i pilastri del fianco, che lo avvicinano a portici di edifici fuori della città, come quello dell'edificio cistercense di S. Maria di Palazzolo sul lago di Albano (Iacobini, in corso di stampa). Le committenze architettoniche direttamente legate al pontefice sono molte, anche fuori di R. e connesse alla politica innocenziana di salda organizzazione del patrimonio della Chiesa; in città uno degli interventi più clamorosi è peraltro legato alla volontà di affermare anche visivamente il potere della sua famiglia, i Conti, estranea alla tradizione nobiliare romana, derivando il suo potere dai territori della Campagna nel Lazio meridionale.
La costruzione della torre dei Conti, quasi un donjon al centro delle proprietà della famiglia estese sulle pendici sudoccidentali del Quirinale fino a Magnanapoli, era certamente conclusa entro il 1203, quando fu attaccata dalle fazioni avversarie, guidate da Giovanni Capocci; oggi ne sopravvive poco più della metà del solo pianterreno, fondato su un muro a scarpa a fasce bicrome di selce e calcare, addossatole in un momento di poco successivo, forse dopo il 1209 (Pistilli, 1991). La struttura, "turris toto orbe unica" (Petrarca, Familiares, XI, 7) e la cui immagine, già privata del fastigio crollato in seguito al terremoto del 1348, è tramandata da vari disegni rinascimentali (tra gli altri le cc. 40v e 57v del Codex Escurialensis; Escorial, Bibl., 28 II 12), era costituita da tre blocchi parallelepipedi sovrapposti con un raccordo 'a cannocchiale'. Le pareti esterne erano articolate al piano terreno da una profonda contraffortatura ad arconi con torrette angolari finestrate; il mediano presentava invece spigoli stondati e leggeri contrafforti verticali con archetti pensili.L'altura di Magnanapoli era invece controllata da un palazzo affiancato da un'altissima torre in laterizio, la torre delle Milizie, alta m 50 ca., che nel corso del Duecento venne rinforzata con due piani di grandezza decrescente, assumendo anch'essa un andamento 'a cannocchiale' (Bernacchio, 1994), secondo l'immagine dell'Ytalia di Cimabue (Assisi, S. Francesco, basilica superiore, volta degli Evangelisti).
Dopo aver costruito con i fondi della Chiesa l'imponente palazzo di famiglia, Innocenzo III, quasi in riparazione, fondò, attingendo ora alle sue finanze personali, l'ospedale di Santo Spirito, che fu eretto tra il 1198 e il 1201; la costituzione di una struttura sanitaria presso il Vaticano va inserita nel piano di qualificazione della zona che, nello stesso periodo, si concretò nella nascita della nuova residenza papale. Il tradizionale e storico polo del patriarchio lateranense venne spostato verso la basilica di S. Pietro, dove l'iscrizione del nuovo mosaico, commissionato da Innocenzo III, raffigurato in posizione centrale, qualificando la basilica come Mater cunctarum ecclesiarum, sintetizzava la politica innocenziana in favore di S. Pietro e a scapito di S. Giovanni in Laterano.Compiuto intorno al 1208, il palazzo papale, ampliato da Niccolò III (1277-1280) e poi inglobato negli attuali palazzi Vaticani (Steinke, 1984), era costituito da edifici diversi e con ben distinte funzioni, dislocati a blocchi separati sia sulla collina del Mons Saccorum, dove era stato ampliato il palatium novum di Eugenio III, sia in basso tra la basilica e il predetto rilievo (Iacobini, in corso di stampa). Ne sopravvive, al di sotto della sala Regia, la Marescalcia, una grande aula di otto campate voltate a crociera, che rivela affinità con lo spazio della sala capitolare delle Tre Fontane (Pistilli, 1991). Discussa, anche se sostanzialmente riconfermabile (Iacobini, in corso di stampa), è l'attribuzione al cantiere protoduecentesco del blocco costituito dall'Aula tertia e dall'attigua torre.Il patriarchio lateranense non fu però abbandonato: sempre secondo i Gesta Innocentii, i muri perimetrali vennero contraffortati e infatti testimonianze grafiche anteriori alle demolizioni cinquecentesche attestano la presenza di contrafforti archeggiati su due piani, simili al sistema della torre dei Conti (Iacobini, in corso di stampa). L'interesse per le strutture assistenziali, venne ribadito con la fondazione ospedaliera di S. Tommaso in Formis, sul colle Celio. L'antico monastero benedettino fu donato intorno