Roma
La R. che D. conobbe è quella della signoria pontificia di Bonifacio VIII. Quasi un lungo preambolo era stato il periodo dell'influenza angioina. Si era provato Niccolò III, eletto nel 1277, a ridurre la potenza di Carlo I d'Angiò senatore di R. e vicario di Toscana, sia disponendo che il senatorato dovesse essere ufficio di cittadino romano (e, tolta la carica a Carlo, l'assunse non come papa ma come Orsini, privata persona), sia ottenendo il diritto di designare i magistrati della podesteria e del capitanato in Firenze (e si favoleggiò che mirasse a un regno di Toscana per un suo familiare). Ma l'elezione del francese Martino IV, favorita dagli Annibaldeschi, restituì a Carlo tutto il suo prestigio: il pontefice gli affidò la reggenza del senatorato e Carlo provvide a inviare suoi vicari a R., e ad amministrarla per mezzo del ‛ camerarius regis '. Solo dopo una rivolta, nel 1284, in seguito a una carestia, e in contraccolpo della rivolta siciliana, i Romani ottennero di avere un proprio ‛ vicario nel temporale '. Il successore Onorio IV, della famiglia Savelli, riprendeva talune iniziative di Niccolò III. Con lui il titolo di senatore a vita fu del pontefice (che amministrava con senatori-vicari), e ci fu il preciso interessamento per un tentativo di Rodolfo d'Asburgo di restaurare l'autorità imperiale in Toscana, verso la quale la Chiesa aveva mire di espansione. Con Niccolò IV, il francescano Girolamo d'Ascoli, si accentuarono le rivalità tra le famiglie degli Orsini e dei Colonna, sia nel ristretto collegio cardinalizio, sia nel governo di R., sia nelle questioni politiche, schierandosi così nella questione siciliana i Colonna per gli Aragonesi, gli Orsini per gli Angioini (nel 1285 a Carlo I successe il figlio Carlo II). Parvero comporsi per un momento le rivalità che, morto Niccolò IV, avevano provocato una lunga vacanza, con l'elezione dell'eremita Pietro del Morrone, Celestino V. Ma l'ampliamento del collegio cardinalizio con l'elezione di tredici nuovi cardinali (nessuno romano) e il trasferimento della curia a Napoli, aggravarono le difficoltà, nell'anarchia romana e nel prepotere angioino. Dopo la drammatica abdicazione di Celestino V, fu eletto Benedetto Caetani, Bonifacio VIII, che riportò solennemente la curia a Roma e v'instaurò quella signoria pontificia, che aveva avuto appunto il suo avvio con Niccolò III.
Nelle complesse vicende della sua politica - l'inimicizia contro i Colonna, da antagonismo di casate, s'intrecciò con la questione siciliana, con le inquietudini del mondo francescano spirituale, con l'insofferenza di Filippo il Bello di fronte alle immunità ecclesiastiche - Bonifacio poté giovarsi spesso dell'appoggio delle città guelfe di Toscana, legate da solidarietà d'interessi finanziari alla Santa Sede. Anzi, verso la Toscana egli mostrò mire particolari, tentando di negoziare il riconoscimento di Alberta d'Asburgo, non solo con la subordinazione dell'Impero alla Chiesa, ma con la cessione della Toscana stessa imperiale (e gli si attribuirono disegni d'ingrandimenti familiari). In particolare: un processo contro tre fiorentini residenti alla corte papale (18 aprile 1300) provocò un conflitto giurisdizionale tra la Santa Sede e Firenze, allora divisa tra le due consorterie dei Cerchi (Bianchi) e dei Donati (Neri). Bonifacio chiese la revoca della condanna, in nome della supremazia papale e del vicariato di Toscana spettantegli per la vacanza dell'Impero. Un incidente a Calendimaggio tra giovani delle opposte fazioni provocò gravi disordini, e i priori (tra cui D.), tentarono di metter pace, esiliando i capi. Bonifacio inviò come legato il cardinale Matteo d'Acquasparta (15 maggio); la missione di pacificazione fallì. A questo punto fu decisa l'ambasceria (di cui fece parte D.), che nell'ottobre 1301 si portò a Roma. Ma il 1º novembre dello stesso anno entrava a Firenze Carlo di Valois, capitano generale di tutte le terre della Chiesa e paciere in Toscana, a portare smarrimento e condanne tra i Bianchi, aiuti alla riscossa dei Neri. Forse D. fu raggiunto dalla condanna del 27 gennaio 1302 a R. stessa, e non rientrò neppure a Firenze.