al 1209 ai Trinitari, ordine fondato da Giovanni de Matha, che morì nel 1213 proprio nel monastero romano. Ne rimane oggi, oltre alla chiesetta, solo il prospetto esterno con il portale e il mosaico firmato da Jacopo di Lorenzo e da suo figlio Cosma.Anche i cardinali della Curia romana parteciparono attivamente al nuovo clima del periodo innocenziano; oltre a Cencio Savelli, impegnato, come si è visto, ai Ss. Giovanni e Paolo e a S. Lorenzo, è da segnalare l'attività di Pietro Capuano per la basilica di S. Paolo f.l.m. prima e poi per S. Giorgio in Velabro. Nella basilica ostiense tra il 1208 e il 1214 promosse la costruzione dei bracci est, sud e ovest del chiostro, che fu completato solo una quindicina d'anni dopo dalla stessa bottega dei Vassalletto che aveva, tra il 1216 e il 1230, concluso i lavori del chiostro di S. Giovanni in Laterano.La fine del pontificato di Innocenzo III aveva visto i primi passi a R. di nuovi ordini religiosi: nel 1215 s. Domenico aveva presenziato al concilio lateranense e una prima comunità femminile, che a lui faceva riferimento, venne costituita presso S. Sisto. L'edificio venne trasformato in un'ampia navata unica, eliminando le laterali, nettamente rialzato e dotato di una nuova facciata, applicata alla precedente; tra il 1215 e il 1221 fu inoltre costruito il campanile. Intanto, sotto il pontificato di Onorio III (1216-1227), presso l'antica basilica di S. Sabina e la fortezza della famiglia del pontefice, i Savelli, si determinarono le strutture per ospitare il convento dei Domenicani, che venne loro donato dal pontefice nel 1222. L'impianto, ancora legato alla tradizione monastica, attesta sia nei caratteri costruttivi sia nella decorazione dei capitelli del chiostro, prossimi anche a quelli della sala capitolare di S. Sisto, la presenza di maestranze aggiornate nei cantieri cistercensi, in particolare quelli del Lazio meridionale, Fossanova e Casamari in primis (Pistilli, 1991). Diverso, anche se parallelo, è il risultato dell'insediamento dei Francescani; gli ambienti presso l'ospedale di S. Biagio, di proprietà dei Benedettini di S. Cosimato, che avevano ospitato S. Francesco nei suoi soggiorni romani, furono, secondo la tradizione, concessi ai Francescani nel 1219, grazie ai buoni uffici di Jacopa dei Settesoli, nobildonna della famiglia degli Anguillara e amica del santo. Della struttura medievale sono superstiti pochi lacerti, riconoscibili in parti dell'antico ospizio benedettino e dei locali di pertinenza (Righetti Tosti-Croce, 1978a). La chiesa, alterata da interventi successivi, è oggi solo ricostruibile grazie alla descrizione del 1588 di Pompeo Ugonio (Roma, BAV, Vat. lat. 1994, c. 590) e ad alcune testimonianze grafiche: si trattava di un edificio monoabsidato a tre navate, con transetto non sporgente che forse ricalcava lo schema di un edificio precedente. La novità nel panorama romano è costituita dal tipo di copertura, a travatura lignea sulle navate e a crociera sopra il transetto, che propone in data abbastanza precoce, anche se non definibile ad annum, una soluzione cara al mondo francescano (Righetti Tosti-Croce, 1978a). Nella prima metà del secolo i Francescani (v.), seguendo un'ormai bene indagata prassi insediativa centripeta, che dall'esterno delle città li portava in pochi decenni a privilegiare sedi poste dapprima all'interno delle mura, e poi nel cuore dell'attività politica ed economica dei vari centri urbani, si erano stanziati anche a R. all'interno della cinta muraria, presso la porta Flaminia; ne è testimonianza la terminazione absidale della chiesa di S. Maria del Popolo, oggi trasformata in transetto sinistro dell'edificio, costruita in stretta aderenza alle mura urbiche. Nel 1250 la chiesa venne ceduta agli Agostiniani, perché nel 1249, quando Innocenzo IV aveva concesso ai Francescani l'antico monastero benedettino di S. Maria in Capitolio, già attestato al tempo di Gregorio III (731-741), si concretizzava il definitivo processo di insediamento dei Francescani nel cuore della città, accanto alle strutture che rappresentavano il potere urbano. Esse peraltro nello stesso periodo stavano acquistando nuova visibilità e nuova forma architettonica grazie al momento di particolare fortuna delle sorti del Comune, retto come senatore dal 1252 al 1258 da Brancaleone degli Andalò, personaggio di origine bolognese, la cui scelta alla più importante carica cittadina aveva rotto la tradizione che vi vedeva sempre eletti membri delle più importanti famiglie romane.Una serie di notizie della metà del sec. 12° già attesta la presenza di un palazzo comunale sorto sopra le strutture classiche della Camellaria. Il nuovo palazzo comunale, forse un ampliamento del primo (ma si impongono nuove indagini architettoniche e archeologiche) fu eretto comunque prima del 1257, quando si menzionano un palatium vetus e un palatium novum, sulla base dei modelli dei palazzi comunali dell'Italia settentrionale. Ancora oggi le antiche strutture sono parzialmente leggibili dietro la quinta architettonica sovrappostavi da Michelangelo: si tratta di un allungato blocco a parallelepipedo scandito al primo livello da una cornice aggettante ad archetti acuti; in alto il fianco presentava una conclusione con un motivo a gradinatura, secondo l'immagine riportata nella rappresentazione assisiate dell'Ytalia di Cimabue. Le modifiche alla struttura originaria iniziarono però già sul finire del sec. 13°, quando nel 1299 gli venne aggiunto un lobium: secondo Pietrangeli (1960) la serie di arcature visibile all'interno dell'attuale sala consiliare, secondo altri (Romano, 1994) una struttura al secondo piano del palazzo di cui rimane testimonianza in un pilastro ottagonale. Nel 1300 per volere di Bonifacio VIII sul fianco fu innestata una torre, nel 1344 Cola di Rienzo rinforzò le difese del palazzo e infine, tra il 1389 e il 1404, Bonifacio IX aggiunse altre torri alla parte prospiciente il Foro.Sul luogo della chiesa di S. Maria in Capitolio nella seconda metà del secolo si sviluppò il cantiere della nuova chiesa francescana di S. Maria in Aracoeli, dando vita a un edificio dai caratteri complessi e che bene rappresenta la vitalità e i caratteri dell'architettura gotica romana: se infatti l'impianto appare a prima vista legato alla tradizione romana delle basiliche a tre navate su colonne di spoglio, molti altri elementi testimoniano il carattere sperimentale del cantiere, che diventa terreno di innesto e sviluppo di linguaggi del tutto nuovi per la città. L'inserzione del grande transetto, siglato all'esterno destro dagli stemmi dei Savelli, che ne fecero sede delle sepolture della famiglia, può essere certamente derivata da modelli romani, come il S. Pietro, ma più verosimilmente attesta il segno dell'influsso della basilica di S. Francesco ad Assisi (Malmstrom, 1973), a sua volta però modellata per questa parte sul prototipo paleocristiano, e in particolare conferma la presenza in Roma di quei forti accenti mendicanti imposti dall'intervento di Niccolò IV (1288-1292) in S. Maria Maggiore (Righetti Tosti-Croce, 1987). Il tipo della conclusione absidale esterna, pentagonale e desinente nella parte superiore con un sistema di cuspidi triangolari, probabilmente traforate (Bolgia, 1999), appare invece assolutamente inedito nel panorama romano e prossimo piuttosto a realizzazioni fiorentine, come l'abside di Santa Croce, realizzata sul finire del Duecento e legata ad Arnolfo di Cambio (Romanini, 1969). L'intervento dell'artista, già individuato nel cantiere aracoelitano (Romanini, 1969), trova così nuove conferme, anche per gli evidenti confronti tra i gâbles dell'abside dell'Aracoeli e le analoghe soluzioni dei cibori di S. Paolo f.l.m. (1285) e di S. Cecilia in Trastevere (1293).Gli anni ottanta del secolo vedono il linguaggio artistico romano procedere nettamente nell'acquisizione e nell'elaborazione delle novità architettoniche più interessanti; esse non riguardano solo l'architettura in senso stretto, ma si ampliano a coinvolgere l'intera complessità dello spazio costruito, inclusa la sua decorazione. Monumento cardine di questa svolta è sicuramente il Sancta Sanctorum, edificato per volere di Niccolò III all'interno del patriarchio lateranense, sul luogo dell'antica cappella privata dei pontefici, in rovina probabilmente a causa dei terremoti, ultimo quello del 1277, che più volte, nel corso del Duecento, colpirono la città (Righetti Tosti-Croce, 1991; Gardner, 1995). Su un impianto di base quadrato, connesso a una piccola scarsella rettangolare, si