Non sappiamo se D. fu, prima di quell'ambasceria, che ha conferma nella Cronica di Dino Compagni, altra volta a Roma. Da molti commentatori si è insistito sull'annotazione relativa allo smistamento in due colonne dei pellegrini attraversanti Ponte Sant'Angelo (If XVIII 28-33), che nessun altro testimone del Giubileo del 1300 ci ha tramandato, come prova di esperienza personale; ma potrebb'essere anche frutto di un'informazione, di un'indicazione avuta sul posto, successiva di un anno e rivissuta come esperienza reale. Raccogliamo, comunque, qui di seguito, gli altri ricordi danteschi di cose romane: oltre il Monte Giordano e Castel Sant'Angelo, D. accenna al colle Montemario (Pd XV 109), dal quale si aveva, venendo dal nord, la prima visione di Roma; all'imagine benedetta della Veronica nostra (Vn XL 1, Pd XXXI 104); alla pina di San Pietro, per paragonarla alla faccia del gigante Nambrotte (If XXXI 59); alla guglia di San Piero (Cv IV XVI 6), l'obelisco allora presso la rotonda di Sant'Andrea; alla rupe Tarpea (Pg IX 136-138); al sasso di Monte Aventino (If XXV 26). Che D. visitando l'oratorio di San Silvestro ai Santi Quattro Coronati abbia appreso dal ciclo di affreschi, eseguito al tempo d'Innocenzo IV, la vicenda della ‛ donatio Constantini ', è ipotesi solo suggestiva.
Se D., nei confronti dei successi di R. antica, passò da un'antiromanità agostiniana, che si era espressa nella convinzione che quei successi erano stati frutto della violenza, nullo iure sed armorum tantummmodo violentia (Mn II I 2), all'interpretazione tutta per mirabile provvidenza della sua storia, qui si vuole anzitutto fissare l'aspetto concreto di R. antica, ammonitrice nelle vestigia de l'ardüa sua opra (Pd XXXI 34) e contemporanea, così diversa per misura e tono di vita, da una Firenze del tempo di Dante.
Capitale dell'Impero - nel senso almeno che il ‛ rex Romanorum ', l'imperatore eletto, doveva esservi incoronato, in San Pietro, con ordinato cerimoniale -, i suoi abitanti custodivano il senso di una loro qualche vocazione imperiale, celebrativa e acclamante, ma potevano facilmente dispiacere, pretendendo se cunctis praeponendos, grossolani e truculenti morum habituumque deformitate (VE I XI 2). Ma, più concretamente, sede del Papato, capitale amministrativa della Chiesa cattolica, anche se non perfezionati ancora gli organismi di quell'amministrazione, come si avrà dopo il trasferimento ad Avignone (e però, a provvederli di personale preparato, nei due diritti, intenderà, tra l'altro, la fondazione bonifaciana dello ‛ Studium Urbis ').
Ovviamente centro del patrimonio di San Pietro la R. papale, il comune di R. era retto ormai a signoria, in quanto la maggiore magistratura cittadina apparteneva de iure e de facto al pontefice.
Le attività produttive anche a R. (città la cui popolazione, calcolabile intorno ai 35.000 abitanti [a Firenze, in quegli stessi anni, erano 90.000 bocche], era concentrata in poche zone), erano associate nelle Arti. Tra le varie attività più importanti era quella dei ‛ Dobacteri ', allevatori e commercianti di carni, interessati ad affittare e comprare pascoli e terreni. Sul fiume viveva una modesta attività portuale concentrata da Ripa Grande (o Ripa Romea) a Ripetta. Ma le attività erano soprattutto in funzione del grande centro di consumo che era appunto la capitale della Chiesa e la città santuario: e i numerosissimi ecclesiastici e le schiere di pellegrini costituivano l'asse della vita cittadina: i contadini, locandieri, bottegai, cambiavalute (gli ebrei per lo più risiedevano nei rioni della Regola, di Sant'Angelo in ‛ Foro piscium ') realizzavano i loro guadagni da quell'affluenza. Così condizionante, dunque, l'economia la presenza del Signore pontefice, della curia, del ceto ecclesiastico, che le associazioni cittadine non realizzarono mai, nella storia del comune, se non brevi governi autonomi, antipapali, salvo, nelle insorgenti difficoltà, ripiegare su speranze, sempre deluse, di una sostitutiva presenza imperiale.
Più minacciosi antagonisti nella vita cittadina erano stati semmai i baroni, forti di castelli nel contado e dei loro arnesi turriti in città, per quel loro modo feudale d'imporre pedaggi e clientele. E alle improvvise ribellioni comunali contro i pontefici si era accompagnato l'assalto alle case dei baroni, per vendicarsi di quella prepotenza che si valeva spesso di legami familiari nella cerchia dei grandi ecclesiastici. Ma con il papato di Bonifacio VIII il ceto baronale e l'oligarchia cardinalizia subirono l'umiliazione di una signoria inflessibile, aggressiva, totale: e annientati furono i Colonnesi forsan non emeriti sed inmeriti (Ep XI 24).
I giudizi di D. sulla R. di Bonifacio trapassano la realtà episodica, contingente, per definirsi invece in una condanna profetica di una città fattasi centro d'intrighi di guerre, per febbre di dominio, che non è conquista cristiana del mondo, contro infedeli, ma sopraffazione di genti cristiane (If XXVII 87): là dove Cristo tutto dì si merca (Pd XVII 51). Non più sacro cimitero, ma cloaca / del sangue e de la puzza: una corruzione, che se è cominciata da lontano, dalla donazione di papa Silvestro (Mn III X 1), in Bonifacio ha il punto culminante, sicché s. Pietro parlerà del luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio (Pd XXVII 23-26).
Della R. deserta per il trasferimento del Papato e della curia in Francia, priva della sua maggiore ragione di vita, nonostante il permanente carattere di città sacra, e avviata a una disordinata decadenza, non sappiamo che D. abbia avuta esperienza diretta. Se egli, quando Enrico venne in Italia, accorse a rendergli omaggio (Ep. VII), non l'accompagnò nelle tappe di quella spedizione, che a R., tra continui colpi di mano degli aduggiati e inquieti Romani, tra Angioini e Orsini e filoimperiali e Colonnesi, si concluse in una tormentata incoronazione imperiale, in Laterano.
Scomparso Enrico, D. rivolse il suo pensiero a R., quando, morto Clemente V (1314), gli parve possibile che i cardinali italiani, mortificati nella corte straniera, e soprattutto i cardinali romani qui sacrum Tiberim parvuli cognovistis (e tra di essi, responsabili dell'elezione sciagurata di Clemente V, a Perugia, antagonisti allora nelle due sette, divisi e poi per diverso scopo alla fine concordi, D. individua Napoleone Orsini, e il ‛ transtiberinus ', Iacopo Stefaneschi), potessero realizzare la fine dell'esilio. Ma la R. che D. rappresenta loro facta est quasi vidua (Ep XI 1), non è affatto caratterizzata nella sua reale condizione: una città in piena decadenza edilizia, nel disordine amministrativo, tra il senatorato affidato a Roberto d'Angiò, vicario " ad beneplacitum ", che in Campidoglio si faceva rappresentare dai suoi vicari-senatori, e il vicario " in spiritualibus ", e le sfide dei baroni e le ricorrenti reazioni popolari. È invece la R. eternamente cristiana e imperiale, ora utroque lumine destituta (§ 21; cfr. Pg VI 112-113), la R. della sua maturata concezione politico-religiosa del mondo.
Nella sua teologia della storia, gli aspetti concreti di R. si trasfigurano, acquistano un significato di totale grandezza e di totale abiezione, da cui si libera, trionfante, la sua fede: l'alma R. antica, che fé i Romani al mondo reverendi (Pd XIX 102) e fu stupore per i barbari; la R. basilicale e cimiteriale, che si murò di segni e di martìri (XVIII 123), città santa dei pellegrini (Vn XL 7); la R. desolatamente meschina e svuotata, privata dei due soli che da essa devono irraggiare sul mondo (Pg XVI 106).
Sede dell'impero, il cui glorioso potere nec metis Italiae nec tricornis Europae margine coarctatur (Ep VII 11). L'affermazione: Latiales, non solum... ad imperium, sed... ad regimen reservati (V 19) pare proporre prospettive di un Impero sì universale, ma particolarmente operante come governo diretto sul giardin de lo 'mperio (Pg VI 105): imperium e regimen come l'imperador che là sù regna... In tutte parti impera e quivi regge (If , I 124, 127).
Sede del Papato. Dopo la vacanza, non fisica, come quella imperiale avutasi tra Corrado IV ed Enrico VII, ma pur reale, perché vacanza ne la presenza del Figliuol di Dio (Pd XXVII 24), dopo l'abbandono per il Vasconum obprobrium (Ep XI 26), la restaurazione certa di una Chiesa rinnovata e spirituale.
Se la Chiesa, dal tempo di Silvestro, il primo ricco patre (If XIX 117), ha avviato al disordine l'ordine divino, usurpando funzioni non sue, per brama di potenza e di ricchezza, congiurando all'eclissi dell'Impero, e ora, concludendo la sua parabola, ha potuto abbandonare la patria degl'illustri Scipioni e il cimitero di Pietro, per un ignobile adulterio col drudo francese (Pg XXXII 148 ss.; cfr. If XIX 107-108 colei che siede sopra l'acque / puttaneggiar coi regi... fu vista), D. è certo che si ricomporrà il piano divino. Sarà Enrico VII, apparizione breve, ma non deludente, come segno almeno balenante della realtà dell'Impero, che avrà comunque la sua restaurazione universale e romana; saranno i cardinali del conclave di Carpentras, che riporteranno a R. il Papato rinnovato dalla sua stessa crisi di abiezione; sarà forse D. col suo messaggio-visione, a ricondurre l'umanità alla redentrice consapevolezza del suo traviamento; saranno questi o altri nel mistero del disegno di Dio, a ricostituire l'ordine. Che nella romanità ha la sua premessa, la R. antica; il suo completamento, la R. cristiana; e dopo la lunga tribolazione, il suo trionfale epilogo, la R. nuovamente imperiale e papale, non più utroque lumine destitutam (Ep XI 21). Finché il tempo del mondo sarà consumato e ogni giusto sarà sanza fine cive / di quella Roma onde Cristo è romano (Pg XXXII 101-102).