imposta una struttura articolata in tre fasce: a un'alta parete foderata di marmi di spoglio segue una finta loggia con archetti trilobi sorretti da colonnine tortili, abitata da figure di santi ridipinte nel corso dei lavori promossi da Sisto III tra il 1585 e il 1590, e poi, ai lati delle allungate finestre archiacute, la parete delimitata dai costoloni della volta e interamente ricoperta da affreschi. Una lapide accanto all'ingresso riferisce l'intervento nei lavori di un Magister Cosmatus, ma non è precisamente definibile se il suo impegno vada individuato nella decorazione di pavimento e pareti o vada esteso a tutta la costruzione della slanciata struttura dell'edificio. All'esterno della cappella, sulle cornici delle finestre, sono stati infatti individuati segni lapidari tipici delle maestranze provenienti dai cantieri cistercensi (Romanini, 1982), la cui presenza può meglio chiarire la genesi e i caratteri di questo primo spazio autenticamente gotico della R. duecentesca. La decorazione pittorica del Sancta Sanctorum affronta per la prima volta in ambito romano il problema di creare uno spazio illusivo che annulli il limite materiale della parete; è evidente lo sforzo del pittore più qualificato di questa bottega, autenticamente romana, per risolvere questa esigenza. In alcune scene, come quella della Presentazione a Cristo in trono da parte di Niccolò III del modellino del Sancta Sanctorum, egli riesce a creare con accenni di prospettiva e scorci arditi l'impressione di uno spazio sfondato e articolato in profondità. Il modellino dell'edificio è tra l'altro un documento importante di architettura raffigurata, utile per reintegrare l'immagine di questo edificio, oggi inglobato nel complesso della Scala Santa costruito nel Cinquecento da Domenico Fontana.Nel 1280 Niccolò III intervenne per sollecitare gli aiuti promessi dal Comune di R. in favore del cantiere già iniziato della chiesa domenicana di S. Maria sopra Minerva (Palmerio, Villetti, 1989; Kleefisch-Jobst, 1991), la cui prima redazione prevedeva un allungato corpo longitudinale con navate quasi alla stessa altezza coperte a tetto e una terminazione orientale molto articolata: la cappella absidale poligonale 5/8 (Pasti, 1983) era affiancata da due allungate cappelle rettangolari, coperte da doppia crociera, a loro volta seguite da due cappelle ridotte in lunghezza circa della metà. L'insieme doveva presentare all'esterno un blocco con volumi scalati, totalmente inedito per Roma (Palmerio, Villetti 1989). Il cantiere romano è stato tradizionalmente legato ai nomi degli architetti domenicani autori della chiesa fiorentina di S. Maria Novella, fra Sisto e fra Ristoro, il primo morto a Roma ed entrambi legati nel Necrologio di S. Maria Novella alla nota che li vuole autori delle "primas testudines palatii domini Papae" (Palmerio, Villetti, 1989): le evidenti diversità dei due impianti non danno però elementi probanti all'attribuzione di S. Maria sopra Minerva. A fra Sisto si è anche voluta ipoteticamente legare la ricostruzione con volte a crociera della sala capitolare del convento di S. Sisto, avvenuta per munificenza del cardinale domenicano Giovanni Boccamazzi tra il 1285 e il 1309 (Sterpi, Koudelka, Crociani, 1975; Benocci, 1983).Un'abside poligonale, analoga a quella di S. Maria sopra Minerva, concludeva l'intervento di Niccolò IV, il primo papa francescano, sull'antica struttura di S. Maria Maggiore, prolungata anche con l'innesto di un transetto; lo spazio venne configurato come quello di S. Maria in Aracoeli, secondo il modello della basilica francescana di Assisi. Originale di S. Maria Maggiore, e nuova nel contesto dell'architettura romana, fu però l'idea di decorare anche i pannelli del poligono esterno absidale, separati l'uno dall'altro da colonne angolari, con mosaici che presentavano storie mariane e la riproduzione dell'icona della Salus Populi Romani, venerata nella basilica; l'effetto finale dell'antica basilica di Sisto III (432-440) doveva essere quello di un grande reliquiario posto al sommo dell'Esquilino, rutilante di luci e colori. Un'abside poligonale concludeva anche la cappella palatina di S. Nicola in Vaticano, costruita da Niccolò III (Steinke, 1984).Poco prima del 1291 si intervenne anche sull'abside