Bibl.- C. E. Norton, Rome in the Time of D., in Notes of travel and study in Italy, Boston 1860; A. Bartolini, D. e R., in Bozzetti Danteschi, Roma 1891; G. Bovio, D. e R., ibid. 1897; N. Zingarelli, D. e R., Saggio, ibid. 1895; Bassermann, Orme, passim; M. Porena, D. a R., in La Vita. Le opere. Le grandi città dantesche. D. e l'Europa, Milano 1921; A. Graf, R. nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, Torino 1923; M. Barbi, Nuovi problemi della critica dantesca. VIl: l'Italia nell'ideale politico di D., in " Studi d. " XXIV (1939) 5-37; A. Frugoni, Il Giubileo di Bonifacio VIII, in " Bull. Ist. Stor. Ital. Medioevo " LXII (1950) 1-121; E. Dupré Theseider, R. dal Comune di Popolo alla Signoria Pontificia (1252-1377), Roma 1952; C. Cecchelli, R. Medioevale, in Topografia e Urbanistica di R., Bologna 1958, 189-322; G. Fallani, " D'entro Siratti ", il paragone della lebbra di Costantino, in Poesia e Teologia nella D.C., Milano 1959, 121-128 (ripreso da B. Nardi, Dal " Convivio " alla " Commedia ", Roma 1960, 240-241); A. Frugoni, D. e la R. del suo tempo, in D. e R., Firenze 1965; G. Orioli, D. e Michelangelo a R., Roma 1967.
Altre menzioni dantesche di R. sono in Fiore XCII 11, a proposito della morte di Sigieri di Brabante avvenuta nella corte di Roma, ad Orbivieto, e in Ep V 1 diretta, fra gli altri, Senatoribus almae Urbis. La sua posizione geografica è determinata in VE I X 7, ove la città è annoverata fra dextri regiones; inoltre la sua esposizione occidentale è precisata in Pg XVIII 80 ('l sole... quel da Roma / tra' Sardi e' Corsi il vede quando cade); la sua distanza dall'uno all'altro polo è stabilita in relazione alle due ipotetiche città Lucia e Maria (Cv III V 9 e 10). Parla della sua fondazione avvenuta, secondo quanto afferma Orosio, circa settecento cinquant'anni prima della nascita di Cristo, in relazione alla vita di Pitagora (Cv III XI 3). Virgilio ricorda la sua vita a R. (If I 71) e Stazio l'alloro poetico che ivi gli fu conferito (Pg XXI 89); in Pd XVI 10 si dice che il ‛ voi ' fu usato la prima volta a R.: qui è riecheggiata una tradizione che voleva che i Romani così appellassero Cesare in quanto assommava in sé tutte le cariche. La storia dell'aquila imperiale romana è esposta in Pd VI 1-96 (cfr. v. 57, e Pg XXIX 115) e in questo racconto fatto da Giustiniano si chiarisce la predestinazione divina della città. Infine in Cv I III 4 sono affermate le origini romane di Firenze, tradizione accettata anche dai cronisti contemporanei (cfr. Villani I 38 ss.); su questo tema D. ritorna in Pd XV 126 nonché in Ep VII 24-26. Il motivo di R. centro di civiltà da cui tutti debbono prendere i principi del loro viver comune è anche in Ep VI 8 (sempre in relazione ai Fiorentini) e XI 22; ciò si riallaccia al concetto sacrale di R. e all'interpretazione provvidenziale della sua storia, per cui la fondazione e lo sviluppo della città avevano una finalità prestabilita (la quale e 'l quale... / fu stabilita per lo loco santo / u' siede il successor del maggior Piero, If II 22-24; cfr. Pd VI 55-57) e la sua stessa sopravvivenza, i suoi successi sono visti in funzione della missione divina affidata alla città (Cv IV V 4, 18-20, Mn II IV 7-11, V 4-5, VI 4 ss., VIII 11 ss.) che dev'essere sede delle due supreme autorità (Pg XVI 106; cfr. Ep XI 3, 24 e 26). Infatti la fondazione di R. si fa avvenire contemporaneamente alla nascita di David (Cv IV V 6, 9) proprio per mettere in relazione l'origine della famiglia del Redentore e il luogo destinato ad accogliere e diffondere il suo Verbo; e verso R. guarda il veglio di Creta (If XIV 105) a significare che là è il centro della civiltà. **
L'Aspetto urbano di Roma ai Tempi di Dante. - Al pellegrino che il 1300 giungeva a R. per il giubileo, specie se vi si affacciava dalle alture di Monte Mario (Montemalo, Pd XV 109), l'urbs presentava un aspetto unico, inconsueto, a suo modo maestoso. Rispetto all'area della città imperiale, racchiusa nei quasi 19 Km delle mura aureliane, l'abitato si era impoverito e ristretto in modo estremo, in una con la popolazione, senza però che la contrazione avesse trovato una nuova unità.
" More senis decrepiti vix potest alieno baculo sustentari nil habens honorabilis vetustatis praeter antiquatam lapidum congeriem et vestigia ruinosa ": così scriveva fra Paolino da Venezia in calce alla sua pianta di R., del 1320 massimo. Né certo la situazione migliorò col terremoto del 1349, che anzi provocò la rovina di molti edifici, anche importanti, dal Petrarca ricordata nelle Familiari (cfr. X 7 4-5, XV 9 23). La situazione anteriore alla ricostruzione seguita al terremoto forse ci è suggerita anche dalle piante prospettiche della prima metà del sec. XV - tra cui la veduta di Taddeo di Bartolo (1414), dipinta a fresco nel palazzo Comunale di Siena - perché risalgono a un prototipo anteriore al 1348.
Spiccava a sé, sulla riva destra del Tevere, tra i colli Vaticano e Gianicolo, il borgo di San Pietro, fittamente costruito, che papa Leone IV dopo il sacco saraceno aveva circondato di mura. Punto principale del borgo era la grandiosa basilica sulla tomba dell'apostolo. Forse proprio l'emozione che suscitavano nel pellegrino le basiliche romane e specialmente San Pietro (Vaticano e l'altre parti elette / di Roma, Pd IX 139-140), è rispecchiata nei versi E quasi peregrin che si ricrea / nel tempio del suo voto riguardando / e spera già ridir com'ello stea... (XXXI 43-45).
La basilica di San Pietro fu costruita nel sec. IV, a cinque navate con transetto e preceduta da quadriportico. Delle ricche decorazioni di marmi preziosi, di oreficerie e di pitture profuse all'interno è da ricordare il mosaico del catino absidale, rinnovato da Innocenzo III, con Cristo tra gli apostoli Pietro e Paolo, in basso l'Agnello, la rappresentazione della Chiesa romana, Innocenzo III. Nell'atrio il mosaico di Giotto con la Navicella di s. Pietro, realizzata prima del 1310, stava a rappresentare l'autorità del papa erede dell'apostolo.
La città leonina, costellata dalle chiese e dagli ospizi di varie nazioni, attestava la nuova validità urbanistica della R. cristiana a fronte della R. antica. Dal lato opposto della basilica, il borgo si raccoglieva sul mausoleo di Adriano, trasformato in fortezza dal sec. IX (castellum S. Angeli o castellum Crescentii), e sul sepolcro antico a piramide detto meta Romuli.
Della città romana rimanevano quasi intatte le mura aureliane protette da 360 torri, la difesa lungo il Tevere del basso Impero, e le mura transtiberine. Erano in uso le porte di accesso dalle vie consolari, anche se alcune da tempo avevano cambiato nome, derivandolo dalle basiliche suburbane: porta di San Valentino (Flaminia), di San Paolo (Ostiense), di San Sebastiano (Appia), di San Lorenzo (Tiburtina).
L'abitato si era ristretto: alla piana del Campo Marzio - la zona più densa di case, di chiese, monasteri, oratori e quella dove si svolgeva una modesta vita commerciale - lungo il Tevere tra ponte Sant'Angelo (regione Ponte) e il ponte Senatorio (regione Ripa); al Trastevere; ai versanti est e ovest del Palatino, Campidoglio, Aventino, Quirinale. Dalla divisione augustea in quattordici regiones si formarono nel XII secolo, oltre alla città leonina e all'Insula, dodici regioni cistiberine, cui fu aggiunto poi il Trastevere.
Il senato romano, che aveva continuato nell'alto Medioevo a far capo alla curia nel Foro, rinnovatosi nel 1143, ebbe un palazzo sul Campidoglio, fiancheggiato dalla chiesa di Santa Maria de Capitolio (de Aracoeli). Il palazzo, ampliato poco dopo questa data, poi con la costruzione di una seconda torre tra il 1299 (costruzione di una loggia antistante) e il 1303, era il luogo dell'amministrazione della giustizia. Una parte del palazzo serviva da prigione; una parte del colle (monte Caprino) era riservata alle esecuzioni capitali.
Il fatto che la contrazione della popolazione e dell'abitato nell'alto Medioevo non avesse dato luogo a un'unitaria agglomerazione urbana, fu anche un riflesso dell'alterna potenza e dei violenti contrastanti interessi dell'aristocrazia romana. Le fazioni familiari organizzarono proprie difese. La fortezza dei Pierleoni sorgeva sul teatro di Marcello, quella dei Conti di Tuscolo sul circo Flaminio, quella dei Cenci sul teatro di Balbo, quella dei Savelli sull'Aventino - nel luogo del castello di Ottone III -, quella degli Orsini sul teatro di Pompeo, quella dei Colonna sul mausoleo di Augusto. La parte alta di R. era dominata dalle fortificazioni dei Frangipane sul Palatino, verso il Foro (ne faceva parte la torre Cartularia) e verso il Velabro; degli Arcioni e Cerroni (poi dei Capocci) sull'Esquilino. La più grandiosa fortificazione era quella culminante nella torre delle Milizie, degli Annibaldi nel sec. XIII ma nel 1301 acquistata dai Caetani, cui necessitava una difesa contrapponibile a quella dei Colonna sul Quirinale. Non lontana da questa, ai limiti della Suburra, era stata costruita da Innocenzo III l'imponente torre che il Vasari asserisce opera di Marchionne d'Arezzo, nota poi col nome di Torre dei Conti.
Nella zona in pianura del Trastevere i numerosi edifici religiosi (tra questi, la basilica del titulus Julii et Callisti, cioè Santa Maria in Trastevere; quella di Santa Cecilia; San Francesco a Ripa) erano chiusi in un tessuto di case minori e di case turrite di nobili famiglie tra cui primeggiavano i Papareschi, gli Stefaneschi, i Tebaldeschi, gli Alberteschi, I Mattei, Gli Anguillara.