costantiniana di S. Giovanni in Laterano con una nuova costruzione poggiante sulle fondazioni precedenti, distrutta nel 1880, ma documentata da fotografie e disegni; l'iscrizione del mosaico interno riferiva la decorazione a Niccolò IV e appunto al 1291. Si trattava di una struttura absidale internamente semicircolare e all'esterno poligonale con gli spigoli marcati da semicolonne sovrapposte a lesene; le sei specchiature erano incorniciate da grandi arcate e quattro erano aperte da ampie finestre archiacute. L'abside era circondata da un deambulatorio, diviso in due corridoi concentrici da un colonnato; il muro interno verso l'abside era però chiuso, mentre l'esterno presentava finestre e porte: si trattava dunque più di uno spazio di servizio che di un deambulatorio in senso stretto e la sua costruzione avrebbe sostituito il portico addossato all'abside costantiniana da Leone I (440-461; Gandolfo 1983; Pomarici, 1990a). La struttura presentava incongruenze architettoniche con l'abside, arrivando con il suo culmine a occluderne in parte la luce delle finestre; dato che la muratura delle fondazioni in opus saracinescum ne attesta la datazione medievale, l'intervento va probabilmente attribuito a una fase di poco successiva a quella dell'abside (de Blaauw, 1987). Gli interventi architettonici duecenteschi sul complesso del Laterano si chiudono con la costruzione sul lato settentrionale dell'aula Concilii della loggia delle Benedizioni a opera di Bonifacio VIII (1294-1303). La struttura, secondo varie testimonianze grafiche e pittoriche, era articolata su due livelli, con un'ampia sala su colonne al piano superiore, aperta da arcate sulla fronte e in comunicazione con un corpo avanzato inquadrato da un arco trilobo e articolato su tre livelli. I lavori di ristrutturazione del patriarchio di Carlo Fontana, promossi da Sisto V, coinvolsero anche questa preziosa testimonianza, della quale sopravvive un resto della decorazione pittorica, il frammento che effigia Bonifacio VIII e alcuni chierici (Roma, S. Giovanni in Laterano; Maddalo. 1983b).La personalità di Arnolfo di Cambio (v.) segnò nettamente gli ultimi due decenni del Duecento a R.: i grandi cibori di S. Paolo f.lm. e di S. Cecilia o il sacello di Bonifacio VIII (1296) già sulla controfacciata di S. Pietro non possono essere esclusi da un'analisi sull'architettura a Roma. In essi Arnolfo architectus, qualifica con la quale si firmò nel sacello bonifaciano, sperimentò infatti in scala minore tutte quelle soluzioni che furono poi amplificate nel cantiere fiorentino di S. Maria del Fiore (Romanini, 1983). La ricerca di uno spazio illusivo, che già la decorazione del Sancta Sanctorum aveva proposto, venne portata a compimento proprio nella decorazione pittorica di uno spazio come quello della chiesa di S. Cecilia, dove Arnolfo, reinventando lo spazio della chiesa carolingia, inserì nel 1293 il suo ciborio. Nella parte alta della navata centrale venne dipinta una loggia costituita da nicchie coronate da aguzzi gâbles, aperte sullo sfondo del cielo, ognuna volumetricamente abitata da una figura di santo. L'effetto è appunto quello di una superficie traforata e ritagliata nello spessore della muratura della navata: la configurazione di uno spazio illusorio trasforma così completamente la parete piena e l'arcaico spazio architettonico carolingio viene trasformato in uno spazio gotico, con la parete schermo di interconnessione tra interno ed esterno. Queste importanti ricerche sperimentali sullo spazio e sulla sua rappresentazione prospettica, ricerche di cui Arnolfo era stato il promotore, vennero però troncate nettamente dagli eventi che fecero seguito al giubileo del 1300 e che in pochi anni portarono all'abbandono della città da parte del papa e della Curia con il trasferimento ad Avignone.Tra le ultime importanti costruzioni che segnano il valico tra i secc. 13° e 14° si segnala il castello costruito dalla famiglia Caetani presso la tomba di Cecilia Metella sulla via Appia, noto con il nome di Capo di Bove per la fascia di bucrani che decora il monumento classico. Il castello, delimitato da un'ampia cinta muraria, appare oggi costituito dal palazzo e dalla chiesa di palazzo dedicata a s. Nicola, un piccolo edificio mononave coperto a tetto su archi trasversi ricadenti su raffinate mensole scolpite. L'edificio costituisce il primo esempio di cappella di palazzo italiana non strettamente connessa alle strutture abitative, seguita pochi anni dopo dai casi della cappella degli Scrovegni a Padova e di quella di S. Gottardo a Milano, entrambe collegate al nome di Giotto, presente e attivo a Roma al servizio di Bonifacio VIII (Righetti Tosti-Croce, 1983).L'edilizia civile romana del Duecento è attestata da vari edifici, per lo più frammentari, alterati da pesanti interventi successivi e spesso di problematica datazione (Bianchi, 1998).