Torri e fortezze nella città erano risorte, o rimaste, anche dopo l'ordine di smantellamento dato nel 1257 da Brancaleone degli Andalò. Erano molto numerose le case con portici, più tardi fatti murare da Sisto IV. Un esempio intatto di abitato e tessuto stradale medievale rimase il vecchio ghetto fino alla sua demolizione (tra il 1885 e il 1893), che aveva case con sovrastrutture lignee di balconi coperti, archi rampanti, sedili in marmi di spoglio.
La città aveva come principali arterie le superstiti vie antiche. Nel Campo Marzio la via Lata era il fondamentale collegamento della zona del Campidoglio e del Quirinale con quella della porta Flaminia; un'altra via importante era quella che collegava la zona sub-capitolina presso San Marco con le Botteghe Oscure e con la via dei Calcarari, di raccordo con la via che fiancheggiava l'area Argentina e perveniva quindi a San Celso, in capo al ponte Sant'Angelo, congiungendosi prima, all'altezza di Santo Stefano de Ponte, con la strada parallela al fiume che partiva dall'Arenula e si raccordava con l'altra che giungeva dal teatro di Marcello e da Sant'Angelo in foro piscium (attraversate entrambe dall'arteria legata al ponte in Unda). Dalla zona del ponte Sant'Angelo due altre strade con percorso est-ovest si dirigevano verso Montecitorio.
La rete stradale antica era in parte in uso anche sui colli. Sul Celio, la via Maior o Lateranense - la via delle processioni dal Laterano - univa San Giovanni al Colosseo e a Santa Maria Nova, passando nel primo tratto presso i SS. Quattro Coronati e San Clemente. Dalla porta Metronia, a est, si giungeva a Santa Maria in Domnica, a Santo Stefano Rotondo e a San Tommaso in Formis; di qui il clivus Scauri, fiancheggiato dal titulus dei SS. Giovanni e Paolo e da San Gregorio, scendeva verso il luogo detto Septem Viae e verso il Circo Massimo, dove si univa alla via di Porta San Paolo, all'Appia, alla via Carraia; quest'ultima collegava con la zona del titulus di Sant'Anastasia e col quartiere greco accentrato intorno a Santa Maria in Cosmedin o de Schola graeca. Nella parte nord della città l'alta Semita legava il Quirinale con la porta Nomentana (su questa via sorgevano Sant'Andrea de Caballo e Santa Susanna); il vicus longus (vi si trovava la vetusta chiesa di San Vitale) saliva dalla zona della Suburra all'angolo est delle terme di Diocleziano, e si congiungeva all'alta Semita presso la chiesa di San Ciriaco; il vicus patricius, su cui affacciavano Santa Pudenziana e altre chiese, seguiva l'antico tracciato lungo le falde dell'Esquilino e del Viminale; la via Merulana collegava il Laterano all'Esquilino, alle chiese di San Giuliano, San Vito in Macello, Sant'Eusebio; di lì un'altra strada giungeva a San Martino ai Monti, Santa Prassede, Santa Maria Maggiore.
Dei rari ponti, difesi da torri, che univano le due sponde della città, è ricordato da D. il pons Sancti Angeli o Sancti Petri (già ponte Elio), con i due sensi di marcia che disciplinavano l'afflusso e il deflusso dei pellegrini alla basilica vaticana: verso Castel Sant'Angelo allora degli Orsini e verso Monte Giordano, dove sorgeva la domus costruita da Giordano Orsini (i Roman per l'essercito molto / l'anno del giubileo, su per lo ponte / hanno a passar la gente modo colto, / che da l'un lato tutti hanno la fronte / verso 'l castello e vanno a Santo Pietro, / da l'altra sponda vanno verso 'l monte, If XVIII 28-33).
Di aspetti e monumenti di R. all'aprirsi del secolo XIV D. stesso è buon testimone. Le sette terzine dell'episodio tra la povera vedova e Traiano (Pg X 73-93) si riferiscono ad esempio a un monumento antico poi perduto. La scena con storïata l'alta gloria / del roman principato era scolpita su un pannello di un arco trionfale, poi demolito da papa Alessandro VII, che stava al centro della gran piazza di fronte al Pantheon. Il rilievo rappresentava una nazione conquistata che in ginocchio chiedeva pietà all'imperatore; ma nel Medioevo le si era sovrapposto un diverso significato, vedendovi l'anima di Traiano salvata da dannazione per intervento di Gregorio Magno. L'arco era stato chiamato arco della Pietà, e aveva dato il nome al vicino ospedale: il toponimo rimane oggi alla chiesa di Santa Maria della Pietà.
Altri monumenti di R. antica che D. ricorda erano inseriti nel contesto delle costruzioni cristiane. Così è per l'obelisco vaticano, detto acus o agulia nel Medioevo, rimesso in piedi da Buzeta (fine XI-primi XII) e citato come notissimo nel Convivio (IV XVI 6 quali cose più fossero nomate e conosciute in loro genere, più sarebbero in loro genere nobili: e così la guglia di San Pietro sarebbe la più nobile pietra del mondo). La grande pigna antica in bronzo dorato, riadoperata nel cantarus del paradisus della basilica vaticana e oggi nel cortile del Belvedere, è paragonata alla faccia del gigante Nembrot (La faccia sua mi parea lunga e grossa / come la pina di San Pietro a Roma, If XXXI 58-59). La pigna era stata ricomposta - come documentano disegni di Domenico Tasselli, di Francisco de Hollanda, di Simone del Pollaiolo - entro un parapetto antico ornato da grifi e sotto un tegurio coronato da pavoni in bronzo dorato e delfini.
Sono stati riferiti a un altro monumento romano, le porte cioè del Battistero Lateranense, il mugghio e lo stridore seguiti dal dolce suono che si manifestano quando l'angelo portiere apre a D. la sacra porta del Purgatorio (Pg IX 133-141).
Se in Cv IV V 20 D. aveva chiaramente affermato il valore dell'antichità di R. (Certo di ferma sono oppinione che le pietre che ne le mura sue [della santa cittade] stanno siano degne di reverenzia, e lo suolo dov'ella siede sia degno oltre quello che per li uomini è predicato e approvato), nella Commedia si chiarisce il concetto del valore di R. antica quale provvidenziale antefatto della R. cristiana, sintetizzata nel Laterano (Se i barbari, venendo da tal plaga / che ciascun giorno d'Elice si cuopra, / rotante col suo figlio ond'ella è vaga, / veggendo Roma e l'ardüa sua opra, / stupefaciensi, quando Laterano / a le cose mortali andò di sopra..., Pd XXXI 31-36).
Il Laterano era infatti il nuovo palatium romanum, che aveva sostituito quello dei Cesari; era il loco santo / u' siede il successor del maggior Piero (If II 23-24). Presso il vetusto battistero e presso la basilica, detta ‛ aurea ' da Gregorio Magno, si estendeva il patriarchio, un complesso di palazzi dai ricchi ambienti (tra cui il triclinio di Leone III), di cappelle (tra cui quella di San Lorenzo che aveva preso il nome di Sancta Sanctorum, restaurata da Niccolò III e che, oltre il tesoro, custodiva l'immagine acheropita del Salvatore). Nel 1300 si era aggiunta la loggia delle benedizioni, che compariva nel dipinto di Giotto oggi frammentario in San Giovanni, con Bonifacio VIII che indice il giubileo. Alcuni bronzi antichi, nei secoli XV e XVI spostati in Campidoglio (i frammenti della statua ritenuta di Sansone, il gruppo equestre di Marco Aurelio che si credeva rappresentasse Costantino, la Lupa mater Romanorum), ricordavano, insieme col fatto che di R. antica quella cristiana deteneva contemporaneamente l'eredità e la primazia, Costantino, il primo imperatore cristiano, guarito e salvato da papa Silvestro (v. anche If XVII 94-95). Il Battesimo di Costantino era dipinto - insieme con il ricordato Bonifacio VIII che indice il giubileo e alla Costruzione della basilica lateranense - nella loggia di Bonifacio VIII: il tema era già stato sviluppato in affreschi con Storie di Costantino e Silvestro nelle chiese di San Crisogono e dei SS. Quattro Coronati.
Bibl. - R. Lanciani, L'antica R., ediz. ital., Roma 1970, 26-27; A. Muñoz, R. di D., Milano-Roma 1921; G. Marchetti Longhi, R., in Enc. Ital. XXIX; R. Valentini-G. Zucchetti, Codice topografico della città di R., II, Roma 1942; III, ibid. 1946; C. Cecchelli, R. medievale, in F. Castagnoli-C.Cecchelli-G.Giovannoni-M.Zocca, Topografia e urbanistica di R., ibid. 1958 (con bibl.); A. Frugoni, D. e la R. del suo tempo, in D. e R.; Firenze 1965, 73 ss.; G. Orioli, D. e R., in " Capitolium " XL (1965) 345 ss. n. 9, 408 ss.; A.P. Frutaz, Le piante di R., I-II, Roma 1962.
Lingua. - Il dialetto romano è il primo fra quelli nominati da D. nella rassegna negativa di volgari italiani del De vulg. Eloquentia. Tale antifrastico privilegio risponde, secondo le intenzioni di D., alla pretesa di eccellenza linguistica accampata dai Romani e insieme all'obiettiva qualità della loro parlata, la più brutta d'Italia, anzi neppure un volgare vero e proprio, ma un tristiloquium: il che non meraviglia, dato che i Romani hanno la palma della turpitudine nei costumi e nelle fogge del vestire (il parallelismo, tradizionale, fra linguaggio, ‛ mores ' e ‛ habitus ' ricorre spesso nel trattato): Sicut ergo Romani se cunctis praeponendos existimant, in hac eradicatione sive discerptione non inmerito eos aliis praeponamus, protestantes eosdem in nulla vulgaris eloquentiae ratione fore tangendos. Dicimus ergo Romanorum - non vulgare sed potius tristiloquium - ytalorum vulgarium omnium esse turpissimum: nec mirum, cum etiam morum habituumque deformitate prae cunctis videantur foetere. Dicunt enim: ‛ Messure, quinto dici? ' (VE I XI 2).