Secolo 14°. - Nonostante la lontananza da R., nei primi decenni del sec. 14° la committenza del pontefice e della Curia non abbandonò la città; ne fruirono sia le strutture religiose, sia quelle di assistenza. Nel 1326 il cardinale Giovanni Colonna nel suo testamento prevedeva un lascito per la creazione di un ospedale presso il mausoleo di Augusto, S. Giacomo in Augusta, eretto poi nel 1339. Altre strutture ospedaliere vennero costituite negli stessi anni, ma la situazione dovette rapidamente degradarsi se, nel 1343, per riparare ponte 'Mollo', ormai in rovina, si dovette ricorrere al contributo della regina d'Ungheria, in visita a Roma (Righetti Tosti-Croce, 1996). La tumultuosa situazione politica e la faziosità della vita cittadina furono infatti elementi fondamentali della crescente crisi che portò nel quarto decennio del secolo all'esperienza di Cola di Rienzo; il tribuno appare dalle sue lettere (Burdach, Piur, 1912-1929) e viene presentato dall'anonimo autore della Cronica come un umanista ante litteram, in corrispondenza letteraria con Francesco Petrarca, che aveva conosciuto ad Avignone nel 1343, quando era stato membro dell'ambasceria inviata dai cittadini romani a Clemente VI per chiedere la riduzione dell'intervallo tra un giubileo e l'altro, portandolo da cento a cinquanta anni. Il nuovo giubileo fu poi indetto per il 1350, ma non si registrano significativi lavori preparatori. La politica architettonica di Cola di Rienzo, dal 1344 al 1347, ripresa e conclusa nel 1354, appare infatti segnata solo da interventi occasionali, d'apparato; unica eccezione la costruzione di una cappella nel palazzo comunale in Campidoglio, della quale peraltro è problematico rinvenire le tracce.L'intervento più importante della R. trecentesca è di fatto la costruzione della scalinata dell'Aracoeli, iniziata nel 1348, monumentale ex voto eretto dalla città dopo la peste scoppiata in quell'anno. Lorenzo di Simone Andreozio, il cui nome è attestato dalla lapide oggi murata presso la porta centrale dell'Aracoeli, costruì un monumentale accesso all'edificio con i marmi di spoglio tratti dal tempio di Serapide presso il Quirinale. Con la costruzione della scalinata si risolse non solo il problema degli accessi alla chiesa, prima possibili solo dalla piazza del Campidoglio, ma si realizzò anche una connessione più stretta con la zona sottostante, che aveva assunto importanza mercantile e artigianale.Nel 1377, anno in cui Gregorio XI tornava a Roma, fu costruito il campanile di S. Maria Maggiore, connettendosi a una precedente struttura del sec. 12°, forse abbattuta da uno dei rovinosi terremoti che tra i secc. 12° e 14° colpirono la città, tra cui quello del 1349 che fece crollare la parte superiore della torre delle Milizie. La costruzione del campanile si bloccò però al livello mediano e la conclusione dell'opera dovette attendere l'intervento del cardinale d'Estouteville (m. nel 1483), i cui stemmi siglano la parte terminale della torre campanaria. Dopo il terremoto del 1349 era stato ricostruito anche il campanile di S. Paolo f.l.m., distrutto poi dall'incendio della basilica del secolo scorso, ma attestato da varie testimonianze grafiche, tra cui un'incisione di Giovanni Battista Piranesi. Si tratta in entrambi i casi di strutture che, senza significative varianti, seguono la tipologia delle torri campanarie romane. Sul finire del secolo Bonifacio IX (1389-1404) provvedeva a nuovi interventi nel palazzo senatorio, rinforzando e merlando una struttura precedente e costruendo una nuova torre sul fianco che funge da raccordo con gli edifici del Tabularium (Magrì, 1994).
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