Il compito di sottolineare la corrispondenza fra bruttezza di linguaggio e fetidezza di costumi spetterà soprattutto all'abitudine d'interpellare col tu anziché con voi i personaggi di riguardo, papa e imperatori compresi, cui D. allude anche in Pd XVI 10-11 (Dal ‛ voi ' che prima a Roma s'offerie [secondo l'opinione medievale per cui la distinzione era toccata per la prima volta a Cesare trionfatore], / in che la sua famiglia men persevra); commenta Benvenuto: " hodie romani minus utuntur tali locutione [ il ‛ voi '] caeteris, immo non dicerent papae et imperatori, nisi tu, et ita populi vicini Romae ". Sorprendente l'affinità fra il rilievo dantesco e quanto dice Salimbene da Parma nella sua Cronica (ediz. Scalia, I 172), il quale enumerando le varie ragioni per cui e le circostanze nelle quali viene adoperato il tu, prosegue: " ratione idiomatis, sicut faciunt illi de Apulia et Sicilia et Romani, qui imperatori et summo pontifici dicunt ‛ tu '. Et tamen appellant eum dominum dicientes: ‛ Tu messor ' " (per l'attuale area dialettale, anche presso R., in cui il fenomeno rimane vitale, cfr. Rohlfs, Grammatica § 477 e A. Niculescu, in " Lingua Nostra " XXVII [1966] 6 ss.). Si noterà infine che l'esempio dantesco s'inserisce di diritto nelle discussioni sulla casistica d'uso dei pronomi allocutivi che erano di regola nella trattatistica giuridica e retorica.
La forma messure, " signore " (i codici G e T danno, meno accettabilmente, mezzure) non risponde esattamente al tipo dell'Italia ‛ mediana ' (già nelle Laudes Creaturarum di s. Francesco) e specificamente romano, cioè messore. Non si tratterà, come pure è stato supposto, di u che rappresenti una pronuncia molto chiusa di o tonico, bensì di un fenomeno d'ipercaratterizzazione, non raro nel De vulg Eloq. (cfr. soprattutto il ces friulano), con trasferimento indebito al singolare della u propria del plurare meta-fonetico (l'antico dialetto di R. conosceva, come non più oggi, la metafonesi): singol. messore / plur. messuri. Pure di ampia area mediana quinto, o chinto, " che cosa ", " come ", da paragonare con il diffuso toscano popolare chente, antico lombardo quen(t), antico veneto quintre - e d'altra parte con le forme sempre di dialetti centrali quegno, quigno, ecc. (v. MARCA ANCONITANA) - il cui etimo è incerto (Quid Genitum propone, ma senza convincere, B. Maler, Synonimes romans de l'interrogatif ‛ qualis ', Stoccolma 1949). Attestazioni antiche della forma sono ad esempio nel Ritmo su s. Alessio (ediz. Contini, Poeti I 23, vv. 139 e 195), e nelle Laude aquilane edite dal Percopo, in " Giorn. stor. " VIII (1886) 206; IX (1887) 389, 390, 398; XII (1888) 372, ecc.; in particolare per R. cfr., in Paolo dello Mastro del Rione di Ponte (presso B. Migliorini-G. Folena, Testi non toscani del Quattrocento, Modena 1953, 58): " li cacciaro de boccha, come era stato lui e chinto e come et ogni cosa ", e in due poesie dei primi del '500 (ora edite da G. Ernst, Die Toskanisierung des römischen Dialekts im 15. und 16. Jahrundert, Tubinga 1970, 182): " chinto stai? ", " chinto staco? ". Oggi il tipo chinde, chinda, e relativa forma ridotta nda, è ancora presente in Abruzzo (v. Rohlfs, Grammatica § 945).
Cenni meno significativi al dialetto romano sono anche in VE I IX 4, X 8, XII 7, XIII 2. In X 7 R. indica chiaramente non la sola città ma tutta la regione circostante, il Lazio. Si ricordi infine che una rapida parodia, di autore certo toscano, del dialetto romano o laziale è nei due versi iniziali del sonetto, attribuito all'Angiolieri, Pelle chiabelle di Dio, no ci arvai (Contini, Poeti II 400), per cui v. VENEZIA: Lingua.
Bibl.-F. D'Ovidio, Sul trattato ‛ De vulg. Eloq. ' di D.A., in Versificazione romanza. Poetica e poesia medievale, II (Opere di F. D'O., IX Il), Napoli 1932, 304; D.A., De vulg. Eloq., a c. di P. Rajna, Firenze 1896 (ristampa anast., Milano 1965) 57-58; G. De Gregorio, Roman. " Mezzure quinto dici? ", in " Zeit. Romanische Philol. " XXXVI (1912) 479-481 (completamente inaccettabile); M. Porena, D. e R., in D. La vita - Le opere - Le grandi città dantesche. - D. e l'Europa, Milano 1921, 217 ss.; Marigo, De vulg. Eloq. 83, 89-90; A. Schiaffini, Interpretazione del ‛ De vulg. Eloq. ' di D., Roma 1963, 82; G. Pasquali, Lingua nuova e antica. Saggi e note, a c. di G. Folena, Firenze 1964, 146 ss.; A. Frugoni, in D. e Roma, ibid. 1965, 81-82; E. Leone, " Dominus ": la storia della parola e le origini dei titoli onorifici " Don " e " Donna ", in " Atti Accad. La Colombaria " XXXIV (1969) 385-386.